GRANDI PERSONAGGI

FEDERICO I HOHENSTAUFEN
Detto il " Barbarossa "
(Waiblingen, 1122 – Saleph, 10 giugno 1190)

ANTECEDENTI - Parve per un momento che finalmente, la spedizione in Italia da tanto tempo invocata dai re di Germania era in procinto ad avverarsi. Rimessosi dalla malattia, tornato in Germania, avute le mani libere dopo la vittoria riportata a Flochberg su Guelfo VI, CORRADO III annunciò nella dieta di Virzburgo (settembre del 1151) il suo proposito di scendere in Italia, poi inviò ambasciatori al Pontefice a Segni e una lettera a Roma al prefetto, ai consoli e ai capitani del popolo romano. Scriveva ad entrambi che, accettando il loro invito, sarebbe sceso a portare la pace nelle città e a premiare i fedeli e a punire i ribelli.

Come avrebbe potuto accontentare gli uni, gli altri, e il Papa, non lo sapremo mai, perché a decidere fu il destino. CORRADO non scese né in Italia, né a Roma, né ricevette la corona imperiale, mentre preparava la spedizione, il 15 febbraio del 1152 spirava e veniva sepolto nel duomo di Bamberga accanto ad Enrico II.

"CORRADO III - scrive il Prutz - era dotato di attitudini eccellenti, perseverante ed intrepido, leale ed affabile, aveva dato di sé delle buone prove ma in imprese minori, destando così grandi speranze, che poi egli non seppe compiere, nonostante le sue oneste intenzioni ed i suoi sforzi. La serie lunga e melanconica di insuccessi di cui è intessuta la storia di Corrado III, non è dovuta esclusivamente alle circostanze avverse; anzi la causa principale sta nel carattere sbagliato dei suoi rapporti con la Chiesa; la sua posizione sotto questo riguardo non gli permetteva di sottrarsi all'influenza del papato gerarchico e di porre termine alla fatale predominanza esercitata dalla Chiesa, in se stessa impotente, sulla vita nazionale, che ne pregiudicava e ne impediva lo sviluppo sano e rigoglioso. Neppure a Corrado III sarebbero mancati i mezzi di sottrarsi alla schiavitù ecclesiastica; se avesse avuto un po' di ardire, se fosse stato animato, in materia ecclesiastica, da idee alquanto più larghe, se insomma avesse osato ubbidire all'impulso, che più volte provò, anche lui sarebbe riuscito a farsi, di fronte alla curia romana, una posizione, se non dominante, almeno indipendente.

L'atto migliore, di tutti gli anni del regno di Corrado III, fu compiuto nel suo letto di morte con la designazione del nipote Federico di Svevia in luogo del proprio figliuolo che contava appena otto anni.

Federico era forse l'unico principe che poteva conciliare le fazioni tedesche, ricondurre l'ordine nella nazione, sottrarre la monarchia all'influenza della curia romana.
Essendo un Hohenstaufen per sangue paterno e un Welfen per parte di madre Federico poteva pacificare le due grandi famiglie rivali (Ghibellini e Guelfi).

Dotato di straordinaria energia, Federico sembrava fatto apposta per far cessare le turbolenze da cui era afflitto il regno. Che però, lo abbiamo già detto, accanto al letto di Corrado, il Regno anche questo era quasi moribondo, distrutto dalla nuova realtà storica contro la quale era ormai impossibile lottare e che stava lentamente, ma implacabilmente disgregando e indebolendo la sua compattezza.

Federico -come vedremo in altri capitoli che seguiranno, pur aspirando - in quarant'anni di regno - a rialzare il prestigio imperiale, spesso anche al di là dei propri interessi personali, inizia ora a combattere una guerra perduta in partenza, perché era una guerra contro il corso stesso della storia. Riunificando e fortificando l'impero, restaurandolo con la pienezza dei suoi poteri, Federico in parte riuscì a rialzare il prestigio imperiale e anche quello personale. Ma ormai erano sorte pericolose forze disgregatrici: sempre più svincolate dall'autorità imperiale: c'era la potenza degli Stati nazionali; c'era la vivacità e l'intraprendenza dei liberi Comuni; c'era l'aumentato enorme prestigio del Papato; e infine c'era il desiderio e la forte volontà d'autonomia degli stessi feudi all'interno dell'Impero.

Ricordiamo che i feudi erano diventati ereditari, e i privilegiati erano tutti desiderosi di autonomia, spesso alcuni indifferenti alla volontà imperiale.

Erano stati gli Ottone a escogitare il sistema dei Vescovi-Conti. In quanto Conti, essi ottenevano un feudo e l'amministrazione dello stesso con funzioni anche civili. Ma in quanto ecclesiastici, non potendo avere figli cui lasciarlo in eredità, quando i vescovi-conti morivano, l'imperatore -avendo dato lui l'investitura- si garantiva sempre la disponibilità di quei territori.
Queste "investiture" avevano portato ad un gravissimo contrasto tra l'Impero e Papato; che diedero origine alle "lotte delle investiture".
Il Papa in sostanza, da quei vescovi in Germania non riceveva nulla, né le loro proprietà erano della Chiesa. Roma poteva dire la sua solo per curare le anime ma non per curare gli interessi.

Con gli accordi di Worms del 23 settembre 1122 (fra Callisto ed Enrico V) si era cercato di risolvere il problema in un modo nuovo, che in parte fu risolto da Federico. Da una parte specialmente in Germania, mantenne il sistema dei vescovi-conti pur senza violare gli accordi di Worms, ma esercitando su di loro un controllo strettissimo. Dall'altra la sua innovazione fu che al posto dei feudatari, antichi principi o ecclesiastici, nei feudi pose un corpo di funzionari laici scelti da lui o nella borghesia o nella stessa plebe. Formò così un corpo di efficientissimi burocrati (i ministeriales), esperti di diritto, economia, scienza e tecnica dell'amministrazione, e soprattutto oltre essere dei competenti e uomini di prestigio erano anche dei fedelissimi all'imperatore; ma proprio per questo quando non lo erano più o cadevano in disgrazia, l'imperatore poteva privarli d'ogni autorità esonerandoli dall'incarico che era stato loro affidato.
In questo modo aveva ristretto il numero dei principi e vescovi-conti, ed aveva allargato i suoi poteri acquisendo uno dopo l'altro i loro territori; creando così un fortissimo potere centrale

Ma torniamo a lui come uomo.
Non sono noti con certezza il luogo e la data di nascita di Federico Barbarossa.
È tuttavia quasi certo che sia nato nel castello di Waiblingen, nella prima metà degli anni venti del XII secolo,
le ipotesi spaziano tra il 1118 e il 1125. Il più accreditato è il 1122.

Sembra che sua infanzia non fu felice. Quando aveva tre anni suo padre perse in battaglia la sua integrità fisica, di conseguenza perse anche il ruolo di pretendente al trono di Germania, che passò al fratello Corrado III. Quello accennato all'inizio.
A otto anni Federico perse anche la madre, poi a dodici anni, suo padre si unì in seconde nozze con Agnese di Saarbrück che diede al marito un altro figlio maschio, Federico dovette dividere con un fratellastro
l'affetto paterno. E non fu felice nemmeno la sua giovinezza. A venticinque anni, infatti, perse anche il padre e, divenuto terzo duca di Svevia, sposò una giovane di diciannove anni, Adele di Vohburg, che lo tradì con un principe di corte, mentre Federico combatteva la seconda Crociata.

Quando fu poi eletto re di Germania, Federico ottenne infatti lo scioglimento del suo matrimonio e poté sposare a trentaquattro anni la giovanissima Beatrice di Borgogna, di dodici anni, che si unì a lui tre anni dopo, quando Federico era all'assedio di Crema. Da Beatrice ebbe e nove figli, sei maschi e tre femmine.

Quando nel 1152 successe allo zio Corrado III, . era un giovane trentenne, e dalla descrizione dei cronisti a lui contemporanei Federico era bello e vigoroso di persona, alto di statura, il volto duro e asciutto in cui spiccavano due occhi metallici grigio azzurri, portava l'inconfondibile barba che era come i capelli, color biondo rossastro; cavalleresco, prode nelle armi, una certa aria di infaticabile energia e di lucida e inflessibile volontà nel perseguire i propri scopi, Federico possedeva tutte quelle qualità che fanno presa sull'animo dei sudditi e ne conquistano la simpatia. La lotta ai Principi e ai Vescovi-conti era insomma ben vista dal popolo.

Diciassette giorni dopo la morte dello zio, il 4 marzo del 1152 nella dieta di Francoforte, Federico di Svevia fu dai principi eletto re di Germania e il 9 dello stesso mese ricevette con grande solennità ad Aquisgrana la corona d'argento.

" Federico I, al quale nella storia, come nella tradizione popolare, è restato il soprannome di "BARBAROSSA", datogli dagli Italiani; è forse una delle figure più interessanti della razza tedesca, e certamente il più grande dei sovrani che dopo Ottone avevano occupato il trono di Germania. Prudente politico e valoroso capitano, dotto e cavalleresco, cupido non d'oro, ma di gloria, forte di corpo e di animo, il nipote di Corrado III portava sul trono della Germania il più alto concetto dell'autorità che il voto dei principi tedeschi gli aveva conferito, e dei doveri che per questa ragione gli erano stati imposti.

A lui parve che la società ricadesse nell'anarchia, appunto per lo scadimento di questa autorità; pertanto si propose di rimetterla ferma sulle sue basi, di ricuperarle tutti i suoi diritti, di farla rispettare e renderla efficace dappertutto. "Principes populo, non populum principi leges prescribere oportet"; tale era il suo canone politico; ma se reputava primo obbligo del suddito l'obbedienza reputava pure come primo dovere del re la giustizia severa e imparziale. Propostosi come modello Carlomagno, voleva, come costui, assicurare per tutto il suo impero il diritto delle chiese purché nella loro sfera, il bene pubblico, l'integrità delle leggi.

Si riaccesero intorno a lui, in maggior misura e più complicate, le contese che avevano agitato la Germania e l'Italia ai tempi di Enrico IV e V; ma non si può dire che in tante energiche lotte da lui sostenute, il Barbarossa obbedisse a delle antipatie personali o ad intemperanze ambiziose di despota: non si può dire che Federico non sapesse rinunciare a qualche punto del suo vasto programma, quando si fu accorto di trovarsi, in grazia di questo, lontano da quegli interessi generali, ai quali era anzitutto ispirata la sua politica. Quantunque gravissime sventure abbiano da lui gli italiani patito, ed una delle memorie più gloriose e più care dell'Italia è fondata sopra una sua clamorosa sconfitta, non possiamo però negare ammirazione al suo carattere ed alla sua attività (Lanzani)".

Primo pensiero del Barbarossa fu la pacificazione della Germania e di volere imporre l'autorità della corona sui paesi alla periferia del regno. Nella prima dieta tenuta a Merseburgo nel maggio del 1152, infatti, pose fine alle guerre dinastiche della Danimarca, che concesse in feudo al re SVENDO, e da lui fece concedere principati a CANUTO e WALDEMARO.
A BERTOLDO di Zahringen, suo antico avversario, promise di appoggiarlo nella rivendicazione della Borgogna ad ovest del Giura.
Mentre si assicurava l'obbedienza della Germania, non dimenticava però l'Italia. Appena eletto re, "Federico fu sollecito - scrive il Bertolini - d'inviare al papa una legazione recante una sua lettera, in cui due argomenti peculiari si toccavano: l'uno, che lui aveva ricevuto dalla grazia di Dio il suo regno, cui intendeva restituire l'antica potenza e la dignità; l'altro, che riguardava i nemici del papa come suoi propri, e che lui non avrebbe tardato a ridurli.
Erano dunque una stilettata e una carezza unite insieme. Nella condizione in cui allora si trovava il papa, EUGENIO III ritenne che era calamità l'emancipazione dell'impero annunciata dalla lettera di Federico, di fronte alla promessa contenuta nell'altra parte dello scritto.


Quanto ai Romani, questi si videro perduti del tutto. La lettera di Corrado III (l'abbiamo vista, era molto ambigua, perché prometteva aiuto ad entrambe le due fazioni), scritta prima della sua morte (settembre 1151), e indirizzata "al prefetto della città, ai consoli, ai capitani e al popolo romano", se aveva lasciato qualche speranza, il silenzio di Federico e il terrore della lettera scritta al papa, la cancellavano del tutto".

