ANNI 743 - 756 d.C.

PIPINO RE DEI FRANCHI - REGNO DI ASTOLFO 

LA FRANCIA DOPO LA MORTE DI CARLO MARTELLO - CARLOMANNO E PIPINO - MONACAZIONE DI CARLOMANNO - FINE DELLA DINASTIA MEROVINGIA - PIPINO RE DEI FRANCHI - STEFANO II ED ASTOLFO - STEFANO II A PAVIA E IN FRANCIA - NUOVA POLITICA DELLA SANTA SEDE - LA "PROMISSIO CARISIACA" - PIPINO PATRIZIO DI ROMA - SUA INCORONAZIONE A SAINT-DENIS - PRIMA GUERRA TRA PIPINO ED ASTOLFO - ASTOLFO SOTTO LE MURA DI ROMA - SECONDA SPEDIZIONE DI PIPINO IN ITALIA - PACE TRA I FRANCHI E I LONGOBARDI - MORTE DI ASTOLFO
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PIPINO E IL PAPATO

Abbiamo già accennato - nella precedente puntata- che CARLO MARTELLO, morendo, aveva diviso gli stati franchi fra i suoi due figli legittimi, CARLOMANNO e PIPINO. Al primo erano toccate l'Austrasia, la Turingia e l'Alemannia; al secondo la Neustria, la Borgogna e la Provenza. Ad un terzo figlio, naturale, avuto da Zuanilda, di nome GRIFONE, aveva assegnato alcune terre sparse qua e là nei domini degli altri due fratelli.

Di questa divisione non poteva esser contento Grifone che aveva avuto meno degli altri e presto nacquero gravi discordie tra i tre fratelli delle quali approfittarono i nobili della Neustria nel 743 per mettere sul trono CHILDERICO III (ultimo dei re merovingi) che era stato chiuso in un convento.
Ma questo misero simulacro di re non poteva nuocere alla potenza di Carlomanno e di Pipino i quali, pur essendo soltanto dei maggiordomi, continuarono ad avere nelle loro mani tutta la forza del paese.

L'innalzamento di Childerico non mutò per nulla le cose di Francia: i tre fratelli continuarono a guerreggiarsi ed ai primi due fu facile avere ragione del terzo, il quale, insieme con la madre Zuanilda che era stata la vera causa della discordia, fu imprigionato. Vinto Grifone, i due figli legittimi di Carlo Martello portarono le armi contro i suoi alleati. ODILONE di Baviera, sconfitto sul Lech, si sottomise e conservò il suo ducato: UNOLDO di Aquitania, che si era ribellato già altre volte, dopo averlo sconfitto lo privarono dei suoi domini.

Eliminato Grifone e vinti i suoi sostenitori, arbitri della Francia rimasero solo loro due: CARLOMANNO e PIPINO. Entrambi erano fedeli continuatori della politica del padre che aveva avuta di mira la conquista dei paesi di là dal Reno e la costituzione di un vasto impero unito dal vincolo religioso. Con questo scopo Carlo Martello aveva mantenuto stretti rapporti con il Papato, aveva favorito la riforma del clero franco voluta dalla S. Sede ed era stato prodigo di aiuti al monaco inglese BONIFAZIO che papa Gregorio aveva mandato perché convertisse al Cristianesimo i Turingi, i Sassoni e i Frusoni ancora pagani.

Carlomanno e Pipino diedero tutto il loro appoggio a Bonifazio, il quale riuscì a condurre a buon punto la riforma ecclesiastica mediante una serie di assemblee che si chiusero con il concilio di Leptines (745), dove fu ristabilita la gerarchia, si emanarono norme per la disciplina del clero secolare e regolare e furono prese misure per difendere i patrimoni delle chiese.
In premio dell'opera sua Bonifazio fu fatto, nel 746, vescovo di Magonza, sede episcopale importantissima perché esercitava, sotto la diretta dipendenza del Papa, la giurisdizione in quasi tutta la Germania cristiana.

L'anno dopo, uno dei figli di Carlo Martello, CARLOMANNO, scomparve volontariamente dalla scena politica. Incline all'ascetismo e vinto dal rimorso di una guerra sanguinosamente condotta contro gli Alemanni, affidò i suoi domini al fratello e, accompagnato da molti nobili australiani, si recò nel 747 a Roma dove ricevette dalle mani del pontefice Zaccaria la tonaca; poi fondò sul monte Soratte un convento, che dedicò a S. Silvestro, vi si chiuse dentro e vi rimase fino a quando, desideroso di una maggiore solitudine, non si ritirò a Monte Cassino.

