ANNI 536 - 540 d. C.

LA GUERRA GOTICO-BIZANTINA - FINO A BELISARIO

VITIGE SPOSA AMALASUNTA E TRATTA CON I FRANCHI - BELISARIO ENTRA IN ROMA - SUOI PROGRESSI NELL' ITALIA CENTRALE - VITIGE ASSEDIA ROMA - VICENDE DELL'ASSEDIO - DEPOSIZIONE DI PAPA SILVERIO ED ELEZIONE DI VIGILIO - FINE DELL'ASSEDIO DI ROMA - GIOVANNI E NARSETE - DISCORDIA TRA BELISARIO E NARSETE - DISTRUZIONE DI MILANO - I FRANCHI NELL' ITALIA SETTENTRIONALE - TRATTATIVE TRA VITIGE E GIUSTINIANO - I GOTI OFFRONO LA CORONA A BELISARIO - RESA DI RAVENNA - BELISARIO TORNA A COSTANTINOPOLI - GLI OSTROGOTI ALLA RISCOSSA
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VITIGE E BELISARIO - ASSEDIO DI ROMA E RESA DI RAVENNA


Vitige era un guerriero d'indiscutibile valore: si era distinto nella guerra di Sirmio contro i Gepidi e i Bulgari, acquistandosi il titolo di armigero, aveva fornito ottime prove di sé nella guerra contro i Franchi e si era segnalato ancora contro i Gepidi nella battaglia di Singidunum; ma non era un condottiero di eserciti né un uomo politico. Eletto re, due compiti difficilissimi gli si presentavano: rafforzare la propria posizione e difendere il regno dai Bizantini che già ne occupavano metà. Sebbene riscuotesse il favore dei soldati lui non era di stirpe regia. Cassiodoro trovò una singolare formula che risolveva la questione dell'origine e in un editto rivolto ai Goti fece dire al nuovo re che, parente di Teodorico doveva essere stimato chi ne imitasse le opere (parens ipsius debet credi eius facta potuerit imitari). Ma ciò non bastava e Vitige, che ripudiata la moglie, prese in sposa la riluttante Amalasunta, sorella di Atalarico.

Quanto alla difesa dell'Italia era necessario opporsi all'avanzata di Belisario e procurarsi alleanze. Un'alleanza con i Franchi o per lo meno un accordo che assicurava la loro netraulità era indispensabile agli Ostrogoti affinché le spalle fossero sicure da un attacco nemico dalla parte delle Alpi e perché non rimanesse immobilizzata in Provenza una parte delle loro forze.

Vitige riprese le trattative che Teodato aveva iniziate con i Franchi e riuscì a concludere un trattato con il quale Teodeberto s'impegnava a non assalire i Goti e prometteva anzi un aiuto di truppe borgognone. Questo trattato dava agio a Vitige di ritirare dalla frontiera ed utilizzare le truppe che vi erano poste a difesa, ma costava non indifferenti sacrifici di territori e di denaro. Infatti, duemila solidi d'oro furono pagati ai Franchi e si cedeva loro la Provenza. Sacrificio doloroso, senza dubbio, ma richiesto dalle enormi difficoltà del momento.

Sebbene non era un uomo politico, le opere da lui compiute ci appaiono sagge, sia per rafforzar la sua posizione personale sia per togliere dall'isolamento in cui si trovava, la nazione.

Non altrettanto sagge però furono le misure da lui prese per la condotta della guerra. Napoli aveva fornito prova che si poteva resistere all'esiguo esercito bizantino e immobilizzarlo sotto le mura di una città. L'esempio di Napoli avrebbe dovuto consigliarlo a fare di Roma il fulcro della resistenza. La difesa della vecchia capitale d'Italia gli avrebbe fatto conseguire vantaggi materiali e morali non indifferenti, arrestando la marcia nemica e impedendo che Belisario, impadronendosi di Roma, apparisse come il restauratore dell'impero.