I legati del Pontefice si presentarono al sovrano nella dieta di Virzburgo, nell'ottobre del 1152, e gli porsero le congratulazioni del Papa, pregandolo di aiutare la S. Sede a ricondurre all'obbedienza i Romani che si lasciavano corrompere dalle eresie di ARNALDO da BRESCIA.

Il Barbarossa promise a voce quel che aveva promesso per lettera e queste promesse ebbero conferma nella primavera dell'anno seguente, quando fu stipulato fra la S. Sede e il re un trattato. Con questo accordo, Federico si obbligava di difendere l'onore, i diritti e i possessi della Chiesa Romana contro chiunque, di non far pace con i Normanni senza il consenso del Pontefice, di non concedere che i Bizantini mettessero piede in Italia e di sottomettere Roma all'autorità papale; dal canto suo EUGENIO III si impegnava di conferire la corona imperiale allo Svevo e di scomunicare tutti coloro che non gli prestassero obbedienza.
Conseguenza di questo trattato fu che il papa dovette acconsentire ad annullare il matrimonio infecondo di Federico con Adelaide di Vohburg e Federico a sbarazzarsi dall'episcopato germanico di alcune persone malviste dal re, come l'arcivescovo Enrico di Magonza nominandone un altro di suo gradimento provocando la ferma opposizione del papa.

Il trattato col Pontefice fu stipulato a Costanza dove, nel marzo del 1153, il Barbarossa inaugurò una delle più importanti diete. Davanti la porta del duomo fu innalzato un magnifico trono, sul quale era scritto: "Chiunque abbia da lagnarsi del suo signore, sia esso conte, barone o re, venga qua e gli sarà resa giustizia"; e su quel trono Federico sedette per tre mesi, circondato dal re di Boemia, gran giustiziere, dagli arcivescovi di Treviri e Colonia, arcicancellieri; dall'arcivescovo di Magonza, protonotaro, e dai più autorevoli principi del regno. Coloro che chiedevano giustizia esponevano le proprie lagnanze al duca di Lorena, che le comunicava al duca di Baviera, gran ciambellano, poi infine erano portate al sovrano.

Si trovavano in quel tempo a Costanza due lodigiani: ALBERNARDO ALAMANO e maestro OMOBUONO. Sapendo che il re rendeva giustizia a tutti quelli che sottoponevano a lui i loro casi, decisero di giovare alla loro misera patria, e caricate sulle spalle due croci pesanti, si recarono davanti al tribunale del sovrano, e con le lacrime agli occhi, lo scongiurarono di liberare l'infelice città di Lodi che da quarant'anni era oppressa dalla tirannia del comune di Milano.

Alle preghiere dei due lodigiani, il vescovo ARDICIO di Como unì le sue, implorando la giustizia nella sua città che nel 1127 era stata distrutta dai Milanesi. Commosso, Federico promise il suo pronto intervento e subito inviò in Italia un suo ufficiale di nome SICHERIO con un decreto in cui ordinava ai consoli e al popolo di Milano di restituire ai Lodigiani i loro privilegi e la loro libertà.

Prima di andare a Milano, Sicherio passò per Lodi, ma la notizia del decreto del re invece di riempir di gioia l'animo dei Lodigiani suscitò una grande costernazione perché essi temevano che, prima che Federico scendesse in Italia a liberarli, i Milanesi si sarebbero vendicati distruggendo la città. Pregavano quindi il legato che differisse la missione fino all'arrivo del re; ma Sicherio non diede ascolto alle loro preghiere e si recò a Milano e iniziò a leggere nel Gran Consiglio il regio decreto.
Immenso fu lo sdegno suscitato da quella lettera; si levarono dall'assemblea imprecazioni contro il sovrano germanico; lo scritto fu strappato dalle mani del messo, fu fatto a pezzi e calpestato e a stento Sicherio riuscì con la fuga a salvarsi dalla furia popolare.

Così iniziava quella (prima) guerra che tanti lutti doveva portare all'Italia: iniziava con una sdegnosa protesta del fiero popolo milanese e con un gesto che più tardi sarà imitato da un patriota fiorentino; ma, purtroppo da quella protesta e da quel gesto, la libertà trapiantata in un'altra nobile terra italiana davano origine a un sanguinoso conflitto tra Milanesi e Pavesi a Lavernagola, annunciatore di guerre civili ancora più terribili.
La libertà d'Italia nasceva dalle feroci e cruente lotte tra uomini nati sulla stessa terra e che parlavano la medesima lingua.

1a DISCESA DI FEDERICO BARBAROSSA IN ITALIA
DIETA DI RONCAGLIA - ASSEDIO E DISTRUZIONE DI TORTONA

L' 8 luglio dello stesso anno 1153, in cui i Milanesi strappavano il decreto di Federico si spegneva a Tivoli EUGENIO III e quattro giorni dopo gli succedeva il cardinale Corrado, vescovo della Sabina, col nome di ANASTASIO IV.
Vecchio e mite, il nuovo Pontefice non volle aggravare il conflitto esistente tra la Santa Sede e la repubblica romana; visse tranquillamente a Roma aspettando che Federico giungesse a rivendicare i diritti della Chiesa; e a Roma poco dopo morì, il 3 dicembre del 1154.

Due giorni dopo fu assunto al pontificato, col nome di ADRIANO IV, l'inglese Nicolò Breakspear. Nato da umilissima condizione, si era recato in Francia, dove con l'ingegno e la tenacia era riuscito a percorrere tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica; divenuto priore del monastero di S. Rufo, presso Arles, Eugenio III lo aveva portato via, creato cardinale di Albano, poi l'aveva mandato in Scandinavia per organizzarvi le diocesi e renderle sempre più obbedienti alla Santa Sede.
Era da poco tornato dalla sua missione, per la quale dagli storici doveva esser chiamato l'Apostolo del Nord, quando i cardinali, con felice scelta, lo elessero Pontefice.

Era l'uomo che ci voleva per risollevare il Papato dalle difficili condizioni in cui versava: seguace fervente delle dottrine di Gregorio VII, era - e questo allora contava - dotato di volontà e di polso fermissimo; e della sua energia fornì subito indubitabile prova, scacciando dal suo cospetto i deputati del popolo andati a chiedergli la cessione dei diritti sovrani.
L'altezzoso gesto del Pontefice provocò la reazione della cittadinanza; il popolo brandì le armi e, nel tumulto che ne seguì, un cardinale fu trucidato nella via Sacra. Allora Adriano IV, sdegnato si ritirò ad Orvieto e di là lanciò l'interdetto su Roma (Si chiamava interdetto, quando l'anatema era scagliato contro un'intera città o regione. E tutti erano privati da ogni funzione, dal conforto religioso, sospesi i matrimoni, i battesimi, l'estrema unzione. Tutti i crocifissi e le immagini dei santi venivano coperti con un velo nero).

Era -nella storia- la prima volta che la capitale del cattolicesimo era colpita dall'anatema, e per giunta l'interdetto, cadendo durante la Settimana Santa, veniva ad impedire le funzioni della imminente Pasqua. Il popolo fu così impressionato dall'insolito provvedimento che, levatosi a tumulto, costrinse i senatori a venire a patti con il Pontefice. Giunti al cospetto di ADRIANO IV, i senatori -scrive il Bonghi - eseguendo un suo ordine, giurarono sui santi Vangeli di Dio che avrebbero espulso senza indugi l'eretico Arnaldo ed i suoi partigiani dalla città e dal contado; né avrebbero avuto facoltà di ritornare se non per licenza e ordine del papa e per essergli solo ubbidienti.


Così, fatti uscire questi e revocato l'interdetto, tutti si sentirono riempiti di una grande letizia, lodando in coro e benedicendo il Signore. Il giorno dopo, che era quello della Cena del Signore, accorrendo una infinita moltitudine di popolo, secondo il costume, alla grazia e alla gloriosa festività della remissione dei peccati, il ben disposto Pontefice, con i suoi vescovi e cardinali e un'immensa folla di notabili e di cittadini, uscì con grande sfarzo e decoro dalla città Leonina, dove aveva preso dimora fin dal giorno della sua ordinazione; passando attraverso la città, mentre tutto il popolo plaudiva, giunse trionfalmente al palazzo lateranense; e qui, il giorno stesso e il seguente, il sabato Santo e la Pasqua, celebrò solennemente i misteri divini; e secondo l'antica consuetudine della Chiesa, la trascorse in grande letizia con i suoi più devoti discepoli".

L'energia del Pontefice aveva trionfato; ma Adriano IV non poteva considerare completo il suo trionfo se non metteva le mani su ARNALDO da BRESCIA, che nel frattempo era fuggito da Roma; mandò pertanto all'inseguimento dell'agitatore un tale ODDONE, diacono di S. Niccolò, il quale raggiunse il fuggiasco a Bricole, in val d'Orcia. Ma non era ancora giunta l'ultima ora di Arnaldo; questi aveva molti amici ed ammiratori in quel territorio ed uno di loro, un visconte di cui non è giunto fino a noi il nome, lo liberò e gli diede ospitalità nel suo castello.

 

Scendeva però chi doveva strapparlo dalle mura ospitali e trascinarlo incatenato verso l'estremo supplizio: FEDERICO BARBAROSSA. Il re di Germania nell'autunno del 1153 aveva pubblicamente annunciato la sua spedizione italiana, ed aveva invitato i principi della Germania, della Borgogna e dell'Italia a raggiungerlo nell'ottobre dell'anno seguente con le loro milizie nella pianura di Roncaglia.
Nell'ottobre del 1154 FEDERICO lasciò la Germania alla testa di un piccolo esercito e accompagnato da ENRICO "il Leone" e dal conte palatino bavarese OTTONE di WITTELSBACH, scese dalla via del Brennero in Italia e dopo un breve soggiorno a Verona si portò, verso la fine di novembre, nella pianura di Roncaglia dove qui mise gli accampamenti e aprì la dieta che aveva bandito.

A quei vassalli che non risposero alla chiamata Federico tolse i feudi. Questi furono in gran parte tedeschi: quasi tutti i baroni e i grandi vassalli italiani accorsero a Roncaglia a prestare omaggio e a recar doni e tributi al sovrano e con loro giunsero ambasciatori della maggior parte delle città del regno italico. I delegati di Genova, CAFARO ed UGO, presentarono, con gli ossequi della repubblica, preziosi doni di leopardi, leoni, pappagalli e struzzi, e Federico Barbarossa, che già pensava di servirsi della flotta genovese per la sua spedizione contro il re di Sicilia, gradì molto quella presenza offrendo ai legati una magnifica accoglienza. Non minore, per lo stesso motivo, fu riservata anche agli ambasciatori di Pisa.

Dopo aver date ascolto alle parole d'omaggio, Federico ascoltò le lagnanze. Le prime furono quelle che il marchese GUGLIELMO del Monferrato rivolse contro le città di Chieri ed Asti; e contro quest'ultima parlò anche il vescovo ANSELMO che n'era stato scacciato; consoli di Lodi, Como e Pavia portarono le loro accuse contro Milano che a sua volta si difendeva con i suoi consoli OBERTO dell' ORTO e GHERARDO NEGRO.

In breve Federico si rese conto della situazione lombarda: il comune più forte era quello di Milano, non solo per le fortificazioni, il numero delle milizie e i castelli che possedeva, ma anche per le città che la sostenevano: Crema, Brescia, Piacenza, Asti e Tortona, oltre Como e Lodi che però ne pativano il giogo. Mentre nemica implacabile di Milano era Pavia, meno forte della rivale anche perché sostenuta solo da Cremona e Novara.
A Federico conveniva schierarsi dalla parte più debole della quale avrebbe potuto disfarsi poi con facilità dopo aver domato la più forte. Il re però fu convinto che fosse necessario agire con estrema prudenza e, in un primo tempo, di assumere l'aspetto di paciere, di fare l'arbitro fra le due città contendenti.


