SOTTO L’ALBERO  DELLA GOMMA... 

 SFRUTTAMENTO     
SCHIAVITU'    MORTE
     

 

 

  IL "MODERNO" "SISTEMA"  (ITERINALE?) 

DI  JULIOS CESAR ARANA

di PAOLO DEOTTO

C’era una volta una bellissima città, ai margini di una grande foresta. In questa città le facciate dei palazzi, bianchi come la neve, erano adornate di smalti preziosi, le fontane zampillavano acqua cristallina che riempiva le vasche dove nuotavano pesci esotici, e la gente era lieta e sorridente. Là vivevano molti uomini ricchi e rispettati, che avevano ai loro ordini servitori e guardie... E la fiaba potrebbe andare avanti così. 
Per molti era davvero una fiaba la città di Manaus, nell’Amazzonia brasiliana. Ma era una fiaba tremendamente vera, che faceva crescere in sé stessa i semi della sua rovina. Manaus, la capitale del lusso più sfrenato, delle stravaganze di ogni genere, dello spreco ostentato come segno di potenza, era cresciuta sotto la spinta dei guadagni favolosi prodotti dal commercio della gomma. 

A cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del Novecento la richiesta di gomma aveva preso a crescere in misura esponenziale. Iniziava nel mondo l’era dell’automobile, e se le prime vetture adottavano ancora ruote di legno da carrozza, nel 1895 i fratelli Michelin avevano dimostrato, gareggiando nella corsa Parigi-Bordeaux-Parigi con una Panhard dotata di "pneumatici", che quegli strani tubi di gomma, fino a quel momento usati solo per le biciclette, erano ben in grado di sopportare il peso di un autoveicolo, migliorandone anzi le prestazioni.
L’Amazzonia deteneva il monopolio naturale della gomma grezza vegetale, richiesta da ogni parte del mondo. Trecento milioni di alberi, sparsi su oltre tre milioni quadrati di foresta vergine rappresentavano una ricchezza che sembrava illimitata. E alla conquista di quella ricchezza si erano gettati in molti. Manaus, sorta sulle rive del Rio Negro, uno dei principali affluenti del Rio delle Amazzoni, era il cuore pulsante di quel monopolio. A Manaus non si parlava che di due cose: gomma e danaro.

MIGLIAIA DI SCHIAVI INDIOS

 E per la gomma e il danaro si consumarono crimini atroci, riducendo in vera e propria schiavitù migliaia di indios, abitatori di quelle foreste in cui l’uomo "civilizzato" non si sarebbe mai avventurato, se non sotto la spinta irresistibile dell’avidità. Utilizzati come lavoratori con regole e salari che ne facevano dei forzati, gli indios pagarono col loro sangue le ricchezze dei magnati della gomma: ogni tonnellata di gomma esportata, si sarebbe calcolato alcuni anni dopo, costava la vita di sette indigeni.

Le grandi piantagioni si trovavano in territori sterminati in cui nessuna autorità esercitava alcun potere. Alcune di esse, sul fiume Putumayo, sorgevano in una zona che, essendo oggetto di un’annosa disputa territoriale tra Brasile e Colombia, era di fatto terra di nessuno. In questa zona fondò il suo impero il più feroce tra i magnati della gomma: Julio Cesar Arana, peruviano. Uomo impenetrabile, questo despota cinico e spietato non si fermò davanti a nulla, neanche davanti ai peggiori delitti, per realizzare i suoi fini.
La Compagnia da lui fondata, e di cui fu sempre il "dominus" assoluto, adottò dei metodi di lavoro e di disciplina tali da causare, come si accertò nell’inchiesta che fu il preludio al crollo del suo impero, la morte di almeno ventimila indios. Un conto preciso non fu mai possibile, perché i "selvaggi" non avevano un’anagrafe. (in pratica tutti clandestini - Ndr.).