Vitige riteneva più opportuno mettere la base delle operazioni della guerra a Ravenna, consigliato forse dal fatto che i più numerosi stanziamenti di Goti erano nell'Italia settentrionale e che da Ravenna si poteva meglio difendere la porta orientale da un attacco bizantino proveniente dalla Dalmazia. Pur trasportando il suo quartier generale a Ravenna, Vitige non abbandonò Roma al nemico. Dalla popolazione si fece prestare giuramento di fedeltà e per essere maggiormente sicuro trasse con sé in ostaggio un certo numero di senatori; inoltre vi lasciò una guarnigione di quattromila Ostrogoti al comando di Leuderi. Questi soldati indubbiamente credeva che fossero sufficienti a difendere la città.

Sulla situazione politica di Roma Vitige non nutriva preoccupazioni sia perché i senatori che conduceva con sé in ostaggio gli davano affidamento della fedeltà dei cittadini sia perché la maggiore autorità romana, il papa, era un amico dei Goti. Era difatti pontefice SILVERIO, figlio di papa ORMISDA, successo ad AGAPITO ch'era morto il 22 aprile del 536 a Costantinopoli, dove Teodato l'aveva mandato come ambasciatore, e Silverio era stato imposto al clero e al popolo da Teodato.

Ma sull'amicizia del pontefice Vitige s'ingannò. Silverio era il capo della religione cattolica e, sebbene dovesse la sua altissima carica alla prepotente volontà degli Ostrogoti, non poteva in una guerra tra Ariani e Cattolici non desiderare e favorire la vittoria di questi ultimi. Si aggiunga che i Romani temevano che la città, caduta in mano dei Bizantini dopo un assedio, fosse poi saccheggiata e che un assedio non era una lieta prospettiva per i cittadini.

Non tenendo conto del giuramento della popolazione e degli ostaggi, papa Silverio invitò Belisario, per mezzo del questore Fidelio, ad entrare in città. Belisario che nel frattempo si era reso padrone dell'Apulia, accettò l' invito e lasciato a Napoli un presidio di trecento uomini, favorito dalle popolazioni e dalle diserzioni dei Goti, avanzò attraverso la via di Cassino e il 9 dicembre fece il suo ingresso a Roma dalla porta Asinaria mentre la guarnigione nemica usciva dalla porta Flaminia. Leuderi che era voluto restare in città, fedele alla consegna del re, fu fatto prigioniero e mandato a Costantinopoli con le chiavi di Roma.

Con l'occupazione di Roma Belisario veniva a trovarsi padrone di metà dell'Italia.
La Calabria aveva fatto atto di sottomissione all'impero e il Sannio ne aveva seguito l'esempio. Prima di rivolgersi all'Italia settentrionale il generale bizantino voleva assicurarsi i passi dell'Appennino e mettere Roma in stato di difesa aspettandosi un attacco da parte di Vitige. Inviò pertanto alcune schiere, comandate da Bessa e Costantino, verso l'Umbria e la Tuscia e ridusse in suo potere Narni, Spoleto e Perugia. In quest'ultima città tentarono i Goti di rientrare ma subirono uno scacco sanguinoso.

Padrone di questi posti avanzati, Belisario si diede a rifornire di vettovaglie Roma e a riparare le mura che dal tempo di Onorio non erano state più restaurate e non trascurò di chiedere rinforzi di truppe a Costantinopoli prevedendo che la guerra sarebbe stata difficile, con le notizie, che a lui giungevano, dei preparativi che faceva Vitige.

Questi difatti aveva radunato un esercito che si fa ascendere a centocinquantamila uomini. Senza aspettare che gli giungessero le truppe dalla Provenza, il 24 febbraio del 537, partì da Ravenna, sicuro di schiacciare con questo esercito poderosa che si traeva dietro l'esiguo numero dei guerrieri bizantini e di prendere d'assalto Roma.

Il primo scontro tra le numerose avanguardie gotiche e i Bizantini avvenne a ponte Salario, difeso da uno scarso presidio. Di fronte al numero preponderante dei nemici, alcune schiere, colte da panico, disertarono; il resto della guarnigione tentò la difesa, ma fu travolto. In aiuto del presidio era accorso Belisario alla testa di mille uomini, ma il suo soccorso non giunse a tempo per impedire che il nemico passasse sulla sinistra del fiume.

