ANNI 395 al 431 d.C.

ULTIMI IMPERATORI D'OCCIDENTE - ONORIO - ATTILA


ARCADIO ED ONORIO - ALARICO CONTRO L' IMPERO D'ORIENTE - STILICONE - I VISIGOTI IN ITALIA - BATTAGLIE DI POLLENZO E DI VERONA - RADAGAISO - I BARBARI NELLA GALLIA - RIBELLIONE DI COSTANTINO - MORTE DI STILICONE - SECONDA INVASIONE DEI VISIGOTI IN ITALIA - ASSEDIO DI ROMA - ATTILA - SACCO DI ROMA - MORTE DI ALARICO - MANLIO - GUERRE DI COSTANTINO IN GALLIA E SUA FINE - I BARBARI NELLA SPAGNA - I VISIGOTI NELLA GALLIA - ATAULFO SPOSA GALLA PLACIDIA - VALLIA - I PAPI BONIFACIO ED EULALIO - MORTE DI COSTANZO ED ONORIO - ABBANDONO DELLA BRITANNIA - FRANCHI E BURGUNDI IN GALLIA - GIOVANNI. - VALENTINIANO III - GENSERICO E I VANDALI IN AFRICA
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ONORIO E STILICONE


 TEODOSIO, morendo, lasciava l' impero ai propri figli, ONORIO e ARCADIO: il primo era in età di undici anni, aveva avuto l'Occidente ed era stato messo sotto la tutela d'un prode generale di origine barbarica, STILICONE, parente del morto imperatore per averne sposata la nipote Serena; il secondo, Arcadio invece che contava diciotto anni, aveva ricevuto l'Oriente con la Mesia Superiore, la Dacia, la Macedonia e l'Acaia, ed essendo debole di mente e di corpo era stato affidato alle cure del prefetto del pretorio RUFINO.

L'unità dell'impero romano esisteva ancora nominalmente; ma di fatto era per sempre finita. Roma e Costantinopoli erano due rivali inconciliabili e non meno lo erano Stilicone e Rufino. Quest'ultimo, non contento di essere il vero padrone dell'Oriente, cercava di render più grande e più salda la sua potenza dando in moglie una propria figlia ad Arcadio. Il suo disegno però non riuscì: l'eunuco Eutropio, di origine armena, geloso della potenza di Rufino, approfittando di una sua assenza da Costantinopoli, indusse il giovanissimo imperatore a sposare Eudossia, figlia del generale Bautone.

Questo intrigo di corte affrettò la catastrofe dell'impero. Si dice che Rufino, per vendicarsi, inducesse i Visigoti, stanziati al di qua del Danubio, a prender le armi contro l' impero. Quanto ci sia di vero in questa diceria non sappiamo. L'odio, nato nell'animo del ministro per l'affronto ricevuto, dà un certo colore di verosimiglianza alla diceria, ma a crederla infondata ci  induce il pensare che nessun vantaggio poteva Rufino ritrarre da una levata di scudi dei Visigoti. 

Questa in realtà ci fu, ma è da credere che non ai consigli di Rufino, il quale del resto continuava a tenere la carica di ministro, fu dovuta, bensì alle condizioni stesse dei Visigoti che non erano soddisfatti della striscia di terra concessa loro da Teodosio, e ad Alarico loro re, il quale, conoscendo la debolezza, dell'impero, pensava, e non a torto, poteva trarne vantaggi per sè e per il suo popolo.

L'anno stesso della morte di Teodosio (395), Alarico alla testa d'un'orda dei suoi Visigoti, da alleato divenuto nemico, invase la Tracia e la Macedonia e si spinse fin nella Grecia.
A combattere l'invasore non si mossero i generali di Arcadio, ma accorse prontamente con numerose forze Stilicone. 
Non ebbe però il tempo di misurarsi con il nemico, mentre
era giunto a Tessalonica e si apprestava a tagliare la ritirata ai Visigoti da Arcadio gli giunse l'ordine di mandargli le milizie d'Oriente, che erano passate con Teodosio in Occidente contro Arbogaste, e di ritornare in Italia.

Era la prima volta che un imperatore romano rifiutava l'aiuto del collega mentre l' impero era invaso dal nemico. Con il gesto di Arcadio l'unità dell'impero non esisteva più neppure nominalmente e le due parti in cui esso era diviso, gelose l'una dell'altra, apertamente mostravano di voler fare ciascuna per conto proprio.
Si disse che l'ordine fu provocato da Rufino e nulla ci vieta di credere che sia andata così; gli avvenimenti anzi che seguirono ne sono la conferma. Stilicone volle evitare la guerra civile ed ubbidì: mandò le milizie che gli si chiedevano, ma vi mise a capo un suo fidato generale di stirpe gotica, Gaina, senza dubbio perché questi fosse di contrappeso a Rufino. Gaina seppe così bene suscitare l'ira dei suoi soldati contro il ministro di Costantinopoli che il 27 novembre di quell'anno questo venne ucciso dalle truppe.

Parve allora che le relazioni di Stilicone con la corte di Arcadio migliorassero, ma se un miglioramento nei rapporti ci fu, esso durò poco. A Rufino era succeduto nella carica Eutropio e questi non era meno geloso che il suo predecessore di Stilicone. Da tali gelosie non potevano ricavar vantaggi che i Visigoti, i quali nel 396 invasero ancora la Grecia spingendosi fino al Peloponneso.
Anche questa volta chi corse a fronteggiarli fu Stilicone. Noi non sappiamo come si svolsero le operazioni contro i Visigoti. Certo è che Stilicone, benché li avesse ricacciati tra le montagne dell'Elide e dell'Epiro, non riuscì ad annientarli. Dovette senza dubbio incontrare delle difficoltà o una resistenza disperata da parte del nemico, ma il fallimento dell'impresa fu dovuta  soprattutto dalla politica di Costantinopoli, favorevole ad Alarico, che nel 397 veniva nominato dux e governatore dell' Epiro e della costa illirica orientale fino a Durazzo.