Vivevano in modo primitivo in tribù sparpagliate nell’immensa foresta, ed erano gli unici in grado di lavorare in un clima insopportabile per l’uomo bianco. (i bianchi quei lavori non li volevano più fare. Ndr.)  E se agli uomini veniva offerto lavoro, magari per sedici ore al giorno, la civiltà offriva anche alle donne un’attività (cioè l'incremento della  prostituzione che fu massiccio. Ndr.):  doveva pur esserci del materiale umano per i bordelli che servivano a consolare il personale di guardia, costretto ad una vitaccia, a lunghi mesi nella foresta, sparsi nelle diverse zone di estrazione della gomma. Gli indios erano per loro natura pacifici, ma alle volte potevano anche ribellarsi. Chi lo faceva una volta, non l’avrebbe mai più rifatto.

ARANA, "RE DEL CAUCCIÙ"
 
Quando si alzarono i veli sui misfatti di Arana e dei suoi uomini, uno dei dati più sconcertanti era costituito dalle ingenti spese della Compagnia per l’acquisto di carabine Winchester. I machete e le fruste si trovavano invece già in loco, non c’era bisogno di importarli. Nato nel 1864 a Rioja, in Perù, Julio Cesar Arana aveva iniziato a lavorare a quattordici anni, aiutando il padre, cappellaio come la maggior parte degli artigiani locali. Ma il giovane Julio non si accontentava del tranquillo guadagno che l’attività di famiglia poteva portargli. Avido e disordinato lettore di tutto ciò che trovava, era roso dall’ambizione e cercava qualcosa "di più". Neanche l’attività commerciale intrapresa col cognato, pur molto fruttuosa, gli era sufficiente. A venticinque anni Arana, da pochi mesi padre, comprava la sua prima piantagione di caucciù a Yurimaguas, sul fiume Huallaga, uno dei mille affluenti del Rio delle Amazzoni.

La gomma si stava rivelando l’affare del secolo e il giovane ambizioso peruviano non poteva restarsene fuori. Non fu che il primo dei suoi possedimenti. Doveva trovare una zona ancora inutilizzata, che potesse divenire il "suo" territorio; e la trovò in pochi anni sulle rive del Putumayo, portando poi la sede amministrativa dei suoi affari alla meta inevitabile: Manaus. A meno di quarant’anni Arana era già un uomo potente, a cui tutti davano il rispettoso titolo di "don", e che si distingueva nettamente dalla gran massa degli abitanti di Manaus. 

Manaus, come dicevamo sopra, era la città della fiaba, dove il danaro scorreva a fiumi, dove tutto era possibile. All’inizio del secolo il costo della vita nella capitale della gomma era il quadruplo rispetto a città come New York. Tutto era eccessivo, dal Teatro dell’Opera, al Palazzo del Governatore, alle ville di volgare lusso dei "colonnelli", come erano chiamati i grandi proprietari di piantagioni. Mentre nella maggior parte delle grandi città del mondo si usava ancora il tram a cavalli, questa città, che ogni giorno doveva contendere il territorio all’avanzata della vegetazione, si era dotata di venticinque chilometri di binari di tram elettrico.

SCHIAVISTA TUTTO CASA E FAMIGLIA

 I locali notturni erano piuttosto locali permanenti, perché non chiudevano mai. I gaudenti avevano a loro disposizione ogni tipo di divertimento; a Manaus la prostituzione era ostentata sfacciatamente, da numerose professioniste del settore, giunte addirittura dall’Europa. Veniva importato di tutto, purché fosse superfluo, tanto la ricchezza non sarebbe finita mai. Arana si manteneva estraneo a questo clima di festa permanente: di carattere gelido, non frequentava alcun locale, non si concedeva divertimenti, né si poteva fare alcun pettegolezzo sulla sua vita privata. La moglie Eleonora e i figli erano, insieme agli affari, i suoi unici interessi. La sua casa era ricca, ma non sfarzosa; non era adornata di ceramiche o di smalti dorati, come era di moda. Sull’ingresso aveva fatto scolpire il suo motto: "Attività-Costanza-Lavoro". 
All’alba, quando dai bar si trascinavano gli ultimi ubriaconi, Julio Cesar Arana attraversava la città per raggiungere i suoi uffici. Era uno degli uomini più potenti dell’Amazzonia, voleva essere il più potente e non nascondeva il suo disprezzo per chi dissipava in divertimenti tempo e danaro. Un giorno la strada di quest’uomo, che col danaro aveva comprato anche la coscienza di tante autorità del suo paese, si incrociò con quella di un giovanotto sconosciuto, un americano ventenne, di nome Walter Ernest Hardenburg, che aveva il difetto di considerare la vita umana più importante del danaro, e che non si lasciava corrompere né intimorire. E per Arana fu l’inizio della fine.