La schiera che Belisario conduceva con sé era tutta di cavalieri. Il generale cavalcava un superbo sauro che aveva in fronte una macchia bianca a guisa di stella e che perciò i Bizantini chiamavano "Phalion" e i Goti "Balan". Appena i nemici lo riconobbero, lo presero di mira lanciandogli un nugolo di frecce, ma, come ci narra Procopio, "nessuna, come per miracolo, colse il segno".

Il combattimento si svolse con accanimento e gli Ostrogoti, premuti dall'impeto dei cavalieri imperiali, furono costretti a ceder terreno, ma, rinforzati da altre truppe, ritornarono all'assalto con maggior violenza di prima. Visto inutile ogni tentativo di opporsi all'irrompere del nemico, Belisario con i suoi si ritirò verso le mura per entrare in città, ma trovò porta Salaria chiusa. Invano cercò di farsi aprire da quelli che erano dentro i quali, se da un canto non riconoscevano il loro generale trasfigurato dalla battaglia, dall'altro temevano che con i cavalieri bizantini entrassero le orde barbariche. Il sole volgeva intanto al tramonto e la situazione di Belisario si faceva tragica. Radunati intorno a sé i suoi, il generale bizantino caricò con estrema violenza gli Ostrogoti i quali, credendo che i nemici avessero ricevuti rinforzi, colti da sgomento, si ritirarono precipitosamente.

Con questa sanguinosa fazione cominciava l'assedio di Roma, che doveva durare un anno e nove giorni, dal marzo del 537 al marzo del 538.

Belisario disponeva di poco più che cinquemila uomini oltre la sua guardia personale, forze assolutamente insufficienti a difendere una città, che aveva un circuito di dodici miglia, contro un esercito di centocinquantamila soldati. Bisogna pertanto supporre che anche i Romani prendessero parte attiva alla difesa e che senza il loro valido concorso non sarebbe stata possibile. Tutto il merito però dell'organizzazione va dato a Belisario. Egli fece murare la porta Flaminia, assegnò la difesa delle altre porte ai suoi migliori capitani, dei quali Costantino che difendeva porta Aurelia; siccome i Goti avevano tagliati gli acquedotti, ne fece chiudere e custodire le estremità per impedire una sorpresa e, mancata l'acqua per i mulini, fece costruire nuovi mulini presso il fiume proteggendone le ruote con catene di ferro.
I primi diciotto giorni d'assedio furono dagli Ostrogoti impiegati in febbrili preparativi. La città fu circondata da sei campi, posti davanti alle principali porte; un settimo fu messo sulla destra del Tevere da cui si poteva dominare il fiume e il ponte Milvio; numerose torri di legno furono fabbricate per l'assalto delle mura e furono approntati i carri speciali che dovevano trasportarle.

Il diciannovesimo giorno Vitige ordinò che fosse dato contemporaneamente da sette punti l'assalto alla città, dopo avere invano offerto a Belisario la libera uscita con tutte le sue truppe. Fu un assalto gigantesco che durò una giornata intera e mostrò con quanto valore combattessero gli assediati. Un assalto di torri mobili piene di armati e trascinate da bovi fu nettamente spezzato dagli arcieri di Belisario posti a guardia di porta Pinciana, che, uccisi i bovi con tiro bene aggiustato di saette, immobilizzarono nell'aperta campagna le potenti costruzioni gotiche.

Sorte migliore non ebbe il tentativo di conquistare la porta Prenestina, difesa da un muro in parte diroccato (murus ruptus) e che rappresentava il punto più debole delle opere difensive romane. I Goti erano già riusciti a penetrare nel Vivario quando Belisario, informato del pericolo che correva la città da quella parte, uscì dalla porta con un agguerrito contingente di soldati e piombò alle spalle del nemico sgominandolo.
Sorse poi la leggenda che quel giorno sul muro rotta fosse apparso S. Pietro e, saettando gli assalitori, li avesse messi in fuga. Più accanito di tutti gli altri, fu poi l'assalto che gli Ostrogoti sferrarono a Trastevere contro la mole Adriana che, per mezzo di un muro, era collegata alla porta Aurelia.
Ributtati dalla porta Tiberina per il pronto accorrere di Costantino, i nemici diedero un assalto furioso alla mole e vi giunsero sotto così rapidamente che i difensori non fecero a tempo a mettere in opera le baliste. Posti a mal partito, fecero uso delle numerose statue che coronavano la Mole Adriana: ridotte in frammenti, mandarono una pioggia di schegge marmoree sugli assalitori che furono costretti a ritirarsi con gravissime perdite.

