ANNI 653 - 712 d.C.

IL PAPATO - I BIZANTINI - I LONGOBARDI - ORDINAMENTI 

L' ITALIA BIZANTINA E IL SUO ORDINAMENTO - LE VARIE CLASSI DELLA POPOLAZIONE - IL CLERO -IL PAPATO DOPO GREGORIO MAGNO - SABINIANO, BONIFACIO III, BONIFACIO IV; ONORIO I - IL MONOTELITISMO - L'" ECTESI " DI ERACLIO - SEVERINO E GIOVANNI IV - LA CHIESA ROMANA CONTRO LA DOTTRINA MONOTELITICA - L'IMPERATORE COSTANTE E IL "TIPO" - L'ESARCA OLIMPIO - DEPOSIZIONE, PROCESSO E MORTE DI MARTINO I - EUGENIO I E VITALIANO - COSTANTE IN ITALIA E IN SICILIA - COSTANTINO E I SUOI RAPPORTI CON LA S. SEDE - PAPA AGATONE E LA CONDANNA DEL MONOTELITISMO - RADOALDO - IL REGNO DI ARIPERTO I - BERTARIDO E GODEBERTO - GRIMOALDO S'IMPADRONISCE DEL REGNO - I BIZANTINI ASSEDIANO BENEVENTO - BERTARIDO IN FRANCIA -RIBELLIONE DI LUPO - L' EDITTO DI GRIMOALDO - REGNO DI BERTARIDO - CONVERSIONE DEI LONGOBARDI - CUNIBERTO - RIBELLIONE DI ALACHI E DI ANSFRIDO - FINE DELLO SCISMA DEI TRE CAPITOLI - LIUTBERTO, RAGIMBERTO ED ARIBERTO II - ANSPRANDO
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L' ITALIA BIZANTINA -
IL PAPATO, L' IMPERO E LA CONTROVERSIA MONOTELITICA

Come abbiamo visto nella precedente puntata, alla morte di Autari, l'Italia non è solo Longobarda ma è anche Bizantina, che per le vicende della guerra con i Longobardi, aveva subito non pochi mutamenti, in tutte le sue circoscrizioni, spesso non vicine, sparse a macchia di leopardo. Alla fine del VII secolo le parti d'Italia rimaste sotto il dominio bizantino erano:

1) La "Liguria", con Genova come capoluogo, limitata però alla costa dalla Magra a Ventimiglia. Alcuni affermano che Genova sia stata per un brevissimo periodo anch'essa occupata dai Longobardi.

2) La "Venezia e Istria" - Llimitate a parte della costa adriatica ed alle numerose isolette della laguna difese da castelli e governate da tribuni che dipendevano dal "magister militum" dell' Istria.

3) L' "Esarcato" - Si estendeva, a nord fino all'Adige, al Tartaro e alla confluenza del Panaro con il Po, ad ovest fino al corso del Panaro e all'Appennino, a sud fino alla Marecchia. Comprendeva le città di Ravenna e di Bologna.

4) Il "Ducato della Pentacoli"- Confinava, a nord con la Marecchia, ad ovest con l'Appennino e a sud con l' Esino. Era diviso in "Pentapoli marittima" comprendente Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia, Ancona, e in "Pentapoli annonaria" comprendente Urbino, Fossombrone, Jesi, Cagli, Gubbio. Secondo alcuni le due "pentacoli" formavano la "Decapoli", secondo altri con questo nome si soleva indicare l' "annonaria" che comprendeva anche Osimo, Umana, Montefeltro, il territorio Valvense e Luccoli.

5) Il "Ducato di Roma"- Comprendeva, oltre la città di Roma e il suo territorio, quei lembi delle province di Tuscia, Valeria e Campania non conquistate dai Longobardi, e dal Tevere era diviso in "Tuscia romana" e "Campania".

6) Il "Ducato di Napoli" - Comprendeva un breve tratto della costa campana, le isole di Procida, Ischia e Capri e alcune città dell'interno, come Atella, Acerra e Nocera.

7) Parte dell' "Apulia" e l'antica "Calabria" dall'Ofanto al Bradano con le città di Bari, Siponto, Oria, Lecce, Brindisi, Otranto, Taranto, Gallipoli, alcune delle quali presto saranno strappate all'impero da Romualdo duca di Benevento. Nella "Lucania" i Bizantini occupavano ancora Agropoli.

8) Il "Bruzio" - Più tardi forse furono uniti i domini dell'Apulia e della Calabria e con il nome di quest'ultima regione fu formato un ducato. Il nome di Calabria nella seconda metà del VII secolo fu dato all'antico "Bruzio".

Altri possessi bizantini in Italia erano costituiti dalla Corsica, dalla Sardegna e dalla Sicilia; le prime due di queste isole però dipendevano dall' Esarcato d'Africa; la Sicilia era governata da un pretore, dipendente da Costantinopoli, che più tardi sarà sostituito da un comandante militare con il titolo di "stratega".
A capo dei domini bizantini della penisola c'era l' Esarca, che aveva anche il titolo di "Patrizio" e governava in nome dell'imperatore; aveva il supremo potere militare, civile e giudiziario; da lui dipendevano le finanze, i lavori pubblici e gli affari ecclesiastici. Nominava e revocava i funzionari, giudicava in appello, vigilava sulle elezioni episcopali, sorvegliava ed approvava l'elezione del papa. Risiedeva a Ravenna dove aveva una piccola corte e un certo numero di ministri ("scholastici e consiliarii"), una guardia speciale e parecchie categorie d'impiegati ("scholae") dipendenti da "primicerii".