Federico comandò quindi che fossero sospese le ostilità e che da una parte e dall'altra gli si consegnassero i prigionieri mandando liberi quelli di Pavia e trattenendo come ostaggi quelli di Milano.
I milanesi credevano di aver risolta definitivamente la controversia e permisero che l'esercito regio, recandosi a Novara, passasse attraverso il loro territorio; si assunsero pure il carico di fornirlo di viveri e gli diedero, come guide, gli stessi consoli. Questi indicarono la via più breve, che, per Landriano, Trecate e Rosate, conduceva al ponte sul Ticino.
Temendo il rinnovarsi dei saccheggi che le truppe germaniche avevano commessi nella valle di Trento, la popolazione delle contrade era fuggita portandosi dietro tutto quello che poteva, di modo che le terre che l'esercito tedesco doveva attraversare erano deserte, fornite di insufficienti o prive del tutto di vettovaglie; si aggiunga che un'interrotta pioggia che imperversò giorno e notte (si era in novembre) infradicì per giorni e giorni i soldati in marcia.

Tutto questo diede occasione a Federico di togliersi la maschera e mostrare quali fossero le sue vere intenzioni. Accusando i consoli, di aver guidato il suo esercito in quella desolazione apposta per distruggerlo, li scacciò dalla sua presenza dopo avere loro imposto di far sgombrare dal castello di Rosate il presidio milanese ma senza portar via le vettovaglie che vi erano dentro. L'ordine fu eseguito: la guarnigione uscì e, seguita dalla popolazione, tormentata dal freddo e dalla pioggia, si rifugiò a Milano, e qui ripeté le accuse fatte da Federico contro i consoli, accuse che ritenute vere, provocarono un tumulto popolare che distrusse la casa di Gherardo.

Il comune allora pensò di placare la collera del sovrano e gli mandò ambasciatori i quali gli riferirono che i milanesi avevano rimproverato la condotta dei consoli e li avevano pure puniti; lo pregarono di ritenersene soddisfatto e, in segno di amicizia, gli offrirono quattromila marche purché confermasse a Milano la signoria su Como e Lodi.

Ma Federico ritenne (o finse di reputarla tale) l'offerta come un tentativo ingiurioso di corruzione e, dopo averla rifiutata, invase e devastò i territori del comune milanese, bruciò il ponte costruito sul Ticino dai Milanesi per passare nei loro possedimenti sulla riva opposta, e inviò a Lodi un suo cappellano per ricevere dagli abitanti il giuramento di fedeltà.
I Lodigiani rifiutarono di prestarlo senza il consenso di Milano. Sebbene poi questo fu concesso, il Barbarossa citò ugualmente i Milanesi davanti al suo tribunale e, non essendo comparsi, espugnò Trecate, Galliate e Torre di Momo, li saccheggiò e rase al suolo, trucidando gran parte degli abitanti; poi fra il sangue e le fumanti rovine celebrò il Natale del 1154.
Ripassato, all'inizio del 1155, il Ticino, Federico attraversò, senza compiervi atti ostili, i territori di Vercelli e Torino che parteggiavano per lui e puntò verso Cairo, che, lasciata vuota dalla popolazione, per punirla furono distrutte le torri; quindi avanzò su Asti, e, presa e occupata senza difficoltà, la consegnò al marchese del Monferrato che ne fece demolire le difese e incendiare gran parte delle case. La stessa sorte toccò a Chieri; poi venne la volta di Tortona, contro la quale i Pavesi spingevano il re.

Federico, prima di fare uso delle armi, tentò i mezzi pacifici e mandò ai Tortonesi un invito di rompere l'alleanza con i Milanesi e di unirsi con Pavia. Ma i Tortonesi risposero sdegnosamente che non avrebbero tradito mai, abbandonandoli, i loro amici; e si prepararono a respingere le truppe del re, che di conseguenza posero in assedio la città il giorno 13 febbraio del 1155.

"Decisi a non cedere, - scrive l'Emiliani-Giudici- nella sua "Storia politica dei Municipi italiani" - i Tortonesi chiesero aiuto ai Milanesi. Costoro, convocati a parlamento dai consoli, esaltando l'eroico atteggiamento di Tortona, decretarono di mandarle soccorsi d'ogni genere. Raccolta una Legione di duecento cavalieri e duecento fanti, affidarono il comando ad UGO VISCONTI, GIOVANNI RANIERI, ALBERTINO e RONCIA CASATI, RUGGIERO da Santa Maria, e due LANFRANCHI, tutti esperti in cose di guerra e d'animo intrepido. Per non essere bloccati da eventuali baluardi tedeschi, presero la via di Lodi e Piacenza, passarono sulle terre dei Malaspina, invitando e portandosi dietro OBIZZO ed altri signori che possedevano castelli in quelle montagne, poi, così uniti marciarono contro gli assedianti della città.

Tortona sorgeva sopra un'altura di difficile accesso. Le case che sorgevano giù per la china parevano dividere in due la città che in alto era cinta di una forte muraglia. La parte bassa non era adatta a lunga resistenza, ma quella alta era quasi inespugnabile. Appena iniziato l'assedio, i cittadini si rifugiarono tutti nella parte alta della città, e quella in basso fu presa dal nemico senza tante difficoltà.
Barbarossa aveva diviso in tre parti l'esercito. Lui con i suoi uomini occupò la parte a mezzogiorno; a ponente mise il duca di Sassonia; mentre i Pavesi li stanziò a levante. Negli spazi che dividevano un campo dall'altro scavarono fossi larghi e profondi, in modo da togliere agli assediati ogni via per ricevere soccorsi di uomini o vettovaglie.

Intenzioni del Tedesco era di affamare i Tortonesi e costringerli ad arrendersi. Numerose, varie e grandi erano le macchine belliche che da ogni punto bombardavano le mura o tempestavano all'interno la città; arieti, gatti, balestre, mangani e pietraia; in mezzo alle quali, bene in vista, sorgevano molte forche, dove subito venivano impiccati quelli che cadevano in mano agli aggressori, volendo così terrorizzare i Tortonesi da sopra le mura, e far vedere loro la fine che li aspettava.

Tuttavia questo terribile e lugubre spettacolo non sconvolse proprio per nulla i Tortonesi, i quali si spingevano ugualmente fuori le mura, soprattutto dal lato dov'erano impegnati i Pavesi; e per un motivo: che in quel luogo sorgeva l'unica fonte sorgiva dei tortonesi che già iniziavano a patire la sete, pertanto era necessario procacciarsi l'acqua con la forza delle armi e con il coraggio.
Resistettero circa un mese, né davano alcun segno di cedere; se la penuria d'acqua faceva ardere la sete, faceva ardere anche il coraggio, che ad un certo punto infiammò in una audace sortita, da mettere in così grave scompiglio i Pavesi, che se non giungeva in loro soccorso GUGLIELMO di Monferrato, i Tortonesi avrebbero rotto e si sarebbero congiunti con le milizie milanesi, le quali, non trovando il modo come avvicinarsi a Tortona, stavano aspettando sulla destra, nelle terre di Luzano, Orasco e Gurlimia.

" Federico cominciava a sentire il fastidio della inconcludenza dell'assedio; non si aspettava una così vigorosa resistenza; né poteva retrocedere senza macchiare la propria reputazione; tuttavia voleva in ogni modo togliersi da quell'imbarazzante situazione; anche perché voleva recarsi a Roma a prendere la corona imperiale.
Comandò quindi che dentro la fonte guardata dai Pavesi si gettasse zolfo nelle acque per avvelenarle, e cadaveri di uomini e animali per inquinarle. L'assedio, che aveva avuto inizio il giorno delle Ceneri, si era prolungato fino alla settimana santa. Giunta a questa le ostilità cessarono per una tregua di quattro giorni. Nel venerdì Santo, giorno della passione e morte di GesùCristo, dalle porte della città il clero uscì in processione, recandosi senza pompa con modeste vesti, davanti al Barbarossa. Implorava misericordia, lo scongiurava di non fare scontare la colpa di alcuni boriosi e sleali abitanti agli innocenti sacerdoti.


Non erano -di certo questi i preti "rifatti" dal monaco Ildebrando! quello che diceva "Al prode guerriero non è cosa che rechi tanto disgusto quanto la codardia e la viltà, in specie quando è congiunta ad atti snaturati".
Ne sentì ribrezzo perfino il poco santo Federico; che non concesse che i vigliacchi richiedenti gli si avvicinassero, e mandò contro di loro alcuni uomini perché li ricacciassero dentro le mura.

"La desolata città era ridotta agli estremi: decisero la resa, e deputarono BRUNO abate di Chiaravalle di Bagnolo di stabilire i patti, che furono poi accettati dal vincitore: salve le vite di ciascuno; come averi quel tanto che poteva portare sulle spalle uscendo dalla città; la quale non sarebbe stata né danneggiata né data alle fiamme.

Gli assedianti vi entrarono, la misero ugualmente a sacco, e con lo spergiuro ai patti, la incendiarono; si dice per mantenere la promessa fatta ai Pavesi, i quali con una grossa somma di danari pattuita con i nemici fin dall'inizio dell'assedio, volevano la totale distruzione della detestata Tortona.

L'abate garante del patto, inorridì per il crudele spergiuro e per lo scempio fatto alla città; si racconta che "avendo lui un cuore umano italiano e non tedesco, per il grande dispiacere, dopo tre giorni morì di crepacuore".

I Tortonesi pallidi, scarni, stremati, strappati, sporchi di fango, presero la via di Milano, lacrimando allo spettacolo delle fiamme che distruggevano la loro città natale. I Milanesi li accolsero come martiri della libertà; a consolarli radunarono il popolo in parlamento, e su unanime consenso si decise che Tortona doveva essere riedificata a spese di Milano; e mantennero a questa promessa non appena Federico prese la via per scendere a Roma.
Il tempo non ha privato la storia della lettera che dopo aver riedificata la città i consoli e il popolo di Milano scrissero ai consoli e al popolo di Tortona inviando insieme una tromba per convocare i cittadini in parlamento; un gonfalone bianco con la croce rossa nel mezzo a significare la vittoria sui nemici e nei lati il sole e la luna, simbolo il primo di Milano, l'altro di Tortona, indicando che questa traeva l'esistenza e lo splendore da quella; inviarono insieme pure un sigillo con l'effige delle due città, e che sarebbero rimaste per sempre congiunte".

INCORONAZIONE IMPERIALE DEL BARBAROSSA
SUO RITORNO IN GERMANIA
I NORMANNI E IL PAPA

Dopo aver depredata, incendiata e rasa al suolo Tortona, Federico Barbarossa entrò a Pavia tra le manifestazioni di giubilo dei cittadini. I Pavesi acclamando il re esternavano la propria gioia per la distruzione dell'altra città come se non fosse stata anch'essa italiana.
Nella chiesa di S. Michele, con pompa grandissima, Federico ricevette la corona regia e alcuni giorni dopo si mise in marcia verso Roma.

Suo proposito era di assalire e costringere alla resa Piacenza; ma questa città, che aveva ricevuto le milizie milanesi di Porta Comacina e Porta Nuova, era così fortemente pronta alla difesa che Federico non osò molestarla e proseguì per Bologna, dove celebrò la Pentecoste e diede ordine che fosse riedificato il castello di Medicina.
A Bologna che era un po' la sede dei maggiori giuristi di diritto romano, una schiera di questi interpellati, sostennero con valide argomentazioni giuridiche le richieste dell'imperatore. L'autorità sovrana (e quindi tutte le "regalie" usurpate dai Comuni) apparteneva solo a lui ed era senza limiti. I giuristi rispolverarono l'antico principio del dispotismo imperiale romano: "quod principi placuit, legis habet vigores"; "ciò che l'imperatore ha deciso, ha forza di legge". Insomma contribuirono a far piegare il capo a quelle città che nella testa più che i cavilli giuridici, avevano voglia di autogoverni.

Da Bologna varcò gli Appennini e nell'attraversare la Toscana in un incontro con i rappresentanti esortò a Pisani a preparare la loro flotta per la spedizione contro i Normanni; poi puntò direttamente e velocemente verso Roma.
All'avvicinarsi di Federico, non conoscendone le intenzioni, papa ADRIANO IV ritenne opportuno di andargli incontro. Il 1° giugno sempre nell'anno 1155, il Papa era a Viterbo e di qui mandò al sovrano tre cardinali, che lo trovarono a Tintinniano sull'Orcia, gli diedero il benvenuto in nome del Pontefice e gli promisero la corona imperiale a patto che giurasse di mantenere il Papato in possesso di tutti i beni; di abbattere a Roma il governo repubblicano; infine consegnare nelle mani del Papa l'eretico Arnaldo da Brescia.