Con il ritiro di Carlomanno rimaneva solo PIPINO. Ora il vero padrone della Francia e di fronte a lui, valoroso guerriero, uomo di stato prudente ed abilissimo e figlio di colui che aveva data nuovamente la tranquillità e l'unità ai regni franchi e li aveva salvati dall'Islamismo, il legittimo re CHILDERICO non era che un'ombra.

Tutto era maturo per il colpo di stato, che forse da qualche tempo Pipino meditava; ma questi non voleva che il trapasso della dignità regia dalla casa merovingia a quella carolingia avvenisse con un atto di violenza. Nessun ostacolo avrebbe incontrato Pipino nel deporre l'ultimo dei "rois fainéants", ma l'atto sarebbe apparso come un'usurpazione; che avrebbe reso meno forte e duratura quella casata che l'avesse commesso.

Per dar veste di legalità al colpo di stato l'accorto maggiordomo ricorse alla suprema autorità religiosa. Essa sola poteva sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà prestato al sovrano e legittimare il trapasso della potestà regia, con una sentenza cui avrebbe dato validità la qualità di rappresentante del diritto divino che aveva il Pontefice.

Dopo essersi certamente messo d'accordo con il Papa, Pipino mandò a Roma come legati, nei primi del 751, FULRADO, abate di S. Dionigi, e BERNARDO vescovo di Wurtzburg, che consultarono papa ZACCARIA circa i re franchi, i quali "portavano il nome di re, senza avere l'autorità regia".
Il Pontefice sapeva già cosa doveva rispondere, e se non l'avesse saputo avrebbe forse data la medesima risposta che diede, consigliato dagli interessi della Chiesa alla quale nella persona di Pipino assicurava il miglior difensore che si potesse desiderare. Zaccaria rispose che era meglio "che chi aveva l'autorità re, doveva avere anche il titolo di re" e che "ut non conturbaretur ordo" disponeva con l'autorità della sede apostolica che si eleggesse re Pipino. " Mi pare buono e utile che sia re colui che senza averne il nome ne ha il potere, a preferenza di quegli che ha il nome e non l'autorità di re".

Del resto "il principe CHILDERICO - ci ha lasciato scritto Eginardo- si accontentava di avere lunghi capelli e lunga barba; era egli ridotto ad una pensione alimentaria regolata dal prefetto di palazzo, non possedeva che una casa di campagna di una modica rendita, e quando viaggiava, era portato sopra un carro trascinato da buoi, che guidava un bifolco della sua campagna".

"…E' questa - nota il Bartolini - una posizione del tutto nuova che il papato viene ora ad avere nella storia. Si è introdotto ormai a piene mani nel politismo del mondo cristiano, e la semenza del diritto teocratico è già posta nel suolo, che poi Gregorio VII saprà poi con maestria far germogliare, coltivare e raccogliere i frutti…".

Senza dubbio gli interessi appoggiarono le realtà politiche. Esistevano grandi legami fra i papi Gregorio II e III ed il prefetto di palazzo Carlo Martello. Ora PIPINO desiderava diventare re dei Franchi, come ZACCARIA bramava di sottrarsi al giogo degli imperatori di Costantinopoli protettori degli Iconoclasti, oltre che a liberarsi dall'oppressione dei Longobardi.
Avere i Franchi amici, alleati, disponibili - come avevano dimostrato due volte- era già una garanzia; se poi la Chiesa riconosceva Pipino re, avrebbe avuto da lui o dai suoi discendenti anche un perenne debito di gratitudine.

Nel novembre del 751 Pipino convocò a Soisson un'assemblea e, con il consiglio di tutti i Franchi, con l'assenso della Santa Sede, con la consacrazione dei vescovi, con l'obbedienza dei Grandi, fu proclamato re. All'elezione seguì la consacrazione di Pipino a Re di Francia, che in nome del Pontefice, fu fatta dal vescovo di Magonza.
Chautebriand con certi storici, arrabbiandosi, e affermando che è una menzogna che poi si crede verità a forza di ripeterla, dire che "fu l'incoronazione di Pipino un'usurpazione alla corona merovingia", fu invece una vera e propria "monarchia elettiva"…La Francia intera lo proclamò Re! "…" . Dopo quest'atto, CHILDERICO III e il figlio TEODERICO furono vestiti dell'abito monastico e chiusi, l'uno nel convento di Saint Bertin, l'altro in quello di Waudrille.
Terminava la dinastia Merovingia dei franchi salii, fondata dal leggendario Meroveo unificatore della Gallia, durata due secoli.
Iniziava quella dei Pipinidi, progenitori della prossima dinastia carolingia.