Accanto all' Esarca e residente a Ravenna era il "prefetto del pretorio", che non aveva più l'autorità di una volta ed era nominato dall'imperatore. Al pari di lui avevano perduto molto della loro importanza i due vicari!, il "Vicarius Italiane" e il "Vicarius Urbis" che avevano cura dell'amministrazione.

L'amministrazione provinciale dalle mani dei "iudices provinciarum", eletti dal vescovo e dagli ottimati, era passata in quelle di capi militari detti "duces" o "magistri militum". Il "dux" non era solo il capo militare della provincia, ma anche il governatore civile; di solito era eletto dall' Esarca e da questo dipendeva; ma in seguito alcuni duchi si emanciparono dall' Esarca e passarono - come quelli di Venezia, di Napoli, di Roma e della Calabria - alle dirette dipendenze dell'imperatore, da cui vennero anche eletti.

Dipendevano dai "duces" i tribuni che prima avevano il comando dei presidi militari delle città secondarie delle provincia, poi, decaduta la curia, ebbero anche il governo civile e il potere giudiziario e, mentre i "defensores" e "curatores" delle curie erano eletti dai vescovi e dal popolo, i "duces" erano eletti dall'Esarca. Altri funzionari, di grado inferiore, detti "domestici, vicarii, locoservatores" avevano il governo di altre località meno importanti dei distretti.

Roma, come si è detto, aveva un vicario e un prefetto della città, cariche che poi si fusero in una sola, un maestro dei militi e un duca. Il Senato, ridotto dopo tante vicende a magistratura municipale, era scomparso era rimasto solo il nome, usato come sinonimo di nobiltà. Ma l'autorità maggiore della metropoli era naturalmente quella del pontefice.

La popolazione libera dell' Italia bizantina era divisa in quattro classi: popolo, esercito, nobiltà e clero. Il popolo era costituito dai cittadini poveri ("cives honesti") o formava la parte più numerosa della popolazione; l'esercito era costituito dai cittadini idonei alle armi, era diviso in "scholae", ciascuna delle quali aveva un capo, una bandiera e un luogo di riunione e rappresentava una specie di milizia territoriale che, in caso di bisogno, doveva custodire e difendere la città e il territorio, accanto alle truppe regolari.

La nobiltà era formata dai grandi proprietari di terre che, nello stesso tempo, ricoprivano cariche elevate nell'amministrazione civile e nell'esercito. II clero formava una classe a sé che rivaleggiava in potenza con la nobiltà e che aveva i suoi esponenti nei vescovi. Questi avevano una grande autorità nelle città e nelle provincia non solo per i poteri loro conferiti dalla legislazione giustiniana, ma per la natura del loro ufficio e per le grandi proprietà che avevano nelle loro diocesi e fuori.

L'autorità del clero era diventata grandissima sotto il pontificato di GREGORIO MAGNO. Non diminuì sotto i suoi successori sebbene nessuno eguagliasse il grande papa nella geniale operosità rivolta a consolidare il prestigio della Chiesa romana.

A Gregorio era successo SABINIANO ed a questo BONIFACIO III, il quale aveva ottenuto che l'imperatore FOCA emanasse un editto in cui era riconosciuto il primato della Sede Romana.

A Bonifacio III successe BONIFACIO IV alla cui morte fu eletto pontefice ONORIO I. Fu sotto questo papa che ebbe origine la "controversia monotelitica".

Era imperatore di Costantinopoli ERACLIO. L'Oriente, invaso dai Persiani, minacciato poi dagli Arabi, era tormentato dai dissensi religiosi e il "monofisismo", sebbene condannato dal Concilio di Calcedonia, vi trionfava e favoriva l'avanzare dei monoteisti musulmani.
Per attirare a sé i monofisiti della Siria e dell' Egitto e comporre il dissidio tra quelli che in Cristo vedevano perfettamente fuse la natura umana e la divina e quelli che invece persistevano nel veder separate queste due nature, Eraclio, consigliato dal patriarca SERGIO, propose una formula conciliativa sostenendo la dottrina nonotelitica, la quale, pur ammettendo le due nature, proclamava che fossero animate da una sola volontà.

Nel tentativo di dare un'unità politica con l'eliminare i dissidi religiosi Eraclio ebbe il favore del pontefice, il quale, di fronte all'avanzarsi travolgente degli Arabi, sotto i quali pareva che il Cristianesimo dovesse crollare, desiderava forse più dell'imperatore di porre termine a una controversia da lui creduta degna soltanto dei grammatici.

Incoraggiato dall'atteggiamento del papa, Eraclio nel 638 pubblicò un decreto ("Ectesi") nel quale, esposta la nuova dottrina della volontà unica, proibiva le dispute, e ne mandò una copia in Italia all'Esarca perché la facesse firmare dal pontefice. Ma ONORIO I era morto. Il suo successore SEVERINO si rifiutò di firmare l'Ectesi e i rapporti tra Roma e Costantinopoli divennero molto tesi. A peggiorare le relazioni tra la S. Sede e l'impero si aggiunse quest'increscioso fatto: l'esarca ISACCO, recatosi a Roma, si portò via dal Laterano il tesoro pontificio, dando come pretesto come pretesto la necessità che aveva di distribuir le paghe ai soldati.

Severino mori il 2 agosto del 640. Gli successe GIOVANNI IV, che convocò un concilio nel quale la dottrina monotelitica fu condannata. ERACLIO dovette allora accorgersi che il suo tentativo di dare l'unità religiosa all'impero era fallito e che le risorte contese -tra l'Oriente che parteggiava per il monotelitismo e l'Occidente che aveva preso le parti del pontefice - si erano fatte ancora più aspre.

