ANNI 68 - 69 d.C.

GALBA IMPERATORE - L'UCCISIONE DI GALBA - OTONE CI PROVA MA C'E' VITELLIO ED E' GUERRA CIVILE
L'IMPERO DI VITELLIO - LA BATTAGLIA A BEDRIACUM - LA DISTRUZIONE DI CREMONA
LA BRUTTA FINE DI VITELLIO
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SULPICIO GALBA IMPERATORE

Mentre Vespasiano in Giudea ha già rallentato le operazioni di assedio di Gerusalemme, per seguire gli avvenimenti politici a Roma dopo la morte di Nerone (e già le sue truppe in Galilea lo hanno proclamato imperatore), in Gallia GALBA, dopo essere stato anche lui informato della morte da Icelo, e dopo aver sconfitto Vindice che aveva anche lui certe ambizioni alla porpora, iniziò a marciare alla volta di Roma dove vi giunse nell'ottobre e disponendo di un forte esercito (anche se poco fidato), il Senato allarmato gli concesse i poteri imperiali.
Le legioni che risiedevano nelle province quasi tutte riconobbero il nuovo imperatore e più sollecitamente delle altre quelle della Gallia, un po' meno nelle Legioni sul Reno che rifiutarono di riconoscerlo e proclamarono  per acclamazione il loro comandante Vitellio, che forte di un esercito iniziò anche lui a muoversi per scendere su Roma. 
Vespasiano invece dalla Galilea inviò presso Galba il figlio Tito per ricevere istruzioni.

GALBA aveva fatto questo grande passo alla maniera di Giulio Cesare, ma la situazione del nuovo principe non era delle più floride; malgrado vantasse discendenza divina, mancava a lui quel prestigio che ai suoi predecessori era dato dalla famiglia di Augusto né questa mancanza era compensata da grande fama e da popolarità. Era un militare. Si aggiunga che Galba non disponeva di un numero considerevole di truppe fidate, che in grave deficit era il bilancio dello Stato e che molti erano gli appetiti di coloro che a Roma lo avevano appoggiato appena era comparso nella capitale.

I primi atti del nuovo imperatore ci rivelano un uomo di corte vedute, privo di tatto, e di gretta politica. Egli è dotato di una certa energia ma non ne ha tanta quanta ne occorrerebbe al capo di un impero così vasto; la sua è un'energia di vecchio soldato che se può bastare per il governo di una piccola provincia o per il comando di un gruppo di legioni è però insufficiente e inadatta per un organismo politico, amministrativo e militare così grande, complesso e multiforme come era l'impero romano che nonostante le varie crisi, era pur sempre organizzato con l'impronta che gli aveva dato Cesare prima e Augusto poi.

Gli fa anche difetto a Galba  il senso dell'opportunità tanto necessaria per i tempi in cui egli vive, per gli uomini fra i quali deve governare; e per un principe che non ha largo seguito e basi sicure.
Galba credette di agire con accortezza premiando le popolazioni che avevano risposto all'appello di Vindice, alle quali condonò un quarto dei tributi e concesse la cittadinanza romana, ma punì sconsideratamente e severamente Lugdunum e le altre città, che non avevano preso parte alla rivolta, cui confiscò parte dei beni. E questo provocò il malcontento delle legioni di Rufo che in quei provvedimenti videro una disapprovazione chiarissima alla loro azione.

Errori ne commise molti poi anche a Roma; invece di premiare Ninfidio Sabino che gli aveva  preparato il terreno favorevole, e che chiedeva la prefettura del pretorio a vita, se lo inimicò negandogliela, anzi  dando il comando dei pretoriani a Cornelio Lacene. Ninfidio cercò di ribellare le sue ex coorti all'imperatore, ma queste forse per opportunismo rimasero fedeli a Galba e misero a morte il sobillatore. Un console designato, accusato di complicità con Ninfidio, fu ucciso anche lui per ordine di Galba. Né fu il solo a perire: due capi militari che non avevano voluto riconoscere il nuovo imperatore, Fontejo Capitone e Clodio Macro governatore d'Africa, perdettero la vita.

L'amministrazione della cosa pubblica la abbandonò nelle mani di Tito Vinio Bufino, Cornelio Lacone e Icelo, uomini avidi ed arroganti che vendettero favori e privilegi, impunità e condanne e contro il desiderio del popolo che chiedeva si punissero Aloto e Tigellino, i sicarii neroniani, quest'ultimo lo protessero e al primo concessero un lucrosissimo impiego.
Ai pretoriani - che lo avevano appoggiato sollecitati proprio da Ninfidio e che erano stati promessi lauti donativi (30mila sesterzi): Galba, che era noto per la sua avarizia, disse loro con arroganza che era sua abitudine arruolare i soldati non comprarli. Fiera risposta in verità e degna di un romano antico, ma inopportuna e dannosa in un tempo in cui le coorti pretorie avevano in pugno il destino di un imperatore.
A Roma si trovava una legione composta di marinai che Nerone aveva tolti alla flotta di Miseno: Galba ordinò che questi tornassero alle navi, e li invitò a lasciare le aquile e le insegne a Roma, e al rifiuto di questi li fece caricare dalla cavalleria. La strage della legione marina suscitò un vivissimo malcontento nella I Legione Adiutrix, che era anch'essa composta di marinai, che l'imperatore aveva condotti dalla Spagna.