Con l'aiuto morale prestato a Pipino il Pontefice aveva voluto assicurare alla Chiesa romana l'amicizia del potente monarca dei Franchi. Di quest'amicizia aveva grandissimo bisogno. Dopo la monacazione di Rachi era salito al trono longobardo il fratello ASTOLFO, esponente di quel partito anticattolico che vagheggiava l'unificazione dell'Italia sotto la sovranità dei Longobardi. Appena salito al trono, Astolfo aveva revocate le donazioni fatte dal fratello in favore del clero e, nel 751, aveva invaso l'esarcato e si era impadronito di Ravenna.

ZACCARIA però non riuscì a cogliere i frutti della sua politica e vedere il corso degli avvenimenti: nel marzo del 752 cessò di vivere e gli successe un prete STEFANO. Questi però mori tre giorni dopo, ed ebbe la tiara un altro STEFANO che fu detto II e non III essendo il suo predecessore morto prima che fosse consacrato.

La situazione in cui si trovava Roma era allora delle più critiche. L'esarcato era in potere dei Longobardi, il ducato di Spoleto era annesso al regno e Astolfo mostrava di volere invadere il ducato romano in cui - se è vero quel che scrive Benedetto di Monte Soratte, cronista del secolo XI - era invocato da un partito di Italiani ("viri Romani scelerati").

Stefano II tentò di allontanare la tempesta che cominciava a addensarsi sul cielo di Roma e inviò al re il fratello Paolo e il primicerio dei notai Ambrogio ai quali riuscì stipulare con i Longobardi una pace di quarant'anni. Che invece non durò che quattro mesi soltanto, pretendendo Astolfo, come tributo annuo, un solido d'oro a testa per ogni cittadino romano.

Il Pontefice non poteva, cedendo alle pretese di Astolfo, rinunciare alla politica che aveva caratterizzata per tanti anni la condotta della S. Sede. Egli fece allora un ultimo tentativo mandando al re longobardo gli abati di Montecassino e di S. Vincenzo al Volturno; ma gli ambasciatori non furono neppure ricevuti, ebbero l'ordine di tornare ai loro conventi senza neppure passare per Roma.

Non rimaneva al Papa che rivolgersi a Costantinopoli, e chiedere all'imperatore che inviasse un esercito in Italia per ricuperare l'esarcato e difendere Roma dalla minaccia longobarda. Ma l'imperatore non era in grado di inviare aiuti nella penisola e invece di truppe mandò il "silenziario" (comandante della guardia) GIOVANNI con l'ordine di reclamare da Astolfo le terre dell'esarcato.

Giovanni fu da Stefano II mandato a Ravenna in compagnia del fratello Paolo, ma quest'ambasceria non ebbe miglior successo di quella dei due abati: Astolfo non volle dare alcuna risposta e rimandò il silenziaro a Costantinopoli, accompagnato da un suo ambasciatore che forse aveva l'incarico di trattare direttamente con l'imperatore.

Su quali basi appoggiare queste supposte trattative non sappiamo: ma il fatto che Astolfo non volle alla presenza del fratello del Pontefice dare a Giovanni una risposta ci fa sospettare che i disegni del re dovessero essere dannosi agli interessi del Papato. E questo sospetto dovette senza dubbio avere lo stesso Pontefice, il quale a Giovanni che tornava a Costantinopoli gli mise alle costole alcuni suoi legati perché spiassero l'ambasciatore longobardo, ma anche per dire all'imperatore di non fidarsi del re longobardo e di sollecitarlo di inviare in Italia un esercito.

Tuttavia il Papa sapeva che l'imperatore non era in condizioni da intraprendere una guerra contro i Longobardi, e mentre i suoi legati andavano a Costantinopoli pensò di tentare un'altra via, con un bel "colpo di teatro". Spedì in Francia a Pipino una lettera per mezzo di un pellegrino chiedendo di essere ufficialmente invitato a recarsi in Francia. Lo scopo di questa lettera era evidente: Stefano II voleva che l'invito del re franco suonasse come minaccia o avvertimento agli orecchi di Astolfo e significasse annuncio formale ed esplicito della "protezione" della S. Sede da parte della Francia.