Tra l'Oriente e l'Occidente la corte di Arcadio metteva dunque l'ambizioso Alarico e un popolo barbarico, che secondo la politica gretta e personale di Eutropio dovevano servire a difender l'Oriente dalla presunte mire di Stilicone e che invece costituivano una terribile minaccia per la parte occidentale dell'impero.
In effetti a queste mire limitò la sua attività Stilicone. Egli rafforzò la sua posizione personale dando in moglie ad Onorio la propria figlia Maria; in Africa nel 389 represse l' insurrezione di Gildone dando in pari tempo un colpo mortale al Donatismo che l'aveva spalleggiata; si procurò il favore dei Cristiani con l'abolizione delle feste pagane decretata con l'editto del 20 agosto del 399; temendo un' invasione restaurò le mura di Aureliano; infine si recò in Gallia per reclutarvi nuove milizie.

Si trovava Stilicone lontano dall' Italia, quando Alarico, non si sa bene da quali ragioni spinto, si dirigeva con i suoi Visigoti verso le Alpi (fine del 400), mentre un altro capo barbaro, Radagaiso, con un'accozzaglia di armati penetrava nella Rezia.
Nel 401 Alarico investì ed espugnò Aquileia, al Timavo sconfisse lo scarso numero di milizie mandate a fronteggiarlo e, dopo di aver conquistata l' Istria e la Venezia, puntò verso Milano, dove Onorio risiedeva con la sua corte e vi sarebbe giunto se non lo avesse prevenuto Stilicone, il quale, ricacciata dalla Rezia l'orda di Radagasio, si presentò fulmineamente sotto le mura di Milano, arrestando con la sua presenza la marcia del nemico. 
Alarico, ch'era già pervenuto al pons Aureoli, ritornò nella Venezia (fine del 401) dove pose i quartieri d'inverno, mentre Stilicone conduceva Onorio a Ravenna, che per la sua posizione e le sue fortificazioni era considerata un rifugio sicuro. 
Le ostilità furono riprese alla fine dell' inverno. Stilicone, che aveva rinforzato il suo esercito con milizie richiamate dal Reno e dalla Britannia, si era accampato a Pollenzo, nella valle del Tanaro, e qui ebbe luogo la più grande battaglia di quella guerra. 

Era il 6 aprile del 402, giorno di Pasqua, e si era da entrambe le parti convenuta una tregua per tutta la durata del giorno, ma Saulo, comandante della cavalleria, romana, venendo meno ai patti attaccò la cavalleria nemica e la battaglia ben presto divenne generale.
Discordanti sono le notizie sull'esito della battaglia di Pollenzo; ma si sa che gravissime furono le perdite nell'uno e nell'altro schieramento e che Alarico, ripassato il Po, si rifugiò ad Asti. Qui venne stipulato un accordo in virtù del quale Alarico riceveva passo libero attraverso la valle padana.
Il re dei Goti però non aveva fretta di lasciare l' Italia per tornarsene nell' Illiria e non aveva intenzione di mantener fede ai patti. L'anno dopo difatti lo troviamo a Verona e qui si prepara a resistere a Stilicone che senza indugio muove contro di lui.
Presso l'Adige, nell'estate del 403, fu combattuta una seconda battaglia, che finì con la sconfitta dei Goti. Alarico, arretrando fino a Verona, fu assediato, ma Stilicone non riuscì né a catturarlo né a sterminare l'esercito nemico; i Goti, fatta un'improvvisa, sortita, si aprirono un varco con le armi  riuscendo così a mettersi in salvo oltre le Alpi.

Nel 404 Roma celebrò le vittorie sui Goti, e il nome di Stilicone, sulle bocche di pagani e Cristiani, suonò come quello del salvatore dell'Italia. 
Ma se un pericolo era stato allontanato un altro si avvicinava minaccioso. Un'orda di Sarmati e Goti, popolazioni costrette dagli Unni a trovarsi nuove terre, calava nella Pannonia e si dirigeva verso l'Italia. I barbari si facevano ascendere a circa trecentomila ed erano comandati da RADAGAISO, di stirpe gotica. Calarono facilmente dalle Alpi e, poichè Stilicone si era chiuso a Pavia non avendo forze sufficienti per fronteggiarli, dilagarono nella valle padana saccheggiando e devastando ogni paese, poi giunti in Liguria, per i passi indifesi degli Appennini scesero verso la Toscana.

Stilicone non rimase a Pavia: quando il nemico ebbe passato il Po, raccolse tutte le truppe possibili e con grande rapidità scese dalla Lunigiana verso il centro della penisola e presso Fiesole diede battaglia a Radagasio. Là vittoria arrise all'esercito imperiale; dei barbari fu fatto un orrendo macello e i prigionieri furono così tanti che di ciascun d'essi si vendette come schiavo a un prezzo irrisorio.
Radagasio tentò di mettersi in salvo con la fuga, ma fu raggiunto ed ucciso. Fu questo l'ultimo servizio reso da Stilicone all' impero e in particolar modo all'Italia. 
Per salvare la penisola prima da Alarico e poi da Radagasio egli era stato costretto a chiamare dalle frontiere del Reno gran parte delle milizie che vi stavano a presidio e che tenevano a freno le popolazioni germaniche sempre più premute dagli Unni.
L' Italia quindi era stata salvata ma le province settentrionali, lasciate indifese, erano state sacrificate.

