ANNI 96 - 117 d.C. 

PERIODO DA NERVA FINO A TRAIANO

NERVA E IL SUO GOVERNO - ADOZIONE DI TRAIANO - TRAIANO E IL SUO GOVERNO
TRAIANO E IL CRISTIANESIMO - I ROMANI SULL' EUFRATE E IL TIGRI
LA MORTE DI TRAIANO
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L' IMPERO DI COCCEJO NERVA

 Il popolo alla notizia dell'uccisione, accolse con gioia la morte di Domiziano, un po' meno i pretoriani che dall'imperatore erano stati favoriti. Tumultuando accorsero nel palazzo, e Stefano il reicida non riuscì ad evitare di essere fatto a pezzi. I pretoriani volevano continuare, dando la caccia anche agli altri congiurati, non rispettando perfino i loro capi, Norbano e Petronio, che però riuscirono a indurli alla calma, soprattutto quello che -promettendo loro ricchi donativi- poi divenne imperatore:
cioè COCCEJO NERVA

NERVA era avanti con gli anni, -si dice che ne contasse una settantina- inoltre era cagionevole di salute e non vantava una nobile discendenza. Era nato a Narni e la sua famiglia pare che fosse oriunda di Creta. Sotto Nerone aveva ottenuto le insegne trionfali per aver cooperato, insieme con Tigellino e Turpiliano, alla repressione della congiura di Pisone ed oltre alle insegne aveva avuto statue nel Foro e nel Palatino; nel 71 era stato console ordinario con Vespasiano e console una seconda volta nel 90, con Domiziano; nel 93, sotto l'accusa di cospirazione, era stato però mandato a Taranto in esilio, da dove poco tempo dopo era stato richiamato a Roma.

La proclamazione di Nerva venne fatta dal Senato in una seduta solenne, durante la quale si decretò che fossero abbattute tutte le immagini del morto imperatore e il suo nome venisse cancellato dai pubblici monumenti. Contro Domiziano fu proclamata la damnatio memoriae, gli atti dell'estinto furono annullati e vennero richiamati dall'esilio i proscritti, i quali ritornarono in possesso dei loro beni.

Nel suo proemio alla vita di Agricola, Tacito scriveva : «Finalmente noi respiriamo l'alba di un secolo che promette la conciliazione così difficile del principato e della libertà ».
E veramente una nuova epoca nell' impero romano era sorta con la proclamazione di Nerva. L'imperatore nuovo, difatti, voleva cancellare -e vi riuscì- il ricordo delle nefandezze di Domiziano. Al Senato promise che, durante il suo impero, non avrebbe mandato a morte nessun senatore, e volle che il Senato partecipasse largamente all'amministrazione statale. Quasi per mostrar gratitudine la Curia fece coniar monete su cui erano incise le parole: Providentia senatus.

Nerva tornò ad abolire i processi di lesa maestà, comminò pene severissime contro i falsi delatori e due di questi famosi nelle dicerie li fece perire, e mandò a morte gli schiavi e i liberti che sotto il precedente impero avevano (ovviamente per denaro) accusato e tradito i loro padroni e patroni, proibì le persecuzioni dei Cristiani e dei giudei, ma confermò quanto aveva decretato Domiziano
sull'evirazione degli schiavi.

Speciali cure rivolse all'amministrazione delle finanze. Il bilancio era in grave dissesto, per le eccessive spese di Domiziano: per ottenere il pareggio Nerva ridusse gli spettacoli e le feste religiose, vendette molti oggetti di lusso di proprietà sua e della casa imperiale e ricavò considerevoli somme anche dalla vendita di terre e case. 
Raggiunto il pareggio, diminuì le imposte, eliminò sensibilmente la tassa di successione, abolì il tri buto che i comuni dovevano alla posta imperiale e attenuò il rigore con cui era applicata la tassa giudaica. Sebbene fosse amante degli studi -Tacito, Plinio e Rufo li protesse- e dell'arte, per non incorrere in spese non eresse templi ed altri pubblici monumenti ma si limitò a condurre a termine il foro iniziato da Domiziano e che ebbe il nome di Foro di Nerva. Però somme non indifferenti le spese in opere di pubblica utilità: riparò acquedotti, migliorò la via Appia e la via da Napoli a Pozzuoli, fece costruire in Italia la via Valeria e la Tiburtina; nuove vie fece aprire nelle province oltre a migliorare quelle vecchie.
 
I cittadini poveri di Roma furono da Nerva, beneficati con la deduzione di tre colonie che costarono all'erario quindici milioni di dramme. Nella Mauritania venne fondata la colonia di Sitifis (Setif).
Dietro l'esempio dato da filantropi, Nerva venne in soccorso delle famiglie povere italiane ordinando che i loro figli ricevessero gli alimenti con il denaro fornito dagli interessi di determinate somme prestate dall'erario ad abitanti dei municipi: fu una ottima provvidenza che venne consacrata in certe medaglie con motto: Tutela Italiae.

Quello di Nerva, sarebbe stato il migliore dei governi se l'imperatore fosse stato dotato di quell'energia che è necessaria al capo di una nazione. Nerva, invece per la sua  età, la salute malferma e l'eccessiva bontà, era sommamente debole.
Quando scoprì una congiura ordita da Calpurnio Crasso, si limitò a mandare costui in esilio; non pochi dei delatori di Domiziano, per non farseli nemici, li ammise alla sua corte e li onorò, e ai pretoriani concesse di scegliersi un prefetto. A questa carica venne chiamato Casperio Eliano.