Il Papa era senza dubbio un politico consumato, ma non lo era di meno Pipino, al quale non sfuggirono le conseguenze che potevano derivare da un simile invito, perché protezione voleva dire intervento in Italia a difesa del Pontefice contro i Longobardi con i quali i Franchi non erano in cattivi rapporti, e un intervento in Italia non avrebbe potuto aver luogo senza il consenso dei Grandi duchi.
Ma il Papa seppe tanto e cosi bene insistere, che Pipino decise di convocare un'assemblea di duchi franchi per discutere dell'opportunità d'invitare il Pontefice in Francia. I duchi, che a loro volta erano stati direttamente sollecitati dal Papa, espressero parere favorevole e fu allora deciso che l'invito fosse fatto in forma solenne.

A portare l'invito a Roma furono mandati CRODEGANGO vescovo di Metz e il duca AUTICARIO, che era stato referendario di Carlo Martello. I due ambasciatori giunsero a Roma nel 753, dove poco prima erano tornati da Costantinopoli i legati papali e il silenziario Giovanni con lettere dell'imperatore in cui si ordinava al Pontefice di recarsi da Astolfo e chiedergli la restituzione dell'esarcato. A quel punto il papa cominciò a sentirsi dentro una "botte di ferro".

Ottenuto dal re longobardo un salvacondotto, affidato il popolo romano "alla protezione dell'apostolo S. Pietro", il 14 ottobre di quello stesso anno il Papa partì da Roma in compagnia dei due ambasciatori franchi e del silenziario e con numeroso seguito di ecclesiastici e di laici si recò a Pavia portando ad Astolfo ricchissimi doni.

Il re fece al Pontefice buon'accoglienza, ma rifiutò di restituire le terre conquistate ai Bizantini e quando STEFANO II gli chiese il permesso di attraversare l'Italia settentrionale per recarsi in Francia si oppose, ben immaginando lo scopo di quel viaggio. Ma le insistenze degli ambasciatori franchi furono così insistenti che, alla fine, Astolfo concesse il permesso, e il Papa il 15 di novembre riuscì a partire da Pavia.

Al monastero di S. Maurizio, nella valle del Rodano, gli vennero incontro FULRADO, abate di San Dionigi, e il duca Rotardo, i quali gli annunciarono che Pipino lo aspettava a Ponthion, sulla Marna. A venti miglia da Ponthion il Pontefice fu ossequiato da un ragazzino undicenne, Carlo, primogenito del re, che passerà alla storia col nome di CARLO MAGNO, e il 6 gennaio del 754 avvenne l'incontro tra Pipino e Stefano II. Il re franco scese da cavallo, s'inginocchiò ai piedi del Papa, ne ricevette la benedizione, poi lo accompagnò per un buon tratto di strada ed entrò insieme con lui a Ponthion tra una folla che plaudiva e cantava inni.

Il giorno dopo in una villa del re, alla presenza di molti dignitari della Chiesa e del regno avvenne il primo colloquio tra il re e il Pontefice. Questi lo scongiurò di voler difendere la causa di S. Pietro e della Repubblica romana, e Pipino gli promise di difendere la S. Sede e di adoperarsi affinché fossero a lui restituite le terre usurpate dai Longobardi.

Una cosa importantissima è qui da notare, che cioè Stefano II non chiese al re che procurasse di far restituire l'esarcato all'impero. Questo è messo ora da parte. II Pontefice dall'intuito accorto, ha ben capito che Pipino e i Grandi Duchi del suo regno non scenderanno in guerra per favorire l'imperatore, ma per difendere le giustizie di S. Pietro, e quindi da questo momento dà un nuovo orientamento alla sua politica. Poiché ha trovato un valido difensore, egli vuole adoperarlo in pro della Chiesa romana.
Del resto il debole vincolo che univa la Chiesa all'impero è stato spezzato definitivamente nell'agosto del 753 con il concilio costantinopolitano confermante la politica iconoclasta di Leone, seguita da Costantino Copronimo, quindi le richieste papali hanno piena giustificazione.