L'imperatore finì con il ricredersi, attribuendo la paternità dell'Ectesi al patriarca SERGIO, che nel frattempo era morto. Il Cattolicesimo trionfava. Eraclio cessò di vivere nel febbraio del 641 e un anno dopo lo seguì nella tomba il papa Giovanni.
Sul trono salì uno dei due figli di Eraclio, COSTANTINO, che dopo poco più di tre mesi di regno morì avvelenato; l'altro figlio, ERACLEONE, successo al fratello, fu sbalzato, poco tempo dopo, da COSTANTE, figlio di Costantino. Al soglio pontificio fu innalzato Teodoro che seguì la politica del suo predecessore riconfermando la condanna del monotelitismo.

La vittoria del Cattolicesimo era completa. Costante pareva favorire l'ortodossia contro gli eretici, PIRRO, successore di SERGIO nel patriarcato di Costantinopoli, si recava a Roma a fare atto di sottomissione al pontefice e professione di fede cattolica e, più tardi, anche PAOLO, nuovo patriarca, si dichiarava ortodosso. Ma nonostante questo le lotte religiose non avevano termine.

Vedendo in queste diatribe una delle cause della rovina dell'impero, COSTANTE pubblicò verso la fine del 648 un decreto, chiamato poi "TIPO", con il quale, proibiva, sotto la minaccia di pene severissime, che si disputasse pro o contro la dottrina monotelitica.

Lo scopo che l'imperatore si prefiggeva di raggiungere era certamente ottimo, ma il mezzo - la repressione, la punizione- non era uno dei più adatti. Mettere. il bavaglio alla Chiesa Cattolica non era possibile né opportuno, specie in Italia dove il governo bizantino si era attirato l'odio delle popolazioni e l'autorità del pontefice - a partire da quel "gigante" che era stato Gregorio Magno- era enormemente cresciuta.

Papa, nel maggio del 649, era stato eletto MARTINO I, da Todi, uomo energico e politico esperto, che era stato consacrato un mese dopo l'elezione, prima forse che da Costantinopoli sarebbe venuta la conferma imperiale. Il primo atto del nuovo papa fu in aperto contrasto con gli ordini dell'imperatore. Martino I convocò a Roma un concilio (5-31 ottobre) e vi parteciparono duecentodue vescovi e furono solennemente condannati l'ECTESI e il TIPO.

Perché si potessero eseguire le disposizioni del TIPO, Costante inviò in Italia l'esarca OLIMPIO. Ma a lui era stata anche affidata pure una missione segreta: doveva rendersi conto dell'impressione che il decreto produceva nell'opinione pubblica romana e specialmente nella milizia cittadina. Se l'impressione era favorevole, Olimpio doveva impadronirsi del papa; in caso diverso doveva rimandare il colpo al momento opportuno.

Olimpio cercò di fare di più: conferì incarico ad un suo sicario di uccidere il pontefice mentre celebrava la messa in Santa Maria Maggiore; ma un "miracolo" salvò il papa dalla lama dell'assassino, il quale -si narra- proprio nel momento in cui stava per compiere il sacrilego delitto, fu colpito da cecità.

Fallito il colpo, Olimpio - secondo l'opinione d'alcuni critici moderni - si schierò dalla parte del pontefice, forse con il proposito di sfruttare l'avversione degli Italiani verso i Bizantini e la critica situazione in cui l'impero si trovava per la guerra contro i Mussulmani facendosi proclamare imperatore.

Ma il suo proposito - se pur lo ebbe - non riuscì ad essere tradotto in pratica. Gli Arabi dall'Africa avevano invaso la Sicilia ed Olimpio fu costretto a muovere contro di loro per cacciarli dall'isola. Fu una spedizione infelice: la sorte non arrise né le truppe bizantine né il loro capo, perché Olimpio vi trovò la morte.

Il colpo che non era riuscito ad Olimpio riuscì invece al nuovo esarca TEODORO CALLIOPA, che nel giugno del 653 si recò a Roma con un corpo di milizie e, riuscendo a non far trapelare nulla delle sue intenzioni, riuscì a circondare il Laterano e ad impadronirsi del pontefice che vi si trovava dentro infermo.

Il giorno dopo Martino I fu imbarcato sopra una nave che aspettava sul Tevere e inviato con poca scorta verso l'Oriente. Dopo quattro mesi di navigazione giunse a Nasso e qui rimase circa un anno. Tradotto poi a Costantinopoli, fu, nel settembre del 654, processato sotto l'accusa di tradimento per aver complottato con Olimpio contro l'imperatore.

Veramente eroica fu la condotta del pontefice: non lo piegarono né la fame né la tortura né gl'insulti della plebaglia e degli sgherri. Da Costantinopoli fu relegato a Cherson, in Crimea, e qui dopo un anno esatto, morì di patimenti e di fame il 16 settembre del 655. La Chiesa lo santificò.

L'anno prima, vivendo ancora Martino I, era stato eletto papa EUGENIO I. Questi pontificò per breve tempo e non riuscì ad esplicare nessuna azione in favore del Cattolicesimo. Cercò però di far tornare la buona armonia tra Roma e Costantinopoli, ma la morte che lo colse nel 657 troncò le trattative. Queste furono riprese dal suo successore, VITALIANO. Tanto il papa quanto l'imperatore avevano entrambi interesse alla conciliazione, il primo perché si era nell'Italia settentrionale riaccesa la controversia dei "Tre Capitoli" e a Ravenna l'arcivescovo MAURO cercava di rendersi indipendente da Roma e di assumere il titolo di patriarca, il secondo, perché, dopo la sconfitta navale che i Mussulmani, nel 655, gli avevano inflitto sulle coste della Licia, aveva concepito il disegno di recarsi in Italia e desiderava che i rapporti con il papato tornassero buoni.
Quando il Pontefice, dopo l'elezione, mandò i suoi nunzi a COSTANTE, questi li accolse con infiniti onori, confermò i privilegi della Chiesa romana e inviò in regalo al papa un prezioso codice dei Vangeli adorno di ricchi diamanti.