La giornata si chiuse con lo, scacco completo degli Ostrogoti, i quali, al dir di Procopio, che indubbiamente esagera le cifre, lasciarono sotto le mura trentamila morti ed ebbero altrettanti feriti.

Vitige si vendicò della sconfitta mandando ordine a Ravenna di mettere a morte i senatori che aveva ricevuto in ostaggio, poi occupò Porto tagliando da questa parte a Roma gli approvvigionamenti. Non gli riuscì però di impadronirsi di Ostia e da quella parte Roma riuscì ancora, sebbene con molte difficoltà, a comunicare col mare. Ma l'occupazione ostrogota di Porto era stata un grave colpo per i difensori, e Belisario, prevedendo la lunga durata dell'assedio e le difficoltà del vettovagliamento, fece allontanare le donne e i fanciulli, che furono trasferiti nella Sicilia e nella Campania, mise poi a mezza razione i soldati e si servì degli uomini più validi per la difesa delle mura.

Vitige, reso prudente dall' infelice esito dell'assalto, si guardò bene dal rinnovarlo e stabilì di prendere Roma per fame. Belisario invece aveva tutto l'interesse di impegnare il nemico con frequenti sortite per tenere in esercizio le sue truppe, specie i cittadini, per stancare i Goti e dar modo, nel trambusto, di impegnare il nemico da una parte mentre dall'altra permettere ai rifornimenti di entrare in città.

Verso i primi d'aprile del 537 giunse a Belisario un rinforzo di mille e seicento cavalieri, Unni e Schiavoni la maggior parte. Era ben poca cosa, ma servì a far crescere l'ottimismo degli assediati, i quali credevano con l'aiuto di questi di poter tentare un assalto in forza contro il nemico.

Belisario sapeva che un attacco alle posizioni nemiche con le poche schiere di cui disponeva e la massa non bene addestrata alle armi degli abitanti non poteva avere buon esito, ma dovette cedere di fronte alle pressioni dei suoi e della popolazione civile. Il piano d'azione da lui preparato avrebbe tuttavia dato risultati soddisfacenti se il piano fosse stato scrupolosamente eseguito. Ordinò che i cittadini armati si schierassero fuori porta Aurelia da dove alcune schiere bizantine dovevano muovere un attacco dimostrativo contro il campo nemico alla destra del Tevere per impedire che i Goti di quel campo prestassero aiuti agli altri della sinistra contro la quale doveva essere sferrato il vero assalto. Doveva quest'ultimo muovere da porta Salaria a porta Pinciana, ed essere effettuato soltanto dalla cavalleria; la fanteria aveva l'ordine di stare ferma per proteggere un'eventuale ritirata delle truppe a cavallo.

La prima fase della battaglia si svolse secondo gli ordini dati da Belisario. L'imponente massa di armati uscita da porta Aurelia produsse tale sbigottimento sui Goti da metterli subito in fuga e la giornata da quella parte si sarebbe chiusa con la completa vittoria degli assediati se questi avessero inseguito ordinatamente il nemico. Invece la popolazione civile si gettò sul campo abbandonato dai Goti e si diede a saccheggiarlo e i nemici ebbero tutto il tempo di riordinarsi e di muovere alla riscossa.
Sulla sinistra del Tevere le cose non andarono meglio: in un primo tempo, sotto l' impeto della cavalleria di Belisario, i Goti retrocedettero, poi venuti al contrattacco con tutte le loro forze, obbligarono i cavalieri bizantini a ritirarsi. Toccava alla fanteria, secondo il piano prima stabilito, proteggere la ritirata; i fanti invece si diedero alla fuga e si dovette al coraggio di alcuni ufficiali e di alcuni manipoli di soldati, che, facendo sacrificio della propria vita, si opposero validamente all'irrompere delle soldatesche di Vitige, se la ritirata non si fosse mutata in un gran disastro.