Necessità di cose, insofferenza di una situazione instabile che minacciava, a lungo andare, di compromettere la sicurezza personale dei pontefici, nessuna speranza di aiuto dall'Oriente, desiderio di conservare l'indipendenza del ducato romano contro l'aggressiva politica di Astolfo, ambizione di trarre i maggiori vantaggi da una combinazione fortunata che offriva alla S. Sede una seducente prospettiva di potenza e d'ingrandimento territoriale: tutto concorse a spingere Stefano verso un nuovo orientamento politico e a vincere in lui quegli scrupoli legittimisti (non avendo la forza a disposizione) che avevano fin allora trattenuto i pontefici dal rompere i secolari legami di sudditanza all'imperatore.

Così l'evento che il tempo stava maturando, e che il grande dissidio iconoclasta aveva affrettato, e la precedente politica di Gregorio II, Gregorio III e Zaccaria aveva spianato la via, andava a compiersi ora, per opera di questo prete romano, nel quale, più che la pietà religiosa, era forte l'abilità diplomatica e il senso dell'opportunità politica, e che, sostituendo con mirabile disinvoltura il protettorato franco a quello bizantino, fu il vero iniziatore del principato civile della Chiesa " ("Romano").

Al primo colloquio tra il Pontefice e Pipino altri ne seguirono, poi si cercò d'indurre con mezzi pacifici Astolfo a cedere alla S. Sede i territori che erano stati dei Bizantini. Tre ambascerie furono mandate a Pavia, ma nessuna di loro riuscì a piegare il re longobardo, il quali tentò anzi di trarre dalla sua i Franchi mandando a Pipino il monaco Carlomanno.

Riuscito inutile ogni tentativo di far riavere a "S. Pietro" le sue "giustizie" pacificamente, l'abile "papa prete" non indugiò: bisognava allora ricorrere alle armi! Due assemblee di Grandi furono tenute in Francia, l'una il 1° marzo del 754 a Braisne, presso Soissons, l'altra il 14 aprile, giorno di Pasqua, a Quierzy ("Carisiacum"), e in quest'ultima fu decisa la guerra contro i Longobardi.

Secondo alcuni, in questa seconda assemblea Pipino rilasciò al Papa un documento ("Promissio Carisiaca"): prometteva di cedere alla S. Sede, dopo la conquista, la Corsica, la Venezia, l'Istria e i territori a sud di una linea che da Luni andava a Parma, a Reggio, a Mantova e a Monselice, e in più i ducati di Spoleto e di Benevento: secondo altri questo famoso documento è solo un parto della fantasia del biografo. Secoli dopo si disse che era un clamoroso falso storico sostenuto solo da un "continuo ripeterlo" fino a farla diventare una verità. La "promissio" fra l'altro s'intreccia con la "donazione" costantina, e sembrerebbe che quest'ultima ritenuta falsa come documento, sia stato redatto in quella composizione che avvenne poi in questi anni (anno 800) con l'incoronazione di Carlo Magno a Roma (falsità ipotizzata da Ottone III per motivi formali. Mancanza di sigillo. Fu poi dimostrata in base a incontrovertibili argomenti storici e linguistici da N. Cusano e da L. Valla nel XV secolo)

Sarebbe inutile qui riportare le tante ragioni per dimostrare l'esistenza o meno del documento "carisiaco". Se non scritta, la promessa ci fu certamente e questo importa sapere. E' presumibile - per come andranno le cose- che il papa chiese qualcosa di "solido", dopo che abbiamo visto che tipo che era.
II Papa in Francia aveva quindi ottenuto tutto quello che voleva. Ma nell'attesa che la guerra incominciasse e il ducato romano s'ingrandisse, con i domini bizantini, volle stringere ancor di più i legami con i Franchi e rendere un servigio a Pipino che, di riflesso, aveva lo scopo di accrescere maggiormente l'autorità papale. Secondo una leggenda -indubbiamente la mise in piedi lo stesso "papa-prete" durante una sua malattia contratta in Francia, apparvero al Pontefice, S. Dionigi, S. Pietro e S. Paolo che gli promisero di farlo guarire a patto che innalzasse un nuovo altare a S. Dionigi. Stefano II promise e fece erigere in pochi mesi l'altare nella chiesa di Saint-Denis, dove poi il 28 luglio del 754 si svolse una cerimonia importantissima.

