ANNNI 29 a.C. - 13 d. C.

ROMA NELL'ETA' AUGUSTEA

Questa stessa immagine con molti più particolari,
ingrandita 6 volte - 1300 x 1066 (doppio schermo) cliccare QUI > >
-----------------------------

CENNI SULLA POPOLAZIONE DI
ROMA ANTICA


di Luca Bessero


“La popolazione di un dato territorio, in un dato tempo, non è altro che il prodotto di fattori economici e storici; se noi avessimo piena conoscenza di questi fattori, saremmo in grado di fissare senz’altro con un calcolo questa popolazione” (1).

E NON

“…un tentativo di ricostruire eventi passati in modo tale che l’esistenza di fonti proprio di quel tipo quali ora sono disponibili può essere spiegata sulla base di questa ricostruzione” (2)

I Reperti – La fonte archeologica

I riferimenti archeologici in questa analisi altro non possono essere che i resti di Roma antica portati alla luce fino ai giorni attuali, considerando anche gli altri a fini di confronto e/o convalida delle tesi (ad es., Pompei).
Nella sintesi che segue si fa riferimento al testo di Carcopino (3) che si è dimostrato uno dei più completi in tale campo.

Ma quale Roma ci è pervenuta? Certo quella sulla quale possiamo dire di più è la Roma imperiale, quella di Augusto: è stato infatti il primo princeps a effettuare le più grandi opere di ristrutturazione urbana, a cominciare dalla lastricatura delle strade fino alla regolamentazione giuridica; in generale è in tutto il periodo del principato che si hanno i più grandi sforzi urbani, per la situazione favorevole dovuta a ducento anni di pax romana (in poche parole: niente esercito in città).

Da un anonimo del VII secolo sappiamo che sulla Colonna Traiana si inneggiava: “Ad declarandum quantae attitudinis mons et locus tantis operibus sit egestus”, con eregere colla doppia valenza di essere stata innalzata (al livello del colle del Quirinale) e di essere costata una gran fatica. Si sa, l’architettura cittadina era la legittimazione dell’operato militare in provincia.
E questa è stata senza dubbio la Roma più popolata: oltre a quanto è esposto in seguito si può dire per ora che la dittatura è positivamente correlata con il tasso di crescita delle principali città di un paese (si veda il paper di Albert Ades ed Edward Glaeser (4) a riguardo).

Osservando in primo luogo una mappa qualitativa delle cinte murarie si nota chiaramente come la delimitazione delle 14 Regioni istituite da Augusto corrispondano all’incirca al perimetro di “1 miglio fuori le mura” definito da Cesare e che comprende interamente il Pomerium (la cinta della città originaria costruita sotto Servio Tullio secondo la tradizione) e la muraglia regolarmente isituita dal Senato tra il 378 e il 352 a.c., che ingloba le 5 regioni più centrali (430 ettari ca.).

A evidenziare l’espansione relativa al periodo si vede come Augusto abbia compreso tra le nuovissime 4 regioni già il Trastevere e avesse previsto un ulteriore sviluppo, poichè nel Digesto si prevedeva la possibilità di estendere il limite della città se fossero stati costruiti con continuità nuovi palazzi a partire da quelli ai confini delle suddette regioni, fino a un massimo di un miglio.
Aggiungendo questo miglio ci si avvicina molto alle mura più esterne esistenti, la cinta Aureliana, costruita nel 274 d.c. per difendersi dalle invasioni barbare, che comprende una superficie di circa 1390 ettari (ai quali aggiungere le abitazioni periferiche dell’ager romanus circostante ma comunque attratte nella sfera cittadina: si concorda per circa 2000 ettari in totale ) (5)

Il difetto più frequente in molti lavori storici è quello di osservare il dato di superficie grezzo e semplicemente moltiplicarlo per densità di popolazione certe ma inaffidabili, come il folle Dureau de la Malle (ma anche Pietro Castiglioni) che attribuisce senza problemi a Roma la popolazione di 261.000 abitanti (per altro sottostimando anche la superficie) semplicemente moltiplicando per la densità di popolazione della Parigi pre-industriale sotto Luigi Filippo: tale metodo è ingiustificato, oltre che per le ovvie ragioni di incompatibilità storica, anche per il fatto che Roma per l’antichità doveva essere una eccezione unica. Se si applicano le percentuali “normali” di urbanizzazione relative al periodo ipotizzate dal Bairoch, si vede che Roma avrebbe dovuto attirare gente da tutta l’Italia per raggiungere un numero di abitanti appena credibile (6) . Inoltre stime su densità antiche vedono per Atene e Tebe 200 – 250 ab./ha., ma già per Tyro in Fenicia (dov’erano presente costruzioni a più piani) 533 ab./ha., così come Palermo nel 254 d.c. 574 ab./ha e Alessandria 533 ab./ha.