Quest'ultima richiesta della consegna del monaco non costava nulla a Federico; pertanto, appena udita la richiesta dei cardinali, ordinò ai visconti che gli recassero Arnaldo, che sapeva rifugiato in casa di uno di loro, e poiché tentennavano ad ubbidire, ne mise uno in prigione e, minacciandolo di morte, lo costrinse a rivelargli il luogo dov'era nascosto l'eretico.

Con questo metodo, avuto subito nelle sue mani Arnaldo, il Barbarossa lo diede in dono ai cardinali e questi lo consegnarono al Pontefice. Il monaco fu affidato al prefetto della città, e da questi poi condotto in catene a Roma.
Ma qui il prigioniero non si trovava in un luogo sicuro. La città riecheggiava ancora della passionale parola del novatore, e ancora moltissimi erano i seguaci del predicatore. Prima che il tribunale imperiale avesse deciso della sua sorte, una sollevazione popolare lo avrebbe potuto liberarlo. Per questo motivo fu deciso di toglierlo di mezzo subito.

Non si conosce il giorno quando ARNALDO da BRESCIA fu condotto al supplizio. Questo avvenne un mattino quando la città era ancora addormentata affinché nessuno levasse la voce o tentasse di sottrarre l'agitatore alla giustizia dei suoi nemici. Alla porta del Popolo era stato eretto il necessario per il rogo, e su quella pira, nell'incerta luce dell'alba, fu portato Arnaldo da Brescia.
Un poeta anonimo contemporaneo narra in versi latini gli ultimi istanti del condannato. Quando questi vide i preparativi del suo tormento e gli fu messo il laccio al collo, gli chiesero se volesse abiurare le sue dottrine e confessare le sue colpe; ma il discepolo di Abelardo, con calma straordinaria, rispose che giudicava buone e salutari le sue dottrine e che era pronto a morire per le sue opinioni, delle quali nessuna era falsa, irragionevole e dannosa. Domandò solo che, per confessare al "suo" Cristo i suoi peccati, gli concedessero alcuni istanti di tempo.
Inginocchiatosi a terra e rivolti al Cielo gli occhi e le mani, Arnaldo emise un profondo sospiro e nel suo silenzio invocò con la mente Iddio e gli raccomandò l'anima; poi si affidò ai suoi carnefici.

Le fiamme avvolsero il corpo dell'agitatore intrepido e tenace e quando i Romani, saputa la notizia, accorsero sul luogo del supplizio, lui era già ridotto in cenere. Tentarono strapparne alcuni resti ai carnefici, ma invano: neppure le ceneri poterono essere conservate perché - "ne a stolida plebe corpus eius veneratione haberetur" - "per evitarne la venerazione", i carnefici ebbero l'ordine di disperderle nelle acque del Tevere.

A Sutri, l'8 giugno del 1155, ebbe luogo l'incontro tra ADRIANO IV e FEDERICO; ma poco mancò che non ne seguisse un'irreparabile rottura. Giunto davanti il padiglione del re, il Pontefice trattenne il cavallo e rimase in sella aspettando che il sovrano andasse - com'era costume - a reggergli la staffa.
Ma Federico non si mosse e tanta fu la costernazione dei cardinali che parecchi di loro, temendo chissà cosa, atterriti, fuggirono parte a Nepi e parte a Civita Castellana. Finalmente il Papa si decise a smontare da solo aiutato dai suoi, e andò a sedersi nel trono che gli era stato preparato. Federico finalmente gli andò incontro e si chinò a baciargli i piedi e, volendo anche baciarlo in viso, Adriano con un gesto plateale lo respinse perché si era rifiutato di prestargli quegli atti di riverenza, cui nessun principe, prima di lui, avevano mai negato a un Papa.

Con questi infelici preliminari, e con questo animo mal predisposto, per tutto quel giorno e anche il seguente durarono le contese su varie questioni tra il Barbarossa e Adriano e fu composta soltanto quando i cortigiani persuasero Federico che tenere la staffa al Pontefice non costituiva un avvilimento della dignità regia perché quell'atto di ossequio non alla persona fisica di Adriano era tributato, ma all'Apostolo Pietro, tramite il suo vicario.
Il Barbarossa tenne allora la staffa al Pontefice, gli diede e ne ricevette il bacio e al campo di Sutri, con il giuramento fatto dal re di difendere Adriano, fu da questi e dal sovrano pronunciata la sentenza di morte della repubblica romana.
Messisi in viaggio alla volta di Roma, il re e il papa erano giunti a poche miglia oltre Sutri quando andarono incontro a Federico gli ambasciatori del Senato romano i quali gli dissero che se veniva con intenzioni pacifiche sarebbe stato accolto festosamente e avrebbe ricevuto la corona imperiale; perché Roma, scrollatasi di dosso il giogo papale, aspirava alla millenaria libertà e all'antica signoria del mondo sotto la guida del Barbarossa, novello e glorioso Augusto; che giurasse pertanto di mantenere le leggi confermate dai suoi predecessori, di preservare Roma dal furore dei barbari e di serbare intatta la repubblica e, infine, che offrisse cinquemila libbre d'argento agli ufficiali romani che dovevano coronarlo imperatore in Campidoglio.

Se dobbiamo credere ad Ottone di Frisinga, le parole degli ambasciatori riempirono di sdegno il sovrano, il quale così rispose:

"Ho sentito molto celebrare il valore dei Romani e la loro saggezza; per la qual cosa mi meraviglia il vostro parlare sciocco, arrogante e privo di buon senso. Voi mi parlate della nobiltà della vostra città e mi ricordate il passato della vostra repubblica; ma Roma conobbe il mutare delle sorti del mondo e non riuscì a fuggire al destino che regola tutte le cose umane. Tutti sanno che il fiore della nobiltà romana fu prima trasportata a Bisanzio, tutti sanno per quanto tempo i degenerati Bizantini succhiarono le midolla preziose di Roma e come, poi, su di essa piombassero i forti Franchi che le sottrassero tutto ciò che di nobile e di eletto le restava.
Volete sapere dove andarono l'antica gloria romana, l'austera dignità del Senato, la ferrea disciplina dei cavalieri, l'arte della guerra e l'invincibile valore nelle battaglie? Tutto questo sappiate ora si trova presso di noi Tedeschi; tutto giunse a noi assieme con l'impero. Da noi si trovano i vostri consoli e il senato, nostre sono le vostre legioni. Roma deve andare debitrice della sua vita alla saggezza dei Franchi e alla spada dei suoi cavalieri. Dica la storia se i nostri illustri antenati, Carlo ed Ottone, ricevettero la città per grazia di un uomo qualsiasi o se con la spada la sottrassero, insieme con il resto d'Italia, dalle mani dei Bizantini e dei Longobardi e poi la riunirono all' impero dei Franchi?
Lo seppero i vostri tiranni Desiderio e Berengario che poi prigionieri dei Franchi perirono e le cui ceneri conserva ancora la nostra terra. Ma voi direte: da noi furono chiamati i nuovi imperatori. E con questo? Eravate oppressi dai nemici ed eravate incapaci di scuotere il giogo dei fiacchi Greci; e allora chiedeste l'aiuto dei Franchi; voi miseri invocaste i ricchi, voi deboli chiamaste i forti, voi tormentati vi rivolgeste ai potenti.
E così chiamato, anch' io sono venuto; il vostro signore diventò mio vassallo e voi fino ad oggi siete stati miei sudditi. Io sono il legittimo possessore. Chi dunque oserà strappare ad Ercole la clava? Forse il Siciliano, in cui speri? Lo ammaestri il passato.


Voi mi chiedete un giuramento di tre specie, ma ascoltate: o è giusta o non è giusta la vostra richiesta; se non lo è, né voi potete chiedere né io posso dare; se lo è, non farei che confessare un obbligo contratto spontaneamente e, pertanto, sarebbe superfluo giurarlo.

Come potrei venir meno alla giustizia io che ne voglio render garanti gli uomini più meschini? Come non potrei difendere la sede del mio impero io che voglio renderlo più grande? E ne fa fede la Danimarca da poco soggiogata, ed altre terre ancora farebbero fede se questa spedizione non me ne avesse distolto la loro conquista. Infine voi chiedete denari. Non si vergogna dunque Roma di mercanteggiare con il suo imperatore come se fosse un sensale? Deve dunque egli pagare il primo che trova invece di dispensare grazie? Alla gente minore si chiede loro che adempi agl'impegni; ma poi i maggiori elargiscono benefici.
Perché io non dovrei mantenere le consuetudini tramandate dai miei avi illustri? No, il mio ingresso sia festa per la città e a coloro che ingiustamente chiedono ingiuste cose io per giustizia tutto ricuserò".

Tornati a Roma gli oratori della repubblica, per consiglio del Pontefice, Federico mandò avanti mille uomini a cavallo, i quali, all'alba del 18 giugno del 1155 occuparono la città Leonina; il giorno stesso, da Monte Mario, senza nessun ostacolo, ma anche senza accoglienze, accompagnato dal Papa e dai Cardinali e seguito da tutto l'esercito, Federico entrò a Roma, e nella basilica di S. Pietro ricevette la spada, lo scettro e la corona imperiale.

Alla cerimonia fatta così frettolosamente non avevano assistito che il clero e le milizie del Barbarossa, come se si temesse da parte del sovrano che i Romani ostacolassero l'incoronazione. A questo proposito uno storico tedesco, il Gregorovius, osserva giustamente:

"L'impero del medio evo era un'ombra vana anche su Roma, e nulla lo dimostra meglio di queste incoronazioni che in fretta e furia si compievano nel sobborgo pontificio, mentre con grande ansietà si aspettava che i Romani (dai quali gli imperatori traevano il loro titolo) piombassero con le spade sguainate di qua del Tevere. Un abisso profondo nelle opinioni, nei bisogni, nell'origine di stirpe, separava gli imperatori di nazione germanica dai Romani. Benché questi odiassero lo straniero, Adriano IV come loro principe territoriale e come papa, tuttavia lo potevano ancora rispettare, dove invece per Federico in questo periodo non potevano avere che una forte antipatia. Sulle leggi della città, che tutti gli imperatori abitualmente promettevano di osservare e riverire, Federico non aveva giurato; i voti dei Romani non aveva ascoltato; nemmeno udito le consuete loro acclamazioni; né con donativi le aveva pagate; e a buon diritto pertanto i Romani si sentivano lesi nei loro diritti.

Giusta era la domanda che Federico confermasse la loro costituzione; ma non aver accondisceso non fu per nulla prudente, e venne tempo in cui l'imperatore se ne pentì e a quei disprezzati cittadini dovette lui prestare giuramento.
Dopo che i papi avevano cessato di essere candidati del voto elettivo del popolo romano, il popolo si era visto rapire anche la parte che gli spettava nell'elezione del suo imperatore. E proprio in questi anni, in cui le idee dell'antichità romana erano venute innescandosi in tutti i concetti giuridici delle cose civili e politiche del "grande passato", i Romani non potevano accettare, che Roma non fosse altro che il luogo in cui l'imperatore ed il papa celebravano la cerimonia della loro incoronazione o consacrazione per proprio conto, facendo a meno di loro.

Mentre altre città splendevano per ricchezza e per potenza, l'unico orgoglio della povera Roma era rimasto solo questo: essere Roma!
Durava come tradizione il concetto universale che Roma fosse la città capitale del mondo; in Roma Gregorio VII aveva assegnato al papato il compito di rappresentare l'unità del mondo, e adesso i Romani fantasticavano di fare lo stesso per via della maestà del popolo e della magistratura imperiale dal popolo nuovamente concepita e istituita".