Il Papa incoronò PIPINO e la regina BERTRADA e consacrò i due figli CARLO e CARLOMANNO e quel giorno stesso ordinò ai Franchi sotto pena di scomunica, che non eleggessero per l'avvenire, sovrani che non appartenessero alla stirpe di Pipino. Dall'autorità del Pontefice riceveva così consacrazione una dinastia e questa consacrazione altro non era che una conferma fatta in forma solenne del parere emesso dal Papa Zaccaria nel 751 che a Pipino aveva fruttato la corona.

Dal Papa il re dei Franchi ricevette pure in quell'occasione il titolo onorifico di patrizio romano che fu conferito anche ai due figli. Era questa la prima volta che un pontefice si arrogava il diritto, che fino allora era stato soltanto dell'imperatore, di conferire il patriziato. Arrogandosi tale diritto egli si considerava investito della sovranità di Roma; conferendo al re tale titolo legittimava l'opera che Pipino si accingeva a compiere direttamente contro i Longobardi e indirettamente contro Costantinopoli.

SPEDIZIONE DI PIPINO IN ITALIA
E MORTE DI ASTOLFO

Prima che la guerra iniziasse Pipino si sbarazzò di tutti quei parenti che avrebbero potuto usurpargli il trono durante la sua assenza.
Abbiamo visto che il fratello Carlomanno, il monaco Montecassino, era venuto in Francia a perorare la causa di Astolfo. Pipino non lo rimandò più in Italia e lo fece chiudere nel monastero di Vienne, presso il Rodano. Drogone e gli altri figli di Carlomanno furono costretti a prender l'abito monastico. Sorte diversa, ma non migliore, toccò a Grifone, il figlio naturale di Carlo Martello, il quale, volendo trarre profitto dalla guerra imminente, radunò una forte schiera con il proposito di passare in Italia in aiuto di Astolfo. Alle Alpi però fu affrontato dalle truppe del fratello e fu ucciso in combattimento.

Nell'estate del 754, o come altri affermano, nel 755, dopo aver fatto un ultimo tentativo presso Astolfo offrendogli la somma di dodicimila solidi d'oro in cambio della cessione dei territori usurpati, Pipino, raccolto un fortissimo esercito, mosse alla volta dell'Italia. Lo comandava lo stesso re, il quale aveva con sé il Papa, l'abate Fulrado di S. Dionigi ed altri prelati: precedeva il grosso un corpo di truppe con l'ordine di occupare il valico del Cenisio.

Astolfo aveva radunato il suo esercito nella valle di Susa e precisamente alle Chiuse con lo scopo di sbarrare il passo al nemico: ma la ristrettezza del luogo non gli permise di spiegare tutte le sue forze e, venuto a battaglia con l'avanguardia francese, fu duramente sconfitto e costretto a chiudersi a Pavia. Qui Pipino quando entrò in Italia andò ad assediarlo, ma l'assedio non durò a lungo. Vista inutile la resistenza e temendo più di quello che i nemici volevano, Astolfo scese a patti, e le trattative portarono ad un trattato di pace con La quale il re longobardo si impegnava di cedere Ravenna e le altre città occupate e di non recare per l'avvenire molestia alla Chiesa romana. Alcune fonti vogliono che il re fu obbligato a pagare anche una grossa indennità di guerra al vincitore al quale diede anche quaranta ostaggi.

Conclusa la pace, per timore che durante la sua assenza potesse perdere il trono, Pipino fece ritorno in Francia. STEFANO II invece, in compagnia di Fulrado, si recò a Roma. Qui il Pontefice aspettò che Astolfo mantenesse i patti; ma la sua, fu un attesa lunga e vana. Il Longobardo prima tergiversò poi si rifiutò apertamente; infine, il primo gennaio del 756 con un grosso esercito invase il ducato romano, saccheggiando e devastando, e giunto sotto le mura di Roma minacciò di trucidare gli abitanti se la città non si fosse subito arresa e consegnato il Papa.

Questi, impaurito dal pericolo che lo minacciava, non potendo difendersi con le sole sue forze, spedì al galoppo al re dei Franchi l'abate Fulrado informandolo della disperata situazione in cui si trovava e chiedendo che corresse in suo aiuto. Pipino, forse per l'impopolarità della guerra contro i Longobardi, forse anche timoroso di allontanarsi dal suo regno, nicchiava. Il Pontefice però non gli diede tregua, lo tempestò di lettere in cui gli rammentava le solenni promesse e gli descriveva a foschi colori lo stato delle cose.