 Sul finire del 406 Vandali, Alani, Svevi, Franchi e Burgundi invadevano dal Reno la Gallia, spingendosi, fra i saccheggi e le devastazioni, fino all'Aquitania. All'invasione nemica, che nessuno poteva contenere, si aggiunse la sedizione militare. Approfittando dell'anarchia in cui l'Occidente era caduto, le milizie che stavano di guarnigione, in Britannia si ribellarono ed acclamarono imperatore un certo FLAVIO CLAUDIO COSTANTINO, che, passato nella Gallia, anziché combattere contro i barbari, riunì sotto di sé le truppe che si trovavano in quella provincia e si preparò a resistere ad Onorio.
Contro l'usurpatore fu mandato SARO, generale valoroso di stirpe gotica, che in parecchi scontri riportò dei grandi successi sulle milizie ribelli; ma, disponendo di poche truppe, ben presto venne sopraffatto e fu costretto a ritornare in Italia.

Contro tanti nemici Stilicone comprese che era follia voler combattere da solo e concepì il disegno di far passare Alarico e i suoi Visigoti al servizio di Onorio. D'accordo con l' imperatore avviò trattative con Alarico cui promise la prefettura dell' Illirico.
Alarico doveva in compenso cedere i territori illirici che da Graziano erano stati assegnati all'Oriente e con un esercito doveva muovere verso la Gallia per cacciarne i barbari e domare la ribellione di Costantino. 
Alarico accettò e si diede a raccogliere soldati per invadere l' Epiro, ma l' impresa fu ostacolata dagli indugi di Onorio. Allora Alarico assunse un contegno minaccioso: passato nel Norico, mandò ambasciatori all'imperatore chiedendo come indennizzo delle spese sostenute negli armamenti quattromila libbre d'oro che dovettero essergli pagate. 
Questo fatto suscitò contro Stilicone l' ira dei suoi nemici, che non erano pochi. 

L'elemento pagano d'Italia che era stato suo fiancheggiatore quando, dopo la morte di Teodosio, il generale aveva fatto cessare le persecuzioni a danno degli idolatri, dopo l'editto del 399 che vietava le loro feste gli si era schierato contro; i Cristiani erano avversari implacabili contro di lui perché aveva, cercato di porre un freno all'invadenza dell'episcopato cattolico, e attribuivano la vittoria su Radagasio non al valore di Stilicone ma alla grazia divina; in più gli Italiani in generale lo vedevano malvolentieri nell'alta carica che occupava perché di origine barbarica. 
Ma i nemici più accaniti Stilicone li aveva nella corte medesima: non pochi erano invidiosi della sua potenza e cercavano di metterlo in cattiva luce presso l' imperatore, al quale il generale, morta la figlia Maria, aveva data in sposa l'altra figlia Termanzia. 
I maligni avevano saputo abilmente insinuare in Onorio il sospetto che Stilicone volesse assicurare la successione al figlio Eucherio, al quale aveva tentato, ma invano, di dar come moglie PLACIDIA, sorella dell'imperatore; e questi aveva perduta la fiducia nel suo ministro, che veniva anche accusato di segrete intese con i barbari che avevano invasa la Gallia.

Mentre i nemici, tra cui erano Placidia ed Olimpio, ufficiale delle guardie palatine, tramavano la rovina di Stilicone, venne a mancare (maggio del 408) ARCADIO, lasciando il trono al figlio TEODOSIO II, che contava appena sette anni. Stilicone, che non aveva mai abbandonato il pensiero di mettere l'Oriente sotto la tutela di Onorio, era convinto che era giunto il momento di agire ed espresse all'imperatore il desiderio di esser mandato a Costantinopoli. Ma Onorio pensò che il suo generale volesse recarsi in Oriente per spodestare Teodosio e metter sul trono il figlio Eucherio, e, quando a Pavia Olimpio fece scoppiare una sommossa fra un corpo di milizie che dovevano partire per la Gallia e chiese che Stilicone fosse arrestato, non esitò a firmare un decreto contro colui che per due volte gli aveva salvato il trono.
Avvisato del pericolo che correva, Stilicone andò a Ravenna e si rifugiò in una basilica. Era un asilo inviolabile, ma non salvò Stilicone dal tradimento. Un messo inviato dall'imperatore andò a giurargli  non gli sarebbe stato fatto nessun male e convinse Stilicone ad uscire; ma appena fuori, dei sicari che lo aspettavano al varco gli si buttarono addosso e lo trucidarono (23 agosto del 408).

ALARICO

OLIMPIO prese così il posto del morto Stilicone ed ebbe da Onorio il titolo di maestro degli uffici. Gli atti da lui compiuti, appena venuto in possesso dell'alta carica di ministro e consigliere dell'imperatore, ci mostrano quant'egli fosse feroce e privo di tatto politico. I barbari assoldati da Stilicone e rimasti fedeli alla memoria del prode  generale furono in parte trucidati con le loro donne e i loro figli: i superstiti temendo di fare la stessa fine, lasciarono l'Italia e corsero, avidi di vendetta, nel Norico a mettersi sotto le insegne di Alarico; Termanzia (la seconda figlia di Stilicone che aveva sposato Onorio) fu rimandata a Serena, vedova di Stilicone; Eucherio fu messo a morte e il sicario, Eracliano, si ebbe in premio la carica di governatore dell'Africa. 
Il14 novembre del 408 fu emanato un editto che escludeva dalle cariche della corte e dell'esercito i
pagani e gli eretici, provocando l'allontanamento dei generali barbari - pagani e ariani - i quali corsero ad arruolarsi sotto Alarico; il 13 novembre un secondo editto ristabiliva la giurisdizione civile dell'episcopato che Stilicone aveva ridotta; il 19 dello stesso mese con un terzo editto si ordinava che i templi pagani fossero demoliti a cura dei vescovi e che le rendite fossero devolute all'esercito.