Toccò a lui, il peggiore ma non certo l’unico dei despoti della gomma, la parte del capro espiatorio: e fu quasi un’ironia del destino, perché Arana era anche il più intelligente tra i "colonnelli", e fu il primo ad intuire quando l’età dell’oro stava per finire. "Questa città è morta", diceva spesso, riferendosi a Manaus, mentre i suoi colleghi ironizzavano sulle notizie di qualche concorrenza che andava delineandosi dai prodotti di piantagioni asiatiche. I ricconi continuavano a brindare a champagne francese e uno dei gesti più "chic" era accendersi il sigaro bruciando banconote da dieci sterline; Arana invece capiva che cosa stava per accadere e aveva già iniziato a prendere le misure necessarie, trasferendo la sua famiglia in Europa e creando una società a capitale misto inglese-peruviano, che doveva essere il capolavoro truffaldino della sua perversa intelligenza.

L’INIZIO DELLA FINE

 Ma per capire meglio le cause della fine di Manaus e del monopolio amazzonico, dobbiamo fare un passo indietro, portandoci per l’esattezza a Kew, in Inghilterra, il giorno di sabato 10 giugno 1876. Erano le tre del mattino, un’ora in cui il dottor Joseph Hooker, direttore dei Reali Giardini Botanici, non si aspettava certo di ricevere visite. Ma il suo indiscreto visitatore poteva giustificare un orario così poco "inglese", perché aveva portato sul suolo inglese settantamila semi di Hevea brasiliensis, il più pregiato tra gli alberi gommiferi dell’Amazzonia, ed era ansioso di consegnarli subito. Henry Alexander Wickham, questo era il nome del visitatore, era un giovane avventuriero che fino a quel momento era sembrato specializzato solo nell’iniziare imprese fallimentari; da anni aveva abbandonato l’Inghilterra, cercando fortuna in Nicaragua, in Venezuela e, infine, in Amazzonia.

Estroso, genialoide, non mancava però di fascino e di iniziativa. Due anni prima era riuscito ad ottenere un modesto finanziamento dal Segretario per gli Affari Indiani, che da anni era interessato al problema della gomma: in India esistevano piante gommifere, ma erano di scarsa qualità. Inoltre le metodologie di estrazione del lattice portavano sempre alla distruzione della pianta. Il governo inglese intuiva che la gomma negli anni a venire sarebbe stata sempre più richiesta. Non erano ancora gli anni del boom, ma era necessario fare qualcosa per rendersi indipendenti dai mercanti dell’Amazzonia. E appunto a Wickham era stato affidato il compito di procurare i semi di quelle piante prodigiose. E Wickham c’era riuscito, con una romanzesca impresa di contrabbando. Sotto le cure del dottor Hooker iniziarono così le sperimentazioni, prima in serra e poi trasportando esattamente millenovecentodiciannove pianticelle fino a Colombo, nel Ceylon, alla ricerca dei terreni e dei climi adatti in cui trapiantarle, per iniziare le vere e proprie piantagioni di alberi della gomma.