L' incoronazione fatta senza l'intervento e contro la volontà del popolo costituiva un'onta gravissima per i Romani, i quali nonostante avessero perduto la "signoria del mondo", come il Barbarossa altezzosamente aveva detto, più di una volta avevano mostrato agli imperatori stranieri che sapevano ancora maneggiare le armi.
Accorsi al Campidoglio, avevano dichiarato illegale l'incoronazione, poi prese le armi corsero verso San Pietro per impedire lo svolgersi della cerimonia; ma questa era già terminata e le truppe tedesche controllavano gli sbocchi della Città Leonina.
Al Barbarossa scottava sotto i piedi quel particolare suolo di Roma e si affrettò ad allontanarsi e a tornarsene con l'esercito ai prati di Nerone, dove sorgevano gli accampamenti. La sua retroguardia aveva appena varcato il ponte che i Romani invasero la città Leonina, maltrattarono i cardinali e si sarebbero impadroniti del Pontefice se lui non si fosse rifugiato in S. Pietro; poi assalirono i pochi Tedeschi rimasti nella città, facendone una strage.

L'imperatore, saputo il fatto, radunò le sue milizie e marciò su Roma, dalla quale era appena uscito il popolo che dava la caccia ai fuggiaschi. Un feroce combattimento si scatenò tra gl'imperiali bene armati e disciplinati e i Romani, sebbene sbandati e mal guidati, sostennero l'urto con valore e solo dopo una furiosa mischia, prima di essere sopraffatti dal nemico, si ritirarono.
Ma presso il ponte S. Angelo la lotta continuò fino a notte e terminò solo con la ritirata del popolo che aveva fornito una splendida prova di gran coraggio resistendo per così lungo tempo e così vigorosamente a truppe molto più numerose ed agguerrite.
Dei romani duecento furono i prigionieri e un migliaio circa gli uomini uccisi o finiti nel Tevere. Non meno gravi dovettero essere le perdite degli imperiali: lo dimostra il fatto che Federico, il giorno dopo, levò il campo, seguito da Adriano IV, e si ritrasse prima ad Albano, poi a Tivoli, dove il Pontefice celebrò la festa degli Apostoli Pietro e Paolo in cui - secondo un cronista - fu data l'assoluzione ai soldati tedeschi, che avevano ucciso solo per difendere i diritti del loro imperatore.

L'impresa di Roma per Federico apparentemente era stata una vittoria; ma in realtà aveva come contropartita ottenuto solo un magro vantaggio: la corona imperiale. Altri vantaggi in verità lui sperava di riuscire ad avere dalla sua discesa in Italia muovendo guerra ai Normanni e il tempo era propizio ad una spedizione nel mezzogiorno.


RUGGERO II era morto (l'anno prima nel '54) e gli era successo sul trono il figlio Guglielmo, non un inetto - come parecchi storici hanno scritto - ma ciecamente fiducioso nell'opera di un uomo, MAIONE, il quale, figlio di un venditore d'olio di Bari, dalla sua umilissima origine aveva raggiunto il grado di Grande Ammiraglio del Regno. Dotato di straordinario ingegno, eloquente, sagace, astuto, ambiziosissimo, avido di dominio e di danaro, Maione aveva saputo sbarazzarsi, carcerandoli o mettendoli al bando, molti prodi guerrieri che avevano fatto la fortuna di Ruggero. Fra questi era il CONTE di POLICASTRO che nel 1155 era stato gettato dentro una prigione di Palermo; un altro valoroso vassallo, il conte ROBERTO di LORETELLO era sfuggito alle insidie del Grande Ammiraglio ed era passato con le sue genti in Abruzzo.
Serpeggiava in Puglia il malcontento contro la politica odiosa di Maione e i non pochi baroni fuorusciti incitavano il Barbarossa ad intraprendere la spedizione contro Guglielmo, sul quale il Pontefice aveva lanciato la scomunica.

Ma Federico non riuscì ad approfittare della situazione in cui si trovava l'Italia meridionale oltremodo propizia ai suoi disegni, perché l'esercito nel Lazio colpito dalle febbri malariche provocate dai calori estivi, reclamò di essere ricondotto in patria. Lasciato a Tivoli il Papa, il Barbarossa passò con le sue milizie a Narni; di qua corse su Spoleto, che aveva rifiutato di pagare i tributi e aveva imprigionato il conte Guido Guerra. Gli Spoletani, usciti dalle mura, si difesero valorosamente; ma a nulla valse questo coraggio: ricacciati dalla cavalleria tedesca dentro la città, questa fu poi presa d'assalto, conquistata, occupata, razziata e in gran parte distrutta (27 luglio del 1155).

Presa la via del nord, FEDERICO giunse ad Ancona, dove trovò una legazione inviatagli dall'imperatore bizantino EMMANUELE COMNENO per sollecitarlo alla spedizione contro i Normanni; ma questa fu rimandata in altri tempo e l'esercito tedesco fu sciolto. L'imperatore, con le poche milizie rimastegli, prese il cammino dell'Italia settentrionale e giunse nel territorio di Verona, dove qui corse il rischio di rimanere annegato per un'insidia tesagli da quegli abitanti, i quali gettarono sull'Adige un ponte molto debole in modo che si sfasciasse sotto il peso delle sue truppe. Il ponte, infatti, crollò, ma solo quando la maggior parte dei Tedeschi erano già passati. A quel punto i Veronesi decisero di inseguire le milizie imperiali, ma alle Chiuse furono loro ad avere la peggio cadendo in una brutta imboscata; cinquecento furono impiccati agli alberi e a molti altri furono mozzati il naso e le labbra.
Qui Federico fece anche altro; ma riprenderemo questi avvenimenti nella puntata successiva.

"Dei successi avuti in Italia l'imperatore al suo ritorno in Germania si diede un gran vanto, colorendo forse un po' troppo le sue imprese. Ma i fatti - e noi qui li abbiamo visti- in realtà erano ben diversi; quelli soprattutto che si riferivano al Papa. Infatti, delle promesse fatte da Federico a Adriano IV, che lo avrebbe rimesso nella signoria di Roma e poi gli avrebbe abbattuto l'odiato regno del normanno Guglielmo, nessuna delle due era stata ottenuta. Il papa non era a Roma ma era fuggito a Tivoli; e lui aveva in testa una corona imperiale data da un Papa che non regnava a Roma.

Gli eventi accaduti nell'Italia meridionale dopo la partenza dell'imperatore, obbligarono il papa a seguire una politica propria, per non perdere la posizione che i suoi predecessori avevano ottenuto su quei paesi per la Santa Sede. Sulle prime era parso -con Guglielmo- che il regno del Guiscardo andava incontro ad un'improvvisa dissoluzione. Infatti, la rivolta delle province promossa dall'oro, dalle milizie bizantine, e l'invio di una flotta ad Ancona, aveva preso proporzioni vastissime. ROBERTO di BASSAVILLA si era impadronito della Puglia Marittima; ROBERTO di CAPUA era ritornato in possesso del suo principato. RICCARDO D'AQUILA si era fatto padrone di Suessa e Teano; e ANDREA di RUPE CANINA, di Alife.
A settembre i bizantini avevano ripristinato la loro autorità su tutta la costa, da Taranto ad Ancona.

Il papa, visti i successi e incitato dagl'insorti a recarsi nel regno apparentemente in sfacelo per ricevere il loro omaggio, giudicando spacciata la causa del re Guglielmo (fra l'altro gravemente ammalato a Palermo), aveva accettato l'invito e con un grosso contingente di truppe mercenarie, era sceso a San Germano (ottobre 1155). Ricevuto qui il giuramento dei signori della Campania, era passato a Benevento. E fu qui che giunsero a incontrarlo i legati di Costantinopoli con offerte di una grande alleanza antimperiale e antinormanna da parte dell'imperatore Emmanuele Comneno; ma il papa, o perché non ritenne necessario un suo appoggio in Puglia, o perché non voleva alienare i rapporti con il Barbarossa, respinse la proposta.

Ma con il sorgere del nuovo anno (1156), la scena mutò improvvisamente. Il Regno e il suo Re, entrambi malati sembravano che avessero solo più qualche mese di vita, il secondo ricomparve più sano di prima, più ardito e più energico al di qua dello stretto con il suo potente esercito e in brevissimo tempo risanò anche il Regno, riportando all'ubbidienza tutte le province ribelli. Bari pagò per tutte con l'essere rasa al suolo. I principi ribelli per salvarsi dalla sicura forca furono costretti a fuggire e a cercare ricovero a Benevento presso il Papa; Riccardo di Capua, che tentava di resistere fu alla fine fatto prigioniero accecato e nonostante la pesante menomazione fu mandato a finire la sua misera vita nelle carceri di Palermo.

Il Papa stesso a Benevento non si sentì più sicuro. Ma da uomo accorto qual era, si tolse dai pasticci dove sconsideratamente si era andato a cacciare, non con una fuga, ma abbandonando alla loro cupa sorte tutti i baroni suoi alleati, e cambiando in fretta bandiera, salì sul carro del vincitore e stipulò la pace (Trattato di Benevento) con il re Normanno. Al quale non solo conferì la consueta triplice investitura del regno di Sicilia (con la legalizia apostolica) del ducato di Puglia e del principato di Capua, ma lo nominò pure signore di Salerno, Amalfi, Napoli e degli Abruzzi, estendendo l'una e l'altra nomina al figlio del re, RUGGERO, che, allora, contava appena 5 anni di età (giugno del 1156).

La pacificazione Adriano IV con il re normanno ne portò con sé un'altra ancora più importante per il papa: la pace con i Romani. Costoro, spinti dall'odio che provavano per l'imperatore Federico, vedendo ora il papa staccarsi da lui, accettarono la mediazione di re Guglielmo; fu pace anche a Roma rimettendo in vigore quel (precario) patto stipulato dal Senato con Papa Eugenio III.

Queste due paci essendo così insincere, innegabilmente recavano nel loro grembo i germi di un'altra guerra, e quale guerra! L'anglosassone papa Adriano IV lo sapeva bene, e ben lungi dallo sgomentarsene, ne provocò lo scoppio (Bertolini)".

Dobbiamo ora tornare in quel campo vicino a Verona
dove Federico, dopo la brutta esperienza fatta a Roma si era fermato, e prima di rientrare in Germania, con un suo atto, qui aveva già acceso una miccia per lo scoppio della nuova guerra in Lombardia; e quando gli arrivò in Germania la notizia che il Papa cambiando bandiera, aveva fatto con i Normanni e con Roma una pace, di miccia Federico ne accesa un'altra.

Ed è il prossimo capitolo dei fatti e della seconda spedizione di Federico Barbarossa.

ALLA VIGILIA DELLA SECONDA DISCESA IN ITALIA DEL BARBAROSSA

L'ultimo atto di Federico Barbarossa prima di lasciare l'Italia nel novembre del 1155, fu rivolto contro Milano. Mentre si trovava nel territorio veronese (dove corse il rischio anche di annegare nell'Adige per un tiro mancino fatto dai Veronesi) mise la metropoli lombarda al bando dell'impero e con un decreto firmato da più di duecento vescovi e signori tedeschi e dai consoli di Pavia e Novara le tolse il diritto di coniare moneta e tutte le altre regalie, che furono invece date a Cremona, a lui la più fedele delle città italiane.

Fu un provvedimento di nessun valore: i Milanesi continuarono e portarono a termine la promessa ricostruzione di Tortona, difendendola dagli assalti dei Pavesi e risposero al decreto imperiale cingendo di un profondo fosso la propria città, ricostruendo e fortificando Trecate e Galliate e rifacendo il ponte sul Ticino che era stato bruciato e distrutto dal Barbarossa.

Né i Milanesi si limitarono a queste opere di ricostruzione e di difesa per la quale furono spese somme ingenti; ma pensarono anche di punire le città che si erano alleate con il sovrano germanico, e la prima presa di mira era Pavia.
I Pavesi, insieme con GUGLIELMO di MONFERRATO e OBIZZO MALASPINA, tenevano un forte contingente di milizie presso il castello di Vigevano, pronte a varcare il Ticino e a invadere il territorio di Milano. I milanesi, riunito un forte esercito, aggiunsero le milizie di Brescia, e ne diedero il comando al conte GUIDO di BIANDRATE, il quale, passato il Ticino ed evitata la rocca di Vigevano, assalì improvvisamente e distrusse il castello di Gambolato; poi, tornato indietro, diede battaglia ai Pavesi.
Questi, dopo una furiosa mischia si chiusero a Vigevano, ma non vi resistettero che pochi giorni; costretti dalla fame, si arresero a durissimi patti e Vigevano, poi occupata, per punizione fu rasa al suolo.

