ROMA - I PRIMI ANNI DELLA REPUBBLICA

LE NUOVE MAGISTRATURE - TENTATIVI DEI TARQUINI DI RECUPERARE IL REGNO - GUERRA CONTRO PORSENNA - ORAZIO COCLITE - PACE CON GLI ETRUSCHI - GUERRE COI SABINI E LATINI - LA BATTAGLIA DEL LAGO REGILLO - LA TRADIZIONE E LA CRITICA STORICA - LE ISTITUZIONI
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(sull'ORDINAMENTO DEL GOVERNO REPUBBLICANO CITIAMO QUI "POLIBIO, STORIE, VI, 10-16)

LE NUOVE MAGISTRATURE

La ricostruzione del periodo regio, da Romolo a Tarquinio il Superbo, anche se buona parte ce lo riferisce la tradizione, non tutto deve essere posto tra le leggende, nè a queste, d'altra parte, si può non attribuire alcun valore, adombrando parecchie di esse la verità storica.
Se di questo periodo noi vogliamo tentare una ricostruzione storica, molti avvenimenti citati dagli storici e molte leggende dobbiamo sacrificare, ma gli uni e le altre ci saranno di grande aiuto perchè con i nomi, con i simboli, con le personificazioni agevoleranno grandemente questa indagine.

Ci siamo affidati per la ricostruzione del periodo regio (le note sui SETTE RE DI ROMA) alla Istoria di Tito Livio, che indubbiamente anche lui si è affidato alla tradizione.
La critica storica, spesso è stata spietata contro la tradizione romana, e ha perfino cercato di dimostrare che i re di Roma non sono mai esistiti e che nessuno di essi ha un nome proprio, ma un appellativo, in relazione con l'azione principale loro attribuita. E così Romolo significa romano, Numa il legislatore, Ostilio lo straniero, Anco un ex servo, Tazio il rappresentante dei Tizii, Tarquinio perchè era di Tarquinia.

I critici congetturano che gli antichi trovandosi di fronte a dei fatti compiuti di cui non sapevano spiegarsi l'origine, quali la fondazione della città, gli ordinamenti religiosi, la tribù straniera dei Luceri (Etruschi?), e la formazione della classe servile dei plebei, attribuiscono la paternità di ciascuno di questi fatti ad un individuo immaginario, denominandolo dal fatto stesso (e se non inventati, amplificati in tempi tardi). Seguendo lo stesso metodo di critica, i Tarquini rappresenterebbero due periodi in cui Roma ebbero il supremo potere stirpi etrusche, e Servio quell'altro periodo durante il quale cominciarono ad essere riconosciuti ed affermati certi diritti della plebe.

Messa in dubbio poi da quasi tutti i critici, è giudicata la cronologia dei sette regni dell'antica Roma, e molti sono del parere che la fondazione dell'urbe sia da porsi in una data di molto anteriore a quella che la tradizione ci ha lasciata.

Secondo la cronologia tradizionale difatti il periodo monarchico sarebbe durato 244 anni, spazio di tempo in verità troppo breve per tante conquiste, tanti lavori, tante leggi e tanto progresso sociale.
Se si osservi che Roma ha un numero ragguardevole di abitanti e un territorio abbastanza vasto, che ha templi e monumenti considerevoli, che ha distrutto Alba Longa, fiaccati parecchi nemici potenti e potuto conseguire l'incontrastata supremazia su tutto il Lazio, che ha totalmente sviluppato il suo commercio marittimo ed acquistata tanta rinomanza da stipulare un vantaggioso trattato con la potente Cartagine nei primi anni della Repubblica, che le sue leggi e i suoi riti hanno un'organizzazione tutt'altro che rudimentale, se si osservi infine il grado di maturità a cui è giunta la plebe, si deve convenire che tanto progresso non poteva essere compiuto in soli due secoli e mezzo.

Di certo oggi sappiamo che il territorio in cui sorge Roma fu abitato in tempi molto antichi.
Ma è in questo oscuro periodo regio, che tutto induce a credere che gli Etruschi, nella loro tendenza di espansione, riuscissero ad estendere il loro dominio o protettorato anche nel Lazio, o per lo meno a Roma, importandovi le loro abitudini di gente raffinata, facilmente assimilate dai rozzi abitanti della città fluviale e dei dintorni. Una popolazione primitiva divisa in tre tribù, corrispondenti a tre schiatte diverse: Ramni (Latini), Tizi (Sabini) e Luceri (stranieri, Etruschi?).