Così GALBA si alienava gli animi delle poche truppe sulle quali in caso di bisogno avrebbe potuto e dovuto contare e, non comprendendo che la sua vera forza era riposta in esse, licenziò senza premio la guardia germanica accampando come pretesto la devozione che queste milizie nutrivano per Gneo Dolabella, e rimandò in Spagna proprio quei legionari che lo avevano acclamato imperatore.
Innalzando il vessillo strappato alla rivolta, Galba aveva dichiarato di volere essere il legato del popolo e del Senato, dando, come Giulio Vindice, al moto un carattere repubblicano; salito sul trono dell'Impero, anziché dare autorità al Senato, mostrò il proposito di volere accentrare nelle sue mani tutti i poteri, facendo svanire le speranze dei senatori e, con questo, le loro simpatie per il nuovo imperatore.
Fra tutti gli errori commessi, quello che doveva trarlo alla rovina fu il trattamento fatto a Virginio Rufo. Vedendo in lui un futuro competitore, Galba lo richiamò dalla Germania superiore e mandò al suo posto il vecchio e gottoso Ordeonio Flacco.

Le legioni, che erano state di Rufo, il 1° gennaio del 69, quasi per protesta, si rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà a Galba e fecero comprendere che loro volevano un principe eletto dal Senato e dal Popolo. Qualche giorno dopo, le legioni delle Germania inferiore, di cui era stato capo Fontejo Capitone, acclamarono il loro generale Aulo Vitellio imperatore e che venne riconosciuto tale dall'esercito dell'Alto Reno.
Galba per conquistare il favore del Senato e far sì che non sorgessero aspiranti all'impero, pensò di designare un successore e, poiché non aveva figli, adottò Cajo Pisone Liciniano, giovane di trentadue anni, di severi costumi e discendente da Pompeo e da Crasso.
Il 10 gennaio Galba presentò il figlio adottivo al Senato e al campo dei pretoriani, ma se quello fu contento della scelta, lieti non potevano essere questi che già credevano di avere acquistato il diritto di nominare gli imperatori e con quell'adozione se lo vedevano sfuggire di mano. Inoltre la severità di costumi del designato non era una qualità che potesse piacere ai pretoriani e al popolo, amanti dei donativi e delle feste.

SALVIO OTONE CI PROVA ANCHE LUI

Del malcontento delle soldatesche e del popolo approfittò un uomo ambizioso e carico di debiti. Era questi Salvio Otone, marito di Poppea, che per vendicarsi di Nerone aveva subito aderito al movimento di Galba e sperava di esserne il successore.
Avendo visto, con l'adozione di Pisone Liciniano, fallire le sue speranze ed essendo premuto dai debitori, Otone formò l'audace disegno di impadronirsi del supremo potere con una congiura.  Aiutato dal liberto Onomasto, guadagnò alla sua causa quindici pretoriani, a ciascuno dei quali regalò mille sesterzi. Questi a loro volta procurarono ad Otone altri aderenti dentro le coorti pretorie, ma non erano molto sicuri che, giunto il momento,altri si sarebbero uniti a loro. 

Il 16 gennaio del 69 Galba faceva un sacrificio nel tempio di Apollo, quando nel Foro, presso la pietra miliare dorata, un esiguo nucleo di pretoriani acclamò Otone imperatore e lo portò in lettiga al campo di porta Nomentana, dove le coorti si dichiararono, pronte a seguirio.
Saputa la notizia, Galba mandò alcuni tribuni militari perché riducessero all'obbedienza le coorti pretorie e diede incarico a Pisone Liciniano di curare che la rivolta non si propagasse alla guardia del palazzo. Le vie della città intanto si riempivano di popolo, il quale, forse spinto dai senatori che non approvavano il moto, forse perché si era sparsa la voce che la sedizione era stata domata, improvvisò una dimostrazione di simpatia al vecchio imperatore e volle accompagnarlo al Foro.
Si narra che durante il tragitto, essendosi un soldato di nome Giulio Attico accostato alla lettiga in cui stava il principe ed avendogli mostrata una spada insanguinata con la quale asseriva di avere ucciso Otone, Galba gli dicesse: "Camerata, chi te lo aveva ordinato?"

Ma Otone non era stato ucciso e nemmeno era stata domata la rivolta. Ai ribelli si erano uniti i marinai e le legioni; tutte queste truppe comandate da Salvie Otone entrarono in Roma.
Galba non aveva nessun corpo di soldati da poter opporre ai sediziosi; c'era il popolo dalla sua, ma il popolo che lo accompagnava acclamante verso il Foro quando vide le soldatesche ribelli si dileguò e la lettiga imperiale venne circondata dai soldati.
Galba, tratto fuori a forza, ricevette un colpo di spada nella gola. Stramazzato al suolo, il corpo del povero imperatore fu straziato dalla soldataglia inferocita.

Morto Galba, sui suoi consiglieri ed amici si sfogò la furia dei rivoltosi. Tito Vinio fu trovato davanti il tempio di Cesare e, nonostante gridasse di aver preso parte alla congiura, fu trucidato. Pisone, ferito in varie parti del corpo, era riuscito a rifugiarsi nel tempio di Vesta con l'aiuto di un suo fedele centurione, ma, raggiunto, fu trascinato fuori e nell'atrio venne ucciso.
Il popolo (come spesso capita) prese allora le parti del vincitore e cominciò a gridare: "Otone Cesare Augusto» e il Senato, stupito dalla rapidità degli avvenimenti, si affrettò a radunarsi nel Campidoglio per ratificare la elezione del nuovo imperatore.
Le teste di Galba, di Pisone e di Vinio, staccate dal corpo e infisse su picche vennero dai soldati portate in trionfo per la città; il giorno dopo quella di Galba fu trovata presso la tomba di Patrobio, che l'imperatore aveva fatto uccidere, e fu sepolta con le ceneri del corpo.
Degli altri amici di Galba, Aulo Lacone fu mandato in esilio e poi messo a morte, Icelo venne giustiziato, Marco Celso invece fu salvo e ricevette molti onori. Tigellino non ebbe scampo e si uccise.