La debolezza di Nerva fu causa di sedizioni, fortunatamente presto represse in Siria e nella regione danubiana, e fece anche rialzare la testa ai pretoriani.
Questi, istigati da Eliano, si levarono a tumulto, corsero al palazzo imperiale e reclamarono la pena capitale per gli uccisori di Domiziano. Invano Nerva, pregò e cercò di calmarli; davanti al contegno minaccioso dei soldati dovette cedere e consegnare ai pretoriani Partenio.
Solo dopo questo avvenimento Nerva, si rese conto delle enormi difficoltà che avrebbe incontrate nel governo dell'impero e capì che al suo fianco ci voleva un uomo di provata energia e di alto prestigio che sapesse tenere a freno l'esercito.
Vespasiano aveva avuto come suo collaboratore il figlio Tito; Serva, non aveva in seno alla sua famiglia un uomo degno di succedergli nell'impero o di aiutarlo nella difficile opera del governo; scelse pertanto il suo successore fuori della sua famiglia e fu felicissimo nella scelta.
Questa cadde sul generale MARCO ULPIO TRAIANO, governatore della Germania Superiore, che nell'ottobre del 97 fu da Nerva, adottato e ricevette la potestà tribunizia

Da allora l'impero ebbe un governo civile con Nerva e un governo militare sotto la direzione di Traiano, e questa fu così energica che le turbolenze dell'esercito si calmarono come per incanto e gli stessi pretoriani non osarono protestare quando, Traiano chiamati Eliano e gli altri responsabili dei tumulti, diede esempio di grande severità punendoli con la morte.

Nerva, però non riuscì a godere a lungo i frutti della sua scelta: tre mesi dopo l'adozione di Traiano e circa sedici di regno, il 27 gennaio del 98 morì nella sua villa degli Orti Sallustiani.
A correre in Germania, cavalcando notte e giorno, per dare a Traiano la duplice notizia (la morte di Nerva e la lettera del Senato con la sua nomina a imperatore) fu un giovane soldato di cui sentiremo in seguito molto parlare: Adriano.

TRAIANO IMPERATORE

 Quando Nerva morì, Traiano aveva da poco compiuti quarantacinque anni. Egli era nato nel 63 a Italica, città che Scipione aveva fondata in Spagna durante la seconda guerra punica, e veniva perciò ad essere il primo imperatore romano nato fuori d'Italia. Non si deve però credere che egli appartenesse a famiglia di sangue spagnolo: gli storici antichi non avrebbero tralasciato di notare un fatto di tanta importanza né Coccejo Nerva, che aveva bisogno di consolidare la sua malferma autorità, avrebbe osato adottare un uomo di stirpe straniera. È lecito dunque pensare che il nuovo imperatore fosse di famiglia italica, che in Spagna aveva conservato il diritto di cittadinanza romana.
Il padre era venuto a Roma al tempo di Nerone; aveva valorosamente partecipato alla guerra giudaica, sotto Vespasiano come legato della X Legione; tornato a Roma, vi aveva ottenuto il consolato, da proconsole era stato poi mandato in Asia e infine era stato creato senatore.
Seguendo l'esempio paterno, Traiano, giovanissimo, aveva abbracciata la carriera delle armi; poi per dieci anni era stato tribuno militare in Siria e sul Reno, nell'85 era stato pretore in Spagna, nel 91, sotto Domiziano che lo aveva in grande stima, console ordinario e nel 95 era stato mandato a governare la Germania Superiore, dove aveva rivolto tutta la sua attività a fortificare la frontiera.

Traiano era alto, robusto e forte; di maniere semplici e rudi come colui che da tanti anni era solito viver la vita del campo militare disagiata e faticosa; nato per le armi e vissuto in mezzo ai soldati, era sprezzante nei confronti delle mollezze e del lusso; per i suoi modi democratici, per la sua franchezza, per il valore e per la dirittura del carattere era idolatrato dai legionari. Era canuto anzi tempo, ma la sua mente era lucida e la memoria era prodigiosa;  si dice a questo proposito che egli ricordasse il nome di tutti i sottufficiali che avevano servito sotto di lui e le imprese di ciascuno di loro.
Si trovava a Colonia quando ricevette le lettere del Senato che gli annunziavano la morte di Nerva e la sua assunzione all' impero. Traiano rispose, ringraziando la Curia e diede assicurazione che, al pari del suo predecessore, non avrebbe mai firmato una sentenza di morte a carico di alcun senatore e, lasciata temporaneamente la cura del governo civile ai consoli e al Senato, rimase nella sua provincia a compiere gli iniziati lavori di fortificazione che rese più saldi con la fondazione delle colonie di Baden, Lupodunum e Castra Trajana, poi si recò sulle frontiere del Danubio, che dopo la guerra contro i Quadi, i Marcomanni e i Daci rappresentavano il punto più pericoloso dell' impero e solo nell'estate del 99, dopo circa due anni dalla sua elezione, scese a Roma.

Grandissime furono le manifestazioni di gioia con le quali venne accolto il nuovo imperatore. A dir di PLINIO, che di Traiano scrisse il panegirico, "...le vie della metropoli erano gremite di folla plaudente; ovunque sorgevano altari e numerosissime vittime venivano immolate. Preceduto dai littori e seguito dai senatori e dai cavalieri, Traiano si recò al tempio di Giove sul Campidoglio per ringraziare le divinità, ma non volle alcuna pompa né feste in suo onore e nella rituale preghiera agli dei fece aggiungere la frase "se me ne renderò meritevole"  ai voti che solevano esprimersi in favore dell'imperatore. 
Consegnando a Licinio Sura, nuovo prefetto del pretorio, la spada del comando, esclamò: «ti do questo ferro perché tu lo impugni in mio favore se farò bene, contro di me se farò male». 