Non proveremo a fornire una stima della densità di Roma, ma terremo presente di questi dati per analizzare i risultati trovati, considerando naturale che Roma fosse più densamente popolata della stessa Alessandria. Bisogna porre attenzione alla impurità di questo dato e alla distribuzione estremamente “polare” della Urbs (più accentuata delle altre): essa si alternava, chiaramente, di grandi spazi per edifici sacri o celebrativi quasi “deserti”, e di mercati o insule per le quali doveva essere veramente difficile camminare se da Cesare in poi venne vietato di circolare di giorno con carri in città, escluse poche eccezioni, come edili, celebrazioni, trionfi, giochi, etc..

L’alta densità nelle zone più abitate è ipotizzabile anche sulla base di altri elementi: i resti di insulae (sorta di condomini) in generale mostrano cenacula (appartamenti) di dimensioni molto ridotte, cosicché si chiarisce Marziale quando afferma che un Romano non aveva la pretesa di stare diritto in camera sua (7). Dal momento che Augusto prima e Traiano poi legiferarono per limitare l’estensione verticale delle insulae (in effetti i crolli erano all’ordine del giorno, com’è noto, e la giurisprudenza in questo campo molto sviluppata) rispettivamente a 21 e 18 metri, si può affermare che anche considerando un'altezza media umana di 1,70 m. (doveva essere ben più bassa) vi potevano essere caseggiati di 10 piani o più (trascurando eccezioni come quella celebre dell’Insula Felicles che, proprio davanti al Pantheon, ne fagocitava l’imponenza, nello stupore dei prototuristi del periodo)! L’esigenza stringente implicita nei provvedimenti giuridici segnala ancora una volta il trend di crescita urbana durante la Roma Imperiale.

Alcuni dubbi sono stati sollevati sul significato di Insula e di Domus: nei Regionari (che risalgono al 334 – 357 d.c.) troviamo i numeri di Insulae e Domus per ogni regione ma il testo è probabilmente corrotto, dal momento che i valori delle ultime regioni sono tutti uguali (il che è impossibile) e si pensa a una semplice ricopiatura da parte del redattore “stanco”, mentre nella Notitia (la “ricapitolazione”) si danno valori leggermente diversi. Ciò significa che, seppur minime le variazioni, non bisogna attenersi fedelmente al testo per quanto riguarda il particolare delle 14 regioni; meno consistente quindi la critica di Hulsen (8): “Quella statistica dell’Antica Roma non ci dà soltanto la somma di tutte le insulae della città, ma anche la cifra delle insulae per ogni regione. […] La decima regione, ad esempio, ha secondo lo Hulsen una superficie di 200.000 mq., di cui spettano ai palazzi imperali e all’area Palatina 93.000; rimangono 107.000 mq.; a ognuna delle 2700 insulae circa della regione spetterebbero quindi in media 40 mq., senza calcolare nulla per le 89 domus, i 48 magazzini di frumento, i 44 stabilimenti di bagni, i 20 forni, e nulla per le strade.” (9)

Tale critica, che vorrebbe dare ad insula il significato di appartamento, non considera dunque le imprecisioni nei Regionari né il fatto che Insula significhi in realtà “palazzo delimitato da vici”, definizione che bene può includere i magazzini, gli stabilimenti, i forni e anche i complessi architettonici dell’imperatore.

Altro dibattito concerne la decisione riguardo al considerare le Domus anche come Insulae, piuttosto che costruzioni a se stanti: ritengo personalmente che non vi sia dubbio alcuno, seguendo anche il Carcopino, poiché da un lato il vocabolo Domus è radicalmente centrato su un ben definito genere architettonico (e non esclude che possa essere collegata con altri palazzi, quindi non più insula), dall’altro verrebbe meno l’esigenza del redattore di documentare cifre separate in modo così netto, per gli stessi tipi di edifici.