Fu, questo, soltanto uno dei primi gravi episodi della guerra tra Milano e i comuni nemici. E fu una guerra vittoriosa per la metropoli della Lombardia che fece sentire il morso delle sue armi a Pavia e a Cremona e fu del tutto insensibile con Lodi. Per andare a distruggere quest'infelice città il minimo pretesto era quello buono; e il pretesto arrivò.
Avevano ordinato i consoli che tutti i Lodigiani, dai quindici anni in su, dovevano giurare fedeltà a Milano. Volendo i Lodigiani includere nella formula le parole "salva la fede all'imperatore", i consoli istigarono il popolo contro la vicina città, e a nulla valsero le preghiere di sessanta autorevoli cittadini che, guidati dal loro vescovo, si recarono a Milano a chiedere misericordia presso l'arcivescovo UBERTO.

Lodi fu assalita, e incendiata, i suoi castelli distrutti, devastati i campi, e gli abitanti, scacciati dalla loro terra, dovettero rifugiarsi a Pizzighettone, sotto la tutela dei Cremonesi.

"Umiliata Pavia - scrive L'Emiliano-Giudici- impaurito il marchese di Monferrato, impadronitisi di molti castelli a Novara e conquistati altre venti, nella valle di Lugano, il comune milanese salì in una tale reputazione, che non solo si era rifatto degli innumerevoli danni che Federico gli aveva cagionati, ma vide la sua supremazia riconosciuta su tutte le città lombarde, che volendo emularne gli esempi facevano gara di solerzia, di affetto cittadino, di saggezza politica, di previdenza, moltiplicando i ripari, le strade, stringendo ancor di più le antiche alleanze; il trionfo quasi universale dei liberi ordinamenti in Lombardia pareva avesse sradicato per sempre da quelle terre fortunate la mala pianta della dominazione straniera".

Della potenza di Milano è inutile qui dirlo, in Germania si rodeva il fegato Federico Barbarossa; l'aveva messa al bando per ridurla in miseria e invece quella era diventata ora più ricca, più grande, più superba di prima.
Ma a rendere più acuto il suo malcontento in Germania giunsero le ultime notizie dall'Italia meridionale che gli annunciavano non solo i successi di Guglielmo contro i baroni ribelli della Puglia e i Bizantini, ma veniva pure a sapere con rabbia e indignazione, cosa era accaduto dopo questi successi del Normanno; cioè l'investitura che a Benevento il Pontefice gli aveva dato senza il consenso imperiale.
Ed i patti fatti a Roma erano chiari, sia lui sia il Papa non potevano concludere una pace con un comune nemico senza il consenso reciproco.
E i Normanni per entrambi erano i comuni nemici, e quella pace era un vero e proprio tradimento del Papa.

Se quest'ultimo fatto, in special modo, aveva irritato l'imperatore contro il Pontefice; un lieve incidente, che in altri tempi sarebbe passato inosservato, inasprì ancor più la collera di Federico e fece scoppiare anzitempo il conflitto tra il papa e il sovrano di cui il seme era stato gettato nella pace che Adriano aveva concluso con il re Guglielmo e non poca era la collera pure per quella pace conclusa con i Romani.

Correva l'ottobre del 1157 e Federico Barbarossa si trovava a Besanzone, dov'era andato a prendere possesso dell'alta Borgogna, portatagli in dote da Beatrice, figlia del conte palatino Rainaldo, che Federico aveva sposato in seconde nozze nel giugno dell'anno precedente.
Durante il suo soggiorno a Besanzone, l'imperatore ricevette la visita di un legato pontificio, il cardinale ROLANDO BANDINELLI da Siena, cancelliere della curia romana, che più tardi diventò molto famoso col nome di ALESSANDRO III. Sarà lui ad ingaggiare con lo Svevo la lotta dei "due giganti" per vent'anni, non concedendosi entrambi tregua.

BANDINELLI era stato inviato per chiedere al sovrano di rimettere in libertà l'arcivescovo ESQUILO di Luni, il quale, tornando da Roma, era stato derubato e imprigionato da alcuni suoi cavalieri tedeschi. Il prelato era stato incaricato di consegnare all'imperatore una lettera nella quale Adriano IV, fra le altre cose, gli ricordava di....
"avergli concesso la corona imperiale e di essersi mostrato con lui arrendevole in ogni suo desiderio, ed aggiungeva che non si pentiva dei favori accordatigli, ma desiderava anzi di potergli concedere maggiori benefici, se ci fosse stato sulla terra un "beneficio" ("beneficium") maggiore della dignità imperiale".

La parola "beneficium" nel linguaggio feudale significava feudo, e il Papa, usandola faceva capire che "l'impero era un semplice feudo" della Santa Sede. Federico arse dallo sdegno leggendo quella lettera papale, e la sua collera aumentò quando il legato con l'intenzione di giustificare le espressioni del Pontefice, gli disse: "Da chi dunque il principe tiene l'impero? Da chi se non dal Papa?" .
A queste franche, audaci parole, come stilettate, i grandi, che circondavano l'imperatore, cominciarono a tumultuare e il conte palatino OTTONE di Baviera, che reggeva la spada imperiale, si scagliò contro il BANDINELLI e gli avrebbe recisa la testa se il Barbarossa non lo avesse trattenuto e allontanato.

A ROLANDO BANDINELLI fu imposto di lasciare subito la Germania; ma quando il Pontefice si lagnò di questo con i vescovi tedeschi, e del modo con cui era stato trattato il suo legato, e li esortò ad ammansire l'animo di Federico si sentì rispondere che il suo cancelliere aveva agito con imprudenza e che il torto non stava dalla parte dell'imperatore.
Questi, dal canto suo, mandò lettere per tutto l'impero, nelle quali, raccontava questi fatti e vietava di accogliere legati pontifici; Federico in quelle lettere sosteneva di "avere ricevuto il regno e l'impero soltanto da Dio per mezzo dell'elezione dei suoi principi", e concludeva minacciosamente: "Chi ardisse sostenere che noi abbiamo ricevuto la corona imperiale quale feudo del Papa mente e contraddice alla dottrina di Dio e di San Pietro".

Ma non poteva accontentarsi solo di mandare lettere; il Barbarossa indignato per questo e altro, affrettò i preparativi per la seconda spedizione italiana già annunciata alla dieta di Fulda nel marzo del 1157, bandì una dieta in Ulma, da tenersi nella Pentecoste del 1158 e spedì in Italia il cancelliere RAINALDO di SASSEL e il conte OTTONE di WITTELSBACH perché invitassero i principi italiani ed i Comuni amici a tenersi pronti. I due messi imperiali si recarono a Verona, a Cremona, a Ravenna, a Rimini e ad Ancona e l'accoglienza dovunque ricevuta fu tale che Adriano IV scoraggiatosi, si affrettò a scrivere all'imperatore spiegando che nella lettera speditagli a Besanzone non "feudo" con la parola "beneficium" aveva voluto significare, ma "bene fatto". ("Beficium", hoc enim de "bono et factum" est editum, et dictum beneficium apud nos, non "feudum" sed "bonum factum").
Noi qui, non possiamo per nulla escludere che quella frase sia stata vergata proprio dal fiero Bandinelli (il futuro papa Alessandro III), tutta la sua ostinata condotta successiva è coerente a quella frase.
Federico accolse la scusa, si mostrò o finse di mostrarsi soddisfatto, fece buon viso a coloro che avevano recato la lettera, scrisse pure allo stesso Pontefice che "niente desidero al mondo di più che la pace con la Chiesa e l'amicizia con il suo capo".
Ma l'esercito Federico continuò a prepararlo. E anche poderoso!


SECONDA SPEDIZIONE DI FEDERICO IN ITALIA - LA NUOVA LODI
VICENDE DELL'ASSEDIO DI MILANO

(vedi cartina gigante di Milano nel 1158, quando fu assediata > >

 

Nella Pentecoste del 1158 si radunò ad Ulma l'esercito imperiale composto di oltre cinquantamila uomini e comandato dai grandi dell'impero, laici ed ecclesiastici, tra i quali il re VLADISLAO II di Boemia, i duchi d'Austria, di Carinzia, di Baviera, di Zaringa, gli arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia e i vescovi di Costanza, Spira, Worms, Eichstàdt, Praga, Verdun e Virzburgo.
Per rendere più facile il vettovagliamento, l'esercito, diviso in vari corpi, passò le Alpi per quattro vie diverse: ENRICO d'Austria e il duca di Carinzia con gli Ungari scesero per la via di Canale, della marca veronese e del Friuli; BERTOLDO di Zaringa con le milizie di Borgogna e di Lorena passò per il San Bernardo; le truppe di Franconia e di Svevia scesero da Chiavenna e il lago di Como; Federico, con la parte migliore dell'esercito prese la via del Brennero.

Le prime ostilità si trovarono a Brescia, dove proprio l'avanguardia imperiale composta di Boemi fu assalita e respinta dalle milizie cittadine: ma sopraggiunto da Verona, Federico, con il grosso dell'armata, fu posto l'assedio alla città, mentre nel frattempo per ingannare il tempo gli altri reparti si dilettavano a distruggere tutti i ricchi dintorni, fino a tal punto che i Bresciani si affrettarono a chiedere la pace, pagando una grossa somma e consegnando, come ostaggi, sessanta fra i più autorevoli cittadini.

Entrato a Brescia, BARBAROSSA aspettò che l'esercito si riunisse, emanò un editto sulla disciplina militare e radunò in un parlamento tutti i suoi baroni, ai quali, fra le altre cose, disse (quello che dicono tutti i salvatori): "Non la brama di dominio ci muove alla guerra, ma l'ostinazione dei ribelli. Milano vi ha tolto dalle case paterne, vi ha strappato alle mogli e ai figli e con la sua audace irriverenza ha attirato sopra di voi questo flagello. Che la città nemica non creda che noi siamo passivi, né ci consideri degeneri solo perché vogliamo conservare ciò che i nostri antenati, Carlomagno e Ottone, aggiunsero ai diritti dell'impero".

Consigliato dai dotti che seguivano l'esercito, Federico citò i Milanesi a comparire davanti al suo tribunale per giustificare la loro condotta; e il comune si affrettò a mandare oratori; ma invano questi perorarono calorosamente la causa della città, chiesero l'intercessione dei più illustri principi, offrirono somme. Federico, che voleva fiaccare quel comune, che costituiva un pericolosissimo esempio per le altre città della Lombardia, fu inesorabile, rinnovò il bando su Milano e ordinò che l'esercito si muovesse alla volta della città ribelle.

Al ponte di Cassano, sull'Adda, c'erano di guardia mille cavalieri milanesi con un bel gruppo di contadini armati. In quel punto non essendo facile il passaggio, l'esercito imperiale sostò davanti a quell'ostacolo; ma, spinto dall'impazienza, VLADISLAO di Boemia e il duca di Dalmazia si diedero ad esplorare la riva e, trovato un punto che sembrava un buon guado, sebbene il fiume fosse gonfio per lo sciogliersi delle nevi, tentarono il passaggio con una schiera di cavalli. Molti perirono trasportati dalle acque impetuose, ma molti altri riuscirono a raggiungere la sponda opposta.

Assaliti di fianco da questa schiera e di faccia dall'esercito di Federico, i cavalieri milanesi si difesero molto bene, poi, non potendo resistere al duplice attacco e al gran numero di nemici, abbandonarono il ponte e arretrarono verso Milano. Allora il Barbarossa iniziò il passaggio dell'Adda, ma il ponte, per il troppo peso, crollò trascinando nell'acqua quanti vi erano sopra; però il grosso dell'esercito era già passato e già avanzava devastando e uccidendo, mentre i contadini in gran numero, per fuggire alle violenze tedesche, riparavano a Milano, che in breve si trasformò in un asilo troppo piccolo per così tanta gente e non aveva certo i viveri sufficienti a sfamar tutti.
Allora Milano contava circa 50.000 abitanti, altri 50.000 erano nei suoi dintorni, sparsi nelle campagne, in piccoli centri, ma a quei tempi con una moltitudine di contadini impiegati per lavorare la terra.