L'esito di questa battaglia, pur non avendo arrecato gravi perdite agli assediati, consigliò Belisario a non ritentare assalti in forze. Si tornò perciò al sistema delle sortite che aveva in passato dato buoni risultati. Sessantanove ne conta Procopio e tutte favorevoli ai Bizantini. Due di queste furono fatte nel giugno allo scopo di permettere l'entrata in Roma a cento uomini giunti da Costantinopoli a Terracina con le paghe per le truppe ed assunsero il carattere di vere e proprie battaglie nelle quali i guerrieri di Belisario fornirono prove di grandissimo valore causando al nemico, fuori porta Aurelia e fuori porta Pinciana, perdite ingentissime.

A queste sortite vittoriose si doveva se Roma riusciva ad essere vettovagliata. Quello dei Goti sarebbe stato un assedio infruttuoso fino a che la città non fosse stata completamente bloccata. Ma un blocco completo era impossibile data l'estensione del circuito delle mura e la tattica di Belisario, il quale manovrando per linee interne, poteva tutte le volte che gli era necessario distrarre, coi suoi attacchi, gli assedianti dai punti dove dovevano passare i rifornimenti. Tuttavia Vitige cercò di ostacolare il più possibile il vettovagliamento e vi riuscì istituendo un posto avanzato di settemila uomini a tre miglia dalla città. L'effetto fu che da allora i rifornimenti si fecero più scarsi e la fame cominciò a Roma a farsi sentire. Il popolo rumoreggiava e insisteva affinché si tentasse un altro assalto generale per porre termine all'assedio; ma Belisario questa volta non si lasciò vincere dalle pressioni. Egli sapeva che i Goti non si trovavano in condizioni migliori delle sue, che il territorio intorno a Roma non aveva più risorse per gli assedianti, che la stanchezza era subentrata ai primi entusiasmi; sapeva inoltre che da Costantinopoli erano partiti rinforzi che non sarebbero tardati a giungere, e non voleva compromettere il risultato finale della guerra con un'azione che poteva riuscire sfavorevole.
Non potendo però tener quieta la popolazione con le promesse soltanto, inviò a Napoli Procopio affinché vi organizzasse la spedizione dei rifornimenti. L' invio di Procopio nella Campania si dimostrò utilissimo: lo storico riuscì ad avviare verso Roma un convoglio di cinquecento uomini e mandare ad Ostia alcune navi cariche di grano.

Coi rifornimenti giungeva nella città assediata ANTONINA, moglie di Belisario, che fino allora era rimasta a Napoli, e forse con lei giungeva al generale anche l'ordine di deporre papa SILVERIO.

Come siano andate le cose non si sa con precisione né c' è accordo tra le fonti sulle date. Si vuole che causa della deposizione del pontefice sia stata l'imperatrice TEODORA, la quale, irritata perché il papa si era rifiutato di rimettere nella sede episcopale di Costantinopoli il patriarca ANTIMO, avrebbe, per mezzo di Antonina, ordinato a Belisario di disfarsi del papa e di fare eleggere l'arcidiacono VIGILIO, compagno di Agapito nell'ambasceria mandata da Teodato a Giustiniano. Si vuole ancora che Belisario in quella circostanza sia stato dominato dalla volontà della moglie prestandosi agli intrighi dell'imperatrice.
Silverio fu accusato di segrete pratiche con i Goti; testimoni falsi confermarono l'accusa, e il pontefice, deposto, fu relegato prima a Patara, nella Cilicia, poi nell' isola di Palmaria, presso Ponza, dove morì il 21 giugno del 538. VIGILIO fu eletto papa il 22 novembre del 537.

Ora la guerra da parte di Belisario riprendeva nuovo vigore. A Napoli era giunto da Costantinopoli un corpo di milizie traciche e isauriche comandate da Giovanni; circa cinquemila uomini che per la via di Ostia si diressero a Roma. Per favorire l'entrata dei rinforzi Belisario assalì i Goti da porta Pinciana e porta Flaminia e il successo riportato dalle truppe bizantine finì con il togliere agli assedianti le poche speranze ch'erano loro rimaste a impadronirsi della metropoli.