Plotina, moglie di Traiano, i cui costumi non erano meno semplici e severi di quelli del marito, varcando la soglia del palazzo imperiale, rivoltasi al popolo disse: "come vi entro così ne uscirò" ".


Traiano rimase a Roma solo tutto l'anno 100 e alcuni mesi del successivo. La vita della reggia e della metropoli non era fatta per lui che per circa trent'anni aveva trascorsi al campo, sotto la tenda e fra le armi. Egli del resto si considerava come imperatore eminentemente militare un condottiero di genti e come tale non poteva non sognare allori. 
La sua permanenza sul Reno dopo l'assunzione all' impero e le tante visite lungo la frontiera del Danubio avevano già mostrato come a Traiano premesse rialzare presso quei popoli il prestigio romano scosso dalle guerre combattute da Domiziano; l'ordine dai lui dato di continuare sulla destra del Danubio inferiore (nella strada marginale iniziata da Tiberio- la montibus excis omnibus superatis, viam patefecit dice ancora oggi l'iscrizione incisa sulla roccia) faceva chiaramente intendere che Traiano solo alla guerra contro i Daci pensava prima di mettersi in viaggio per Roma. E a questa guerra egli si preparò durante i quasi due anni che rimase nella capitale dell'impero.

Nella primavera (25 Marzo) del 101 Traiano lasciò Roma alla testa di dieci coorti pretorie, un corpo di cavalleria batavica e un altro di cavalieri della Mauritania e si diresse verso il Danubio lungo dove erano già dislocate otto legioni e numerose altre truppe ausiliarie.
Tre di queste furono lasciate come presidii e riserve; con le altre cinque l'imperatore passò il Danubio su un ponte di barche a Viminacium (Kostolatz) e pose il campo alla sinistra del fiume dove l'esercito creò la base delle future previste operazioni militare e passò l'inverno.
Nella primavera del 102 Traiano mosse verso il cuore dell' impero nemico. Decebalo con un numerosissimo esercito lo aspettava alla Porta di Forro (Tapae) e qui venne combattuta una grande battaglia, nella quale i Daci, malgrado il valore dimostrato, furono sconfitti. La vittoria però costò considerevolissime perdite ai Romani e si dice che il numero dei feriti fosse così grande che Traiano diede le sue vesti perché ne fossero fatte bende.

Dopo la sconfitta Decebalo invitò Traiano ad un convegno perché fosse trattata la pace. Forse il re barbaro sperava di catturare l'imperatore romano, ma questi mandò come suoi rappresentanti Licinio Sura e Claudio Liviano, i quali invano aspettarono sul luogo convenuto  l'arrivo di Decebalo.
Allora la marcia delle legioni fu ripresa, inutilmente ostacolata dai Daci, i quali in diversi scontri sanguinosi subirono notevoli rovesci. La battaglia decisiva fu combattuta nei pressi di Sarmizegetusa (Varhely) e riuscì favorevole alle armi imperiali: fra i prigionieri catturati ci fu una sorella di Decebalo, il quale, visto che era inutile ogni ulteriore resistenza, chiese la pace. 
Traiano la concesse a durissimi patti e Decebalo dovette consegnare le armi e i disertori, abbandonare le terre tolte ai popoli limitrofi, demolire le fortezze, accettare un presidio romano nella capitale e dichiararsi vassallo di Roma. L'orgoglioso sovrano sconfitto si recò al campo nemico, e deposte le armi ed inginocchiatesi ai piedi di Traiano, fece atto di sottomissione all'impero.
Lasciate le guarnigioni nelle principali città del regno, Traiano fece ritorno a Roma, dove celebrò un magnifico trionfo e si ebbe dal Senato il titolo di Dacico.

Ma la pace nelle intenzioni di Decebalo non voleva significare sottomissione completa. Il vinto re sognava la riscossa e, partito l'imperatore, cominciò a venir meno ai patti: accoglieva i disertori romani, ricostruiva le sue fortezze, preparava nuove armi, stringeva alleanza con i popoli limitrofi ed invitava perfino il re dei Parti ad unirsi con lui in una futura lotta contro Roma, mentre invadeva il territorio degli Jazigi, popolazione amica di Roma.
Il contegno di Decebalo costrinse Traiano ad una nuova guerra che fu decisa sul finire del 104 ed ebbe inizio l'anno dopo.
Perché le comunicazioni tra la destra e la sinistra del Danubio fossero più sicure e spedite, Traiano fece costruire un gigantesco ponte di pietra sul fiume che univa le due rive nei punti in cui oggi sorgono la città serba di Kladova e la rumena di Furnu Severinulum.
 Architetto ne fu il famoso Apollodoro di Damasco e l'opera riuscì grandiosa, della lunghezza di 3570 piedi, pari a 110 metri, con venti pile alte ciascuna centocinquanta piedi e larghe sessanta, i cui resti, anche oggi, in tempo di portata minima del fiume, sono visibili.
Decebalo che forse non si aspettava una guerra e perciò non vi era preparato, di fronte all'imponente esercito imperiale, cercò prima di scendere a patti con lo scopo di prender tempo; ma Traiano non volle giungere a nessun accordo, deciso com'era a debellare definitivamente il nemico e ridurre a provincia l'intera Dacia. Allora il barbaro cercò di trarre dalla sua i popoli vicini prospettando il pericolo che correva la loro indipendenza e, siccome nessuno si mostrava desideroso di misurarsi con le armi dell'impero, Decebalo tentò di sopprimere Traiano. Ma non gli riuscì. Potè invece con l'inganno impadronirsi di Cassie Longino, legato di una legione ed amico dell' imperatore, sul cui animo egli sperava d'influire con quel prezioso ostaggio. Ma anche questa speranza fallì, Longino, per non intralciare le operazioni dell'imperatore, si tolse la vita. 