Oltre a ciò abbiamo anche la fonte relativa ai catasti di Settimio Severo che attestano circa le dimensioni delle insulae: 300 – 400 mq. per una altezza di 18 – 21 metri. Per legge poi i muri esterni dovevano avere uno spessore massimo di mezzo metro (e quindi anche meno gli interni) guadagnando sullo spazio abitabile a tutto discapito della solidità. Era questa una pratica di costruzione comune anche fuori Roma.

Un domus di Pompei ha una superficie di 800 – 900 mq. ma anche nel caso di tali “tenute” la robustezza dell’edificio non migliorava di molto; anche gli spazi dedicati alle singole stanze restavano decisamente ridotti rispetto a uno spazio non scarso come nelle ville provinciali (10)
I vici erano paragonabili a quelli della Roma d’oggi: alcuni portavano fuori città ed erano larghi tra i 4,80 m e i 6,50 m., mentre quelli più strettamente urbani erano larghi in media 2,90 m.
L’incidenza sulla superficie abitabile non era comunque più alta di quella attuale: nel 73 d.c. Plinio il vecchio afferma che fossero in totale 265, mentre nei Regionari ritroviamo la cifra di 307, con un incremento del 16 % che ancora una volta attesta la crescita della città nell’era Imperiale.

Vediamo più da vicino i Regionari: la somma delle Domus risulta 1797 mentre quella delle Insule dà il numero di 46602 (i dati sono quelli della Notitia, ritenuti più attendibili); tralasciando i tentativi di Edouard Cuq e Ferdinand Lot che, considerando le insulae come cenacula e ipotizzando 5 persone per appartamento, hanno portato gli abitanti di Roma a 233000 abitanti, si può seguire invece il Carcopino nell’attribuire 50.000 abitanti (compresi gli schiavi) alle Domus e circa 1.165.050 – 1.677.672 ai caseggiati da affitto.

La cifre sulle Insulae è inferita da una media di 5-6 cenacula per insula per 5-6 persone l’uno: nonostante le critiche di molti tali cifre non sono affatto esagerate, e anzi forse volutamente al ribasso. Sembra infatti rispettata l’indicazione dei catasti di Settimio Severo: considerando un’area urbana di soli 1500 ettari (invece di probabili 2000), e dividendo per il numero di insulae, se ne trova una superficie media di 320 mq. circa, in perfetta linea con la fonte e lasciando spazio abbondante per gli eccessivi 143 ettari imputabili alle Domus se anche avessero le estensioni di quelle di Pompei, più lo spazio delle strade e di tutte le infrastrutture, parchi, giardini... Se si considerasse anche solo la metà di tali insulae corrispondere all’altezza della sopracitata fonte, e applicando la densità di 6 persone per 300 mq. (si veda nota 8) si arriverebbe a un numero di 830000 abitanti più la stima di Carcopino per la metà restante, giungendo a un minimo di circa 1.400.000 anime. Questo dato può parere eccessivo, ma vale a far riesaminare le cifre dei sostenitori della “piccola Roma”, in leggera superiorità numerica.


Le fonti scritte – Le elargizioni di Grano

Nel caso delle donazioni di Grano, e talvolta di denaro, occorre essere ancora più cauti nell’analisi: se è vero infatti che le inferenze precedenti vengono in buona parte da dati fisicamente disponibili, in questo caso l’unica fonte a nostra disposizione è derivata e sovente inaffidabile (inoltre non esclusivamente inaffidabile, e possono esistere due filologi che ritengano veri rispettivamente due insiemi separati di lezioni).
Utilizzeremo un approccio cronologico alle donazioni, per commentare sinteticamente alla fine.
Tali elargizioni sono state istituite da Caio Gracco nel 123 a.c. e non erano totalmente gratuite: anche se non sappiamo il “prezzo calmierato” ricordiamo che in quel periodo un modio (11) di grano doveva costare 5-6 assi (12), e 10-12 assi quello importato dalla Sicilia. (13). Tale prezzo continuò a essere artificiosamente tenuto basso, dopo il momentaneo aumento favorito da Ottavio, anche grazie all’intervento del “popolare” e potente Saturnino che nel 100 a.c. circa istituisce in tal proposito.