Nel frattempo Alarico si faceva vivo. Egli si diceva animato dal proposito di pace e prometteva all'imperatore che si sarebbe ritirato dal Norico alla Pannonia, ma a patto che gli dessero una non certa somma di denaro e come ostaggi EZIO e GIASONE che avrebbe ricambiato con alcuni nobili del suo popolo. 
Ma nelle proposte di Alarico, di pacifico non c'era che il tono; pure se Onorio non fosse stato quell'inetto che tutti conoscevano, sapendo la sua debolezza avrebbe temporeggiato e si sarebbe dato a raccogliere forze. Invece respinse con arroganza le proposte del re dei Visigoti e, seguendo il consiglio di Olimpio, divise il comando delle poche forze che aveva fra tre generali di scarsa abilità, Turpilione, Varane e Vigilanzio, i quali, anziché condurre l'esercito alle porte d' Italia per opporlo ad una sicura invasione dei Visigoti, lo ammassarono intorno a Ravenna, dov'era la corte imperiale.

Così Alarico riuscì quasi indisturbato a scendere dalle Alpi, a passare il Po e per Rimini e il Piceno dirigersi alla volta di Roma. L'esercito di Onorio non si mosse a contrastare il passo al barbaro e le soldatesche di costui, saccheggiate Aquileia, Altino, Concordia, Cremona e parecchie altre terre, giunsero nell'autunno del 408 sotto le mura. di Roma.
Mai dopo la calata di Brenno e la giornata dell'Allia, si era più visto un esercito di barbari sotto le mura della metropoli. Lo stesso Annibale non aveva osato avvicinarsi neppure dopo le sue clamorose vittorie. I cittadini furono presi dallo sgomento e si chiusero dentro la cinta di mura Aureliane e, trovando inspiegabile il fatto che i Visigoti avevano potuto spingersi fino a Roma senza incontrar resistenza, gridarono al tradimento. 
La vittima innocente fu Serena, vedova di Stilicone. Accusata di avere invitato Alarico in Italia per vendicare il marito. Comparsa davanti al Senato, venne condannata alla pena
capitale.

Il sangue dell' infelice donna non fece migliorare le condizioni della città. Alarico, non osando o non volendo assalirla, Roma la cinse d'assedio ed aspettò che i cittadini si arrendessero per fame. Erano lontanissimi i tempi in cui, sotto il richiamo dei padri e dei consoli, patrizi e plebei correvano ad arruolarsi sotto le insegne delle repubblica e le mura improvvisamente si riempivano di armati o dalle porte uscivano con coraggio indomito i legionari per affrontare i nemici della patria. 
Nessuno chiamò alle armi i Romani e questi rimasero bloccati fino a quando la fame e la pestilenza li costrinsero a intavolar trattative coi barbari.
Al campo nemico furono mandati come ambasciatori Basilio, governatore della città, e il tribuno dei notari Giovanni. Essi cercarono d'intimorire il re dei Visigoti e di indurlo a non porre condizioni dure di pace dicendo che Roma era piena di armati decisi a ributtare gli assedianti. Ma Alarico rispose beffardamente che "...quanto il fieno è più fitto tanto meglio si falcia"; poi chiese che gli dessero tutto l'oro, l'argento e gli oggetti preziosi che erano a Roma e che si liberassero tutti gli schiavi di origine barbarica.
Avendogli uno degli ambasciatori domandato: « E che rimarrà allora a noi ? »Alarico laconicamente rispose: « La vita! ».

Il Senato stimò inaccettabili le condizioni e l'assedio continuò. Ma la resistenza non poteva durare a lungo. Stremata dalla fame e tormentata dalle malattie, Roma inviò altri ambasciatori ad Alarico che questa volta fu più mite: chiese cinquemila libbre d'oro, trentamila d'argento, quattromila tuniche di seta, tremila pezze di scarlatto, tremila libbre di spezie, e in ostaggio i figli dei maggiorenti della città; chiese inoltre che il Senato persuadesse l' imperatore a dargli il comando dell'esercito. 
Le condizioni furono accettate e per pagare le somme richieste fu imposto un tributo straordinario ai più ricchi, e non bastando questo, si spogliarono i templi degli ornamenti preziosi. Quarantamila schiavi lasciarono Roma e passarono al campo di Alarico, che, rimosso l'assedio, si ritirò nell'Etruria ad aspettarvi che Onorio gli conferisse il comando delle milizie imperiali.

Alla corte di Ravenna intanto Olimpio, caduto in disgrazia, era stato soppiantato da GIOVIO, che aveva ricevuto la carica di prefetto della guardia. Seguendo la politica di Stilicone, Giovio era di parere che si dovesse mettere Alarico al servizio dell'impero, trattarlo da amico e giovarsene contro Costantino, l'usurpatore della Gallia e della Britannia. Volendo mettere in pratica il suo disegno, invitò Alarico ad avvicinarsi a Ravenna per avere un abboccamento. Alarico levò il campo dall'Etruria e si recò a Rimini dove lo raggiunse Giovio. Qui furono iniziate le trattative: il re dei Visigoti domandò il comando supremo dell'esercito, un tributo annuo di viveri e denaro e la Venezia, il Norico e la Dalmazia per potervi stanziare il suo popolo. Onorio, informato delle richieste del barbaro, malgrado Giovio gli consigliasse di conferire ad Alarico il comando dell'esercito per indurlo con questa concessione a pretese più miti, rispose che soltanto viveri e stipendi intendeva accordare, non terre e cariche. 
La risposta dell' imperatore troncò le trattative e Giovio, ritornato a Ravenna, per non perdere il favore di Onorio giurò con tutti gli altri ufficiali che avrebbe continuato la guerra.