Decebalo affidò le sorti proprie e del suo regno alla guerra e questa, se pur fu più breve, fu più accanita della precedente. Non potendo, per l'inferiorità numerica delle sue truppe, misurarsi in battaglia campale con il nemico, Decebalo iniziò una lenta ritirata verso l'interno, distruggendo ogni cosa al suo passaggio e lasciando dietro di sé desolazione e rovina. La resistenza fu portata sulle montagne e i valichi vennero difesi con mura e palizzate; ma l'accanimento e il valore dei Daci non valsero a salvare la loro indipendenza. I nobili del paese che erano l'anima della resistenza in ogni scontro, abbandonati dai loro stessi soldati, stremati di numero e di forze, alcuni si diedero la morte chi col ferro chi col veleno, altri riuscirono a salvarsi nei territori limitrofi. Decebalo, per non cadere nelle mani del nemico, si uccise anche lui; il suo capo venne mandato a Roma (106).

La Dacia cadde tutta sotto il dominio di Roma. Questa era una regione vastissima che per la qualità del terreno, l'abbondanza delle acque e la ricchezza del sottosuolo si prestava meravigliosamente ad una proficua opera di sfruttamento. Ma la guerra l'aveva resa quasi deserta. Da ogni parte dell' impero vennero nella nuova regione uomini attratti dalla scoperta di giacimenti auriferi nei Carpazi, si costruirono strade, si fabbricarono città, si coltivarono le feconde pianure, le acque del Danubio furono solcate da flottiglie commerciali e in breve il paese si popolò di mediterranei che latinizzarono i superstiti della stirpe dacica e fecero echeggiare in quella lontana regione la lingua di Roma che tuttora vi si parla.
Con i veterani di tutte le legioni, Traiano fondò numerose colonie militari. La più importante di esse fu quella che venne dedotta nella capitale Sarmizegetusa che ebbe cambiato il nome in quello di Ulpia Trajana. Alla sinistra del Danubio fu fondata la colonia di Tsierna, alla destra Oescus e Ratiaria e alla confluenza dell'Alouta, a perpetuo ricordo delle vittorie su Decebalo, la città di Nicopoli.

La conquista della Dacia fu celebrata a Roma con grandissime feste che durarono quattro mesi: degni di nota gli spettacoli gladiatori che vennero dati e i combattimenti di fiere; ai primi parteciparono circa diecimila gladiatori e nei secondi vennero uccise altrettante belve.
Perché fosse tramandato ai posteri il ricordo della impresa, tra il Quirinale e il Campidoglio, venne innalzata la famosa colonna traiana, opera di Apollodoro di Damasco, alta trenta metri, ricca di bassorilievi in cui sono raffigurati i costumi dei Daci ed episodi della guerra. Più tardi sulla colonna venne posta una statua dell' imperatore di bronzo dorato, che, distrutta nel Medioevo, fu nel 1687 da Sisto V sostituita con quella di S. Pietro. 
Nello stesso tempo in cui Traiano sottometteva la Dacia il legato imperiale Aulo Cornelio Palma portava le armi contro i Nabatei. Questo fiero popolo dì predoni e di mercanti era stato da tempo in contatto coi Romani, aveva aiutato Ottaviano nella lotta contro Antonio, distruggendo la flotta egiziana del Mar Rosso, aveva dato aiuto ad Elio Gallo nella spedizione sfortunata del Jemen ed aveva prestato soccorsi non indifferenti a Vespasiano e a Tito nella guerra contro i Giudei. 
I Nabatei abitavano e dominavano nella vasta regione che si stende dal Mar Rosso ad oriente della Palestina e che comprende la penisola del Sinai, l'Arabia Petrea e l'odierna Transgiordania; avevano nelle mani quasi tutto il commercio tra l'India e il Mediterraneo e la loro capitale era PETRA (rovine di Uadi-Mùsà), la misteriosa città scavata nella roccia, ricca di monumenti e di tesori.
La fortuna arrise alle armi di Cornelio Palma: Damasco venne presa e incorporata alla Siria, il regno dei Nabatei fu conquistato e il Mar Morto divenne un laghetto romano. La Palestina e la Siria furono collegato al Mar Rosso per mezzo di due vie che partendo da Damasco e da Gerusalemme si univano a Petra e proseguivano per il golfo di Aqaba.
La nuova regione conquistata (106) fu eretta a provincia romana col nome di ARABIA e amministrata da un legato pretorio che prima ebbe residenza a Petra e poi a Bostra.
A Cornelio Palma, dietro proposta di Traiano, il Senato conferì le insegne consolari.