Infine, per meglio influire sull'animo del re (le risorse di questo "prete" furono inesauribili) gli mandò una lettera che figurava scritta da S. Pietro: "…Io, apostolo Pietro, capo di tutte le chiese, vengo innanzi a voi, rivestito quasi del mio corpo, e vi chiamo a combattere contro i nefandi Longobardi, perché io prediligo voi e il popolo dei Franchi sopra ogni altro popolo, e con me vi prediligono la sempiterna Vergine Maria, i troni, i principati e tutte le schiere celesti, i martiri, i credenti in Gesù Cristo e tutti quanti sono in grazia del Signore, perché non lasciate cadere il mio capo nelle mani dei nemici. Per questo aiuto, io vi prometto la mia protezione. Correte…".

Questa lettera fece l'effetto che il Pontefice si riprometteva: Pipino raccolse un esercito e nella primavera del 756 marciò alla volta dell'Italia per la stessa via percorsa nella precedente guerra.

Minacciato dalle Alpi, impotente ad impadronirsi di Roma per la valida difesa della milizie del ducato, nel marzo, dopo tre mesi di assedio, Astolfo si allontanò dalla metropoli e corse a fronteggiare l'invasione. Anche questa, volta il re longobardo ammassò il suo esercito alle Chiuse, ma non servì a impedire ai Franchi di penetrare in Italia. Invece di forzare il passo tenuto dal nemico, essi calarono per impervi sentieri non custoditi e, così presero alle spalle i Longobardi, e inflissero loro una dura sconfitta.
Astolfo tornò a chiudersi a Pavia, ma non tardò a capitolare. Prima che la città si arrendesse, Pipino ricevette un ambasciatore di COSTANTINO COPRONIMO che in nome dell'imperatore chiedeva la restituzione all'impero dei domini bizantini occupati dai Longobardi. Il re franco rispose che lui non aveva intrapresa quella guerra in favore di nessun uomo (per nullius hominis favorem) ma per amore di S. Pietro e per ottenere il perdono dei peccati.

Ad ASTOLFO, per punirlo dei patti non mantenuti, PIPINO impose condizioni molto dure. Il Longobardo doveva dare un terzo del tesoro regio, offrire ostaggi, pagare l'annuo tributo di dodicimila solidi d'oro quanti i Longobardi ne pagavano sotto il regno di Agilulfo, e cedere Ravenna, Rimini, Cattolica, Pesaro, Fano, Cesena, Sinigaglia, Jesi, Forlimpopoli, Forlì, Castrocaro, San Leo, Acervia, Monte di Lucaro, Serra dei Conti, S. Marino, Sarsina, Urbino, Cagli, Cantiano, Gubbio, Narni e Comacchio. In sostanza doveva cedere solo le terre da lui conquistate. Di Bologna, Ferrara, Faenza, Imola, Osimo, Ancona e ed Umana che erano state prese al tempo di Liutprando non è fatta parola nelle fonti.

L'abate Fulrado ebbe l'incarico di andare a prendere sotto buona scorta la consegna, delle città e di farsene dare le chiavi. Queste furono mandate a Roma con l'atto di donazione. I Pochi mesi dopo Astolfo cessò di vivere (dicembre del 756). Era stato un valoroso guerriero, ma un cattivo politico e si era lasciato guidare più dal suo impulso e dal partito nazionale che dalla prudenza: era stato anche un cattolico fervente ed aveva fondato chiese e conventi; ma nonostante questo il Pontefice, dando comunicazione della morte di lui a Pipino, lo chiamava e "seguace del diavolo", "assetato del sangue dei cristiani", e diceva che l'anima di lui "era piombata nel baratro dell'inferno".

In queste parole che qualche storico ha biasimato noi non vediamo il linguaggio di un Papa, del capo spirituale della Chiesa, ma il linguaggio di chi aveva visto la politica della S. Sede osteggiata aspramente dal re, il linguaggio di un principe temporale che non ha dimenticato i pericoli corsi e le lotte sostenute per ingrandire e mantenere i domini della Chiesa e che vuole rendere omaggio al sovrano dei Franchi per aver saputo essere il valido difensore di S. Pietro e l'autore del dominio temporale.

FINE

Dopo la sconfitta longobarda e la morte di Astolfo
quattro mesi dopo moriva anche il papa.
La lotta papato-longobardi non era ancora terminata
c'era un re longobardo, ma c'era come papa il fratello di Stefano
andiamo quindi al periodo dall'anno 757 al 774 d.C. > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) GARZANTI 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi

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