Senonchè l'incremento della vita civile di Roma non valse a compensare i Romani della perdita dell'autonomia; cosicchè, dopo vari tentativi fatti per scuotere il dominio straniero, vi riuscirono finalmente in questo fatidico anno 510 a.C. in seguito ad un largo movimento di popolo, affiancato dai cittadini appartenenti alle più ragguardevoli famiglie romane (un centinaio, legate fra loro da vincoli di parentela (genti) che componevano ciascuna delle "tre" "tribù" (dal greco tris= tre e da "bhu"=essere (phy).
Queste ultime non vollero abdicare all'importanza acquistata nella lotta, rimettendo ad un "re" nazionale tutti i poteri dello stato. Ma al re nominato non lasciarono che la suprema autorità religiosa, per cui quegli si trasformò solo in un "Re delle cose sacre" (Rex sacrorum); laddove i poteri politici, che prima aspettavano pure al re, furono affidati - come vedremo più avanti- a due magistrati elettivi, da rinnovarsi ogni anno (prima detti pretori, più tardi consoli.

Con questi mutamenti politici, da questo anno 510 a. C., iniziamo ad avere più precisi riscontri storici.
Infatti siamo oggi in grado di elencare tutti i consoli succedutisi nei 578 anni.
E in parallelo, molti fatti non sono più leggende, ma veri eventi storici.

Il primo di questi eventi è, che cacciato TARQUINIO il "Superbo", ed abolita la monarchia, si stabilì di affidare il potere dello Stato a due magistrati (pretori) che dovevano essere eletti ogni anno nei comizi centuriati, e l'autorità religiosa affidata ad un magistrato chiamato "rex dacrificulus", che non poteva arringare il popolo e non poteva coprire nessuna carica politica. Quest'ultimo magistrato doveva inoltre dipendere dal pontefice massimo. Fu stabilito pure di affidare l'amministrazione dell'erario pubblico a due "qaestores aerarii".
I primi a coprire la carica di "pretori", nome che poi fu mutato in quello di "consoli", furono i due protagonisti della rivolta (che abbiamo letto nelle pagine di Tito Livio, nella storia dell'ultimo re di Roma, il suddetto Tarquinio il "Superbo") cioè LUCIO GIUNIO BRUTO e LUCIO TARQUINIO COLLATINO (che sono appunto i primi due consoli, che appaiono nel lungo, intero e preciso elenco nel link riportato sopra), i quali fecero confermare dai comizi innanzitutto il bando contro la famiglia reale, e giurarono che non si sarebbe mai più permesso il ritorno del regime monarchico.

Venne tuttavia ripristinata la Costituzione detta di Servio Tullio (il re fatto uccidere da Tarquinio).
Secondo le antiche leggende, fu questo re per primo che provvide ad inquadrare anche i plebei fra i cittadini romani; sia allo scopo di accrescere le file dell'esercito, sia per interessarli alla cosa pubblica. Dovuto o no a quel re, tale provvedimento fu il primo riconoscimento dell'importanza non solo numerica, ma anche finanziaria, che ormai la plebe aveva acquistato in Roma.

Secondo tale riforma
(una delle prime espressioni popolari della futura democrazia romana) che presenta qualche affinità con quella greca di Solone, senza dubbio più antica, tutti i cittadini indistintamente furono divisi, in base alle terre da essi possedute, in 5 classi. Ogni classe fu poi suddivisa in "centurie", cioè in gruppi, ciascuno dei quali doveva, è da credere, fornire all'esercito un corpo di 100 soldati o "centuria"; senonchè, costituendo i soli cittadini della prima classe 98 centurie, mentre tutte le altre classi insieme non ne formavano che 95, ne veniva di conseguenza che i ricchi, appartenenti alla prima classe, dovessero molto spesso essere sotto le armi, laddove il servizio militare incombeva molto più rado man mano che dalla prima si discendeva alla quinta classe; mentre i "proletari", cioè coloro che non possedevano nulla, costituivano una sola centuria fuori classe.
Non solo il nome di centuria, ma anche quello di classe aveva un significato militare: perché classi erano dette le diverse parti dell'esercito romano, a cui spettava una particolare armatura e modo di combattere: così la 1a classe costituiva la cavalleria e la fanteria pesante, cioé la parte essenziale dell'esercito: la 2a, la 3a e la 4a tre diversi tipi di fanteria meno armata; la 5a era rappresentata dai lanciatori di proiettili, con fionde od archi.
Donde si vede come la riforma di Servio Tullio fosse di carattere essenzialmente militare; allo stesso modo che in origine dovette avere importanza pure esclusivamente militare la nuova assemblea detta dei "Comizi centuriati", alla quale i Romani partecipavano ordinati per centurie, probabilmente solo in quanto erano sotto le armi. Soltanto più tardi i Comizi centuriati acquisttarono un'importanza preponderante, mentre pochissima ne veniva lasciata ai Comizi Curiati.