Fu Lepido nel 78 a.c. (14) a proporre per primo che si dessero 5 modii a ciascun cittadino e proprio di quel periodo è la prima fonte quantitativa: nel 70 a.c. Cicerone, infatti, segnala nelle Verrine che 200.000 modii di grano al mese erano sufficienti per rifornire la plebe di Roma, e Brunt deduce che quindi le elargizioni non superassero il numero di 40.000 (15).

La vera svolta arriva nel 58 a.c., quando Claudio Pulcro rende le distribuzioni gratuite: già nel 57 a.c. Pompeo, in quell’anno all’ufficio dell’annona, avrebbe organizzato secondo lo Scoliaste di Lucano approvigionamenti per 486 mila abitanti. (16)
Questo dato, come in generale quelli dello Scoliaste, non dice nulla delle elargizioni ma si riferisce al fabbisogno cittadino in senso più ampio.

La cifra sulle elargizioni successiva e più certa è del 46 a.c., che ammonta a 320.000 beneficiari; Cesare nel 44 a.c. ridimensionò subito questo eccesso improvviso, probabilmente per frenare immigrazioni in città per la nuova opportunità. Questa tematica ricorrerà in tutte le scelte di contingentamento, anche sotto Augusto, in quanto non vi era distinzione riconoscibile per i distributori tra i cittadini romani dell’Urbs e quelli dell’Ager Romanus circostante, che in ogni caso approfitteranno sempre di tale opportunità, essendo in generale sufficiente presentarsi al momento della distribuzione.

Secondo Svetonio (17) in quell’anno Cesare istituì la cifra di 150.000 beneficiari anche per gli anni avvenire, cifra credibile nonostante la contraddizione con la lezione di Augusto che nelle Res Gestae (18) parla di 250.000 per il 44 a.c., anche considerato lo sforzo generale di Cesare nell’organizzare l’emigrazione nelle provincie (attenzione perfettamente in linea con la diminuzione dei beneficiari, per i quali si preoccupò di una capillare registrazione).

Più attendibile Augusto è invece per anni durante il suo principato (e anche unica fonte): nel 29, 24, 23, e 12 a.C. si era elargito a 250.000 cittadini tra grano e congiarii in denaro.
Successivamente, dopo l’impennata del 5 a.C. (320.000 cittadini ricevettero 60 denari una tantum) si torna a poco più di 200.000 per il 2 a.C., e infine la cifra sembra stabilizzarsi intorno ai 150.000 sia nel 14 d.C. sia nel 37 d.C.
La ricorrenza dei numeri può indicare una distorsione verso la cifra tonda costante in tutti i dati del periodo. L’ultima donazione di cui ci occupiamo è ben distante e solo indicativa: Settimio Severo (per il matrimonio di Caracalla con la figlia di Plauziano, e quindi a fini celebrativi) nel 203 d.C. e prima nel 202 aveva elargito a 175.000 cittadini (19), ma in questo periodo tali strumenti venivano usati per ingraziarsi il popolo data la forte instabilità e molte delle risorse venivano dedicate all’esercito, che com’è noto era quello che sceglieva l’imperatore.

La questione fondamentale perché queste cifra assumano un significato è stabilendo chi fossero i beneficiari, e già David Hume scriveva: “A chi si dava il grano? Forse solo a’ capi di famiglia, o indistintamente a ogni uomo, donna o fanciullo? La porzione mensile era di cinque modii per ciascuno; ora questa quantità era scarsa per una famiglia, ed eccessiva per un individuo. Perciò un accuratissimo cultore dell’antichità (20) suppone che non fosse distribuita a ogni uomo maggiorenne […] Si prendevano serie informazioni per sapere se il richiedente viveva nel recinto di Roma? O bastava ch’egli si presentasse di persona alla distribuzione mensile?” (21).

Emergono le prime questioni: il fatto che ne usufruissero anche abitanti dei dintorni, come già accennato sopra, è confermato in qualche modo dal tentativo di Augusto di rendere le elargizioni trimestrali, iniziativa alla quale la cittadinanza si oppose fermamente, poiché evidentemente rendeva minore il vantaggio (guadagnato a caro prezzo!) di vivere in città rispetto ai periferici.