Mentre a Ravenna si facevano i preparativi contro Alarico, questi muoveva da Rimini, per la seconda volta, verso Roma. Durante il cammino volle fare un ultimo tentativo di piegare Onorio e gli mandò come ambasciatori alcuni vescovi per mezzo dei quali, rinunziando al comando militare, alla Venezia e alla Dalmazia, chiedeva soltanto che gli fosse concesso il Norico e un tributo annuo di viveri.
Chi non aveva saputo impedire l' invasione della penisola e l'assedio di Roma poteva non considerare eccessive le pretese di Alarico; ma anche questa volta Onorio disse di no, lasciando che sulla metropoli si sfogasse l' ira del sovrano dei Visigoti.

Alarico, senza perder tempo, passò nel Lazio, si impadronì di Ostia, mise il blocco a Roma e intimò al Senato di deporre Onorio e proclamare un nuovo imperatore. Il Senato, sotto la minaccia della fame; non poteva fare altro che ubbidire e, deposto Onorio, proclamò PRISCO ATTALO, prefetto della città, greco d'origine, uomo ricchissimo e di fede ariana, che creò Alarico comandante supremo dell'esercito e il cognato di costui, ATAULFO, capo della guardia palatina.
L'assunzione di Attalo al trono ebbe gravissime conseguenze per il vettovagliamento
della penisola. Dopo che l' impero era stato diviso in due e l' Egitto era stato unito all'Oriente, l' Italia riceveva la maggior parte del grano necessaria al suo sostentamento dall'Africa. Ma di questa provincia era governatore una creatura di Onorio: ERACLIANO. Questi naturalmente non volle riconoscere Attalo e minacciò di affamare Roma sospendendo gli invii di frumento. Per Attalo ed Alarico era necessaria perciò una spedizione contro Eracliano; la spedizione fu fatta, ma alla testa di essa non fu messo, come Alarico desiderava, un generale goto, ma un romano, che venne sbaragliato da Eracliano.
 Alarico insistette perché si desse il comando di una nuova spedizione a un barbaro, ma Attalo, diffidando dei Visigoti, rifiutò, alienandosi in tal modo le simpatie di colui che lo aveva fatto eleggere dal Senato.

Ad Alarico frattanto venivano da Ravenna richieste di trattative. Onorio, spinto da Giovio, cercava di trarsi dalla difficile situazione in cui si trovava. Egli aveva riconosciuto Costantino come suo collega nella speranza che lo aiutasse nella guerra contro i Visigoti, ma non aveva ricevuto un sol uomo; aveva richiesto aiuti da Costantinopoli al nipote Teodosio II ma non aveva ricevuto che seimila soldati, aveva perfino proposto ad Attalo di divider con lui l' impero. Non sapendo più come trarsi d'impaccio, mandò a Rimini, dove Alarico si trovava con il suo esercito, Giovio perché fossero riprese le trattative con il re dei Visigoti e questi per mostrare le sue intenzioni favorevoli ad un accordo, fatto venire presso di sé Attalo, lo spogliò delle insegne imperiali che mandò ad Onorio.

Le trattative erano a buon punto quando un improvviso attacco di Saro le mandò a monte. 
SARO era uno dei più prodi generali di Onorio e noi lo abbiamo visto combattere in Gallia contro Costantino. Goto di origine, era nemico personale di Ataulfo. Uscito da Ravenna con alcune centinaia di soldati assalì improvvisamente gli avamposti dei Visigoti e ne fece una strage. Poco mancò che Alarico non cadesse prigioniero. Infiammato di sdegno, il re barbaro decise di sfogare la sua collera contro Roma e, levato il campo da Rimini, si mise in marcia alla volta della metropoli.
Roma sapeva che non poteva sperare misericordia da Alarico e perciò si apprestò alla difesa. La cinta di Aureliano, riparata da Stilicone, rappresentava un baluardo insormontabile per un esercito che, come quello dei Visigoti, difettava di macchine da assedio, era più adatto alle operazioni in campo aperto che non all'assalto di ben munite fortezze; le vettovaglie copiose, con molto opportunismo accumulate nei magazzini della città, assicuravano la resistenza per lunghi mesi.

Lunga fu infatti la resistenza di Roma, ed Alarico solo con il tradimento riuscì a penetrarvi. Varie sono le leggende sulla caduta della metropoli. Secondo una tradizione gotica, riportata da Procopio, Alarico scelse trecento giovani animosi e li mandò al Senato romano in offerta. Si diceva ammirato della superba resistenza di Roma e aveva deciso di toglier l'assedio e di offrire in ricordo ad ogni senatore un giovane schiavo. Ma l'offerta celava l' insidia. I giovani goti, una notte, assalirono improvvisamente la guardia del presidio di porta Salara e aprirono la porta ad Alarico, che riuscì così a penetrare nella città.

Secondo un'altra leggenda, chi tradì Roma fu proprio una matrona romana: Proba Faltonia. Impietosita delle misere condizioni in cui versava la città, volle porre termine alle sofferenze dei suoi concittadini, dando in mano di Alarico Roma, dopo aver fatta assalire porta Salara da una schiera di schiavi. Entrambe le leggende da noi riferite risultano prive di un qualsiasi fondo di verità.  Non è infatti ammissibile che il presidio di porta Salara, il punto più minacciato dal nemico e perciò meglio custodito, si lasciasse sorprendere e sopraffare da un manipolo di giovani che non si sa dove avessero potuto munirsi di armi.
È fuori di dubbio però che la caduta di Roma fosse dovuta ad un tradimento. Se questo venne tramato dargli ariani di Roma, come qualche storico sospetta, non sappiamo.