Poichè questa riforma serviana, mentre eguagliava per importanza i plebei ricchi ai patrizi, sia nell'esercito, sia nei Comizi centuriati, manteneva però sempre l'esclusione di tutti i plebei, poveri o ricchi, dalle cariche pubbliche, è naturale che essa non potesse soddisfare alle aspirazioni di una classe della cittadinanza romana che, ormai numerosissima, godeva nella città di grandissima importanza finanziaria. (non dimentichiamo che qualcosa del genere accadde poi anche nel 1300 (nelle lotte Comunali), e poi ancora alla fine del 1700 (nella Rivoluzione Francese).
E fu per questo motivo, che fin dal primo anno della Repubblica, ci furono le lotte civile, protratte per oltre un secolo, alimentate dalla volontà indomita dei plebei di conseguire assoluta eguaglianza di diritti rispetto a coloro che si ritenevano i soli veri cittadini di Roma, e dall'ostinazione dei patrizi di non rinunciare all'esclusivo godimento di quei diritti che li facevano padroni della città.
Abbiamo detto fin dal primo anno della Repubblica, perchè la caduta della monarchia fu un danno per i plebei, dal momento che si era formata una Repubblica aristocratica e dei più ricchi (ma ex plebei - nel 1300 questi ultimi li chiameremo Ghibellini, e nel 1800 "borghesi").

Inoltre l'obbligo di partecipare alle guerre senza retribuzione e il fatto di stare lontani dai propri interessi per lunghi periodi, aveva costretto i più poveri a contrarre dei debiti per mantenere se stessi e le famiglie. E i debiti venivano puniti con pene gravissime, che arrivavano alla schiavitù e perfino alla morte. Ecco perchè i plebei si organizzarono per resistere a queste prepotenze; e la loro agitazione aveva il fine di una equiparazione politica e civile tra patriziato e plebe, e il fine economico di migliorare la condizioni dei più diseredati. Vedremo più avanti (nel 494, con Agrippa, poi nel 449 con la legge delle XII tavole) quando i plebei si organizzeranno per avere tribuni propri, la cui presenza (veto) impediva ai magistrati di votare leggi contro di loro.

In questa prima repubblica, con il ripristino della costituzione serviana, fu portato a trecento il numero dei senatori, che era stato ridotto dalle stragi di Tarquinio, e a questa carica furono innalzati oltre che i patrizi i più influenti e i più ricchi tra i plebei che vennero chiamati "conscripti".
(anche nella Venezia del XV secolo, la chiusa casta del patriziato, accolse nel suo seno (alcuni con disgusto) un certo numero di plebei diventati ricchissimi; e lo fecero solo perchè questi portavano nelle casse della Serenissma tanti denari o erano disposti a fare alla stessa dei grossi prestiti)

Poco tempo dopo, BRUTO, sapendo che il popolo non vedeva di buon occhio COLLATINO, perchè parente dello spodestato monarca, consigliò il collega a dimettersi dalla carica e poichè questi -che era un ottimo cittadino ed un magistrato esemplare- temporeggiava, lo fece destituire dai comizi centuriati. Collatino lasciò Roma e si recò a Laviruo e in sua vece venne eletto P. Valerio.

Frattanto TARQUINIO, non rassegnato alla sua sorte, tramava di ritornare sul trono e fingendo di chiedere la restituzione dei suoi beni privati, mandò a Roma alcune persone di sua fiducia perchè organizzassero presso i suoi aderenti dei gruppi armati o per preparare una congiura. Tutto questo non riuscì molto difficile: parecchi maggiorenti di Roma si schierarono segretamente in favore del re, fra i quali gli stessi figli di Bruto e due nipoti di Collatino, ma uno schiavo chiamato Vindicio rivelò la trama che si ordiva e i consoli condannarono a morte i congiurati. Si narra che Giunio Bruto con grande fermezza d'animo, preponendo l'amor di patria all'amore paterno, non abbia esitato a firmare la sentenza contro i propri figli ed abbia assistito con freddezza alla esecuzione della pena capitale.

I beni privati di Tarquinio, che lui reclamava, furono dal Senato distribuiti alla plebe, e l'agro tra il Tevere e il Campidoglio fu consacrato a Marte, e sotto il nome di Campo Marzio, fu adibito a luogo di riunione dei comizi centuriati. Tutto ciò non fece che acuire in Tarquinio il desiderio di ricuperare il trono. Non essendogli riuscita la congiura, ricorse per aiuti alle città Veio e Tarquinia, e, ricevute un contingente di soldati, marciò contro Roma.
Alla notizia che lo spodestato re si avvicinava alla testa di un esercito, le milizie romane uscirono ad incontrarlo. I fanti li comandava il console GIUNIO BRUTO, e i cavalieri P. VALERIO. Venuti a contatto i due eserciti, Bruto si scagliò contro ARUNTE, figlio di Tarquinio, che guidava i cavalieri Tarquiniesi e Vejenti. In questo primo assalto, entrambi persero la vita.