LA CONCORRENZA INGLESE

 Il compenso di Wickham fu di millecinquecento sterline, quattro scellini e due pence, comprensivo del rimborso spese. Con questa modesta cifra iniziava la rovina dell’Amazzonia: piante di trenta metri hanno bisogno di anni per crescere, ma crescono e producono nuovi semi, che generano nuove piante. Curate con rigore britannico le nuove piantagioni di Hevea brasiliensis proliferavano. Ci sarebbero voluti diversi anni per iniziare a far seriamente concorrenza alle piantagioni dell’Amazzonia, ma ormai la fine del monopolio era iniziata. La notizia dell’impresa di Wickham era stata accolta con risate sprezzanti alla Camera di Commercio di Manaus: i semi non si sarebbero adattati al clima dell’Asia, o le piante sarebbero inaridite e morte. Ma quando, qualche anno dopo, le prime notizie provenienti dalle coltivazioni britanniche erano di segno esattamente opposto, i brasiliani opposero ad una realtà che avanzava minacciosa la loro indole incurante e un poco facilona. Era molto più semplice chiudere gli occhi di fronte al pericolo, che affrontarlo. Era più facile per tutti, non per Arana. Lui, il "Re del Putumayo", si preparava ad un’altra delle molte battaglie che aveva sostenuto, con l’incrollabile certezza di poter anche questa volta vincere.

Quando iniziò la sua attività nel settore della gomma il giovane Arana dimostrò subito come intendeva il rapporto con i sottoposti. Nella sua prima piantagione, quella di Yurimaguas, assoldò come raccoglitori di gomma una ventina di "flagelados". Così erano chiamati i disperati che, a migliaia, si riversavano nella valle del Rio delle Amazzoni, richiamati dalle possibilità di lavoro promesse da un mercato in continua espansione. Erano i relitti di una società che fino a qualche anno prima contava un numero elevatissimo di disoccupati: uomini disposti a tutto per poter risolvere il problema della sopravvivenza, spesso abbruttiti dall’alcool e rassegnati ad un’esistenza poco più che animalesca. Erano insomma la mano d’opera ideale per un giovane imprenditore pieno di iniziativa e di voglia di arricchire molto rapidamente.

RACCOGLITORI TRUFFATI

( " IL GENIALE SISTEMA DI ARANA" )

La città dove normalmente si radunavano era Cearà, nell’arido nord-est del Brasile, la zona più povera di quel paese. Il costo infimo di quella mano d’opera giustificava il lunghissimo viaggio fino a Ceara che Arana fece col cognato Pablo, che lo seguiva docilmente in tutte le sue imprese. E i flagelados erano ben contenti di seguire chi offriva lavoro; non sapevano che arrivando a Yurimaguas divenivano, per prima cosa, debitori verso Arana del costo del viaggio da Cearà. Ma non era che l’inizio di una catena di debiti destinata a non spezzarsi mai. Entrando nella baracca che costituiva l’ufficio della stazione commerciale ogni flagelado riceveva da Arana le provviste per tre mesi: cibarie, secchi e recipienti per la raccolta del lattice, un machete, un fucile. Il tutto valeva circa cento lire del tempo, ma sui libri contabili di Arana accanto al nome di ogni dipendente era segnato un debito iniziale di duemila lire; ed era un debito che ogni lavoratore non poteva onorare se non ipotecando a favore del padrone la propria prestazione nel raccolto della gomma, praticamente un salario che non avrebbe mai riscosso.

Arana sapeva fare i conti molto bene e aveva studiato con cura quel sistema. Alla fine di ogni trimestre il flagelado avrebbe avuto bisogno di nuove provviste, ma non era quasi mai in grado di raccogliere una quantità di gomma sufficiente a coprire il debito precedente. E così accendeva un secondo debito, cui sarebbe seguito un terzo, e un quarto e così via. I flagelados lavoravano in zone acquitrinose, spesso infestate dalla malaria; alla raccolta del lattice seguiva il lavoro di vulcanizzazione, eseguito con una cottura di circa tre ore del materiale raccolto nella giornata, posto in grossi recipienti in cui bisognava girare di continuo una pala: la gomma, cuocendo, si raccoglieva sulla pala, fino a diventare una grossa palla nerastra di quasi un quintale di peso. Quello era il prodotto finito che il flagelado doveva caricare sulla sua canoa, per portarlo fino al magazzino di Arana.