Allora Vitige iniziò trattative di pace dichiarandosi pronto a cedere la Sicilia e la Campania e pagare un annuo tributo all'impero. Erano proposte inaccettabili da chi aveva mosso la guerra per togliere agli Ostrogoti la signoria d'Italia. Belisario le rifiutò, ma accordò a Vitige una tregua di tre mesi perché potesse inviare un'ambasceria a Costantinopoli.

Dalla tregua trasse profitto Belisario, il quale, non curandosi delle proteste di Vitige per la violazione dei patti che vietavano ogni movimento di truppe e i rifornimenti, fece introdurre in Roma altre vettovaglie, riparò le fortificazioni ed essendosi i Goti volontariamente ritirati da Porto, da Albano a da Centocelle, occupò queste località.

Non contento di ciò, mandò Giovanni, alla testa di duemila cavalli, nel Piceno con l'ordine di scacciare i coloni goti non appena la tregua fosse stata rotta.

Vitige, mal sopportando la violazione dei patti della tregua, tentò con un colpo di mano d'impadronirsi di Roma. Fu respinto; e subito dopo Giovanni, aiutato dai provinciali romani, saccheggiò i territori che i Goti possedevano nel Piceno, ne confiscò i beni e, lasciandosi alle spalle Osimo ed Urbino difese da presidi nemici, si spinse fino a Rimini dove entrò e si fortificò.
La presa di Rimini minacciava di tagliar le comunicazioni tra Ravenna e l'esercito gotico che assediava Roma. Questa situazione pericolosa e la stanchezza delle sue truppe che ormai non avevano più fiducia in sé stesse consigliarono Vitige a togliere l'assedio.

Questo fu levato il 12 marzo del 538. La ritirata dei Goti avrebbe potuto risolversi in un vero disastro se Belisario avesse avuto truppe sufficienti per un inseguimento; pur nondimeno la partenza di Vitige non accadde senza spargimento di sangue. Uscito dalla città con le sue milizie, Belisario diede addosso alla retroguardia nemica nel momento in cui stava per passare il Tevere e ne menò strage.

Belisario aveva raggiunto quello che si era proposto: di tenere Roma. La prima fase della guerra era terminata in vantaggio dei Bizantini; ora si presentava l'impresa più difficile: la conquista del resto dell'Italia centrale e l' Italia settentrionale, per la quale Belisario contava molto sul concorso delle popolazioni, che anzi gli avevano inviata un'ambasceria, capitanata dall'arcivescovo milanese Dazio, chiedendogli di mandar truppe in Liguria.

Belisario mandò a Genova un distaccamento di mille uomini, comandati da MUNDILA, che in poco tempo si rese padrone delle più importanti città dell'alta Italia, eccettuata Pavia. Altri mille uomini Belisario li inviò in aiuto di Giovanni, il quale marciava verso Ravenna dove si trovava la regina AMATASUNTA con cui s'era messo in segreti rapporti; avevano l'ordine di dire a Giovanni che lasciasse una guarnigione a Rimini e raggiungesse a Roma con il resto delle truppe il generalissimo. I mille uomini spediti da Belisario riuscirono arrivare - dopo di avere sconfitto una schiera di Goti al passo del Furlo - fino a Giovanni, ma dovettero tornarsene senza di lui, che, disubbidendo agli ordini del suo capo, si chiuse in Rimini.

Qui Vitige venne ad assediarlo. Il suo esercito si era di molto assottigliato; forti presidi erano rimasti, lungo la ritirata, ad Orvieto, a Chiusi e a Todi; una forte schiera, comandata da URAIA, nipote di Vitige, si era staccata dal grosso per correre su Milano, insieme con diecimila Borgognoni inviati da Teodeberto, ed ora il re non disponeva che di una trentina di migliaia di soldati, che però erano sempre sufficienti a tener testa alle truppe bizantine.

Intanto Belisario, uscito da Roma ed espugnate Chiusi e Todi, era giunto nel Piceno, dove aveva trovato nuovi rinforzi mandatigli da Costantinopoli. Erano settemila uomini comandati dall'eunuco NARSETE, che gli sarebbero stati di grandissimo giovamento se il loro capo, che godeva il favore della corte e che era venuto per tener d'occhio Belisario sul cui conto a Costantinopoli si nutrivano alcuni sospetti originati e alimentate da interne gelosie, fosse andato d'accordo con il generalissimo.