Otone, salito sul trono dell' impero per opera dei pretoriani, lasciò ad essi la nomina dei loro comandanti e del prefetto di città. A questa carica venne innalzato Flavio Sabino fratello di Flavio Vespasiano che comandava le legioni della Palestina, prefetti delle coorti pretorie furono fatti Plozio Firmo e Licinio Proculo.

VITELLIO E LA GUERRA CIVILE

Era Salvie Otone appena salito metaforicamente sul primo gradino del trono, quando giunse a Roma la notizia che VITELLIO era stato acclamato imperatore dalle legioni della Germania Inferiore.
Dapprima Otone tentò di persuadere Vitellio a deporre l'imperio datogli dalle truppe, poi gli chiese in moglie la figlia e gli promise onori e ricchezze, ma poiché il rivale gli rispondeva invitandolo a sua volta con molte promesse a lasciargli il supremo potere, Otone stabilì di affidare la decisione alle armi. Egli aveva dalla sua le legioni d'Africa, dell'Egitto, della Giudea, della Siria, del Danubio, della Spagna e dell'Aquitania, e se fin da principio ne avesse richiamata una parte avrebbe senza dubbio impedito all'esercito avversario l'ingresso in Italia. 
Ma Otone indugiò parecchio e soltanto quando si accorse che la guerra non poteva essere evitata chiamò le legioni danubiane e ne costituì due nuove con i gladiatori e gli schiavi.
Si erano schierate con Vitellio oltre che le truppe delle due Germanie, quelle della Britannia, della Gallia Belgica, della Gallia Lugdunense e della Rezia; cosicché un potente esercito di settantaduemila uomini marciava verso l'Italia. 
Esso era diviso in due corpi: uno di trentaduemila soldati, al comando di Fabio Valente, entrava in Italia per il valico del Cenisio; l'altro di quarantamila, guidato da Cecina Alveno, facendosi strada attraverso il paese ostile degli Elvezi, raggiunta Martigny, passava le Alpi per il valico del Gran San Bernardo. Dietro venivano le riserve sotto il diretto comando di Aulo Vitellio.
All'annuncio dell'avanzarsi delle truppe avversarie, Otone lasciò al governo di Roma suo fratello Salvio Tiziano, convocò in solenne assemblea il Senato e il popolo, sacrificò alle divinità, prese con sé Lucio Vitellio, fratello del suo nemico e parecchi magistrati ed uomini consolari che dovevano servigli da ostaggi più che da compagni, e partì dalla città.

Come quello nemico, così il suo esercito era diviso in due parti, una delle quali con la flotta doveva assalire le coste della Gallia. Se si eccettui Licinio Proculo, prefetto dei pretoriani, l'esercito di Otone era fornito di eccellenti comandanti: Svetonio Paulmo, Marco Celso, Annio Gallo, Marcio Macione e Spurinna. Mancava, però, un capace generalissimo: ma non in migliori condizioni si trovava l'esercito di Vitellio tra i cui capi non correvano buoni rapporti (inoltre Vitellio personalmente con c'era)

L'andamento della guerra pareva che fosse favorevole a quelle di Vitellio: la Spagna e l'Aquitania lo avevano riconosciuto imperatore e i presidi della regione transpadana si erano schierati in suo favore; inoltre in qualche scaramuccia di avanguardie i suoi avevano avuto facilmente ragione dei nemici. Saccheggiata difatti la Liguria, questi vinsero Valente tra Antipoli (Antibes) ed Albigauno (Albenga); il presidio di Piacenza, comandato da Spurinna, assalito da Cecina, al cui fianco cavalcava la moglie Solonina, si difese valorosamente e costrinse il nemico a ripassare il Po e dirigersi alla volta di Cremona; nelle vicinanze di questa città Marcio Macione, traversato il fiume, assalì improvvisamente le milizie di Cecina e inflisse loro un notevole scacco.
Per rifarsi delle sconfitte patite Cecina cercò di far cadere il nemico in un' insidia, ma Svetonio Paulino la sventò e, venuto a battaglia coi vitelliani, procurò loro una grave disfatta che si sarebbe mutata in un irreparabile disastro se il duce degli otoniani avesse sfruttato la vittoria inseguendo i vinti. 

Furono questi successi dell'esercito di Otone che consigliarono Valente e Cecina di mettere da parte le gelosie e riunire le loro forze. Buona armonia non regnava invece tra i comandanti otoniani e discordi erano i loro pareri sulla condotta della guerra: Svetonio Paulino, Annio Gallo e Spurinna volevano che si temporeggiasse in attesa dell'arrivo delle legioni della Dalmazia e della Pannonia che avrebbero minacciato le spalle e il fianco sinistro del nemico, invece Salvie Tiziano, che da Roma si era trasferito al campo, Proculo e lo stesso Otone, imbaldanziti dai primi successi, erano di parere che si dovesse dar senza indugio battaglia al nemico e porre fine sollecitamente alla guerra.
Prevalse il parere di questi ultimi: Otone, con parte delle troppe, dietro consiglio di alcuni dei suoi generali, si ritirò a Brixellum (Brescello), il grosso dell'esercito si mise in marcia verso il nemico tra Bedriacum e Cremona.