I "CANI DA GUARDIA" 

Ogni chilogrammo di gomma vergine valeva circa dodici lire; Arana accreditava ad ogni raccoglitore, a seconda delle capacità, da venticinque centesimi a una lira, né si assumeva, come abbiamo visto, alcuna spesa, perché tutto ciò che veniva dato al lavoratore per svolgere la sua opera era segnato a suo debito. Quel sistema di sfruttamento aveva consentito di accumulare enormi ricchezze, ma per Arana era ancora troppo lento. E infatti la piantagione di Yurimaguas non fu che l’inizio di una strada che doveva portarlo, come vedevamo, fino al territorio inesplorato del fiume Putumayo. Ma fu comunque un inizio molto istruttivo. Il giovane peruviano capì alcune cose essenziali: più raccoglitori lavoravano, più il guadagno aumentava; col sistema di pagamento che abbiamo visto, non esisteva certo il problema di assumersi dei costi di personale troppo onerosi. C’era però un altro onere per il "datore di lavoro": bisognava avere molto personale di guardia, perché spesso i lavoratori, disperati per le condizioni inumane in cui vivevano, cercavano di fuggire. E questo era davvero scorretto, perché non si fugge finchè non si saldano i debiti. Inoltre i disperati spesso cercavano rifugio nell’alcool, e in preda alla sbornia rischiavano di ritrovare un minimo di coraggio e di ribellarsi. Allora un buon fucile calibro 44, in mano ad una guardia decisa e senza scrupoli, erano l’unico argomento valido.

Per avere molti lavoratori, non c’era problema: bastava rivolgersi alle tribù di indios che popolavano la vallata del Putumayo. Erano tanti, non erano dediti all’alcool come i flagelados, erano per loro natura docili e sottomessi. Restava il problema del pagamento del personale di guardia; ma anche qui la genialità di Arana aveva pronta la soluzione. Nell’immensa estensione della valle del Putumayo le varie stazioni erano affidate a responsabili il cui compenso era in tutto, o in buona parte, su base provvigionale. Quanta più gomma si raccoglieva, tanto più elevato era il compenso del capo della stazione, ed erano fatti suoi i modi con cui la produzione veniva assicurata. Arana era ormai un grande imprenditore, e accampava diritti su un territorio più grande della Francia.


IL BOSS PREPARA LA FUGA

 Per difendere questi diritti disponeva di ventitrè motolance da carico armate di mitragliatrice e di millecinquecento uomini, dotati di carabine Winchester e pistole Colt, che esercitavano sulla zona un potere assoluto e inappellabile. Gli indios addetti alla raccolta arrivarono ad essere diecimila. Nulla poteva scalfire quella potenza e Arana si preoccupava di ricavarne la maggior ricchezza possibile il più rapidamente possibile, conscio, come vedevamo sopra, che la stagione dell’oro avrebbe avuto presto la sua fine. Perciò Julio Cesar Arana era intento ad allargare verso l’Europa i suoi interessi, ottenendo un finanziamento di sessantamila sterline dalla Banca del Messico di Londra e costituendo nella capitale inglese la Peruvian Amazon Company, a capitale misto inglese e peruviano, una società in cui attirò alcuni dei "bei nomi" della City, affascinati dal magnetismo del peruviano e dalle prospettive di ricchi dividendi. "Bei nomi" i quali non sapevano che dietro l’affare c’era una revisione contabile effettuata da controllori addomesticati i quali avevano nascosto un credito ipotecario della moglie di Arana su tutte le proprietà della Compagnia.
Mentre Arana intesseva tutte queste trame il cui unico fine era di assicurare un ricco avvenire alla sua famiglia e a sé stesso, sul fiume Putumayo una piroga scivolava silenziosa, cercando un punto di approdo. A bordo c’erano due giovanotti americani, che dopo aver lavorato per quindici mesi come tecnici delle ferrovie della valle del Cauca, in Colombia, spinti dal desiderio di avventura e dalle voci del favoloso sviluppo delle zone gommifere avevano intrapreso il viaggio verso l’Amazzonia, decisi ad arrivare a Manaus, con la speranza di trovare lavoro come tecnici della nuova linea ferroviaria che era in progetto sul Rio Madeira. Le paghe nella nuova Eldorado, avevano saputo, erano circa quattro volte quelle normali. I due avventurosi naviganti si chiamavano Perkins e Hardenburg. Ora cercavano un approdo perché Perkins era in preda ad un attacco di malaria: aveva bisogno di cure e di poter riposare qualche giorno all’asciutto. L’imbarcazione era difficile da manovrare. Hardenburg non poteva contare sull’amico, che giaceva a prua in preda alla febbre, e fini per incagliarsi in un bassofondo, proprio sulla proprietà di un colombiano, Jesus Lopez, proprietario di una piccola piantagione di gomma che conduceva personalmente, aiutato da una trentina di lavoranti indios.