Nel 662 l'imperatore partì da Costantinopoli alla volta dell'Italia. Non si sa bene quali ragioni lo spinsero nella penisola. Alcuni affermano che vi sbarcò per combattere i Longobardi, altri che desiderava trasferire la sua sede in Sicilia. Forse egli sperava di conseguire due scopi in un medesimo tempo: tenere a freno i Longobardi dell'Italia meridionale e rafforzare sull'Italia bizantina l'autorità vacillante dell'impero.

Sbarcò a Taranto nel 663 e, dopo un insuccesso delle sue armi sotto le mura di Benevento, andò a Roma nel luglio dello stesso anno. Non vi si trattenne però che una dozzina di giorni, che utilizzo per depredare la città come un barbaro dei tempi più critici; e quando partì dopo averli fatta smantellare, si portò via perfino la copertura di bronzo dorato della cupola del Pantheon, che sotto il pontificato di Bonifacio IV era stato ridotto a chiesa cristiana con il nome di Santa Maria a Martyres.
Dopo una "visita" non proprio cortese, a Napoli e la Calabria Costante si recò in Sicilia, a Siracusa, dove rimase cinque anni rendendosi esoso agli isolani e ricominciando a fare una politica avversa alla Chiesa di Roma. Conseguenza di questa politica fu un diploma imperiale che nel 666 dichiarava "autocefala" la Chiesa di Ravenna, cioè indipendente dalla S. Sede.

Ma Costante non doveva vivere a lungo. Una congiura fu tramata contro di lui, che con le sue vessazioni si era attirato l'odio di tutta la popolazione siciliana, ricchi o poveri, nobili e aristocratici, e nel 668 un suo cameriere di camera, trasformatosi in sicario, un certo Andrea di Troilo lo tolse di mezzo mentre l'imperatore faceva il bagno, versandogli prima addosso una brocca d'acqua bollente, poi lo finì con la stessa fracassandogli il cranio.

Un nuovo imperatore, MECEZIO, acclamato dalle truppe non riuscì a reggersi sul trono, lo sbalzò il figlio di Costante, COSTANTINO POGONATO, uomo ben diverso dal padre, che seguì infatti, una politica di conciliazione con la Chiesa romana e si mantenne in buoni rapporti con il papa VITALIANO prima e poi con il pontefice ADEODATO a lui successo nel 672.

Morto Adeodato nel 676 e salito al seggio DONO, Costantino riprese le trattative con Roma per arrivare ad una conciliazione e per mostrare la sua buona volontà ordinò all'arcivescovo di Ravenna, REPARATO, successo a MAURO, di fare atto di sottomissione al papa, poi scrisse a Dono, pregandolo di inviare alcuni legati perché potessero con i patriarchi di Costantinopoli e di Antiochia trovare una formula conciliativa.

Ma quando l'ambasceria giunse a Roma per consegnare questo invito, Dono era morto (678) e gli era successo il siciliano AGATONE, papa accorto ed energico, il quale lesse la proposta e accettò di mandare a Costantipopoli i suoi legati, ma volle prima che l'Occidente si pronunciasse sulla questione monotelitica. Agatone intendeva mostrare all'imperatore la compattezza e perciò la forza della Chiesa romana in Occidente, mettere come base di discussione il fatto compiuto e influire sulle decisioni che sarebbero state prese a Costantinopoli.

In vari suoi concili tenuti a Milano, nella Gallia, nella Bretagna e a Roma - a quest'ultimo parteciparono centoventicinque vescovi - fu condannato il monotelitismo. Sicuro dell'appoggio di tutto l'Occidente cattolico, Agatone mandò a Costantinopoli i suoi legati con una lettera in cui, mentre faceva note all'imperatore le decisioni dei concili e lo informava della forza del Cattolicesimo occidentale, faceva capire che Costantinopoli aveva tutto l'interesse di non schierarsi contro il papato.

L'accorta politica di Agatone fu coronata da pieno successo: nel sesto concilio ecumenico tenutosi a Costantinopoli nel 682 la "dottrina monotelitica" fu condannata e con questa i suoi sostenitori, compreso lo stesso pontefice ONORIO con la formula "I non quidem ut haereticus sed ut haereticorum fautor".

Era questa una grande vittoria del papato, preludio dell' indipendenza assoluta della S. Sede da Costantinopoli.

LA MONARCHIA LONGOBARDA
DA RADOALDO AD ANSPRANDO


ROTARI morì nel 652 e venne sepolto nella chiesa di S. Giovanni Battista, che la moglie GUNDEBERGA aveva fatto costruire in Pavia.

A Rotari successe il figlio RADOALDO, ma fu ucciso dopo soli sei mesi di regno e sul trono fu innalzato ARIPERTO, figlio di quel Gundobaldo che - al tempo del fidanzamento di Autari- con la sorella Teodolinda era fuggito dalla Baviera (temendo la gelosia e l'ira per la nuova alleanza fra Bavaria e Longobardi del re dei franchi) e dal cognato Autari aveva ricevuto in premio il ducato di Asti.