LA BATTAGLIA DI BEDRIACUM

Tra il Po e l'Adige ebbe luogo furiosa e cruenta battaglia che a Otone doveva costare l'impero. I suoi soldati erano ancora in marcia e affaticati dal cammino quando si videro costretti ad accettare il combattimento dal nemico di gran lunga superiore di numero. Pur tuttavia gli otoniani si batterono con grande bravura e la legione della marina assalì con tanto furore la XXI Legione di Cecina da ributtarla e toglierle l'aquila.
Ma i vitelliani ritornarono all'attacco, respinsero sanguinosamente i marinai, tolsero loro parecchie insegne e uccisero il comandante Orsidio Benigno. Allora la battaglia cominciò a volgere in favore di Vitellio. Stanco, sfiduciato e decimato dopo aspra e non breve lotta, l'esercito di Otone ripiegò su Bedriacum. Quarantamila uomini giacevano sul campo di battaglia. 

Il giorno dopo i resti dell'esercito otoniano aprivano il campo alle truppe di Vitellio e facevano causa comune con loro.
Malgrado ciò non tutto era perduto per Otone: gli rimanevano la guarnigione di
Piacenza e le milizie condotte con sé a Brescello, inoltre gli giungeva la notizia che le legioni del Danubio erano arrivate ad Aquileja. Un uomo dotato di tempra più forte avrebbe deciso di resistere e di preparare la riscossa; Otone invece si perse d'animo, si considerò senza scampo perdente e stabilì di darsi la morte.

Bruciò tutte le lettere che potevano compromettere i suoi amici, consigliò i soldati di affrettarsi a fare atto di sottomissione a Vitellio, non volle dare ascolto agli incoraggiamenti di chi lo incitava a resistere, scrisse una lettera alla sorella ed un'altra a Statilia Messalina, vedova di Nerone, che aveva intenzione di sposare, distribuì ai suoi servi il denaro che aveva e, presi due pugnali, si ritirò nella sua camera. Dormì tranquillamente alcune ore. Svegliatesi durante la notte, si vibrò una pugnalata sotto la mammella sinistra  nella notte del 16 aprile del 69
.
Aveva trentasette anni. Il suo impero era durato novantacinque giorni.

Al corpo del morto imperatore non vennero fatte esequie solenni, ma i soldati che avevano imparato ad amare il giovane imperatore ne piansero la morte, gli baciarono, prima che fosse arso, le mani ed i piedi e non pochi -si dice- per il dolore perirono volontariamente tra le fiamme del rogo.

L'IMPERO DI  VITELLIO

 Non si conosce con precisione l'origine della famiglia di Vitellio. Dicono alcuni che i Vitellii discendono da Fauno, rè degli Aborigeni e da Vitellia che era adorata come dea; che regnarono nel Lazio, che stabilitisi a Roma furono ammessi nell'ordine dei patrizi, che da soli difesero contro gli Equi una colonia; altri invece sostengono che il capostipite fu un liberto o un ciabattino. 
Il primo dei Vitelli di cui si abbiano notizie sicure fu Publio, di Nuceria, cavaliere romano, procuratore di Augusto. Ebbe quattro figli: Aulo che morì mentre era console con Domizio padre di Nerone, Quinto che da Tiberio venne rimosso dal Senato, Publio che accusò Gneo Pisone quale autore dell'avvelenamento di Germanico e complottò con Seiano, e Lucio che fu console e censore sotto Claudio e grande adulatore di Caligola. 
Figlio di Lucio fu Aulo Vitellio. Visse fanciullo a Capri presso Tiberio, fu amico di Caligola col quale guidava i cocchi e di Claudio con cui soleva giocare ai dadi e amicissimo di Nerone. Sposò prima una Petronia, poi una Galena, di Fondi. Amico di Tito Vinio, ottenne per mezzo di lui il governo della Germania inferiore, ed essendo pieno di debiti (in mano agli strozzini - vedi poi più avanti come li trattò) dovette affittare la grande casa che possedeva e lasciare la moglie e i figli in una casa più piccola e modesta presa in affitto. Giunto nella sua provincia si rese così popolare fra le legioni per la sua clemenza e prodigalità che un mese dopo fu gridato imperatore.

Si trovava nella Gallie quando gli giunse la notizia della battaglia presso Bedriaco e del suicidio di Otone. Così s'imbarcò sopra una nave parata a festa e, messosi in viaggio sulla Saóne, si diresse alla volta di Lugdunum. Qui gli vennero incontro Cecina e Valente e i capi dell'esercito di Otone. Licinie Proculo e Svetonio Paulino, per aver salva la vita, gli dissero che a loro era dovuta la vittoria di Bedriaco ed ottennero lo scopo.
Intanto a Roma era pervenuto l'annunzio della sconfitta e del suicidio di Otone e forse anche della sottomissione di Proculo. Era in corso la celebrazione dei ludi ceriali: i pretoriani e le coorti urbane prestarono giuramento di fedeltà al nuovo imperatore, il popolo gremì il Foro applaudendo e, siccome Vitellio era stato da Galba mandato in Germania e veniva considerato come una creatura del morto principe, si infiorarono le immagini di Galba e sul luogo dove era caduto trafitto furono deposte numerose corone. Il Senato, radunatisi in fretta, conferì a Vitellio il potere imperiale e tutti gli onori, furono decretati ringraziamenti alle legioni del Reno e fu nominata una numerosa commissione che doveva andare a congratularsi a nome dei padri col nuovo imperatore.