ARRIVA IL GUASTAFESTE 

Qui i due amici fecero diversi giorni di sosta forzata, in attesa che passasse l’attacco di malaria che aveva colpito Perkins. E in quei pochi giorni Hardenburg venne a conoscenza di una realtà sconvolgente, che tanto più appariva incredibile ad un giovane idealista come lui, in cui lo spirito di avventura si univa con la convinzione che il progresso e la civilizzazione non potessero che portare del bene all’umanità. Dapprima incredulo davanti ai racconti dei colombiani e degli indios che erano al loro servizio (Perù e Colombia erano in uno stato di permanente attrito e quindi era possibile che i colombiani parlassero male dei peruviani per ragioni politiche), Hardenburg si sarebbe poi dovuto ricredere quando cadde lui stesso nelle mani di Miguel Loayza, capo della stazione di El Encanto, nel territorio del Putumayo. Loayza era il più feroce dei mercenari al soldo di Arana; la sua stazione era una delle più produttive dell’impero del magnate peruviano. Era lui l’inventore di quello che veniva chiamato "il marchio di Arana": il segno indelebile lasciato da cento frustate sul corpo degli indios che non effettuavano un raccolto giornaliero in linea col "budget" della stazione. Chi sopravviveva a questo tremendo trattamento era un monito vivente per gli altri.
Chi non sopravviveva... beh, nell’ impenetrabile giungla non era davvero difficile far sparire i cadaveri. Questi potevano venire anche fatti a pezzi e dati in pasto ai cani, oppure bruciati. Ma si parlava anche di indios bruciati vivi alla stazione di Matanzas, oppure del capo della stazione di Ultimo Retiro che si divertiva a bendare gli occhi delle ragazze indie, con cui si era prima sollazzato, e a farle correre davanti a lui usandole come bersaglio per il tiro a segno con il suo Mannlicher... Prima di cadere lui stesso prigioniero degli uomini di Arana, Hardenburg era, come dicevamo, incredulo. Possibile che venissero commessi crimini così atroci, che sadici assassini potesse fare il loro comodo senza che alcuna legge li bloccasse? Mentre l’amico Perkins giaceva ancora in preda alla febbre malarica nella casa dell’ospitale Jesus Lopez, una sera, cenando, presente anche un amico di Lopez, David Serrano, proprietario della piantagione confinante, il giovanotto americano esternò i suoi dubbi.

RAPPORTO SULLE ATROCITÀ 

 "Francamente signori, mi pare che quanto mi è stato raccontato da voi e dagli indios al vostro servizio sia un poco esagerato. Possibile che i peruviani che lavorano in questa zona siano tutti dei demoni? Non c’è di mezzo la vecchia inimicizia tra i vostri due paesi? E infine, la legge non interviene mai, la polizia non...?". Hardenburg non finì la sua frase. Si era accorto che con la sua domanda aveva fatto calare il gelo sulla riunione conviviale. 
Serrano aveva la mascella serrata, si sarebbe detto che trattenesse a stento le lacrime: "Don Jesus, sono in casa vostra.
Ma se voi mi consentite, vorrei rispondere io a questo giovane." Jesus Lopez assentì con un cenno del capo e Serrano iniziò un racconto agghiacciante. Raccontò di come sei mesi prima una squadra di uomini di Loayza si era presentata alla sua piantagione, per riscuotere un credito che Arana vantava verso di lui. Poiché non era in grado di pagare, la sua giovane moglie india fu trascinata fuori dalla casa, violentata da quei bruti, mentre lui stesso era costretto a guardare la scena. Serrano raccontava, e ormai le lacrime scendevano liberamente sul suo volto indurito da anni di vita all’aperto.
"Dopo questa orribile violenza, portarono via mia moglie e il mio figlioletto di sei anni. Mia moglie venne messa nell’"harem" di Loayza, e il bambino usato come schiavo per i servizi di cucina... se sono ancora vivi, l’unica speranza che ho di rivederli è di riuscire ad accumulare abbastanza danaro per riscattarli..." Ora Serrano singhiozzava senza più alcun ritegno. Hardenburg balbettava delle scuse, lui non poteva immaginare, non voleva offendere tanto dolore. Ma la polizia, la legge, cosa facevano? Fu Jesus Lopez a rispondere, con un sorriso amaro: "Figliolo, nell’Amazzonia vi è una sola legge: quella del fucile! E delinquenti del genere, come volete che considerino i lavoranti indios? Sapete qual’ è la loro normale frase? Ve la dico subito: son animales, no son gentes. Chi avrebbe crisi di coscienza a tirare il collo a un pollo, o ad ammazzare un maiale?"