Di ARIPERTO e dei suoi dieci anni di regno, ci sono poche notizie, sappiamo solo, che era cattolico e pio, che "Arianorum abolevit haeresim", e che fece costruire a Pavia la chiesa di San Salvatore, dove poi nel 661 fu sepolto. Ariperto aveva due figli, BERTARIDO e GODEBERTO, e a loro aveva lasciato -dividendolo in due- il regno - secondo Paolo Diacono - assegnando al primo come capitale Milano e al secondo Pavia. Ma non si può prestare molta fede a questo storico, perché lui stesso in altra parte della sua storia scrive che "non era costume dei Longobardi dividere il regno o i ducati in due, e che, se ammettiamo pure la divisione, Bertarido, che era il primogenito, doveva avere - e anche questo era consuetudinario pure in altre piccole o grandi proprietà- la sede del regno e il palazzo reale, cioè la capitale Pavia.

Dobbiamo pertanto supporre - e la supposizione è avvalorata dagli avvenimenti posteriori - che tra i due fratelli e solo dopo la morte del padre sia sorta una contesa per la successione e che il secondogenito, in qualche modo, abbia avuto il sopravvento, obbligando l'altro a rifugiarsi a Milano.
Se non è sicuro che la lotta tra i due fratelli scoppiò già alla morte del padre, è certo però che essa ci fu subito dopo e durò parecchi mesi. Ne fa fede un documento del 673 in cui è fatta menzione di un'invasione di GODEBERTO nel territorio di Piacenza che senza dubbio apparteneva a Bertarido. Che la guerra tra i due principi longobardi si metteva male per Godeberto, lo testimonia il passo che lui fece presso il duca beneventano GRIMOALDO.

Godeberto, infatti, mandò GARIBALDO, duca di Torino, a Benevento a chiedere aiuto a Grimoaldo, promettendogli che avrebbe sposato la sorella. GRIMOALDO, proponendosi forse fin da allora di trarre profitto dalla contesa (mirando ovviamente lui di prendersi il trono tra i due litiganti), accettò e, mandato avanti TRASAMONDO, duca di Capua, per mettere insieme uomini in armi nel ducato di Spoleto e nella Tuscia, lasciò a Benevento il figlio ROMUALDO e con un piccolo esercito marciò verso l'Italia settentrionale. Nell'Emilia trovò Trasamondo con un forte contingente di milizie si unì a lui, e giunse a Pavia alla testa di forze ragguardevoli. Assecondato dal duca di Torino, invece di aiutare GODEBERTO nella guerra contro il fratello, GRIMOALDO lo uccise di propria mano. Un figlio del morto, RAGIMBERTO, che più tardi divenne duca di Torino, riuscì a mettersi in salvo, aiutato dai familiari; anche BERTARIDO temendo di fare la stessa fine, da Milano fuggì e riparò presso gli Avari, ma la moglie RODELINDA e il figlio CUNIBERTO caddero in potere di Grimoaldo, che li trasferì sotto scorta a Benevento.

GRIMOALDO s'impadronì della reggia di Pavia, si diede da fare - come pare - per farsi riconoscere re da un'assemblea di duchi e, per rafforzare la sua posizione, sposò la figlia di Ariperto (662) che era poi la sorella dei due rissosi re, uno morto e l'altro in fuga.

Dal colpo di mano il regno longobardo usciva rafforzato, trovandosi tutto in potere di un solo re, il quale per il suo valore personale e lo spirito avventuroso che lo distingueva avrebbe esteso senza dubbio i suoi domini a spese dell'esarcato bizantino se avesse avuto il tempo di consolidarsi.

Questo invece gli mancò. Lo preoccupava la presenza di Bertarido alla corte degli Avari (temeva un'alleanza e una loro invasione), ed era anche molto allarmato per la spedizione di COSTANTE II in Italia.

L'imperatore - come abbiamo detto - approdò nel 660 a Taranto, distrusse Lucera e, impadronitosi in poco tempo di quasi tutto il ducato beneventano, pose l'assedio a Benevento (che era il regno che aveva lasciato Grimoaldo per correre a Pavia a conquistarne un altro)

Informato da un messo del figlio, di nome SESSUALDO, del grave pericolo che correva la capitale del suo ducato, GRIMOALDO raccolse un esercito e affidato il Palazzo (fidandosi) alle cure del duca friulano LUPO, partì da Pavia e mosse alla volta dell'Italia meridionale.

Durante il viaggio riuscì a capire la critica carta che stava per giocare: scendeva nel sud contro un nemico che disponeva di forti mezzi e intanto al nord, partito lui, numerosi Longobardi, pensando che il re non avrebbe fatto più ritorno in alta Italia, lo abbandonavano.

Grimoaldo non si perse d'animo e continuò la sua marcia. Lo precedeva SESSUALDO, che doveva recare a Romualdo l'annunzio dell'avvicinarsi del padre con gli aiuti richiesti; ma il fido messo cadde nelle mani di Costante, il quale, saputo della partenza del re da Pavia, allo scopo di far capitolare più in fretta Benevento ordinò al prigioniero di recarsi sotto le mura della città e di dire agli assediati che il re non sarebbe mai giunto in soccorso, perché impegnato in Alta Italia.

"…L'eroico Sessualdo invece, quando sulle mura dell'assediata Benevento vide Romualdo, gli gridò: ".. Resisti perché tuo padre sta per giungere e questa notte sarà al fiume Sangro !". Sessualdo pagò con la vita la sua fedeltà: decapitato, la sua testa fu lanciata dentro le mura e Romualdo, dopo averla raccolta, la coprì di baci e di lagrime…".

Il sacrificio di Sessualdo salvò Benevento. Costanzo, lasciato intorno alla città un suo generale, SABURRO, con ventimila uomini, prese la strada per Napoli, dove ben presto gli giunse la notizia che il suo esercito a Benevento era stato sconfitto dai Longobardi che erano sopraggiunti.