Mentre le legioni germaniche vittoriose si abbandonavano a saccheggi e a devastazioni nella valle del Po, Vitellio, lasciata Lugdunum, scendeva in Italia.
Visitato il campo di Bedriaco, prese la via per Roma, seguito da numerose truppe.
Vitellio era un uomo famoso per la sua ghiottoneria: il suo viaggio attraverso la penisola fu una interminabile serie di banchetti costosissimi, le cui spese andarono tutte a carico delle città. Famosa rimase la veglia data nei gioghi dell'Appennino.
Entrò in Roma in abito da guerra, al suono delle trombe, tra le aquile e le insegne, alla testa delle truppe che tenevano le spade sguainate. Il  fratello Lucio Vitellio diede in onore di lui un grandioso banchetto in cui furono, tra gli altri cibi, serviti duemila pesci scelti e settemila uccelli.

Ammaestrato dall'esperienza fatta da Galba, prima cura di Vitellio fu di circondarsi di truppe fedeli. La legione dei marinai spagnoli venne mandata in Spagna; molti centurioni delle legioni illiriche vennero messi a morte e le legioni stesse rimandate verso il Danubio; la XIV Legione, famosa per la repressione della rivolta britannica, essendo più turbolenta delle altre, fu inviata in Britannia ed ebbe alle costole, durante il viaggio in Italia, le coorti dei Batavi con le quali non era in buoni rapporti. A Torino, fra la legione e le coorti avvenne una zuffa che avrebbe prodotto gravissime conseguenze se a frenare l'atteggiamento dei Batavi non fossero accorse due coorti pretorie. 
Il corpo dei pretoriani fu sciolto e fu ricostituito in sedici coorti di mille uomini ciascuna con elementi tolti alle fidate legioni germaniche; anche le coorti urbane furono sciolte e rifatte con legionari del reno. In questi mutamenti circa ventimila dei migliori soldati furono tolti alle legioni delle province germaniche. A Roma si fidavano più dei germanici che degli italici.

Coi suoi nemici politici Vitellio  volle esser clemente e non permise, difatti, che si toccasse il fratello di Otone, e lasciò nella carica di console Mario Celso, ma fu severissinìo con gli astrologhi e coi suoi creditori. "Non risparmiò -scrive SVETONIO- quasi nessuno degli usurai che avevano reclamato da lui cinicamente il loro avere... Ne mandò al supplizio uno nel momento in cui veniva a salutarlo; poi, improvvisamente, ordinò che tornasse indietro e, mentre tutti lodavano la sua generosità, egli comandò che fosse giustiziato sul posto per godere della morte. Implorando due figli di un condannato la grazia del loro padre, fece morire anche loro. Un cavaliere romano, che veniva condotto a morte, gli disse: "Ti ho fatto mio erede";  Vitellio volle leggere il testamento e, avendo costatato che il cavaliere lo aveva nominato erede insieme con un liberto, fece uccidere lui e il liberto".

Delle faccende dell'impero egli si curò molto poco e lasciò che se ne occupassero Valente e Cecina. Fu per per merito di costoro se due moti di rivolta, uno nella Mauritania, l'altro nella Gallia, furono stroncati sul nascere. In Mauritania venne ucciso il procuratore imperiale Lucio Albino che col nome di Juba voleva farsi rè della provincia; in Gallia un certo Maricco aveva raccolto intorno a sé alcune migliaia di aderenti proponendosi di dare la libertà alla sua patria, ma la ribellione fu prontamente repressa da alcune coorti romane aiutate dagli Edui.

Vitellio invece dedicava tutto il suo tempo alle feste e ai banchetti nei quali, durante il breve spazio di pochi mesi, sciupò circa novecento milioni di sesterzi. Spesso egli si faceva invitare a pranzo, e ogni pranzo non costava meno di quarantamila nummi. Scrive TACITO "....tutta l'Italia, dall'uno all'altro mare, fu saccheggiata perché il grande ghiottone avesse squisite vivande; e le più autorevoli persone delle città e le città medesime andarono in rovina a furia di imbandir mense".
Rimase famoso un piatto che Vitellio fece presentare in un banchetto e che per la sua straordinaria grandezza fu chiamato lo scudo di Minerva: era pieno di fegati di certi pesci chiamati scauri, di cervelli di fagiani e di pavoni, di lingue di fenicotteri e di animelle di murene pescate nel Mediterraneo dalla Siria alla Spagna.
Scrisse a ragione uno storico che se Vitellio fosse rimasto più a lungo a capo dell'Impero questo sarebbe stato divorato.
Lungo però non poteva essere il suo impero. Il popolino, è vero, era contento di lui per le feste che dava e scontento non era il Senato, la cui autorità era cresciuta; ma il Senato e il popolo contavano pressoché niente come Sostegno di un imperatore, le cui sorti riposavano sul favore dell'esercito.