Narsete invece mostrò, fin dal suo arrivo in Italia, di volersi considerare un pari in grado a Belisario e di voler far prevalere il proprio pensiero sulla condotta della guerra, e tra i due capi nacque subito una discordia che doveva recare gravissimi danni alle operazioni militari. I primi segni di questa discordia si ebbero a Fermo, dove Belisario e Narsete si riunirono in consiglio per esaminare la situazione. Belisario era dell'avviso che si dovesse investire Osimo, espugnatala, poi marciare su Rimini; Narsete al contrario sosteneva che si doveva correre subito a Rimini, dove Giovanni correva pericolo di essere sopraffatto dall'esercito di Vitige. Prevalse l'opinione di Narsete. Belisario mandò mille uomini contro Osimo, che era difesa da una guarnigione di quattromila Goti, il resto delle sue truppe l'avviò, parte per via terra parte per via mare, verso Rimini. Lui e Narsete con una colonna leggera precedettero l'esercito. Vitige non li aspettò: avendo saputo che una flottiglia bizantina era comparsa davanti a Rimini ed avendo ricevute notizie esagerate sulle forze di Belisario che avanzava, sbigottito lasciò l'assedio e si ritirò a Ravenna.

A Rimini la discordia tra Belisario e Narsete si fece più rabbiosa. Il primo voleva che parte dell'esercito fosse impiegata nell'espugnazione delle città dell' Italia centrale ancora in potere dei Goti e parte fosse mandata in soccorso di Milano, il secondo invece voleva l'occupazione dell' Emilia per poi al Vitige dargli battaglia a Ravenna. Non riuscendo i due generali a mettersi d'accordo, Narsete con Giovanni si diresse verso l' Emilia, mentre Belisario rivolse le sue forze contro Orvieto.

Le discordie dei comandanti bizantini causarono la rovina di Milano. I trecento uomini che ne formavano la guarnigione dovettero capitolare ed ebbero salva la vita, ma la popolazione, in numero di trecentomila - secondo le esagerate notizie di Procopio - fu trucidata, eccettuate le donne bellocce che furono regalate ai Borgognoni. La città fu rasa al suolo (539).

Questo disastro e le proteste di Belisario, provocarono il richiamo di Narsete a Costantinopoli. Rimasto a capo di tutte le forze bizantine in Italia, Belisario diede maggiore impulso all'assedio di Osimo, mandò alcune schiere ad assediare Fiesole e stabili un campo trincerato a Tortona.

Fu in questo periodo che TEODEBERTO scese dalle Alpi con un esercito di centomila uomini e dal momento che era alleato di Vitige ma nello stesso tempo di Giustiniano, sia i Goti che i Bizantini erano convinti che fosse venuto in loro aiuto. Ma ben presto furono disingannati: il re franco era sceso né per gli uni né per gli altri, ma solo per saccheggiare e forse per ridurre in suo potere quanta più parte dell'Italia potesse, obbligando i Goti a chiudersi a Pavia e i Bizantini di Tortona a raggiungere Belisario ad Osimo o le schiere che stringevano Fiesole.

Belisario che vedeva frustrata tutta la sua opera da quella invasione, scrisse a Teodeberto minacciandolo della collera dell'imperatore, ma più che le minacce valse il clima a liberare l'Italia dalle razzie dei Franchi, che, mietuti dalla dissenteria, se ne tornarono di là dalle Alpi.

Correva l'anno 539. Fiesole cadeva in potere dei Bizantini ed Osimo, dopo sette mesi di assedio, capitolava, e la guarnigione ostrogota passava al servizio di Belisario. Questi allora riuscì con quasi tutte le sue forze a stringere Vitige dentro Ravenna.

La situazione degli Ostrogoti peggiorava di giorno in giorno. Le diserzioni si facevano sempre più numerose e i viveri sempre più scarsi. A ciò si aggiunga un furioso incendio che bruciò i magazzini di grano, provocato dalla caduta di un fulmine o - come si disse - dall' infedele moglie del re. Il quale, non potendo, con le sole sue forze, sperare di salvarsi, cercò di migliorare la sua situazione con l'aiuto altrui.