La seconda questione, forse più rilevante, riguarda i consumi: cosa significa “quantità scarsa per una famiglia”? Molti, tra cui il Beloch, hanno usato questa prova per includere tra i beneficiari più classi di cittadini. La mia osservazione principale, valida anche per i dati relativi alle importazioni di cui più avanti, è che una famiglia non consumasse in ogni caso solamente grano, com’è naturale pensare; anche tutte le cifre riguardo al fabbisogno della città devono essere valutate in questa prospettiva: non possiamo in nessun modo sapere quale fosse l’impatto reale del grano nell’alimentazione degli abitanti, al di là di giustificate ipotesi normali, per cui mi pare logico pensare a 5 modii al mese come a una quantità familiare, più che personale.

Prove ulteriori del fatto che disponessero di tale privilegio solo i maschi sopra gli undici –dieci anni è proprio il fatto che Traiano (22) incluse anche i più piccoli, e Marc’Aurelio poco dopo anche le donne.
In Cicerone (23) sembra possibile che anche i ricchi beneficiassero di tale elargizione: ma se così fosse, per quale ragione molti di loro avrebbero fatto liberti un gran numero di schiavi successivamente alla legge di Catone (che appunto includeva questi ultimi tra i beneficiari) , se avessero potuto accedervi? (24)

Una prima conclusione da segnalare è quella del Brunt: per il totale, egli raddoppia semplicemente il numero di beneficiari, a cui sommare 2000 equites più 600 senatori e 100.000 – 200.000 schiavi pervenendo a una cifra di circa 750.000 abitanti nella tarda repubblica e nel periodo di Augusto.
Ora considereremo la quantità di grano circolante in Roma a monte, ossia prescindendo dalle elargizioni.
Vi sono due ordini di fonti essenziali: in una prima combinazione, abbiamo Aurelio Vittore che ragguaglia a 20 milioni di modii l’import di cereali egizi sotto Augusto e Giuseppe che stabilisce la copertura del fabbisogno della capitale per un terzo con grano proveniente dall’Egitto e per due terzi dalla Libia.. giungendo così a un import totale di 60 milioni di modii. Senza esitare il Beloch si scaglia sull’attendibilità delle due fonti adducendo come motivo altre due fonti e una deduzione.
Gli scolii di Lucano affermano infatti che il fabbisogno giornaliero della città era di 80.000 modii, concordando quasi appieno con Spartiano (23) per il quale Settimio Severo fissò a 75.000 modii al giorno il canon frumentarius populi romani, ossia rispettivamente 29.200.000 e 27.375.000 modii all’anno.

Oltre che a cercare un presunto contrasto con la cifra di sessanta milioni, del tutto ingiustificato data la diversità della natura (ovvero importazione nel primo caso, donazione nel secondo), egli tenta di affermare l’eccesso dei 60 milioni sostenendo che, con un consumo medio annuo di 30 modii, si otterrebbe una popolazione di 2.000.000, per lui del tutto inconcepibile. Anche in questo caso vale l’osservazione che importazione non significa affatto donazione.

La differenza, oltre che a servire per fornire i più ricchi e tutte le spese dell’imperatore (e anche probabilmente, in parte dell’esercito), potrebbe benissimo essere destinato al commercio; strano è che nessuno ne parli: dev’essere anche probabile che una parte del grano donato finisse indirettamente nel circolo commerciale.

In caso contrario non si spiegherebbero le vaste infrastrutture dedicate a tale attività; sul fatto che una famiglia non consumasse solamente farina la tesi di un commercio vivo è concorde, poiché non è pensabile che la plebe non avesse veramente alcun reddito, altrimenti non esisterebbero ragioni per la costruzione di così tanti palazzi da affitto che da più fonti e riconosciutamente avevano prezzi decisamente alti.

Un altro ordine di fonti è concorde a livelli di import più alti e distribuzioni alle famiglie: riguardo alla legge di Claudio Pulcro (cfr. sopra) Cicerone (26) dice che tale intervento costava alla Repubblica circa un quinto del suo reddito. La maggior parte degli studiosi concorda, per quel periodo, entrate totali per 540 milioni di sesterzi, risultando così 108 milioni la spesa per rifornire la cittadinanza.