Liberata Benevento, GRIMOALDO nominò Trasamondo, come premio per i servigi da lui ricevuti, duca di Spoleto dandogli in moglie una sua figlia, poi ripartì per Pavia, dove la sua presenza era reclamata dalle turbolenze di quei duchi che - come detto sopra- lo avevano già abbandonato, anche a causa dagli abusi che Lupo commetteva nell'assenza del re, sentendosi già lui re, e dai fastidi che procurava Bertarido deciso con l'aiuto degli Avari, di riprendersi il regno, ora appoggiato dai molti scontenti e oppositori, e che su di lui appuntavano le speranze.

Questi però al ritorno del re furono puniti; LUPO che aveva provocato queste cospirazioni, riuscì ad abbandonare Pavia e a rifugiarsi nel suo ducato in Friuli dove si dichiarò ribelle. Quanto a Bertarido, Grimoaldo chiese al signore degli Avari che glielo consegnasse, ma ebbe un rifiuto. Bertarido però, avuta la promessa che non gli sarebbe stato fatto alcun male, fece ritorno in Italia e fu accolto a Pavia, ospite dello stesso re. Anche se poco dopo, venuto in sospetto di Grimoaldo, dovette nuovamente scappare e si rifugiò, prima ad Asti, poi a Torino e infine presso i Franchi, i quali, da lui sollecitati scesero in Italia per rimettere sul trono lo spodestato re.

La loro impresa fallì: presso Asti, in una località detta Rivo (oggi Refrancore), assaliti di notte nel loro stesso accampamento da un esercito longobardo furono clamorosamente sconfitti e solo pochi franchi riuscirono a salvarsi e a ripassare le Alpi.

Quasi contemporaneamente, il dichiarato "ribelle" duca del Friuli LUPO, scatenava la sua guerra. "Non potendo tenere testa contemporaneamente a due nemici, GRIMOALDO spinse contro di lui gli Avari, i quali invasero il Friuli, uccisero Lupo e misero a ferro e a fuoco il paese e i dintorni, convinti di insediarsi in questi".

Non volendo più, dopo l'invasione, gli Avari abbandonare il Friuli, Grimoaldo fu costretto a muover contro di loro con un esercito e solo così riuscì a costringerli a ripassare il confine. Ma con la ritirata degli Avari non ritornò la pace nel Friuli. Lupo aveva lasciato due figli, una femmina, TEODERADA, che più tardi fu data in sposa a ROMUALDO duca di Benevento, e ARNEFRITO. Quest'ultimo chiesto aiuto agli Slavi tentò di riacquistare il ducato paterno, ma presso Cividale fu sconfitto ed ucciso dal re, che nominò duca del Friuli un longobardo di Vicenza, VETTARI.

Altre imprese di "pulizia" furono da Grimoaldo compiute contro Oderzo e Forlimpopoli: la prima fu rasa al suolo e il territorio fu diviso tra Cividale, Ceneda; poi si avviò verso Treviso, che fu conquistata di sorpresa e i suoi abitanti furono quasi tutti trucidati.

Consolidato il suo regno, Grimoaldo rinnovò la pace con i Franchi, poi rivolse le sue cure ad integrare l'opera legislativa di Rotari, pubblicando nel 668 un editto in nove capitoli nel quale si formula una prescrizione trentennale, applicata alla servitù, alla libertà e al possesso di beni immobili, del diritto di rappresentanza nella successione e del divorzio.

Ma l'opera di legislazione del re longobardo fu interrotta dalla morte: nel 671 GRIMOALDO mori per la rottura d'una vena.
A succedergli era destinato il suo secondogenito GARIBALDO, nato dal matrimonio con la figlia di ARIPERTO I; ma l'erede aveva appena cinque anni, si trovava privo dell'appoggio del fratello, scontento della preferenza data dal padre al figlio minore, inoltre aveva contro di sé un nemico temibilissimo, il solito BERTARIDO, che a Pavia seguitava a godere del favore di non pochi duchi del regno.

E l'ostinato BERTARIDO, che non aveva mai perso le speranze di riconquistare il trono, tornato in Italia, ebbe il trono! Il (piccolo) duca di Benevento si affrettò a riconoscere il nuovo re e gli restituì la moglie Adelinda e il figlio Cuniberto. Di Garibaldo non si hanno più notizie; forse chiuso in qualche fortezza e lì nell'oscuro di qualche cella terminò la vita; mentre la madre fu nominata abbadessa di un monastero costruito dal re a Pavia.

Sotto il regno di BERTARIDO, caratterizzato dalla politica pacifica del sovrano, l'opera di Teodolinda e Gregorio Magno si può dire quasi finita con successo completo nella parte centrale e settentrionale dell'Italia longobarda. Il Cattolicesimo trionfa sulle rovine dell'arianesimo, lo scisma dei Tre Capitoli perde sempre più terreno, risorge più forte di prima la gerarchia ecclesiastica e si moltiplicano le chiese e i conventi. La diffusione del Cattolicesimo nel ducato beneventano va invece più a rilento, ma dopo la vittoria su Costante, grazie all'opera del prete BARBATO e della duchessa TEODERADA, anche qui la diffusione è rapida e smantella non solo la fede ariana ma anche le ultime tracce di paganesimo.

La conversione al cattolicesimo dei Longobardi è un fatto storico di grande importanza. Cadute le barriere religiose, i rapporti tra l'Italia bizantina e l'Italia longobarda, tra conquistatori e soggetti si modificano, si estende l'autorità della Chiesa che ora vede sorgere accanto a quello romano anche il clero longobardo; inizia l'avvicinamento dei due popoli che si farà sempre più stretto per mezzo dei matrimoni e con l'avvicinamento cominciano i Longobardi a perdere la loro fisionomia nazionale, a ingentilire i loro costumi, e parlare il latino volgare, cioè a romanizzarsi.