A TU PER TU CON GLI SGHERRI

 Hardenburg era sconvolto. Ma due giorni dopo queste rivelazioni, mentre Lopez era occupato nelle piantagioni con i suoi lavoranti e i due americani stavano preparando i bagagli per riprendere il loro viaggio, una squadra di uomini armati della stazione di El Encanto fece irruzione nella proprietà. Pretendevano un indennizzo perché, a loro dire, uomini di Lopez erano sconfinati nelle proprietà di Don Julio Arana. Non trovando il padrone si impadronirono di tutto il magazzino: il guardiano non poteva nulla contro dieci fucili puntati. E poi trassero in arresto Perkins e Hardenburg, "in nome della Compagnia Peruviana della Gomma". Hardenburg raccontò in seguito che era convinto che lui e il suo amico uscirono vivi dalle grinfie di Loayza solo grazie ai loro passaporti americani.
Il feroce mercenario temeva troppi pasticci a far fuori due cittadini degli Stati Uniti. Ma i pochi giorni di prigionia che passò alla stazione di El Encanto (dove Loayza disse loro che li tratteneva "per proteggerli da eventuali violenze dei colombiani") gli furono sufficienti per vedere tante atrocità consumate contro i lavoratori-schiavi indios, da decidere che la sua vita era a una svolta. 

Quando Loayza si decise a liberarli, Hardenburg non si dolse della decisione dell’amico Perkins che, sconvolto da queste esperienze e spossato dalla malaria, non desiderava che tornare a casa, negli Stati Uniti. Salutò affettuosamente l’amico, e poi si mise in viaggio per Manaus: voleva far sapere al mondo in quali modi i magnati della gomma, e in particolare Julio Cesar Arana, erano riusciti a costruire i loro imperi economici. A Manaus Hardenburg passò invano quasi un anno, per rendersi conto che nessuno voleva mettersi contro Arana. Don Julio possedeva tutto, aveva spie dovunque. I suoi crimini erano noti, ma cosa si poteva fare contro l’uomo più potente dell’Amazzonia, amico personale del Presidente del Perù, consocio del Governatore di Manaus? La pelle premeva a tutti e Hardenburg impiegò tutti i suoi risparmi, accumulati dando lezioni private di inglese, per pagarsi il viaggio a Londra.