 Vitellio aveva l'appoggio dei pretoriani e delle legioni della Germania, ma era malvisto dalle milizie che erano state favorevoli ad Otone, specialmente da quelle dislocate nelle regioni danubiane e dalle legioni della Siria.
Queste ultime temevano di essere trasferite dall'Oriente in Germania;  era insistente questa voce e loro non potevano tollerare che solo le legioni germaniche si arrogassero sempre il diritto di eleggere l'imperatore. Anch'esse facevano parte dell'esercito e non erano da meno delle legioni del Reno e della Spagna o di quei  pretoriani che comodamente vivevano a Roma, anzi avevano reso grandi servigi all' impero con la vittoriosa guerra della Palestina e per ultima cosa  avevano alla testa del loro esercito il più rinomato generale del tempo: Vespasiano.

Su VESPASIANO corsero gli sguardi delle milizie d'Oriente, indignate dal vedere l'impero sotto la direzione di un ignobile ghiottone. Il primo di luglio del 69 Tiberio Alessandro, che comandava le due legioni d'Egitto, proclamò Vespasiano imperatore e a lui fece prestare dalle milizie il giuramento di fedeltà; il 9 dello stesso mese le legioni di Giudèa giurarono pure queste nelle mani del loro generale, poi il loro esempio fu immediatamente seguito da quelle di Siria, il cui governatore, Licinio Muciano, aveva caldeggiato l'elezione di Vespasiano. A lui giurarono fedeltà anche le legioni della Mesia, della Pannonia e della Dalmazia; Soemo re della Sofene, Erode Agrippa II e Antioco della Commagene si schierarono per il nuovo imperatore e Vologeso, re dei Parti, offrì all'esercito di Vespasiano un aiuto di quarantamila arcieri, che però furono rifiutati.

VESPASIANO non era di nobile famiglia; il suo avo Tito Flavio Petronio, di Rieti, aveva partecipato col grado di centurione nell'esercito di Pompeo alla battaglia di Farsalo e, tornato in patria, aveva fatto il banchiere: Sabino fìglio di questo, era stato riscuotitore d'imposte in Asia, poi aveva esercitato l'usura in Elvezia, dove era morto lasciando la moglie Vespaia Polla e due figli, Sabino e Vespasiano. Quest'ultimo era nato a Falacrine, presso Rieti; giovine cadetto in Tracia era poi stato nominato tribuno militare; creato questore, era stato mandato a Cirene e sotto Caligola aveva ricoperto la carica di pretore. Dalla moglie Flavia Domitilla aveva avuto tre figli, Tito, Domiziano e Domitilla. 

Sotto Claudio aveva comandato una legione in Germania, poi era passato in Britannia e al comando di Aulo Plazio aveva preso parte a numerose battaglie, ricevendo in premio del suo valore gli ornamenti trionfali e il consolato. Aveva tenuto da proconsole il governo della provincia d'Africa, aveva accompagnato Nerone in Grecia e -come abbiamo letto nelle pagine precedenti- si trovava qui quando venne mandato a comandare le legioni della Palestina a fare stragi di Ebrei.
Eletto dai suoi soldati imperatore, Vespasiano tenne consiglio di guerra con Muciano a Berito (Beirut). Fu stabilito che Vespasiano sarebbe andate in Egitto e in Africa, che Tito sarebbe rimasto in Giudea a terminare la guerra contro gli ebrei e che Licinio Muciano, attraverso la Cappadocia e la Frigia, avrebbe marciato verso l'Italia.
Il re dei Parti promise che non avrebbe molestati i confini della Siria. Poi si diede da fare con alacrità a raccoglier denaro e a preparare armi.

Mentre in Oriente si discutevano i piani e si facevano i preparativi, le legioni della Pannonia e della Dalmazia, che con entusiasmo si erano schierate con Vespasiano, desiderose di vendicare su Vitellio la sconfitta di Bedriacum, accettavano la proposta di Antonio Primo detto Becco di Gallina, comandante della XIII Legione, e stabilirono di non aspettare l'arrivo di Muciano ma di marciare ssubito verso l'Italia. Furono sollecitate le legioni della Mesia a mettersi in cammino e perché i confini di questa regione nell'assenza delle truppe non venissero molestati dalle popolazioni sarmatiche si diede posto nelle legioni ai principi dei Sarmati Jazigi. Anche Sidone e Italico, re dei Suebi, vollero partecipare all'impresa.
Il primo a muoversi fu Antonio Primo cui era stato dato il comando della spedizione.
Ambizioso lui desiderava giungere prima di Muciano per ottenere una posizione di prim'ordine sotto il nuovo imperatore. Antonio partì con due legioni e con un forte nerbo di cavalleria, superò a marce forzate le Alpi, e penetrato nel Veneto, occupò Aquileja, Padova e Vicenza, guadagnò alla sua causa tre coorti vitelliane che stavano sulle rive del Po e si rese padrone di Verona. 

Preoccupato dagli avvenimenti, Vitellio aveva dato ordine alle legioni della Britannia, della Germania, delle Gallie e della Spagna di accorrere in Italia, ma nessuno dei comandanti si era mosso aspettando tutti prudentemente che la guerra si delineasse in favore dell'uno o dell'altro imperatore; poi Vitellio comandò di raccogliere truppe in Italia e mandò Cecina con otto legioni a fronteggiare le milizie di Antonio.
Cecina presidiò Cremona con due legioni, la I e la XXI; con le altre sei pose il campo ad Ostiglia; però non era animato da grande entusiasmo per quella guerra: la preferenza che l'imperatore aveva accordato a Valente aveva fatto intiepidire la sua devozione per Vitellio; d'altro canto egli si era anche accorto della critica posizione di Vitellio che aveva contro di sé la maggior parte delle province. Era intento a temporeggiare quando gli giunse la notizia che la flotta di Ravenna, comandata da Lucio Basso, si era ribellata facendo causa comune con Antonio Primo. Allora stabilì di allacciare segrete trattative con Antonio e, riuniti ad Ostiglia alcuni centurioni, li indusse a sposar la causa di Vespasiano. 