Alarico entrò a Roma la notte dal 23 al 24 agosto del 410. Dopo otto secoli da quando Brenno alla testa dei suoi Galli aveva calcato coi suoi rozzi calzari il suolo della città eterna, un altro barbaro entrava da conquistatore nell' Urbe ch'era stata signora del mondo. 
Il quartiere di porta Salara venne incendiato e le fiamme distrussero i famosi Orti sallustiani; non poche case negli altri quartieri vennero distrutte; ma esagerò certamente chi scrisse che la città fu quasi rasa al suolo. Tre giorni durò il saccheggio di Roma e sui cittadini più che sugli edifici infuriò la ferocia dei Visigoti, i quali tuttavia risparmiarono quanti cercarono asilo nelle basiliche, specie in quelle di S. Pietro e S. Paolo. I danni maggiori furono senza dubbio prodotti dagli schiavi liberati che si erano uniti alle orde dei Visigoti; si vendicarono delle angherie dei loro ex padroni, andandoli a cercare uno per uno.

Alarico avrebbe potuto proclamarsi imperatore. Non volle. Il suolo di Roma gli scottava sotto i piedi. Egli sapeva ch'enorme sarebbe stata l'impressione che avrebbe prodotta nell'anima degli Italiani la notizia del saccheggio della metropoli e ne temeva le conseguenze; sapeva anche che non era cosa facile regnare in una regione che aveva riempita di stragi e dove sarebbe stato esposto alle offese di Eracliano, di Costantino, di Onorio e di Teodosio II. Alarico non cercava, oltre le ricchezze, che una provincia dove potere stanziare il suo popolo e forse fin dal primo assedio di Roma pensava all'Africa, lontana dalle convulsioni dei popoli che in Europa rendevano instabili i regni. Con il proposito di trasferirsi in Africa, Alarico lasciò Roma, spoglia di ogni ricchezza, e si avviò verso il sud, traendosi dietro una moltitudine di prigionieri tra cui GALLA PLACIDIA, nata dal secondo matrimonio di Teodosio I con la figlia di Valentiniano I.
La Campania e il Bruzio, con le sue città fiorenti, vennero devastati dal passaggio dell'orda dei Visigoti, i quali giunti all'estremità della penisola, con le navi raccolte nei porti dell' Italia meridionale, si accinsero a passare lo stretto. Ma una furiosa tempesta distrusse la flotta e salvò la Sicilia.
Poco tempo dopo (autunno del 410) Alarico, colto da violentissima malattia, morì all'età di circa trent'anni. 
Secondo una leggenda, i Visigoti deviarono il corso del Busento, presso Cosenza, scavarono nel letto del fiume una tomba e vi seppellirono il loro re vestito delle sue armi e contornato di ingenti tesori, poi rimisero le acque nell'alveo e affinché i nemici non profanassero il sepolcro uccisero tutti gli schiavi che erano stati impiegati nel lavoro.

I VISIGOTI NELLA GALLIA

Ad Alarico successe come re il cognato Ataulfo, che, smessa l' idea di passare in Sicilia e in Africa, rimase in Italia. Dice uno storico (Jordanis) che il nuovo re tornò a Roma, la quale venne nuovamente saccheggiata; ma altri storici non fanno parola di questo nuovo sacco. 
Due anni rimase Ataulfo nella penisola. Era con lui Galla Placidia, che il barbaro teneva con sé per premere su Onorio ed anche - e forse più - perché se n'era follemente invaghito e desiderava sposarla. Più che la sorella però influirono sull'animo di Onorio il desiderio di liberare l'Italia dagli incomodi ospiti, e per le condizioni in cui versava la Gallia. 
Qui Costantino aveva dovuto lottare per tre anni contro i barbari e con l'opera del figlio COSTANTE che aveva nominato Augusto era riuscito nel 409 a liberare la Gallia, sterminando i Burgundi e costringendo gran parte degli Alani, dei Vandali e degli Svevi a passare i Pirenei. I primi si stanziarono nella Lusitania e nella provincia di Cartagena, gli Svevi nella Galizia, i Vandali nella Betica cui diedero il nome di Vandalusia che poi si mutò in quello di Andalusia. Anche dalla Spagna, Costantino era riuscito a cacciare i barbari e proprio con questo scopo aveva mandato nella penisola iberica un suo generale, GERONZO, il quale però, ribellatosi, assalì Costante e l'uccise.

Rifugiatosi ad Arles, Costantino aveva chiamato in aiuto i Franchi e gli Alemanni, ma a questo punto era intervenuto Onorio. Questi aveva inviato in Gallia, per sottrarla all'usurpatore, Costanzo, suo valorosissimo generale, il quale, sconfitto Geronzo, lo aveva costretto a rifugiarsi in Spagna, dove poco tempo dopo veniva messo a morte; poi presa Arles, aveva catturato Costantino, lo aveva inviato in Italia, e qui era stato giustiziato (411).
Malgrado questi buoni risultati, la Gallia non era ancora tranquilla: bande di Alani vi erano rimaste, molte città si erano rese autonome per provvedere alla propria difesa e nella regione del Reno un altro pretendente era spuntato, GIOVINO, che era stato acclamato imperatore dalle truppe.

Per allontanare i Visigoti dall'Italia e per servirsi di loro nella lotta contro Giovino e i barbari della Spagna, Onorio offrì ad ATAULFO di andare in Gallia. Non sappiamo quali fossero i risultati delle trattative tra il successore di Alarico e l' imperatore né se questi desse il consenso al matrimonio tra il goto e Galla Placidia; è certo però che nel 412 i Visigoti lasciarono l'Italia (sempre con Placidia in ostaggio) e combatterono per oltre un anno e mezzo, d'accordo con Costanzo, contro le bande barbariche e Giovino, che fu alla fine vinto. La stessa sorte toccò ad un altro usurpatore, Sebastiano.
 Nel 414 la Gallia potè dirsi assicurata ad Onorio. In questo stesso anno, a Norbona, Ataulfo con grandissima pompa sposò la sorella dell'imperatore, poi si recò in Spagna per liberarla, a nome di Onorio, dai Vandali, dagli Svevi e dagli Alani.