IL GOVERNO DI TRAIANO

Dopo la conquista della Dacia l'imperatore tornò a Roma e vi rimase circa nove anni. Fu questo un periodo di pace ininterrotta e di saggia se non geniale amministrazione che valse a Traiano il titolo di Optimus decretatogli dal Senato. Sotto di lui parve rifiorire l'impero di Augusto e molti furono convinti di una rinascita della repubblica romana. 
Scrive PLINIO il giovane: «La nobiltà finalmente anziché essere offuscata dall'imperatore riceve ogni giorno da lui nuovo splendore. Finalmente il principe non teme gli illustri discendenti degli eroi, gli ultimi eredi della libertà. Anzi egli per loro sollecita l'età degli onori, risolleva la loro dignità, li restituisce ai loro antenati ». E ancora: «Ovunque sia un ceppo di antica stirpe, un residuo di antica gloria, egli lo coltiva, lo ravviva e lo usa per il bene della repubblica. Tornano con la generosità del principe che ha il merito di creare e di conservare la nobiltà presso gli uomini la fama dei grandi nomi sottratti alle tenebre della dimenticanza».

Queste parole adulatorie anche se del panegirista Plinio non è che non abbiano riscontro nella realtà. Del principe, lui Traiano aveva il nome e il potere, ma non il fasto, non la superbia, non la corruzione, non la ferocia che avevano resi odiosi gli altri imperatori. Mai si era visto un imperatore così democratico: il suo palazzo era aperto a tutti; egli si recava senza seguito in casa degli amici, si lasciava avvicinare dalle persone nelle strade, era modesto ed affabile, amava i giuochi e gli spettacoli, e da buon soldato amava forse un po' troppo il vino, ma non si abbandonava ad orge e coltivava gli affetti domestici.
Come di Nerva così di lui si poteva dire di aver conciliato l'inconciliabile, il principato e la libertà. La nobiltà fu carezzata e non per timore, ma perché ne era meritevole, perché concorde, conscia dei propri doveri, pervasa -specie quella provinciale- da un alto spirito di romanità, intelligente e colta. Le tradizioni repubblicane furono riportate in onore: si coniarono monete con l'effigie del Genio della Libertà, di Siila, di Bruto, di Cicerone, di Catone l'Uticense; e fu perfino permesso che un segretario dell'imperatore, Titinio Capitone, tenesse in casa le statue di Bruto, Cassio e Catone e leggesse in pubblico poesie in loro onore. Il Senato venne trattato con il massimo rispetto: fu consultato sovente in questioni di politica estera, vide assegnate ai suoi membri le più alte magistrature e ricevette dall'imperatore un attestato di fiducia e di stima con l'istituzione dello scrutinio segreto. Traiano volle essere considerato come il più autorevole dei senatori e si acquistò perciò l'ammirazione sincera di tutta la Curia che in lui per la prima volta  vide non il nemico implacabile dell'ordine senatorio, ma un collaboratore degno di rispetto e di encomio e il restauratore della dignità senatoria. 

Ad accrescere questo rispetto verso la persona del principe da parte del Senato molti altri fatti contribuirono. Al Senato Traiano concesse larga parte nell'amministrazione statale; soppresse i processi di lesa maestà, abolì le delazioni, comminò pene severissime contro coloro che non riuscivano a provare le accuse; inasprì le pene contro gli schiavi colpevoli dell'uccisione del loro padrone; ai padroni lasciò ampia libertà;  nella manomissione testamentaria e nel governo della sua casa e dell'impero non diede posto ai liberti come avevano fatto i suoi predecessori. Giuste quindi e provocate da un sentimento di riconoscenza le lodi che agli imperatore si rivolgevano: «Tra gli amici tu hai rimesso la fiducia, tra i figli la pietà, l'ossequio tra i servi; questi temono ed obbediscono e capiscono di aver dei padroni. Gli amici del principe non sono più i nostri servi, ma siamo noi; né il padre della patria crede di essere più caro agli schiavi altrui che ai suoi concittadini. E tu ci hai tutti liberati dagli accusatori che avevamo anche in casa ».

Famosa è la sua legge sulla corruzione; famosa la "legge dei pentiti", e altrettanto famosa la "BONA VACANTIA" per far finire la "TANGENTOPOLI" romana.
ne diamo una sintesi in un questa apposita pagina
NELL'ANNO 103

Ma se gli antichi lodarono Traiano per il suo contegno verso il Senato, lodi maggiori gli possiamo noi dare per i saggi atti del suo governo. Frenò l'ingordigia degli avvocati, emanò provvedimenti per quei genitori che sfruttavano i figli, assicurò il diritto di libertà ai trovatelli spesso raccolti ed allevati per farne schiavi, e diede impulso agli istituti alimentari che erano stati una delle principali cure di Nerva e che Traiano favorì per accrescere, secondo quello che scrive Plinto, soldati all'impero: «Questi fanciulli sono allevati a spese dello stato perché  siano di aiuto in guerra e di ornamento in pace. Un giorno essi riempiranno le nostre stazioni militari e le nostre tribù e da essi nasceranno figliuoli che non avranno più bisogno della pubblica assistenza». 
Nell'anno 100, quando fu fatta la legge alimentaria, il numero dei fanciulli nutriti a spese dello stato fu di cinquemila. La sola Velleja, piccola città della valle padana, ebbe in prestito dall'erario più di un milione e trecentomila sesterzi; gli interessi che avrebbe dovuto pagare allo stato furono destinati per prendersi cura di duecentoquarantasei fanciulli e trentasei fanciulle.
Da queste istituzioni alimentari, che ben presto si estesero a tutto l'impero e dovevano aver vita fino a circa tutto il terzo secolo, anche l'agricoltura della penisola trasse grandi vantaggi. Sebbene nato in provincia, Traiano ebbe di mira il bene della penisola: fece meglio arginare il lago di Fucino, fece eseguire opere di bonifica nelle paludi Pontine, rinnovò il decreto di Tiberio prescrivendo che ogni senatore d'origine provinciale dovesse investire un terzo del suo patrimonio nell'acquisto di beni immobili nella penisola, e per far sì che la popolazione d'Italia non diminuisse di numero, pose un freno all'emigrazione vietando di fondar colonie con cittadini portati via dalle regioni italiane.