ATTACCO DA LONDRA

 Testardo come un mulo, sperava che gli inglesi, coinvolti da Arana nella Peruvian Amazon Company non restassero insensibili al racconto del sangue con cui erano bagnati i dividendi che la società, ormai quotata alla Borsa di Londra, distribuiva ai suoi azionisti. E a Londra la tenacia del giovane americano fu finalmente premiata, trovando finalmente nel reverendo David Harris, presidente dell’Associazione per i diritti umani e contro lo schiavismo un interlocutore attento. Al primo incontro Hardenburg era rimasto in verità dubbioso: i modi flemmatici di quel prete trentacinquenne contrastavano con l’impeto dell’americano. Ma ben presto Hardenburg si rese conto che il reverendo Harris era sì flemmatico, ma anche inarrestabile e implacabile quando arrivava alla convinzione che un caso era degno di attenzione. Ed era anche astuto: seppe giocare abilmente sul fatto che sudditi della Corona erano coinvolti con Arana, almeno a livello di interessi finanziari, in un caso dei più atroci di violazione dei diritti umani.
L’associazione presieduta da Harris era molto influente e godeva dell’appoggio della stessa Corona: e si giunse ad una inchiesta parlamentare, il colpo che Hardenburg attendeva. Erano passati ormai sei anni da quando gli sgherri di Arana lo avevano imprigionato, ma le immagini degli indios frustati, mutilati, trattati come animali, erano ancora vive nel suo ricordo, insieme ai mille racconti e testimonianze che aveva raccolto, tutte di una monotona atroce somiglianza. "Son animales, no son gentes". Mentre la stampa inglese si gettava sul caso, facendo sapere al mondo i crimini legati all’arricchimento dei magnati della gomma, mentre i governanti corrotti dai soldi di Arana non potevano più far finta di non sapere nulla, le leggi di mercato provvedevano a spazzar via il monopolio dell’Amazzonia. Ormai le piantagioni asiatiche erano a regime e producevano una gomma che, con la stessa qualità di quella amazzonica, costava però il trenta per cento in meno. Dal 1911 al 1913 i fallimenti non si contarono più a Manaus; i più grandi "colonnelli" cadevano come foglie.

SGONFIA LA GOMMA BRASILIANA

 Alfredo Arruda si sparava un colpo in testa dopo che la Banca del Brasile aveva confiscato tutto il suo magazzino. Waldemar Scholz fuggì da Manaus, colpito da un mandato di cattura per bancarotta: il suo cadavere fu trovato qualche giorno dopo nella giungla: anche lui aveva preferito un colpo di pistola al crollo di tutto il suo mondo. Joao Antunes non si uccise: vegetò per alcuni anni, facendo il venditore ambulante in una Manaus che era ormai un misero paesino in cui la foresta tropicale si stava riprendendo pian piano la sua rivincita. Le ricche prostitute occidentali erano state tra le prime a fiutare il vento infido e ad imbarcarsi per l’Europa. Ora le strade di Manaus offrivano lo squallido spettacolo di ragazze che si vendevano per poche lire, per un pezzo di pane. Gli sgherri di Arana non sfuggirono al castigo. Le autorità colombiane e peruviane si ricordarono all’improvviso della legge. Loayza, Normand, O’Donnell, e altri feroci assassini finirono i loro giorni nelle scomode prigioni del Perù, della Colombia e della Bolivia. Un altro dei sadici capi, Abelardo Aguero, venne ucciso in uno scontro a fuoco dai poliziotti colombiani che erano venuti ad arrestarlo.

ARANA SPARISCE. SUICIDA?
 
Arana Don Julius Cesar Arana, dopo aver tentato invano di salvare la faccia davanti alla Commissione della Camera dei Comuni, che comunque non aveva i poteri per agire contro di lui, cittadino peruviano, tornò a Manaus e il 26 giugno 1914 chiuse definitivamente i suoi uffici. Ormai la gomma amazzonica di prima qualità era crollata a due scellini e nove pence alla libbra: solo cinque anni prima il suo valore era di dodici volte superiore. Privo dei suoi sgherri, con un’immagine distrutta davanti al mondo, l’ex imperatore del Putumayo scomparì: si parlò di suicidio, si disse che era impazzito. La moglie Eleonora, a Ginevra, non rilasciò mai alcuna dichiarazione. Ormai il mondo aveva altro di cui occuparsi. In Europa si stavano mobilitando gli eserciti. Si preparava la grande mattanza tramandata ai posteri come Prima Guerra Mondiale. E sugli imperi della gomma calò il silenzio. Forse Arana sopravvisse a lungo al suo crollo. Forse, come tramandano alcune leggende degli indios, fu troppo cattivo per meritare il riposo eterno, e il suo fantasma potrebbe ancora aleggiare in cerca di un’impossibile pace su quella impenetrabile giungla, dove lui tolse la pace a tanti innocenti.

di PAOLO DEOTTO

Ringrazio per l'articolo
concessomi gratuitamente
dal direttore di Storia in Network

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