BERTARIDO regnò diciassette anni e fu impegnato a sostenere una sola guerra contro un duca ribelle, ALACHI di Trento (che si lamentava di avere un ducato piccolo e misero). Affrontato, finì con il sottomettersi e conservò non solo Trento, ma su intercessione del figlio di Bertarido, Cuniberto, gli fu concesso anche il ducato di Brescia (che ripagò con l'ingratitudine, quando iniziò a mirare in alto)

Quando nel 688 Bertarido muore, gli succede proprio il figlio CUNIBERTO, il quale nello stesso anno, dovette subire una guerra scatenatagli dall'ingrato ALACHI, che per poco non gli costò la vita.

ALACHI, come abbiamo visto, era uscito più forte dal conflitto di Trento. Cessato il re di vivere, il duca di Trento e di Brescia, spinto dalla sua ambizione, dall'avversione che nutriva per il clero e dagli scismatici della Venezia, dimenticando il giuramento di fedeltà che aveva prestato al defunto sovrano nella Chiesa di S. Michele, piombò improvvisamente su Pavia, costrinse CUNIBERTO a rifugiarsi nell'isola Comacina, s'impadronì della città e della reggia e si proclamò re.
Durò poco, ben presto gli oltraggi arrecati al clero, il suo dispotismo e la sua violenza gli alienarono gli animi di quelli stessi che lo avevano sostenuto e provocarono la sua caduta. Richiamato mentre Alachi era assente, CUNIBERTO ritornò a Pavia fra le acclamazioni della cittadinanza. ALACHI spodestato, non si diede per vinto: recatosi nella Venezia, dove contava molti suoi sostenitori, mise su un esercito e mosse contro Pavia, ma a Cornate sull'Adda subì una terribile sconfitta e rimase ucciso (688) insieme con moltissimi dei suoi soldati. Sul campo di battaglia, a perpetuare il ricordo della vittoria, più tardi Cuniberto fece costruire un monastero che dedicò a San Giorgio.

Altra guerra CUNIBERTO ebbe a sostenere contro Ansfrido di Ragogna, il quale, impadronitosi del ducato del Friuli, era avanzato con un esercito, fino a Verona; ma sotto le mura di questa città fu sconfitto e, dopo averlo catturato fu privato fu accecato e mandato in esilio.

Questi furono i soli avvenimenti che turbarono il regno di Cuniberto, durante il quale fiorì a Pavia la scuola del grammatico FELICE ed ebbe fine lo scisma dei Tre Capitoli. Cattolico pio ed amico del clero, Cuniberto convocò a Pavia nel 698 un concilio al quale parteciparono numerosi vescovi dell'Italia settentrionale, compresi quelli dissidenti del patriarcato di Aquileia. Nel concilio fu condannata l'eresia dei Tre Capitoli e ne fu data comunicazione al pontefice SERGIO I per mezzo di una lettera sinodale redatta dal vescovo di Pavia, DAMIANO.
Per ordine del papa furono bruciati tutti i libri degli eretici e Cuniberto ebbe in premio, l'indulgenza plenaria.

CUNIBERTO cessò di vivere nel 700 lasciando un figlio, ancora minorenne, LIUTBERTO, sotto la tutela di ANSPRANDO, valoroso longobardo di illustre famiglia.
Contro l'erede infante e il tutore mosse RAGIMBERTO, duca di Torino che, quale parente di Cuniberto, pretendeva lui la reggenza. La sorte delle armi gli fu favorevole: a Novara sconfisse le truppe di ANSPRANDO e, penetrato nella capitale, si proclamò re (701).
Ma non regnò a lungo; morì nello stesso anno lasciando il trono al figlio ARIBERTO II, il quale ben presto dovette sostenere accanite lotte contro ANSPRANDO e LIUTBERTO, spalleggiati da ROTARI, duca di Bergamo. In una sanguinosa battaglia presso Pavia sconfisse i nemici e, fatto, prigioniero il piccolo Liutberto, gli tolse la vita; mosse quindi contro Rotari e, conquistata Lodi, assediò il duca proprio nella sua città, Bergamo. Costretto ad arrendersi, Rotari subì ogni sorta di umiliazioni, poi mandato in esilio a Torino, fu fatto perire (702).

Sbarazzatosi del duca di Bergamo, ARIBERTO II andò contro ANSPRANDO che si era rifugiato nell'isola Comacina; ma questi, prima di essere assalito, riuscì a mettersi in salvo presso la corte di TEODOBERTO di Baviera.
Ariberto, non potendo avere fra le mani il suo più accanito avversario, sfogò l'ira contro la sua famiglia in un modo malvagio e cruento: alla moglie TEODERADA ed alla figlia fece mozzare il naso e le orecchie e fece accecare il figlio maggiore SIGIBRANDO. Solo il piccolo LIUTPRANDO, per la sua giovanissima età ma anche per la sua gracile costituzione che non lasciava speranze a una lunga vita, fu risparmiato e riuscì a raggiungere il padre in Baviera.

Sotto il regno di ARIBERTO II ci fu un'invasione di Slavi nel Friuli, che sconfissero ed uccisero il duca FERDOLFO; il ducato di Benevento, che dopo la guerra contro Costante si era esteso fino all'Adriatico, fu ingrandito da Gisulfo II, che s'impadronì di Sora, di Arpino e di Arco e, spintosi verso Roma, fu indotto a lasciare in pace la metropoli dalle preghiere e dai donativi di papa GIOVANNI VI

PAOLO DIACONO ci assicura che Ariberto si meritò il titolo di principe giusto e pio, che protesse il clero e restituì alla Chiesa romana il patrimonio delle Alpi Cozie che Rotari aveva a suo pro confiscato.