Imponenti e numerosi furono i lavori pubblici eseguiti sotto l'impero di Traiano: furono migliorati ed ingranditi i porti dell'Adriatico e del Tirreno, Ancona, Ostia e Centumcellae (Civitavecchia); fu migliorato il canale che metteva in comunicazione il Mediterraneo con il Mar Bosso; strade e ponti vennero costruiti o riparati in Italia e nelle provinole; Roma fu dotata di un nuovo acquedotto che  sul Gianicolo portava l'acqua del lago Sabatinus (Bracciano) detta oggi Acqua Paola; terme superbe vennero innalzate, e tra il Quirinale e il Capitolino fu costruito il famoso Foro Traiano, comprendente due biblioteche, una basilica ed altri grandiosi edifici che oggi, liberati dalle costruzioni posteriori, rivedono dopo tanti secoli la luce sotto il cielo di Roma.
Tutti questi lavori se davano da vivere a numerosi operai costavano ingenti somme allo Stato. Tuttavia Traiano non gravò l'impero di nuovi tributi anzi alcuni li eliminò e per aver fatto questo ebbe grandi lodi dagli storici. 
Da dove Traiano traesse i fondi per le ingenti spese sostenute nelle guerre e nelle opere pubbliche non sappiamo con precisione, rimase un mistero. L'oculata ed economica amministrazione di Nerva era stata troppo breve per risanare il bilancio dello stato intaccato dalla prodigalità di Domiziano e noi siamo indotti a credere che gran parte delle somme Traiano le traesse dal ricco bottino messo insieme durante la guerra contro i Daci e i Nabatei e dai prodotti del commercio e dell'agricoltura che sotto di lui prosperarono. 
Gran parte, per sopperire alle spese a un certo punto ricorse a un pericoloso espediente di coniar monete di argento con un titolo di 800, ritirando dalla circolazione le vecchie di peso uguale ma di titolo maggiore.
Questo dimostra chiaramente che Traiano, il quale fu chiamato locupletator civiurn, in materia finanziaria non si curò di spendere quanto le entrate dello stato comportavano. Perciò da alcuni fu scritto che egli «invece di misurare le spese alla ricchezza vera, fece godere i contemporanei di una prosperità fittizia, consumando non solo la ricchezza presente ma impegnando quella dell'avvenire e dilapidando in parte le sue riserve » (Ferrero e Barbagallo). Questo non si può negare; ma si deve anche pensare che molte delle eccessive spese fatte da Traiano furono impiegate in opere dalle quali, a breve o a lunga scadenza, l'impero doveva trarre vantaggi considerevoli e che se questi, a volte, non ci furono, la colpa non può naturalmente addebitarsi a Traiano alla cui amministrazione finanziaria è ingiusto fare risalire la causa della rovina dei tempi posteriori.
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TRAIANO E IL CRISTIANESIMO - LE GUERRE D'ORIENTE

TRAIANO viene ricordato come il primo imperatore che nel suo governo si occupasse del Cristianesimo, sollecitato da PLINIO il giovane. Questi, dal settembre del 111 a tutto il gennaio del 113, in qualità di legato imperiale tenne il governo della Bitinia e durante questo tempo fu in assidua corrispondenza epistolare con Traiano che teneva continuamente informato dei suoi atti e a cui spesso domandava consigli sulla condotta da tenere. In una delle sue lettere all'imperatore, sulla cui autenticità sono stati mossi dei dubbi, Plinio dava informazioni a Traiano dello sviluppo del Cristianesimo in quella lontana provincia. La nuova religione aveva quasi soppiantato il paganesimo; i templi degli dèi erano quasi deserti e un gran malcontento si era diffuso in tutti coloro che vivevano dei culti pagani e nei loro fedeli, e accusavano i Cristiani di ogni delitto. Plinio aveva fatto arrestare coloro che erano stati a lui denunciati e li aveva interrogati se fossero veramente seguaci della nuova religione. Avutane risposta affermativa, era tornato ad interrogarli una seconda e una terza volta minacciandoli di supplizio e a questo poi li aveva mandati perché persistevano nella loro affermazione. 

Questa linea di condotta il governatore l'aveva seguita con i provinciali; mentre nei riguardi di coloro che usufruivano del diritto di cittadinanza Plinio aveva stabilito di mandarli a Roma, ma lo aveva preoccupato il gran numero dei denunciati. Parecchi di questi avevano negato di appartenere alla setta cristiana e in prova avevano invocato gli antichi dèi, avevano sacrificato davanti all'ara dell' imperatore e, richiesti, avevano rivolto ingiurie contro Cristo, altri avevano ingenuamente confessato che il loro delitto si riduceva alle lodi di Cristo cantate insieme con altri fedeli. Plinio era convinto che non avevano serio fondamento le accuse mosse contro i Cristiani e che non c'era nulla di male se predicavano la nuova religione, la quale, secondo lui, altro non era che una superstitio prava et immodica. Tuttavia non sapendo pertanto come regolarsi, chiedeva istruzioni all' imperatore ponendogli il quesito:  "è il nome di cristiani che deve punirsi, oppure i delitti che sotto questo nome si sospettano?».