Passato l'Adda, il Barbarossa espugnò e presidiò il castello di Trezzo, poi andò a Castirago, dove gli andarono incontro, vestiti a lutto, i Lodigiani che lo scongiurarono perché rendesse loro la patria. L'imperatore ebbe per loro parole di conforto, poi si recò a Monte Ghezzone presso l'Adda, e a quattro miglia dalla vecchia Lodi, segnò i confini della nuova città da edificarsi e di quel nuovo territorio diede l'investitura ai consoli lodigiani RANFO MORENA, LOTARIO degli ALBONI e ARCIBALDO di SOMMARIVA.

Intanto, chiamate dal bando imperiale, accorrevano le milizie dei conti e marchesi di tutta la Lombardia al campo di Federico e truppe inviavano Pavia, Cremona, Como, Lodi. Bergamo, Verona, Mantova, Parma, Piacenza, Asti, Novara, Vercelli, Ivrea, Alba, Genova, Modena, Reggio, Bologna, Ferrara, Padova, Treviso, Aquileia, Cesena, Imola, Forlì, Rimini, Ancona, Fano e alcune città della Toscana.
Così si stupiva dolorosamente un contemporaneo, vedendo l'astio con cui le città lombarde si univano per combattere contro Milano.

"…Non come popolo affine, non come un avversario interno, ma come contro nemici esterni, come contro popoli di un'altra stirpe; incrudeliscono contro quelli del loro sangue come non si dovrebbe fare neppure con i barbari".
Il notaio Burcardo non per nulla annotava: "Vinta Milano, abbiam vinto tutto."

 

Secondo il conteggio dei cronisti di allora, a centomila fanti e quindicimila cavalli assommò l'esercito raccolto sotto le insegne del Barbarossa per andare a punire Milano. Ma lui la voleva punire, ma gli altri - le città sopra menzionate- la volevano distruggere del tutto.

L'assalto della città fu cominciato per iniziativa di un giovane vassallo di nome ECHEBERTO, il quale, desideroso di acquistarsi gloria e credendo i Milanesi atterriti dalla grande moltitudine di armati che stava avanzando contro di loro, senza chieder licenza a Federico, con un migliaio di cavalieri, assalì improvvisamente una porta di Milano.


Ma le milizie milanesi erano preparate a ricevere il nemico e subito uscirono con le armi in mano ad affrontare l'audace vassallo. Si scatenò una furiosa mischia sotto le mura con i contendenti, che erano come valore pari e, infatti, incerte erano le sorti della battaglia, fin quando un colpo di lancia stese esanime al suolo Echeberto.

La morte del loro capo demoralizzò all'istante i Tedeschi, che subito incalzati dai Milanesi, vacillarono, e furono presto sopraffatti, sbaragliati; molti perirono, molti altri caddero prigionieri, pochi riuscirono a salvarsi con la fuga portando così la notizia della sconfitta all'imperatore, il quale, rimproverò i superstiti per l'insubordinazione; ma a quel punto fu questo un buon motivo per muoversi; levò il campo e marciò contro Milano per scatenare la sua vendetta.

Giunto sotto le mura della città, divise l'esercito in sette corpi e mise un principe di fronte a ciascuna porta; lui si piazzò presso la casa dei Templari; Vladislao di Boemia a San Dionigi, l'arcivescovo di Colonia a San Celso. Gli accampamenti furono cinti da fossi e steccati e furono poste in azione le macchine guerresche.
Ci è stata tramandata in una rarissima incisione realizzata da un certo Aspari, la carta topografica della città di Milano del 1158, con segnate la disposizione dei corpi che assediavano la città.
(vedi il link all'inizio di questo capitolo)

Scrive l'Emiliani-Giudici, da cui ci piace riportare le belle pagine che raccontano l'assedio:
(che riportiamo fedelmente e integralmente nell'antiquato lessico)

"I Milanesi avevano raccolto cinquanta e più migliaia di combattenti, capitanati dai conti ANSELMO di MANDELLO, UBERTO di SEZZA, ANDERICO conte di Martesana, e RINALDO marchese d'Este. Tutti impazienti di scontrarsi con il nemico; i capi non riuscivano a frenarli. Una notte, uscendo zitti zitti da una delle porte, si gettarono sul corno estremo del campo, dove vi era Corrado conte palatino del Reno, gli trucidano le scorte, e si danno a far macello dei soldati immersi ancora nel sonno: cresce il trambusto; il re di Boemia si accorge, e al suono degli strumenti bellici lancia i suoi cavalieri in mezzo alla baruffa; immenso lo scompiglio; i Milanesi non bastano a sostenere l'accresciuto numero dei Tedeschi, e si richiudono dentro la città. I nemici condotti da Ottone conte Palatino, li incalzano fin presso ad un ponte di legno che, sovrapposto al fosso, serviva da varco ad una porta, vi accatastano materie incendiabili e vi appiccano fuoco con intendimento di chiamarvi gli assediati e vendicarsi.
I Milanesi sbucano fuori; si urtano entrambi con immane impeto e riprende la strage; infine i Tedeschi indietreggiano, e gli altri ritornano entro le mura. Giorni dopo si provarono ad assaltare il campo del duca d'Austria, offesero e furono offesi e ritornarono dentro.
"Simili fatti d'arme seguivano spesso, e i Milanesi con grande audacia e destrezza tolsero ai nemici tanti cavalli, che un cavallo si poteva comprare per quattro soldi.

"L'assedio tirava in lungo; né vi era cenno di resa; Federico si impegnò a tempestare la città con le macchine da guerra. Con tale intendimento si studiò di espugnare una torre poco discosta dalle mura che si chiamava l'Arco Romano perché era sovrapposta a quattro arcate di antica costruzione; era presidiata da quaranta uomini. L'assaltò invano, poi l'assediò: per otto giorni quelli di dentro si sostennero; ma i Tedeschi cominciando a rompere i pilastri costrinsero i quaranta ad arrendersi. Collocarono in cima alla torre una petriera che recava gran danno alla città. I Milanesi di dentro con un onigro guastarono la macchina dei Tedeschi e li costrinsero ad abbandonare la torre.
Frattanto Federico faceva orribilmente devastare la contrada, distruggendo le messi, tagliando gli alberi, bruciando le case, rovinando i molini; tutto il paese rendeva immagine di un deserto.

Vincevano i devastatori tutti per rabbia e ferocia quelli di Pavia e di Cremona, che agognavano la distruzione dell'aborrita Milano. Qui, benché gli animosi con ogni studio tenessero desto il coraggio e viva la speranza nei cuori dell'afflitto popolo, la fame infuriava, e le malattie pure, e il luogo così contaminato produsse una mortale epidemia. La vigilanza degli amministratori non fu abbastanza per impedire la confusione; tutti mormoravano, tutti tumultuavano, tutti erano stanchi. GUIDO di BIANDRATE colse l'occasione e cominciò a mandare in giro pensieri e consigli di resa. Era uomo scaltro e reputato e per i suoi gentili portamenti ben accetto ai nobili e al popolo; uno di quegli esseri che si sanno barcamenare e in una generale rovina cascano ritti. Combatteva i Tedeschi ed era da loro amato e riverito tanto che Federico Barbarossa, il quale per costume non si lasciava concessioni al perdono, gli concesse poi tutto il suo regio favore, e l'ebbe caro e lo beneficò pure.

Costui dunque, fatto convocare un parlamento di popolo, ed arringandolo con bella eloquenza disse: che se egli fino allora aveva serbata fede alla repubblica, se aveva bramato che lo stato e l'onore di Milano si mantenessero incolumi e fermi, altro non aveva fatto che il proprio dovere: perché fin dai suoi primi anni, aveva dalla benevolenza dei cittadini ricevuto tanti favori e benefici da conoscersi insufficiente ad esprimere la sua gratitudine, sperava nella coscienza retta e che il buon volere gli valessero di merito ai loro occhi. Fiducioso sulla propria coscienza, era pronto a porgerne prova parlando senza timore e schiettamente il vero, come se fosse certo che ciò dovesse spiacere a quanti erano ingannati dal proprio desiderio e in questo si ostinavano.

La loro dignità, riputazione e fortuna, si erano fino a quel giorno mantenute in alto; i loro gloriosi fatti avevano reso attonito il mondo, perciò era noto a tutta Milano avere con la sua autorità sostenuti molti segnatori, e molti altri averne cacciati dal trono. Ma perché ogni cosa soggiace all'imperio della fortuna, la quale non secondo ragione, ma nella sua cecità esalta e prosterna le cose mortali, ora che essa cominciava ad esser loro nemica, si reputava tenuto a consigliare loro di cedere e seguire la vicenda di quella.
Consentiva anche lui con quanti andavano dicendo: la libertà essere inestimabile tesoro, e glorioso era il morire difendendola, e quel popolo che accetta il giogo e si scoraggia, diventa poi difficile scuoterlo; ma dovevano rammentare come fosse legge imposta fatalmente dalla provvidenza agli uomini non meno che agli altri animali, che il debole ceda al più forte; e però chiunque resiste alla potestà costituita resiste al volere di Dio; dal che manifesto emergeva che la città ostinandosi a resistere all'imperatore resisteva a Dio stesso.


Confessava essere cosa durissima dopo avere gustate le dolcezze del vivere libero piegarsi al giogo e mordere il freno. Ma finalmente dovevano consolarsi considerando che non s'inchinavano innanzi a piccola potenza, ma ad un imperatore nobile e grande. Rammentava come i padri loro fossero stati migliori dei figli per probità, per fede e per tutte quelle virtù che valsero a far loro conseguire l'onore, la gloria e la libertà che Milano godeva; e nondimeno quei gloriosi non poterono sottrarsi all'impero transalpino, testimone l'obbedienza che serbarono a Carlo e ad Ottone magni.

Non avendo dunque speranza di vincere, reputava demenza provarsi più oltre a resistere, mentre altra via più salutare non rimaneva che affidarsi alla clemenza del principe. E posto che avessero potuto sostenere l'impeto delle armi nemiche, in che modo si sarebbero potuti salvare dagli assalti della fame e della pestilenza? Ripensassero alle spose, ai figliuoli, ai genitori.
E terminava dicendo con l'astuta protesta che adoprano sempre gli oratori di popolo, come lui non desse quel consiglio per ignavia o paura, ma perché altra via non vedeva schivare il pericolo della comune rovina; intanto giurava di esser pronto a morire per il popolo suo, per la città sua, e versare tutto il suo sangue per la salvezza dei Milanesi.
Vi furono di quelli che consigliavano di perseverare o almeno tentare una generale prova estrema d'armi, ma erano pochi, e studiarono invano di stornare il popolo dai consigli del conte di Biandrate, il quale fu deputato a far pratiche di resa con mediatori il duca d'Austria e il re di Boemia.


Fu dunque concluso che i Milanesi riconcedessero la libertà ai Lodigiani ed ai Comaschi, e giurassero di non molestarli; prestassero giuramento di fedeltà all'imperatore, innalzandogli a spese loro un palazzo dentro la città, e pagandogli novemila marchi d'argento; liberassero i prigioni di guerra; che i consoli eletti dal popolo fossero approvati dall'imperatore; e per la sicurezza della fedele osservanza dei patti stabiliti consegnassero nelle suo mani trecento ostaggi. Ed egli prometteva che tre giorni dopo la presenza degli ostaggi avrebbe condotto l'esercito fuori delle mura, e che non avrebbe approfittato della vittoria.
Nella riferita convenzione, erano incluse le città alleate di Milano, cioè Tortona, Crema e l'isola del Lago di Como. Più onorevoli patti non avrebbe potuto ottenere Milano, anche se avesse ottenuta una vittoria con un gran fatto d'arme in campo aperto con il nemico.
Considerando l'altera e ferrea indole di Federico, e il concetto che aveva della sua imperiale dignità e dell'obbedienza dei popoli, lui si preparava a pattuire con il comune di Milano come avrebbe fatto con un potente suo pari, e concludendo andava affermando che Milano era uno stato veramente grande e solidamente costituito, e che le libertà cittadine avevano gettate così profonde le basi, che non si potevano senza annientare il comune. La qual cosa ci sarà poi mostrata dai fatti posteriori, quando Federico, usando il suo supremo privilegio di principe, che è quello di rompere la fede giurata, si provò ad angariare i popoli domati".