Ataulfo fissò il suo quartier generale a Barcellona e qui nei 415 la moglie diede alla luce un figlio cui fu posto il nome di Teodosio; ma morì nel medesimo anno e poco tempo dopo Ataulfo lo seguì nel sepolcro. Lo uccise un ex-ufficiale di Saro, nemico, come si è detto, di Ataulfo. Da un audace manipolo di partigiani fu gridato re il fratello di Saro, Sigerico, che, appena eletto, fece uccidere barbaramente i figli che Ataulfo aveva avuto dal suo primo matrimonio. 
Il regno di Sigerico non durò che una settimana: i Visigoti lo trucidarono e offersero la corona a VALLIA, loro generale.
I rapporti tra Vallia ed Onorio furono eccellenti. In nome dell' impero, il nuovo re dei Visigoti dal 416 al 418 continuò a combattere contro i barbari che si erano stabiliti nella Spagna, ma non riuscì a liberare interamente la regione: gli Alani furono, è vero, sterminati, però gli Svevi rimasero nella Galizia e dei Vandali parte fu costretta a insediarsi presso gli Svevi, e parte fu spinta nell'estremità meridionale della Betica.

In premio dei suoi servizi, Vallia si ebbe l'Aquitania, dai Pirenei alla Garonna, che fu costituita in stato vassallo dell' impero. La sua capitale fu Tolosa. Vallia consegnò Attalo ad Onorio, che gli fece tagliare la mano destra e lo relegò all' isola di Lipari. GALLA PLACIDIA venne restituita al fratello e fu data in sposa al generale COSTANZO.

L'anno medesimo che Vallia riceveva l'Aquitania, gravi contrasti scoppiavano fra i cattolici di Roma. Era morto il vescovo (papa) Zosimo e due ecclesiastici se ne contendevano la successione: Eulalio e Bonifacio. Il primo venne eletto papa il 27 dicembre; il giorno dopo dai suoi partigiani venne eletto l'altro. Il 29 dello stesso mese ebbe luogo la consacrazione dei due papi: Eulalio fu ordinato nella chiesa di Laterano alla presenza del vescovo di Ostia; Bonifacio in quella di Marcello alla presenza di nove vescovi. 
Informato del fatto Onorio convocò nella fine dell' inverno del 419 un concilio di vescovi per definire la contesa, ma il consiglio si chiuse senza aver deciso nulla e l' imperatore ne convocò un altro per il successivo maggio ordinando ai due contendenti che si allontanassero da Roma e inviando temporaneamente nella sede episcopale vacante Achilleo vescovo di Spoleto. 
Invece di ubbidire all'ordine imperiale, Eulalio il 18 marzo, spalleggiato dai suoi fiancheggiatori, tornò a Roma e penetrò a viva forza nel palazzo lateranense, provocando con il suo contegno gravi disordini in città. Allora l' imperatore non aspettò che si riunisse il concilio per decidere. L' 8 aprile dichiarò decaduto Eulalio e riconobbe papa legittimo BONIFACIO che il 10 prese possesso del seggio fra l'entusiasmo della popolazione.

Non avendo figli, dietro consiglio della sorella Onorio l' 8 febbraio del 421 si associò all'impero il cognato Costanzo, ma il prode generale che tanti e eccellenti servizi aveva reso e che altri e maggiori indubbiamente ad Augusto avrebbe resi, morì nell'estate di quell'anno.
Con la morte di Costanzo, i rapporti tra Onorio e la sorella, che non erano stati mai buoni peggiorarono e il dissidio divenne così acuto che nel 423 Galla Placidia, coi due figli Valentiniano ed Onorio, dovette lasciare Ravenna e recarsi a Costantinopoli alla corte di Teodosio II.

Non molto tempo dopo, il 15 o il 27 agosto del 423, Onorio moriva. L'imbelle imperatore aveva regnato circa trent'anni e lasciava l'impero di Occidente in uno stato pietoso. Le migliori province che Roma tanto aveva stentato a sottomettere erano state abbandonate o invase. La Britannia, dal 409, era stata lasciata in balia di sé stessa, dei Pitti e degli Scotti, ed esposta alle scorrerie dei pirati germanici (nel 441 i Sassoni, chiamati dalle popolazioni indigene, si stanzieranno nel delta del fiume Stone). Gran parte della Spagna era in mano degli Svevi, dei Vandali e di qualche banda superstite di
Alani. Della Gallia l'Aquitania era sotto i Visigoti, federati dell'impero, ma pronti a ingrandire i loro domini a spese di esso, infatti la regione intorno a Magonza era stata verso il 413 ceduta ai Burgundi mentre i territori del basso Reno erano occupati dai Franchi. Nella Pannonia infine erano penetrati gli Unni. 
A tale stato avevano ridotto l' impero d'Occidente la politica fiacca di Onorio e le relazioni delle corti di Ravenna e Costantinopoli.

Pareva che la morte di Onorio dovesse sanare alcune delle numerose piaghe lasciate dall'imperatore e che dovessero le due parti dell'impero romano riunirsi sotto lo scettro di TEODOSIO II. Questi, difatti si proclamò imperatore dell'Occidente e dell'Oriente, ma spuntò subito  in Italia un pretendente a contendergli i domini di Onorio: GIOVANNI, primicerius notariorum, capo dei notari imperiali, il quale, presa la porpora a Ravenna e sapendo di non aver forze sufficienti da opporre a Costantinopoli, s'affrettò a mandare EZIO, suo maggiordomo, in Pannonia per assoldarvi un esercito di Unni. 
FLAVIO EZIO era figlio di madre italiana e del magister equitum Gaudenzio, della Mesia; entrato giovanissimo nell'esercito, era rimasto tre anni come ostaggio presso Alarico (con lei c'era pure Placidia) e per parecchio tempo, in qualità pure di ostaggio, era vissuto presso gli Unni; tornato a Ravenna era stato nominato comes della guardia e maggiordomo.