Questo il problema che lo angustiava: come comportarsi nei confronti dei cristiani? Lo spirito giuridico romano si ribellava al fatto di adottare sanzioni contro chi non avesse commesso specifici reati. Lo stesso Plinio infatti dice che, dopo aver interrogato, anche sotto tortura, due schiave cristiane, "nihil aliud inveni quam superstitionem pravam, immodicam" ("null'altro trovai all'infuori di una superstizione balorda e squilibrata"). Il problema però di "far qualcosa" per frenare lo sviluppo del cristianesimo sussisteva; è sempre Plinio che, nella medesima lettera, fa notare che il contagio di questa superstizione dilaga "neque civitates tantum, sed vicos etiam atque agros" ("non solo nelle città, ma anche nei villaggi e nelle campagne").


Al quesito del suo legato Traiano rispondeva che le accuse anonime non dovevano in nessun caso essere accettate, che i Cristiani non dovevano essere ricercati, e contro di essi si doveva procedere soltanto se venivano denunciati e puniti se risultavano responsabili di qualche reato; se però sospettati e denunciati, ed essi negavano e ne davano prova sacrificando agli dei dovevano essere assolti"
A tutto ciò si riduce la persecuzione dei Cristiani che dagli scrittori ecclesiastici
si attribuisce a Traiano; ma di una vera e propria persecuzione non si può parlare. Mancano le prove e la risposta dell' imperatore a Plinio è anzi una prova dell' indulgenza di Traiano, il quale avrebbe potuto ordinare lo sterminio dei Cristiani e invece si limitò a prendere verso di loro misure che in certo qual modo si possono considerare come la loro salvezza. 
Dell' indulgenza imperiale dovette fra gli stessi Cristiani perpetuarsi il ricordo: ne fa fede la leggenda, sorta posteriormente, delle preghiere di Gregorio I, mercé le quali il giusto e caritatevole imperatore fu dall' Inferno tratto al Paradiso, leggenda che a Dante diede materia di alta rappresentazione poetica e che spinse forse il divino poeta a porre lo spirito di Traiano presso l'occhio fulgente dell'aquila imperiale nelle eteree e beate regioni del terzo regno dell'oltretomba.

Verso la fine del 113 Traiano lasciò Roma e mosse verso l'Oriente. Ve lo spingeva l'eterna questione dell'Armenia che Augusto e Tiberio avevano tentato di risolvere con le arti della politica. Cosroe, succeduto nel 112 al fratello Pacoro II sul trono dei Parti, aveva spodestato il rè armeno Excidare sostituendolo col proprio nipote Partomasiri. Si rendeva necessario l'intervento romano. Traiano avrebbe potuto abilmente sfruttare la situazione difficile in cui si trovava Cosroe, al cui regno aspiravano Vologeso II e Mitridate VI, ma egli era uomo di guerra e la questione la voleva risolvere con le armi. Per porre fine una volta per tutte alla stessa, secondo lui, non bisognava limitarsi alla conquista dell'Armenia, ma era necessario debellare i Parti, gli  irriducibili nemici dei Romani. 
Traiano sognava di spingere le aquile dell'Impero oltre l'Eufrate e il Tigri, fino alle rive del golfo Persico e, sulle orme di Alessandro Magno, più in là ancora, verso l'India lontana. A questo forse pensava quando decise di far la guerra a Decebalo, col quale Pacoro II era stato in rapporti.

Si trovava ad Atene Traiano quando Cosroe gli mandò ricchissimi doni e ambasciatori pregandolo di volere riconoscere come re d'Armenia Partomasiri; ma l'imperatore rifiutò i doni e gli rispose che gli avrebbe fatto conoscere la sua volontà solo quando sarebbe arrivato sulle rive dell'Eufrate.
Era una dichiarazione di guerra. Da Antiochia, in cui si era recato, nella primavera del 114 alla testa di un forte esercito, Traiano mosse verso l'Armenia. Invano Partomasiri cercò di opporsi con le armi all'invasore; abbandonato dallo zio Cosroe al suo destino, si presentò al campo imperiale e depose ai piedi di Traiano la corona nella speranza che fosse nominato rè. Traiano però dichiarò l'Armenia provincia romana. Non si sa come, Partomasiri venne a morte e questa da qualche storico (Frontone) fu attribuita a Traiano, il quale però non era capace di commettere una slealtà nè aveva bisogno di sopprimere un uomo che non gli poteva essere di ostacolo nei disegni di conquista.

Per proteggere l'Armenia dai popoli vicini Traiano diede agli Albani un re amico dell' impero e nel settembre del 114 passò in Mesopotamia. Era questa regione divisa in vari principati vassalli dei Parti. Il principe dell'Osroene, quando Traiano comparve sotto le mura di Edessa, fece atto di sottomissione e l'imperatore gli lasciò il trono; gli altri invece che vollero contrastare il passo alle legioni romane vennero combattuti, sconfitti e spodestati. 
Anche il principato assirico dell'Adiabene di cui era signore Mebarsape venne invaso da due colonne imperiali, una delle quali al comando del legato Lucio Quieto s'impadronì senza combattimento della fiorente città di Lingara, l'altra agli ordini dello stesso imperatore espugnò la capitale Nisibi. Questa parte conquistata della Mesopotamia fu dichiarata provincia romana.