Accesasi poi con violenza inaudita la battaglia, questa durò per tutta la giornata con sorte incerta. Durante la notte - come narra la tradizione - dalla selva Arsia si fece udire la voce del dio Silvano, che affermava che la vittoria era dei Romani, e i nemici, impauriti, lasciarono il campo e fecero ritorno in Etruria.
Il corpo di Bruto fu trasportato a Roma dove fu sepolto dopo solenni cerimonie funebri. Valerio tessé l'elogio del collega e le matrone romane si vestirono di gramaglie per un anno.

Morto Bruto, si tardò qualche tempo a nominare il successore, e poiché Valerio aveva cominciato a costruirsi una casa sul Velia, accanto alla reggia di Tullo Ostilio, sorse nel popolo il sospetto che il console aveva in mente di divenire ora lui il padrone della città; ma Valerio, venuto a conoscenza delle dicerie, fece demolire la nuova casa, ordinò la costruzione di un'altra dimora alle falde del Velia e, fatte approvare dai comizi centuriati due leggi che poi presero il nome di "valerie"; in una vi si stabiliva di mettere al bando tutti coloro che volevanoo ripristinare il regime monarchico, confiscandone i beni; nell'altra di permettere ai condannati a morte ed alla flagellazione di appellarsi al tribunale del popolo; leggi che valsero a Valerio l'appellativo di "Poplicola"; poi si procedette all'elezione del nuovo console. Risultò eletto SPURIO LUCREZIO, ma essendo molto vecchio, morì poco tempo dopo. Gli successe M. ORAZIO PULVILLO.

GUERRA CONTRO PORSENNA

TARQUINIO il SUPERBO intanto, avuta ospitalità da PORSENNA, re di Chiusi, aveva ottenuto che il sovrano etrusco prendesse le armi contro i Romani aiutandolo a ricuperare il trono.
Correva l'anno 508 a. C., quando Porsenna con un fortissimo esercito giunse presso Roma. I Romani atterriti dalle imponenti forze degli Etruschi, non osarono uscire per attaccarle in aperta campagna.
Il nemico ordinò che Roma fosse vigorosamente investita e una forte schiera etrusca, dato l'assalto al Gianicolo, conquistò la cima sbaragliando la debole guarnigione; poi, esaltata dal successo, fece un attacco verso il Ponte Sublicio.

L'eroismo di un uomo però salvò Roma dall'invasione. ORAZIO COCLITE, insieme a SPURIO LARZIO e TITO ERMINIO; coraggiosamente affrontarono il nemico, il quale inutilmente si accaniva per aprirsi il passo difeso dai tre impavidi soldati con le aste e gli scudi. Intanto, all'altra estremità, i Romani lavoravano con lena a distruggere il ponte.
Rimandati indietro i due compagni, Coclite rimase solo contro l'orda sempre più crescente degli Etruschi, infine, quando si accorse che il ponte stava per rovinare, innalzata al dio Tiberino una breve invocazione, si lanciò armato nelle acque del Tevere, nello stesso istante che crollava fragorosamente il ponte di legno; ma lui a nuoto fra un nugolo di frecce nemiche, giunse miracolosamente all'altra sponda accolto trionfalmente dai Romani.

La città fu grata all'eroismo di Orazio Coclite, il quale come premio ricevette in dono tanta terra quanta in un giorno poteva esser circondata dall'aratro. All'eroe poi fu eretta sul Comizio una statua.
A quel punto Porsenna, decise di prender per fame la città e pose l'assedio, che non fu breve.
I viveri scarseggiavano a Roma e la prepotenza degli Etruschi era tale che il bestiame si era dovuto ripararlo dentro le mura. Ma il console Publio Valerio volle dare una dura lezione al nemico ed ordinò ai suoi di mandar fuori tutto il bestiame dalla porta Esquilina; poi fece uscire TITO ERMINIO con un manipolo di soldati con l'ordine che si ponesse in agguato sulla via Gabinia, a due miglia di distanza, ed appostò SPURIO LARZIO alla porta Collina con un gruppo di giovani armati alla leggera.
Il console Lucrezio con una schiera uscì dalla porta Nevia e Valerio scese dal Celio con alcune squadre di soldati scelti.
Saputo il nemico, da alcune spie, che il bestiame doveva uscire dalla porta Esquilina, mandò da quella parte, oltre il Tevere, una numeroso gruppo di predatori, che però caddero nella trappola preparata da Valerio. Difatti, mentre gli Etruschi erano alle prese con le forze di Lucrezio, Tito Erminio li assalì con i suoi alle spalle, e i nemici, stretti anche dai Romani usciti da porta Nevia e porta Collina, furono fatti a pezzi.