Ipotizzando un costo di 3 sesterzi a modio (27) verrebbero comprati da Roma 36 milioni di modii, che divisi per una assegnazione di 5 modii al mese danno 600.000 benficiari, ma è chiaro che bisogna considerare il grano avariato, andato perso, scostamenti naturali per una cifra di bilancio generale e opportuni intervalli per quanto riguarda il prezzo.
In ogni caso, cifre del genere fanno pensare a una popolazione superiore al milione, specialmente durante il periodo imperiale del secondo secolo, sicuramente il più popoloso.
Il trend generale che si può evincere dai dati, anche dei censimenti, segnala una crescita della città durante la tarda repubblica, una contrazione nel primo principato e una più larga espansione durante la pax romana (in questo caso tutti concordano).

Tralasciamo in quest’analisi le tematiche relative all’affidabilità dei censimenti in quanto la continua inclusione di nuove classi di cittadini romani e le controversie legate al conteggio dei soli uomini o anche delle donne e bambini, oltre alle pure contraddizioni filologiche, inficiano la consistenza di tale ordine di dati per l’oggetto di studio.


Conclusioni

A integrazione dei dati e delle argomentazioni fornite andrebbe annessa una trattazione sulla questione del numero di schiavi possibilmente presenti nell’Urbe, come anche una, meno rilevante, sul numero di peregrini mediamente circolante in città. Per ragioni di spazio e complessità si rimanda agli autori citati nelle note, ma per un’analisi specifica si richiama l’ottimo testo di Harris (28).
Faremmo ora qualche cenno alle trasformazioni sociali a livello “macro” del periodo in esame, rifacendoci all’attenta analisi di Hopkins (29).

Proprio nel momento in cui Roma si espandeva incredibilmente nelle provincie, l’accresciuto potere dei ricchi provinciali spinse notevolmente verso un consolidamento dei loro interessi in Italia. I contadini vennero in larga parte sfrattati per la creazione di grandi proprietà, mentre il loro lavoro veniva sostituito da schiavi, abbondantemente importati dalle provincie recentemente dotate di amministrazioni efficienti.

Questo fenomeno di sostituzione vede così l’agro pubblico concentrato nelle mani dei ricchi, senza modo di frenare questa spirale a loro favorevole, come ricorda Plutarco (30), mentre “la profusione di spese private, insieme con la spesa statale in opere pubbliche e in donazioni di grano da distribuirsi ai cittadini romani che vivevano a Roma, furono tutti elementi che incoraggiarono l’immigrazione dei contadini in città (proprio come oggi le dimensioni della spesa nelle capitali dei paesi in via di sviluppo attirano i contadini dalla campagna)”. Molti si arruolavano invece nell’esercito, per quindi emigrare nelle provincie. Uno straordinario spostamento di popoli senza precedenti. “Inoltre, la popolazione urbana crebbe anche per l’importazione di schiavi destinati a lavorare nelle officine o a servire i ricchi nei loro palazzi. A partire dalla metà del primo secolo a.C., la popolazione della città di Roma era di gran lunga superiore ai 750.000 abitanti (31). Roma era quindi una delle più grandi città preindustriali che siano mai state create” (32) .