Sollecitò pertanto l'alleanza con i Longobardi, che erano stanziati nei presso il Danubio; ma questo popolo, per non alienarsi con Giustiniano con cui era in buoni rapporti, rifiutò la proposta. Allora Vitige inviò ambasciatori al re di Persia Cosroe e riuscì con quest'abile mossa a spaventare l'imperatore il quale, non potendo sostenere due guerre, ritenne opportuno di trattare la pace con gli Ostrogoti. Per mezzo di due ambasciatori, DOMENICO e MASSIMINO, chiese che Vitige gli cedesse metà del tesoro e l' Italia a sud del Po. A Vitige lasciava l'altra metà del tesoro, il titolo regio e la Transpadana. Erano condizioni umilianti, eppure gli Ostrogoti, tormentati dalla fame e sfiduciati, le accettarono e - come aveva indicato Giustiniano- si rivolsero a Belisario per la stipulazione del trattato.

Ma Belisario si rifiutò. Egli sapeva in che tristi condizioni si trovava il nemico, ed era sicuro che presto si sarebbe arreso a discrezione, e quindi sognava di tornare vittorioso a Costantinopoli dopo aver riconquistata tutta l'Italia. Belisario non s'ingannava sulla debolezza dei suoi avversari, ma non avrebbe mai pensato che i Goti avrebbero deposte le armi offrendo proprio a lui la corona.

Così infatti fu. Vitige non aveva corrisposto alle speranze; sebbene valoroso soldato, non era stato un abile e fortunato condottiero. Essi invidiavano ai Bizantini Belisario, il generale che tanti rapidi successi aveva ottenuto, l'uomo che aveva conquistato il regno vandalico, che con un pugno di uomini aveva saputo difendere Roma e ridurre agli estremi un popolo tanto potente. Sotto la guida di tale condottiero gli Ostrogoti sarebbero risorti dalla rovina e sarebbero stati ancora una nazione forte e temuta. Chi meglio di lui dunque.

Gli Ostrogoti inviarono messi a Belisario, dichiarandosi pronti a cedere la città e a dargli la corona se prometteva di rispettar la loro vita e i loro beni.

Belisario promise agli assediati quel che chiedevano; quanto ad accettar la corona affermò che ne avrebbe parlato con Vitige. Allora Ravenna apri le porte (dicembre del 539) e Belisario occupò la città. Narra Procopio che le donne gotiche vedendo lo scarso numero di Bizantini e la loro piccola statura, sdegnate, sputarono contro i loro mariti accusandoli di viltà.

Belisario mantenne le promesse: con ordini severissimi impedì che la città fosse saccheggiata e il nemico maltrattato; mandò liberi gli Ostrogoti, ma s'impadronì del tesoro regale e trasse prigionieri Vitige e i suoi nobili. A prender le insegne regie non pensò neppure: egli era e volle rimanere un fedele soldato dell'imperatore. Vedremo più tardi come la sua fedeltà e i suoi servizi segnalati furono ricompensati dal suo ingrato sovrano.

Erano trascorsi pochi mesi da questa felice conclusione, quando nel 540 Belisario fu richiamato a Costantinopoli per assumere il comando della guerra contro i Persiani e allora i Goti - non sapendo quali intrighi si erano messi in moto a Ravenna - si accorsero di essere stati ingannati. Il generale lasciò Ravenna, conducendo con sé VITIGE, AMATASUNTA e i nobili prigionieri. Ancor una volta Belisario - lui era convinto di questo- tornava a Costantinopoli carico di gloria;anche se la sua vittoria non era stata completa; perché il suo richiamo lasciava l' Italia settentrionale in potere dei Goti i quali, indignati dalla malafede del vincitore, già, prima che lui partisse, avevano mostrato il deciso proposito di muovere alla riscossa. Ed è quello che leggeremo nel prossimo capitolo

FINE

COMPARE ORA TOTILA - NARSETE IN ITALIA
FINE DELLA GUERRA GOTICO-BIZANTINA
E' il periodo che va dal 540 al 567 d.C. > > >  

 

Fonti, citazioni, e testo
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - GARZANTI 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE

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