Questo successo rianimò i Romani, ma la carestia si faceva di giorno in giorno più grave. Allora un giovane e valoroso patrizio, chiamato CAJO MUZIO, concepì l'arduo disegno di uccidere PORSENNA allo scopo di liberare la città dall'assedio e, fingendosi disertore, ottenuta licenza dal Senato, nascosto un pugnale sotto la veste, penetrò nel campo nemico e si spinse fino alla tenda del re. Era giorno di paga e Porsenna sedeva accanto ad un suo funzionario che, come il re, indossava magnifiche vesti. Non sapendo chi dei due fosse il sovrano e non parendogli opportuno chiederlo ai soldati che si affollavano intorno al seggio reale, Cajo Muzio vibrò il colpo uccidendo il funzionario e, fattosi largo tra la calca con il pugnale insanguinato nella destra, tentò di mettersi in salvo; ma, arrestato dalle guardie del re, fu condotto alla presenza di Porsenna e, interrogato, sprezzantemente rispose che era cittadino romano, che non temeva di affrontare la morte e che se a lui era fallito, per sbaglio, il colpo, vi erano molti altri Romani che l'avrebbero ritentato.


Infiammato di sdegno, Porsenna ordinò che il prigioniero fosse torturato perché rivelasse le trame ordite a Roma contro la persona del re. Muzio allora, avvicinandosi ad un braciere, acceso per i sacrifici, esclamò: "guarda, e sappi come i Romani disprezzano la vita", detto questo, stese la destra sulle fiamme come per punirla dell'errore.

Sbalordito Porsenna da tanto eroismo, ordinò che il giovane fosse rimandato incolume a Roma; e Muzio - che poi fu chiamato "SCEVOLA" cioè "mancino", per ricambiare la generosità del re, gli disse: "Poiché sai rendere onore alla virtù spontaneamente e per riconoscenza, ti svelerò quello che da me con le minacce non avresti saputo. Trecento giovani di Roma hanno giurato di ucciderti. La sorte ha voluto che io fossi il primo a tentare il colpo, fallito, ma gli altri ritenteranno".
Muzio fece ritorno a Roma, e la patria in premio gli regalò un pezzo di terra che poi da lui prese il nome di "Mucia prata".

Spaventato PORSENNA dalle rivelazioni di Cajo Muzio, iniziò con Roma trattative di pace e prima cercò di ottenere che fosse rimesso TARQUINIO sul trono poi, non essendoci riuscito, pose come condizione che ai Vejenti fossero restituiti i "sette pagi" e che a lui, per lo sgombero del Gianicolo, fossero consegnati venti ostaggi, dieci giovanetti e dieci donzelle, scelti fra le famiglie più cospicue. Fra le fanciulle ce n'era una chiamata Clelia, la quale, essendo il campo etrusco non lontano dal Tevere, alla testa delle sue compagne, riuscendo ad evitare con l'astuzia la vigilanza delle sentinelle, riuscirono a fuggire, ad attraversare il fiume a nuoto, giungere Roma.
Porsenna reclamò presso i Romani e, perché la pace non fosse rotta, questi furono costretti a rimandare le dieci donzelle.
Ma il re di Chiusi non era rimasto insensibile all'audacia di Clelia. Fattala venire davanti a sé, le ridiede la libertà e, in più, le concesse di portarsi via alcuni degli ostaggi.
Si dice che la giovinetta scelse tutte le fanciulle minori di quattordici anni.
L'eroismo di Clelia non rimase senza premio: infatti, Roma decretò che in onore di lei fosse innalzata all'inizio della Via Sacra una statua equestre.

Conclusa così la pace e rientrato in Etruria, Porsenna, perché non sembrasse di aver levato invano in arme l'esercito, mandò il figlio Arunte con alcune schiere contro Aricia, fiorente città del Lazio, la quale, non potendo con le sole sue forze opporsi agli Etruschi domandò aiuti a città vicine ed amiche. Mandarono dei soccorsi Anzio, Tuscolo e Cuma, e gli Aricini, resi baldanzosi dai rinforzi, uscirono dalle mura ed attaccarono gli Etruschi.

Questi però riuscirono a scompaginare gli assalitori, ed avrebbero ottenuta una vittoria decisiva se ARISTODEMO, re di Cuma, non fosse giunto a tempo alle spalle del nemico, che, affrontato e messo in fuga, nell'inseguimento fu quasi completamente distrutto.
Pochi Etruschi scamparono all'eccidio rifugiandosi inermi a Roma, che li accolse ospitalmente e, dopo aver curato i feriti, rimandò in Etruria quelli che vollero tornare in patria e a quelli che vollero rimanere diede come sede un quartiere che poi fu chiamato "Vico Tosco". Porsenna, per ricambiare l'atto amichevole dei Romani, rimandò liberi i rimanenti ostaggi e restituì a Roma i "sette pagi".