FINE

By Luca Bessero

(1) Karlus Julius Beloch, Zur Bevölkerunsgeschichte des Altertums
(2) Hans Albert, Dario Antiseri, Epistemologia, ermeneutica e scienze socialiLuiss Edizioni, Roma, 2002
(3) J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’Impero, Laterza, Bari, 2003
(4) Alberto F. Ades; Edward L. Glaeser, The Quarterly Journal of Economics, Vol 110, No. 1. (Feb., 1995), pp. 195-227). Url: http://links.jstor.org/sici?sici=0033-5533%281995#02%29110%3A1%3C195%3ATACEUG%E2.0.CO%3B2-8
(5) Si veda anche Plinio il Vecchio, lib. III c. 5, dal quale si deduce una forma cittadina ellittica lunga circa 5 miglia e larga 2.5 miglia
(6) Paul Bairoch, Storia delle città, Jaca Book, 1992, Milano. In questo testo Bairoch sottolinea anche la presenza, prima della rivoluzione industriale, di un tasso di urbanizzazione costante dovuto all’incremento nel numero assoluto di città più che nella loro espansione territoriale.
(7) II, 53, 8
(8) Hulsen, Mitteilungen des archeologischen Instituts in Rom, 7, 1891
(9) Giulio Beloch, La popoalzione greco-romana; in E. Cicotti, Indirizzi e metodi degli studi di demografia antica, Milano: Società editrice libraria, 1909, p. 283
(10) Tra l’altro, un sopralluogo nella tenuta di Alba Docilia (Liguria – SV) sembra confermarmi questo dato senza che vi fossero in realtà grossi problemi di espansione. Sembra manifesta la tendenza di tutte le popolazioni antiche a ingrandire le costruzioni solo per funzioni sacre et similia (cerimoniali, palazzi reali/imperiali, etc..)A semplice esempio, si può vedere anche la recente relazione sul “Caseggiato del Sole” ad Ostia, un edificio abitativo (in una città commerciale, di passaggio e non paragonabile a Roma nella necessità di spazio) nel quale per 782 mq di superficie sono presenti 15 stanze (di cui 10 tabernae, abitative) più le scale, pianerottoli e una grande latrina. Con uno spessore dei muri perimetrali di 0.60 metri la costruzione reggeva tre piani per 11 metri d’altezza. In Bollettino d’Archeologia, 49-50; Ostia, materiali e tecniche edilizie; Istituto poligrafico e zecca dello Stato, Libreria dello Stato, Gennaio-Aprile 1998.
(11) Un modio romano equivale a circa 8.75 litri.
(12) Dalla battaglia del Trasimeno (217 a.c.) fino all’abolizione di tali monete da parte di Diocleziano nel 294 d.C. (si tratta quindi di un intervallo che comprende il periodo trattato qui) un asse era un quarto di sesterzio.Per il dato, tra gli altri, si veda Plutarco nella vita di Caio Gracco per 6 assi e ?
(13) I pochi dati sui prezzi che abbiamo ci serviranno più avanti: per ora ricordiamo, come al solito per la storia, che non vi si può fare affidamento in termini attuali, inflazione e rapporti di prezzo tra le diverse merci sono ancora un campo per lo più sconosciuto.
(14) Da Licin. 34F, presso Sallustio Hist. Frag. Lib. III
(15) Brunt, P.A. Italian Manpower, Oxford: Clarendon Press, 1971In questo caso egli non tiene in nessun conto il fatto che la somma indicata da Cicerone fosse solo quella proveniente dalla Sicilia, com’è naturale data l’indagine delle Verrine.
(16) Sull’attendibilità di tale fonte si veda oltre. Si vede, comunque, che la conclusione del Brunt, per quanto non sia sua intenzione farne una prova demografica, è da rifiutare.
(17) Hist. Jul. Caes. 41-42
(18) Res. Ges. 15
(19) Concordano sia Spartiano sia gli Scolii di Lucano.
(20) Nicolaus Hortensius, de re frumentaria roman.
(21) Essays moral, political, and literary by David Hume, vol. I – Essay XI – Of the populouseness of ancient Nations. New edition, London 1889
(22) In Plinio, Pan. 28.4
(23) Tuscul. Quaest. Lib. III, c.48
(24) Fenomeno di cui tratta ampiamente anche Dionigi D’Alicarnasso, solitamente affidabile.
(25) Sev. 23
(26) Ascan. 8c.; Cic. Sest 55
(27) Si veda il prezzo per modio importato dalla Sicilia ipotizzato sopra durante tale periodo.
(28) Harris, William V., Demography, Geography and the Sources of Roman Slaves, Journal of Roman Studies 89 (1999): 62-75
(29) Hopkins, Keith, Conquistatori e schiavi, Sociologia dell’Impero romano, ed. It. Boringhieri Editore, 1984, Torino.
(30) Plutarco, Tib. Gracco, 8
(31) Ho lasciato la cifra nel testo. Da questa analisi si può dire tranquillamente che la popolazione di Roma era superiore al milione di abitanti.
(32) Cfr. Hopkins, p.115

PROSEGUI CON I VARI PERIODI