Mentre Ezio si recava in Pannonia, Giovanni mandava la maggior parte delle truppe, di cui disponeva, in Africa, contro il governatore Bonifacio che si era schierato in favore di Teodosio II. Questi intanto, smesso il pensiero di governare da solo, proclamava Augusto il cugino Valentiniano II, lo fidanzava con la figlia Eudossia e poiché il figlio di Costanzo e di Galla Placidia,  non aveva che sei anni lo metteva sotto la tutela della madre e con essa lo mandava in Dalmazia, accompagnato da una flotta perché di là proseguisse per l' Italia. Un'altra flotta con un numeroso esercito al comando di Aspare la mandò a Ravenna per abbattere Giovanni (425). La sorte dell'infelice usurpatore era segnata: rimasto con poche milizie, non poteva far fronte a forze così imponenti; si chiuse quindi in Ravenna aspettando l'arrivo di Ezio, ma la città cadde in potere dei Bizantini e Giovanni, fatto prigioniero, venne mandato ad Aquileia, dove Galla Placidia e Valentiniano erano giunti, e qui fu giustiziato.

Non era passato molto tempo dalla morte di Giovanni quando EZIO, alla testa di sessantamila Unni, si presentava. alle porte d'Italia. Giungeva tardi e non riusci a far di meglio che accordarsi con Galla Placidia, che lo fece insignire della dignità di comes e lo mandò in Gallia a combattere contro i Visigoti che tenevano assediata Arles. 
Nello stesso periodo un popolo barbarico che pareva si fosse accontentato del dominio di un remoto angolo della Spagna prende di nuovo in mano le armi contro l' impero d'Occidente: i VANDALI.

Si vuole che il loro passaggio in Africa sia stato provocato dal governatore di quella provincia: Bonifacio. Ezio, geloso di lui che aspirava alla carica di magister militum, avrebbe  persuaso Galla Placidia di richiamare in Italia il governatore accusandolo d'infedeltà, e nello stesso tempo avrebbe segretamente avvertito Bonifacio di non venire perché la corte voleva disfarsi di lui. 
Bonifacio, esonerato dalla carica, sentendosi forse giocato, avrebbe per vendetta chiamati in Africa i Vandali. Ma questa molto probabilmente non è che una leggenda: nessuna prova abbiamo della trama ordita da Ezio e per giunta sappiamo che Bonifacio si oppose con le armi all' invasione dei Vandali.

È meglio ricercare le cause del passaggio dei Vandali in Africa nelle condizioni in cui questo popolo si trovava. Queste condizioni non erano certo invidiabili: sospinti dai Visigoti nell'estremità meridionale della Spagna, preoccupati dalle minacce della corte di Ravenna, la quale prima o poi avrebbe tentato di cacciarli da quel territorio in cui si erano rifugiati, non potevano non pensare a trovarsi sedi più sicure. Il loro spirito irrequieto li spingeva a tentare avventure, la ricchezza dell'Africa vicina li attirava, e gli scarsi presidi imperiali li assicurava della facilità dell' impresa, inoltre c'era l'ambizione del loro re li spronava. Era questi GENSERICO, figlio naturale di Godigiselo, salito al trono nel 428 dopo la morte del fratellastro Gunderico.
Quest'uomo che farà parlare molto di se, per quasi mezzo secolo, era di media statura, zoppo d'un piede per una caduta da cavallo, taciturno e
di animo risoluto.
Doveva essere bene informato delle condizioni dell'Africa, doveva sapere qualcosa dei dissidi religiosi che la tormentavano, del malcontento delle popolazioni, delle frequenti ribellioni, dell'atteggiamento dei Mauri perennemente ostili all'impero. Queste condizioni erano favorevoli ad una impresa di conquista tentata da un popolo di guerrieri come i suoi, che contava ottantamila anime.

Maturato il suo disegno, Genserico ne intraprese l'attuazione nel 429. Nella primavera di quell'anno passò con il suo popolo nella Mauritania e iniziò la conquista dell'Africa. Invano Bonifacio con le scarse milizie di cui disponeva tentò sbarrare il passo ai barbari: fu sconfitto e costretto a chiudersi a Ippona, entro le cui mura poteva opporre maggior resistenza al nemico. 
Dentro Ippona, il cui seggio episcopale era allora tenuto da S. AGOSTINO, si rifugiarono tutti i vescovi delle città occupate dai Vandali, i quali, nel giugno del 430, strinsero d'assedio la piazzaforte. S. Agostino non vide la caduta della sua città, essendo morto il 28 agosto. Ippona resistette quattordici mesi e non sarebbe venuta forse in potere dei Vandali se Bonifacio non avesse tentato di rompere l'assedio. Ricevuti rinforzi da Ravenna, egli diede battaglia campale al nemico; ma la fortuna gli fu contraria: battuto, nel 432 con gli avanzi del suo esercito fece ritorno in Italia, lasciando Genserico padrone della Mauritania, della Numidia e di buona parte della Proconsolare.


Ci attende ora il periodo di Ezio, la calata di Attila e l'invasione degli Unni
e gli ultimi anni di ciò che era rimasto dell' Impero di Roma

cioè il periodo dall'anno  432 al 476 d.C. > > >


Fonti, citazioni, e testo
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - GARZANTI 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
IGNAZIO CAZZANIGA , 
Storia della Letteratura Latina - ed. N. Accademia - 1962
ARIES/DUBY -Dall'Impero Romano all'anno 1000 Laterza 1988 
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