LA BATTAGLIA DEL LAGO REGILLO

Conclusa la pace tra Porsenna e Roma, Tarquinio si rivolse al suo genero OTTAVIO MAMILIO, signore di Tuscolo, affinché convincesse altre città del Lazio a muover guerra ai Romani per ripristinare la monarchia.

Mamilio accolse volentieri le richieste del suocero ed iniziò alcuni approcci con le città della lega la quale per ben tre volte inviarono i loro rappresentanti nella Selva Ferentina per prendere gli opportuni accordi. Finalmente fu dichiarata la guerra a Roma, ma non iniziarono subito le azioni belliche, anzi si lasciarono trascorrere due anni forse in preparativi, forse anche perché tra l'una e le altre città latine la concordia non era completa.

Era morto, nell'anno 502 a. C., VALERIO POPLICOLA, console quattro volte, al quale, erano stati fatti solenni funerali a spese dello Stato e Roma in quel tempo aveva accolto nelle sue mura un importante personaggio Sabino di Regillo, APPIO CLAUDIO, il quale essendo un sostenitore della pace con i Romani, sopraffatto da quelli che volevano invece la guerra, era andato a stabilirsi con cinquemila uomini a Roma. Appio Claudio era stato fatto patrizio e senatore e ai suoi uomini era stata accordata la cittadinanza romana e della terra oltre l'Aniene.

I Romani approfittarono dell' indugiare dei Latini, ai quali Tarquinio si era rivolto, e mossero contro i Sabini. Essendosi le colonie romane di Pomezia e Cora date agli Aurunci, i Romani - consoli MENENIO AGRIPPA e PUBLIO POSTUMIO - sconfissero sanguinosamente un esercito di Aurunci; poi, guidati dai nuovi consoli OPITERO VIRGINIO e SPURIO CASSIO, avanzarono contro Pomezia una prima volta con risultato infelice ma nella seconda ottennero ciò che volevano. Arresasi Pomezia, la città fu distrutta.

L'anno seguente, sotto il consolato di POSTUMIO COMINIO e TITO LARZIO, verificatosi una rivolta a Roma, fu istituita la "dittatura" e Tito Larzio fu il primo ad essere investito di questa carica straordinaria.
Assediata più tardi Fidena e presa Crustumerio, i Romani non aspettarono che i Latini iniziassero le operazioni di guerra e con un forte esercito si mossero contro di loro.
Era dittatore AULO POSTUMIO e maestro della cavalleria TITO EBUZIO. I due eserciti si scontrarono - correva l'anno 258 (498 a.C.) - presso il Lago Regillo, nel contado tuscolano, e la battaglia che ne seguì fu violentissima. Tarquinio il Superbo si trovò di fronte a Postumio e, ferito, fu dai suoi condotto indietro; EBUZIO sostenne un combattimento contro MAMILIO ed entrambi rimasero feriti, l'uno al braccio, l'altro al petto, e dovettero ritirarsi nelle seconde linee. Ma ben presto Mamilio ritornò nella mischia guidando, insieme con il figlio di Tarquinio, la schiera dei fuorusciti romani.

Contro di questi mosse MARCO VALERIO, fratello di Poplicola, ma inoltratosi nelle file dei nemici e circondato da tutte le parti, rimase vittima sul campo.
Si verificò allora fra i Romani un momento di esitazione che sarebbe riuscito fatale se il dittatore con la sua coorte non avesse dato addosso al fuorusciti sgominandoli. Corse al riparo con truppe fresche MAMILIO, che, riconosciuto da TITO ERMINIO, fu da questo risolutamente assalito ed ucciso.

Anche Erminio però ci lasciò la vita, perché, ferito da un dardo mentre spogliava il vinto, spirò mentre gli veniva medicata la ferita.
La fanteria romana era stanca dal lungo combattere. Il dittatore allora pregò i cavalieri che smontassero e rinforzassero a piedi la battaglia. Ed ecco i cavalieri saltar di sella e correre in prima linea, e i fanti, stanchi, riprender lena, nuovamente a osare e ributtare il nemico, mentre i cavalieri, rimontati a cavallo, inseguivano i fuggiaschi.