Dopo queste vittorie Traiano ritornò in Antiochia per prepararsi alla spedizione contro i Parti e vi rimase fino ai primi mesi del 116. Nel dicembre del 115 un violento terremoto distrasse in parte la capitale della Siria i cui danni vennero sollecitamente riparati per ordine dell'imperatore. Questi, nella primavera del 116, attraversò di nuovo la Mesopotamia, con navi costruite dalle foreste di Nisibi passò il Tigri e assoggettò completamente l'Adiabene; ripassato il Tigri, marciò su Babilonia ed occupatala puntò con l'esercito su Ctesifonte, capitale del regno partico. All'avanzarsi del nemico, Cosroe fuggì verso la Media, la città cadde in potere di Traiano e con essa una figlia del re e il trono d'oro. Come la Mesopotamia superiore così l'Assiria divenne provincia romana (116).
 Non contento di queste conquiste, Traiano, costeggiando il Tigri, scese verso il Golfo Persico, penetrò nell'Emesene e il re Attampilo si fece tributario dell' impero. 
Due grandi province aveva date a Roma Traiano e i Parti parevano fiaccati; ma la conquista non era sicura. Colto di sorpresa e in mezzo alle discordie civili, il vasto reame partico coi suoi stati clienti aveva ceduto; ma, subito dopo, le popolazioni, insofferenti del dominio straniero, insorsero.

Trovavasi Traiano a Babilonia quando gli giunse notizia che Seleucia si era ribellata, e che il suo esempio era stato seguito da Nisibi, Edessa e dalle altre città della Mesopotamia superiore.
Traiano corse immediatamente ai ripari. Seleucia fu presa e data alle fiamme. La stessa sorte subirono per opera di Lucio Quieto, Nisibi ed Edessa. 
Ma la repressione per quanto violenta ed immediata non riuscì ad essere completa. Maggior tempo e forze più numerose di quelle di cui disponeva Traiano occorrevano per mantener salde le conquiste.
Quando l'imperatore lo comprese l'imperatore, abbandonati i sogni di grandezza, cercò almeno di assicurare con la politica i possessi ottenuti con le armi, incoronando a Ctesifonte rè dei Parti uno dei pretendenti al trono: l'arsacide Partemaspate.

Poi Traiano prese la via del ritorno. Attraversando la Mesopotamia, assalì, per procurarsi acqua e foraggi, la città fortificata di Atra, posta in mezzo al deserto, ma fu respinto e al suo fianco caddero un legato e numerosi soldati della sua scorta. Traiano dovette abbandonare l'impresa. 
Intanto tornava a scoppiare la rivolta: nella Palestina, a Cipro, in Egitto e nella Cirenaica si ribellarono gli Ebrei, massacrando i Romani, i quali però ad Alessandria si vendicarono con una strage.

 Ma altre notizie allarmanti giungevano dalla Mauritania, dalla Britannia e dalla frontiera del Danubio.
Ad Antiochia Traiano lasciò il comando dell'esercito: Maicro Turbone mandato a Cipro vi represse la rivolta; Lucio Quieto ridotta all'obbedienza la Mesopotamia si avviava verso la Giudea. L'imperatore prese la via del mare per fare ritorno a Roma; ma la sua fibra era stata fiaccata dall'età (64 anni) e dai disagi dell'ultima guerra. 
Ammalatesi, dovette approdare alle coste della Cilicia e nella prima decade dell'agosto del 117, a Selinunte, morì.
Il suo impero era durato diciannove anni e mezzo.

Traiano non aveva prima di morire nominato nessuno suo successore, salvo aver donato l'anello ricevuto da Nerva a un giovane ventenne che si era distinto nella guerra dacica, ma che si era già fatto notare quando partì da Roma per la Germania per annunciare a Traiano la morte di Nerva. Poi sposando una pronipote del nuovo imperatore, i contatti furono più frequenti; ventiduenne Traiano se lo portò dietro nella prima e seconda guerra dacica. Iniziò a nutrire del grande affetto per questo giovane, molto simile a lui, di maniere semplici, frugalissimo, amante delle armi, coraggioso, audace, instancabile camminatore sotto qualsiasi clima, stoico nei disagi delle guerre; tuttavia si distingueva da Traiano  per il suo amore per le arti  e le lettere; si intendeva di filosofia, di musica, di pittura, di scultura, scriveva in prosa e in poesia in latino, ma così amante del greco che era soprannominato il graeculus. Avanzando nella carriera era poi diventato governatore della Siria.

 Tante qualità e capacità, tante virtù, però nel frattempo era arrivato a 41 anni. Ma nessuna adozione era arrivata da Traiano. Scrissero poi che lo fece sul letto di morte. Ma non esiste prova, salvo quella della moglie PLOTINA, che nutriva anche lei un grande affetto per quest'uomo. 

ADRIANO e il suo impero lo tratteremo nel successivo capitolo riassuntivo


...periodo dall'anno 117 al 138 d.C. > > >

Fonti, citazioni, e testo
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - GARZANTI 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
IGNAZIO CAZZANIGA , 
Storia della Letteratura Latina - ed. N. Accademia - 1962
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988 
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