Le legioni però si rifiutarono di abbandonare Vitellio, legarono Cecina chiamandolo traditore, cercarono due nuovi capi e, levato il campo da Ostiglia, si diressero alla volta di Cremona per unirsi alle altre due legioni. Se avessero avuto il tempo di congiungersi, le forze di Vitellio avrebbero forse avuto ragione di Antonio Primo, ma questi con rapidità sorprendente marciò su Cremona, attaccò le due legioni che la difendevano e, messe in rotta entrambe, le costrinse a riparare dentro le mura.
Avuta notizia di quella sconfitta, le sei legioni di Ostiglia affrettarono il passo e giunsero sul far della sera a Cremona e, sebbene stanche dalla lunga marcia, attaccarono il nemico.
Fu una battaglia accanita e sanguinosa che durò tutta la notte. Dapprima parve che la sorte volgesse in favore dei vitelliani, ma Antonio, raccolto un forte nerbo di scelti soldati, fece attacchi impetuosi sugli avversari e rinfrancò i suoi. Si diradavano le tenebre quando le legioni di Vitellio, premute e decimate dalle milizie di Antonio, si ritirarono nel campo, sotto le mura della città; ma neppure qui poterono rimanere: dopo una resistenza accanitissima vennero sloggiate e si chiusero dentro le mura Cremona.

Spuntava l'alba. Gli ufficiali dell'esercito vinto, visto che era impossibile resistere, decisero di venire a patti con Antonio, liberarono Cecina perché si recasse al campo avversario e ottenesse che la città non venisse saccheggiata.
Invece non fu così: quarantamila uomini, dopo aver distrutte le ville circostanti, entrarono in Cremona con le armi in pugno e per quattro giorni la saccheggiarono orribilmente. Antonio aveva dato ordine che non si facessero prigionieri i cittadini cremonesi, ma solo i soldati, ma non venne ubbidito e poiché era stato convenuto fra gli italici che non si potevano né vendere né comperare i cittadini catturati, molti di questi furono trucidati dalle soldatesche ebbre di sangue, gli altri vennero segretamente riscattati. L'infelice città, dopo il saccheggio venne data alle fiamme.
Fabio Valente si trovava a Pisa con le milizie ausiliario che conduceva verso il Po quando gli giunse la notizia della sconfitta e della distruzione di Cremona. Allora pensò di passare nella Gallia e continuare di là la guerra. Imbarcatesi con le truppe, fece vela verso la Provincia Narbonese, ma il procuratore di questa regione, ch'era amico di Vespasiano, lo fece catturale alle isole Stecadi e mettere a morte. Il suo capo venne mandato ad Arimino (Rimini) e mostrato alle legioni vitelliane che la difendevano.

Ormai Vitellio non poteva fare assegnamento che sulle coorti dei pretoriani, sulla flotta di Miseno e su poche altre truppe, che sarebbe stato difficile alle legioni germaniche forzare i valichi delle Alpi guardati dalle soldatesche pannoniche. L'imperatore ordinò che quattordici coorti pretorie andassero a fortificarsi nell'Umbria per ostacolare la discesa alle milizie di Antonio. Il campo fu posto a Mevania (Bevagna) dove anche Vitellio si recò; ma vi rimase poco. Saputo che la flotta di Miseno si era ribellata e i marinai avevano occupato Terracina e Puteoli, fece levare il campo e si mise in marcia alla volta di Roma. A Narni lasciò i due prefetti del pretorio con parte delle truppe, e col resto si ridusse alla capitale. Appena giunto, mandò il fratello in Campania per domare la ribellione; poi diede ordini che si arruolassero soldati tra la popolazione di Roma. Nel frattempo Antonio Primo scendeva attraverso la penisola e giungeva a Corsule, a dieci miglia da Narni. I Pretoriani lasciati da Vitellio, vedendo che non era possibile una resistenza contro le forze avversarie soverchianti, passarono al nemico; i prefetti fuggirono a Roma.