Cruda, ma completa fu la vittoria. Si narra che, quando la mischia pendeva incerta, Postumio fece voto ai Dioscuri di edificar in loro onore un tempio; e in quel momento furono visti due giovani sconosciuti guerrieri, montati su bianchi cavalli, combattere valorosamente nelle prime file dei Romani, poi, volgendo la battaglia al termine, abbandonare il campo. Erano - narra la leggenda- i Dioscuri, i quali erano corsi a Roma a portar la notizia della sconfitta nemica e, lavati i cavalli alla fonte Giuturna, si erano poi allontanati, né furono più visti.

Postumio sciolse il voto, innalzando a CASTORE e POLLUCE un tempio presso la fonte Giuturna.
Mentre lo sconfitto Tarquinio ottenne ospitalità a Cuma dal tiranno Aristodemo e qui finì i suoi giorni si narra, molto vecchio.

LA TRADIZIONE E LA CRITICA STORICA

Come accennato all'inizio, riguardo alle leggende, non occorre molto acume per accorgersi del carattere leggendario dei fatti sopra narrati, i quali, oltre essere dagli antichi storici raccontati in modo diverso e contraddittorio, non reggono ad un esame rigorosamente critico e mostrano le incongruenze, gli errori, le illogicità, le contraddizioni di cui sono pieni questi fatti.
Gli avvenimenti di questo periodo della storia romana dovettero svolgersi molto diversamente da come ci sono riferiti dalla tradizione.

Perplessità innanzitutto il movente della rivolta che abbatté la monarchia, non possiamo ammettere cioè che sia la plebe che, perseguitata da Tarquinio, si ribelli perché il Superbo risulta invece amico dei plebei.

Dobbiamo piuttosto pensare ad una congiura di patrizi, che non vedono di buon occhio il potere accentrato nelle mani di Tarquinio. Né possiamo ammettere che la cacciata di Tarquinio sia avvenuta per unanime volontà dei Romani; infatti abbiamo visto molti dei fuorusciti che militano a favore del sovrano spodestato e una congiura per rimetterlo sul trono è tramata dagli stessi poco tempo dopo l'abolizione della monarchia.

E poiché alla testa della rivolta contro Tarquinio, la tradizione mette BRUTO e COLLATINO, due parenti del re, non è illogico ed arbitrario supporre che causa dei fatti non fu la volontà di porre termine al regime monarchico, ma semmai per una profonda discordia prodottasi nella casa dei Tarquini (e sopra abbiamo visto che gli stessi figli e nipoti dei due che hanno spodestato Tarquinio, sono a fianco del re.
Espulso il Superbo, noi troviamo al potere Bruto e Collatino e in questo fatto si legge chiaramente il trionfo di uno dei rami della famiglia regnante.

Successivi dissensi sorti tra Giunio Bruto e Collatino giustificano la deposizione di quest'ultimo, che può anche ascriversi al desiderio dei patrizi di liberarsi completamente dei membri della famiglia regia.
Il passaggio dal vecchio al nuovo regime è, secondo la critica storica, graduale. S'inizia con un colpo di mano, ben riuscito, del ramo cadetto della casa regnante, continua con la deposizione di questo ramo operata dal patriziato, prosegue con il sopravvento sugli altri patrizi della famiglia dei Valerii e col tentativo di Publio Valerio di consolidare il suo primato e finalmente si risolve nella regolare rotazione dei consoli e degli altri magistrati.

Anche le vittorie dei Romani sugli Etruschi e sui Latini la critica le ha messe nel numero delle leggende. Secondo i critici, gli episodi di Orazio Coclite, di Muzio Scevola e di Clelia non sarebbero che romanzo inventato dagli storici per nascondere la realtà. E la realtà dovette essere ben diversa. Ecco come gli storici ricostruiscono gli avvenimenti.

Alcuni anni dopo l'abolizione della monarchia a Roma, avvenne un'invasione di Celti nell' Etruria e gli Etruschi premuti dal nord, cercarono compensi territoriali nell' Italia centrale e meridionale. Con numerose milizie, sotto la guida di un re o di un dittatore, s'avviarono verso il Lazio, assediarono e sottomisero Roma, poi scesero verso la Campania; ma ad Aricia soccombettero in una battaglia campale.
Conseguenza della prime vittorie degli Etruschi sui Romani sono - secondo i critici - la guerra o meglio la ribellione dei Latini contro Roma. Le città della lega, infatti, colgono l'occasione della sconfitta della loro rivale Roma per liberarsi dal suo dominio, ma non vi riescono per i rovesci subiti dagli Etruschi e per il conseguente risollevarsi delle sorti ad Aricia.