Se tutto quello che ci dice e riporta Diacono è vero, dobbiamo forse pensare che Ariberto cercasse di far dimenticare l'origine violenta del suo regno e di consolidare il proprio potere con l'appoggio della Chiesa.

C'era però chi non poteva dimenticare anche dopo dieci anni. ANSPRANDO, esule in Baviera, covava in cuor suo la vendetta e questa riuscì a portarla a termine nel 712. Dopo lunghe preghiere, riuscito ad avere da re Teodoberto, un forte contingente di uomini armati Bavaresi, scese in Italia dall'Alto Adige e, affrontato deciso presso Pavia l'esercito di Ariberto, scatenò la battaglia della sua riscossa e della sua vendetta.
La battaglia fu però lunga ed anche accanita per tutto il giorno, e terminò alla sera, senza una vittoria né dell'una né dell'altra parte.
Ma durante la notte, Ariberto sfiduciato forse dalla forte resistenza del nemico e temendo una cattiva sorte per il giorno dopo, levò il campo per ritirarsi a Pavia, dove sperava di resistere barricandosi nella fortezza. Questa ritirata sembrò una palese confessione d'inferiorità: i suoi soldati si sdegnarono, e a guadagnarci fu il nemico che acquistò a quel punto (prima non stavano meglio nemmeno questi) maggior coraggio nella battaglia che il mattino dopo doveva ricominciare.
Ariberto, vedendo che gli veniva meno il favore delle stesse sue truppe, decise allora di fuggire in Francia, non prima di aver preso il denaro, l'oro e i preziosi dalla cassa del regno, e abbandonò Pavia. Ma incalzato nella fuga, per sfuggire agli inseguitori, nel passare a nuoto il Ticino, impacciato e appesantito dal tesoro che portava addosso miseramente morì annegato.

Fu così innalzato al trono ANSPRANDO, che rimandò indietro l'esercito bavarese con ricchi doni. Ma dopo aver aspettato tanti anni il suo regno fu brevissimo: tre mesi dopo (giugno del 712) moriva. Gli succedette il figlio, quel ragazzino scampato alla scempio della sua famiglia, così gracile e con un piede quasi nella fossa, che Ariberto non aveva ritenuto necessario di sopprimere ed aveva mandato in Baviera a raggiungere il padre. Era LIUTPRANDO, che diventerà invece il più illustre dei re longobardi.

Regnerà per 32 anni (fino al 744), portando durante il suo regno - grazie alle sue conquiste territoriali e a una pacificazione, pur tra ricorrenti contrasti con la Chiesa (Iconoclastia) - i Longobardi alla massima potenza, e impostò -unico fra i Re Longobardi- un progetto di unità della penisola italiana, purtroppo - ormai era troppo tardi- senza realizzarlo. Anche se riformò profondamente la legislazione longobarda.

Il tentativo dei Re longobardi di unificare la Penisola, estromettendo i Bizantini, stabilendo rapporti pacifici con la Chiesa e rafforzando il Regno per ottenere un equilibrio di forze rispetto ai Franchi, era destinato a fallire proprio a causa degli elementi di conflittualità anche all'interno degli stessi duchi longobardi. E furono proprio questi che portarono poi alla sconfitta i Longobardi ad opera dei Franchi.

Tuttavia con Con Liutprando prevalse definitivamente il partito cattolico, che sosteneva l'autorità regia in opposizione al precedente 'autonomismo dei Duchi ariani. Il nuovo Re si impegna infatti a rafforzare il Potere Centrale, a reprimere le spinte autonomistiche, ed a cercare di eliminare quella discontinuità territoriale nell'Italia centrale, che egli identifica (e non aveva torto) come elemento di vulnerabilità per il proprio potere. Cerca anche di trarre vantaggio dalla Crisi iconoclastica, che contrappone la Chiesa di Roma ai Bizantini. Attacca infatti con decisione le tradizionali roccaforti bizantine dell'Esarcato.

Il Papa all'inizio è soddisfatto, sta al gioco, ma di fronte al pericolo di un eccessivo rafforzamento dei Longobardi, si schiera decisamente con l'Impero; Liutprando è costretto a recedere da buona parte dei territori conquistati, per la pressione non tanto militare, quanto per un'autorità spirituale (le cosiddette influenze del Papa) della quale anche i fieri Longobardi ormai devono tener conto. Liutprando dopo aver sottratto ai Bizantini molte terre  della Romagna, imposta l'autorità regale ai riottosi duchi di Spoleto e  di Benevento, e dona al Papa il feudo di Sutri che aveva espugnato ai Bizantini. Con questa donazione ebbe inizio la prima sovranità temporale dei papi.
Il papato si inserisce nella lotta feudale, e diventa anch'esso feudale. Liutprando oltre questo dono, pagò anche una forte somma per avere le ossa di Sant'Agostino e  le trasportò a Pavia, nella Basilica di S. Pietro in Ciel d'Oro, alla sua morte fu sepolto con il  padre nella Basilica di Santa Maria in Pertica, poi traslato proprio in S. Pietro in Ciel d'Oro. All'interno della basilica una targa sulla colonna di destra ricorda  la sepoltura del grande re
Abbiamo sintetizzato, ma il suo periodo, proprio perche occupa un arco di tre decenni, merita di dedicargli un intero capitolo.


FINE

Durante il regno di Liutprando, in Italia e a Bisanzio
inizia l'accesa disputa del movimento religioso "ICONOCLASTIA"
che divenne anche una disputa politica
e che mise fine al dominio bizantino in Italia.

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi

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