Vitellio allora si vide perduto e non pensò che a salvare la vita sua e dei suoi. Prefetto della città era Flavio Sabino, fratello di Vespasiano: per mezzo di questo, Vitellio concluse con Antonio un accordo col quale, rinunziando egli all'' impero, gli veniva concesso di vivere da ricco privato in una villa della Campania.
Era il 18 dicembre del 69. Poiché, per l'accordo intervenuto, non era più necessario affrettarsi a marciare su Roma, Antonio si fermò  ad Otricoli per festeggiare con il suo esercito i Saturnali.
Quel giorno stesso Vitellio abbandonò la casa dei Cesari sul Palatino per andare al Senato a deporre le insegne e il potere e recarsi poi all'abitazione del fratello. Già tutta la città sapeva dell'abdicazione, il console Quinzio Attico aveva pubblicato un editto in lode di Vespasiano e pieno di insulti contro Vitellio mentre  la casa di Flavio Sabino (fratello di Vespasiano) era piena di senatori e cavalieri e custodita dalle coorti urbane e dai vigili. Ma i pretoriani, che si trovavano a Roma, e il popolino che amava Vitellio per la prodigalità e le feste che soleva dare, avevano mostrato grande malcontento alla notizia della rinunzia di Vitellio all'impero e crebbe in breve a tal punto il loro malumore che decisero di protestare vivamente e di fare annullare l'accordo.
Col popolo e coi pretoriani tumultuanti si incontrò per via Vitellio e fu costretto a tornare alla casa dei Cesari. Flavio Sabino volle fare rispettare i patti e uscì alla testa delle scarse truppe di cui disponeva; ne seguì una zuffa violenta in cui i partigiani del nuovo imperatore ebbero la peggio e a stento Flavio Sabino col nipote Domiziano, il console Attico e un grosso drappello dei suoi riuscì a salvarsi rifugiandosi nella rocca capitolina dalla quale spedì messi ad Antonio Primo per informarlo degli avvenimenti.

I pretoriani posero l'assedio alla rocca, malmenarono un messo che Sabino inviava a Vitellio per ricordargli i patti, poi diedero l'assalto alla fortezza e per la rupe Tarpea giunsero al tempio di Giove e lo incendiarono. Atterriti dalle fiamme, alcuni tra i difensori della rocca, fra cui Domiziano, riuscirono a  fuggire, gli altri invano si opposero con accanimento alla furia dei nemici che, penetrati nelle mura, fecero orribile strage dei seguaci di Vespasiano.

Flavio Sabino e Quinzio Attico, ricoperti di catene, furono trascinati davanti al palazzo dei Cesari, e al cospetto di Vitellio, impotente a frenare l'ira popolare, il fratello di Vespasiano fu trucidato e il suo cadavere venne gettato nei rifiuti.
Intanto, per la via Flaminia, Antonio Primo accorreva in aiuto di Sabino; giunto ai Saxa Rubra apprese la fine miseranda di Flavio e decise di vendicarla.
Della tremenda vendetta temeva pure Vitellio. Egli cercò di guadagnar tempo inviando ad Antonio ambasciatori e Vestali a pregarlo di concedergli almeno un giorno per venire ad un accordo. Ma dopo la morte di Flavio non era più il caso di riprendere le trattative.
Mille cavalieri al comando di Petilio Ceriale furono mandati innanzi di corsa, ma a Porta Salaria stavano i pretoriani che contesero il passo all'avanguardia nemica e la ributtarono indietro.
Avanzava intanto il grosso dell'esercito di Antonio diviso in tre corpi: uno procedeva lungo il Tevere, l'altro per la via Flaminia, il terzo per la via Salaria.
Quest'ultima colonna incontrò la maggiore resistenza: i pretoriani, protetti dai giardini, si difendevano accanitamente, ma quando videro che la cavalleria di Antonio, entrata da porta Collina, minacciava di prenderli alle spalle, si ritirarono, sempre combattendo verso il Campo Marzio, dove la lotta continuò aspra e sanguinosa. Vani sforzi però erano quelli dei pretoriani. Sloggiati anche di qua, si ridussero al loro campo di porta Nomentana, dove tutti poi perirono con le armi nel pugno il 20 dicembre del 69.

Mentre furiosa ferveva la lotta alle porte della città, Vitellio si teneva nascosto nel palazzo imperiale. All'annunzio che il nemico si avvicinava uscì e si avviò all'Aventino dove sorgeva la casa del fratello; due soli uomini lo accompagnavano, il cuoco e il fornaio. Per via gli giunse la notizia che una tregua era stata conclusa ed egli si lasciò ricondurre alla casa dei Cesari, che trovò deserta.
Ma falsa era la notizia e si facevano sempre più vicini il rumore delle armi e le grida dei vincitori. Allora Vitellio, abbandonato da tutti, sì cinse una fascia piena di monete d'oro, si rifugiò nella cella del portinaio, legò un cane davanti alla porta e dietro questa mise il letto.Vana precauzione! Venne scoperto e riconosciuto dai soldati di Antonio. Cercando di sfuggire alla morte, l'imbelle principe implorò la salvezza e disse di avere segreti importantissimi da rivelare a Vespasiano, ma non fu creduto e non trovò misericordia. Gli vennero legate le mani dietro la schiena, gli fu messa una grossa fune al collo e mezzo ignudo per la via Sacra fu trascinato al Foro, fra due fitte ali di popolo che lo facevano bersaglio di lazzi e d'ingiurie.

"Al Foro gli annodarono i capelli dietro la nuca come si soleva fare ai delinquenti; alcuni gli alzarono il mento con la punta della spada perché la sua faccia si vedesse meglio; altri gli gettarono addosso dello sterco chiamandolo ghiottone; altri ancora gli rinfacciarono i suoi difetti fisici, poiché era di altissima statura, aveva sempre il viso paonazzo dal troppo bere, il ventre buzzo e un fianco debole per una ferita riportata guidando un cocchio con Cajo Caligola. 
Infine fu finito presso le gemonie, e dopo essere stato seviziato con numerosissimi colpi, di là fu tratto con un uncino e buttato nel Tevere » (Svetonio).


VITELLIO Aveva cinquantasei anni. 

Sta iniziando ora l'impero dei FLAVI, con VESPASIANO
il periodo dall'anno 69 al 96 d.C. > > >


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