LE ISTITUZIONI

Se la storia romana di questo periodo è molto oscura ed incerta per quanto si riferisce alle imprese di guerra e all'avvenuto mutamento di regime, molto esaurienti e chiare invece sono le notizie che abbiamo sulle riforme politiche e sulle istituzioni. Che di quanto già detto all'inizio- riepiloghiamo
La suprema autorità politica dello Stato passa dal re a due magistrati che durano in carica un anno ed hanno eguali poteri. All'inizio essi prendono il nome di pretori, più tardi vengono designati col nome di consoli e il primitivo nome viene dato, in seguito, al magistrato rivestito della podestà giudiziaria. Nei primi tempi della repubblica i consoli detengono tutti i poteri che aveva il re, salvo il religioso di cui invece è investito un sacerdote denominato rex sacrificulus o rex sacrorum.
I consoli vengono eletti nei comizi centuriati e confermati dalle curie e siccome la maggioranza dei voti è assicurata ai patrizi, così loro soltanto sono gli arbitri delle elezioni consolari.

Altra magistratura importante è la dittatura. Discordi sono gli storici sulla sua origine e sulle cause di una tale istituzione. LIVIO pensa che sia stata provocata dal pericolo delle guerre e dalla scarsa fiducia che i Romani avevano dei consoli; DIONISIO invece ritiene che la dittatura sia stata istituita per vincere la riluttanza della plebe al servizio militare.

Probabilmente la "dittatura" è comunque la prima carica creata dopo l'abolizione della monarchia, in sostituzione della potestà regia. Abolita in seguito alla creazione dei consoli, viene più tardi ripristinata nei momenti più delicati della vita dello Stato sia per tenere a freno la plebe sia per dare unità di comando alle complesse azioni militari.

Ma come nell'elezione dei consoli anche di quella del dittatore sono arbitri i patrizi. Infatti, è il Senato che designa il personaggio da eleggersi e dà mandato ad uno dei consoli di conferire la carica al designato, il quale assume pieni poteri per sei mesi ed è coadiuvato e nel medesimo tempo tenuto d'occhio dal "magister equitum" (capo della cavalleria) scelto fra i patrizi più influenti.
All'amministrazione del tesoro pubblico sono preposti i "questori dell'erario" e alla giustizia i "questori criminali".

Del Senato sappiamo che, abolita la monarchia che lo aveva ridotto di numero, è ricondotto al numero di 300, ed accoglie nel suo seno alcuni elementi scelti fra la plebe. Anche ora, come al tempo dei re, il Senato rappresenta un'assemblea consultiva; esso è convocato dai consoli e da esso presieduto però si limita a discutere le proposte dei consoli. Ma la sua inferiorità rispetto ai consoli è più formale che sostanziale. I consoli, infatti, durano in carica un anno, e la loro autorità può essere pure ridotta dal "veto" di uno di loro e dalla nomina di un dittatore, mentre i senatori rappresentano un corpo vitalizio che ha un numero imponente di membri e dietro di sé un numero non meno imponente di famiglie, di genti, di clienti, e nello stesso tempo può infirmare l'autorità consolare, avendo diritto di esaminarne le proposte prima che siano portate davanti ai comizi.
Questi, infine, non sono un'istituzione nuova, ma la loro funzione acquista sviluppi ed importanza nei primi tempi della repubblica.

I comizi centuriati eleggono i magistrati, confermano i trattati di pace, funzionano da suprema corte d'appello nei processi capitali ed hanno il potere legislativo. E se non possono proporre delle leggi - il che limita grandemente la loro funzione - possono però respingere le proposte fatte dai consoli. Ma anche questa prerogativa ha la sua limitazione, perché le deliberazioni dei comizi centuriati non sono valide se non dopo la sanzione delle curie, le quali è un organo esclusivamente composto di patrizi, investito della funzione delicatissima della sanzione che lo mette al di sopra di ogni altro organo politico dello Stato.

Da tutto quel che si è detto sopra, risulta chiaramente il carattere oligarchico della repubblica romana. Difatti il potere è nelle mani del Senato e delle Curie, cioè nelle mani dei patrizi, essendo il primo formato in maggioranza di patrizi e il secondo esclusivamente solo di questi.
Partecipa, è vero, anche la plebe al governo dello Stato, ma la sua partecipazione non ha alcun'importanza e non può arrecare benefici a se stessa. Da questa condizione d'inferiorità del ceto plebeo (che ricordiamo non è solo formato da poveri, ma anche da ricchi artigiani, commercianti ecc.) e dalla sempre crescente potenza del patriziato nasceranno presto quei dissidi d'indole economica e politica che causeranno aspre lotte per mezzo delle quali si giungerà a quell'equilibrio che doveva essere il coefficiente fondamentale della potenza romana.

Questi primi dissidi, poi sfociati in aperte ribellioni,
iniziano quasi subito;
e di queste lotte parleremo appunto nel prossimo capitolo

periodo dall'anno 495 al 454 > > >

 

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
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