RESA DI MILANO - DIETA DI RONCAGLIA

Il 7 settembre de 1158 fu stipulata la resa di Milano; il giorno dopo i Milanesi uscirono dalla città e si recarono a fare atto di sottomissione all'Imperatore che si era allontanato di quattro miglia. Ai fianchi della lunga via erano schierate le soldatesche imperiali e in mezzo a due interminabili siepi di alabarde, di picche e di lance sfilò la triste processione dei vinti.
Il corteo era aperto dall'arcivescovo, vestito con i sacri paramenti; venivano dietro il clero con le croci, i consoli e gli altri magistrati, scalzi e in abiti da lutto; seguiva dietro il popolo con la corda al collo.
I prigionieri furono liberati quel giorno stesso e sulla torre del duomo fu piantato lo stendardo imperiale attestante la fine delle libertà comunali e il ritorno della città sotto il giogo del monarca straniero.


Poi Federico, con il suo brillante seguito, entrò con gran pompa a Milano, poi si recò a Monza; da ultimo sciolse l'esercito e diede licenza ai principi che lo avevano seguito di fare ritorno con i loro soldati nelle loro case.
Federico si trattenne a Milano qualche tempo ancora per ordinare agli affari della Lombardia, e quando partì, volendo conciliarsi l'animo dei Milanesi e far dimenticare l'umiliazione subita, baciò i più autorevoli cittadini, ai quali disse: "Preferisco premiare anziché punire; ma nessuno dimentichi che mi si piega più con l'obbedienza che non con la violenza. Confido che da oggi in poi questa città, rimanendo sempre sulla retta via, provi non già la severità e la potenza, ma la grazia e la mitezza del suo principe".

Questa seconda spedizione del Barbarossa in Italia non sarebbe stata per lui positiva di risultati se egli non avesse solennemente affermato la sovranità feudale sulla libertà comunale. Quest'affermazione lui volle che fosse fatta nella dieta di Roncaglia, convocata per il novembre del 1158, dove convennero i grandi laici ed ecclesiastici dell'alta Italia, i consoli dei comuni e quattro famosi giuristi dello studio bolognese, BULGARO, MARTINO GOSSIA, GIACOMO UGOLINO ed UGO di Porta Ravegnana.

Narrano le cronache che a Roncaglia l'Imperatore, in un'orazione recitata in lingua tedesca e tradotta in latino dall'interprete, disse ai convenuti di aver convocata quella dieta per conoscere i confini delle prerogative imperiali e ciò allo scopo di amministrar meglio la giustizia; poi rivoltosi ai giuristi bolognesi, domandò a chi spettassero le regalie. "Tutto è dell'Imperatore" risposero quelli.
Quali erano i diritti regi, compresi in questo nome generico di "regalie", fu stabilito dai giuristi con il concorso dei giudici delle singole città, i quali compilarono una nota in cui erano elencati i ducati, le contee, le zecche, i telonii, il fodro, i porti, i pedaggi, le gabelle, i dazi, i balzelli, i mulini, i fiumi, le cacce, le pescherie ecc.

Federico emanava quindi la "Constitutio de regalibus" e la "Constitutio pacis", con cui avocava all'impero i diritti e le riscossioni (regalie) di cui i Comuni si erano appropriati e proibiva le guerre interne e le leghe tra città.

Nessuno osò opporsi, e tutti, baroni, vescovi e consoli, restituirono le regalie all'Imperatore, il quale volle dimostrare la sua generosità riconcedendole a coloro che con documenti potessero provarne il legittimo possesso e la concessione ricevuta dai precedenti sovrani. Da questo riordinamento, il fisco imperiale si assicurò un profitto annuo di trentamila libbre d'argento.

Nella dieta di Roncaglia il Barbarossa nelle due costituzioni anzidette: si precisava in una ciò che riguardava i feudi e ai possessori toglieva la facoltà di alienarli o legarli alle chiese, rivendicandoli all'alto dominio dell'Imperatore; nell'altra proibiva la guerra, cioè la pace in Italia, ma nello stesso tempo obbligava tutti gli uomini dai diciotto ai settant'anni a giurare e mettersi a sua disposizione per una guerra; scioglieva le leghe fra le città, minacciando questa violazione con una multa di cento libbre d'oro; proibiva inoltre le riunioni armate; toglieva il diritto di guerra privata e stabiliva la sudditanza dei feudatari e dei comuni.

"I decreti di Roncaglia - nota il Bartolini - portarono con sé una radicale trasformazione dello stato civile delle città italiane: non era pertanto arduo il prevedere, che quanto facile era stato emanarli altrettanto scabroso sarebbe stato il farli eseguire. La tenacia messa da Federico nel pretenderne l'osservanza, aprì l'adito a nuovi conflitti fra lui e le città italiane, che dovevano costare enormi sacrifici di sangue, così all'una come all'altra parte, e segnare l'inizio del decadimento politico del regno germanico".

Per far sì che le leggi di Roncaglia fossero osservate il Barbarossa istituì in ogni comune un magistrato imperiale, che con il nome di "podestà" doveva esercitarvi il potere amministrativo e giudiziario; ma questa nuova istituzione che dava il colpo di grazia alla libertà comunale, se fu accolta con buon viso dalle città amiche dell'imperatore - non tutte però - provocò grande sdegno in quelle che lo avevano sempre avversato, come Piacenza che si rifiutò di abbattere le mura; Crema che scacciò i messi imperiali e Genova che, pur pagando dodicimila marchi e promettendo di ubbidire, continuò a costruire le sue fortificazioni.

Più audace fu il contegno tenuto dai Milanesi; non contenti di Federico perché aveva privato il loro contado del Seprio, della Martesana e di Monza. L'imperatore inviò a Milano RAINALDO di Dassel ed OTTONE di Wittelsbach per abolire i consoli e creare il podestà. I cittadini, che non conoscevano lo scopo del loro arrivo, li accolsero cortesemente e li ospitarono in Sant'Ambrogio; ma quando i due messi resero nota la volontà dell'imperatore, sorsero sdegnati MARTINO MALOPERA, AZZO BALTRASIO e CASTELLINO ERMENOLFO, i quali pronunziarono aspre parole all'indirizzo del sovrano perché Federico non aveva fede al patto del 7 settembre in cui era lasciata ai Milanesi la costituzione consolare.
Alle parole dei tre patrioti si levò a tumulto il popolo e i due messi, se vollero avere salva la vita, dovettero in gran segreto fuggire dalla città (febbraio del 1159).
Federico si trovava negli stessi mesi nel castello di Marmica e qui chiamò i Milanesi a giustificarsi della condotta tenuta verso i suoi messi ed avendoli chiamati violatori dei patti giurati si sentì intrepidamente rispondere che non erano tenuti a mantenere la fede verso chi per primo si era reso spergiuro.

Così si riapriva il conflitto tra Milano e l'imperatore, il quale giurò di non avrebbe messo più in capo la corona fino a quando non avesse abbattuto le torri e le mura dell'odiata città.
Avendo però licenziato l'esercito, non disponeva di forze sufficienti per ridurre all'obbedienza Milano; scrisse quindi alla moglie Beatrice e al duca di Baviera che gli inviassero truppe dalla Germania, e per temporeggiare accolse la proposta del vescovo di Piacenza, ed aprì a Marengo un'inchiesta sui fatti di Milano. Non avendo questa dato alcun risultato, Federico, da Bologna, dove si era recato, rinnovò il bando contro i Milanesi, cui non erano rimasti come alleati solo i Cremaschi e i Bresciani.

Appena dichiarata la guerra, i Milanesi assalirono il castello di Trezzo, dove l'imperatore aveva messo un forte presidio, lo espugnarono, lo saccheggiarono, n'abbatterono le mura e se ne tornarono con duecento prigionieri.
Incoraggiati da questo primo successo, decisero di portar le armi contro le città che avevano fatto lega con il sovrano, cominciando da Lodi e Cremona. Quest'ultima città fu assalita dai Bresciani che però furono respinti lasciando quattrocento uomini tra morti e prigionieri; Lodi doveva essere attaccata da due punti, ad ovest dai Milanesi, a nord dai Cremaschi; e l'assalto, condotto di notte tempo, sarebbe riuscito vittorioso se quelli di Crema trattenuti sul ponte, non avessero dato tempo ai Lodigiani di prepararsi alla difesa e non fossero stati da loro, il mattino seguente, ricacciati indietro.

ASSEDIO E DISTRUZIONE DI CREMA

Giungevano intanto al Barbarossa notevoli rinforzi; le prime schiere tedesche avevano varcate le Alpi e le milizie del marchese Guelfo di Toscana avevano notevolmente ingrossato l'esercito imperiale. Tuttavia Federico non si sentiva abbastanza forte da muovere contro Milano, temporeggiava.
Chi lo decise a rompere gli indugi fu Cremona la quale offrì all'imperatore undicimila marchi perché assalisse e distruggesse Crema. II sovrano accettò l'offerta e ordinò ai Cremonesi di precederlo.

Il 7 luglio del 1159 le milizie di Cremona giungevano sotto le mura di Crema, dove Milano aveva mandato un rinforzo di quattrocento fanti al comando del console MANFREDI DUGNANO; e s'iniziava il famoso assedio che doveva durare otto mesi e terminare con la distruzione dell'eroica città.
Alcuni giorni dopo arrivò anche Federico sotto Crema e più tardi lo raggiunsero le milizie che dalla Germania conducevano l'imperatrice BEATRICE ed ENRICO il "Leone".


L'imperatore mise il campo ad oriente della città, di fronte alla porta del Serio; i Cremonesi stavano di fronte alla porta di Ripalta; contro quella chiamata Umbriana si accamparono il duca CORRADO e il conte palatino OTTONE e presso la porta di Ravengo le milizie di FEDERICO, figlio di Corrado; di modo che l'infelice città fu completamente stretta in un fortissimo assedio di armati, attraverso i quali era impossibile che gli giungessero soccorsi d'uomini o di vettovaglie.

Fu quello di Crema uno degli assedi più famosi che ricordi la storia, per il mirabile eroismo dei difensori e per l'inaudita ferocia di cui diede prova l'imperatore germanico. Federico aveva messo in azione numerose macchine e non passava giorno che la città non fosse tempestata da una pioggia di enormi massi e investita dalle truppe imperiali che si ostinavano a volerla prendere d'assalto. Ma i Cremaschi resistevano accanitamente: alle macchine nemiche altre macchine perfette opponevano, preparate e dirette da un architetto di grande ingegno di nome MARCHISIO; agli assalti tedeschi rispondevano i cremaschi con audaci sortite che causavano dei considerevoli vuoti nelle file degli assedianti, mentre sulle mura erano sempre vigili i difensori a ributtare coraggiosamente indietro tutti gli assalti fatti dai nemici.

L'eccezionale resistenza dei Cremaschi finì con l'irritare il Barbarossa, che tentò di scoraggiare i difensori con atti di ferocia che rimarranno a perpetuo disonore del barbaro e sanguinario monarca.

Federico ordinò che nella gigantesca torre di legno (una specie di cavallo di Troia), costruita dai suoi alleati Cremonesi, fossero legati sul davanti numerosi Cremaschi e Milanesi che lui teneva come ostaggi. Sperava che i difensori non avrebbero osato colpire con le frecce e con le pietre la torre per il timore di uccidere i propri concittadini e congiunti e che l'enorme macchina, contenente numerosi armati, si sarebbe perciò potuta accostare alle mura e impadronirsene.

Il feroce stratagemma si rese vano. La grande torre si avvicinò lentamente, rivestita dei corpi degli infelici ostaggi; le mura cinte di brulicanti Cremaschi e Milanesi, erano pronti a respingere l'assalto, e fra loro forse c'erano padri, fratelli e figli dei miseri che la ferocia imperiale aveva destinato a servir da schermo agli assalitori.

Riconosciuti dai difensori sopra le mura gremite di guerrieri si diffuse un improvviso e angoscioso silenzio. Ad un tratto si levò una voce: era quella di un cremasco che aveva scorto fra gli ostaggi i suoi figli. Non era però un lamento, non era preghiera ai suoi commilitoni di non tirar su i suoi cari.

La voce gridava appassionatamente: "Fortunati coloro che muoiono per la patria e per la libertà. Non temete la morte, che può sola renderci liberi. Se voi foste giunti alla nostra età non l'avreste voi disprezzata come facciamo noi".

Quella voce vinse l'incertezza dei difensori con il disumano passaparola "si uccidano pure i figli, i padri e i fratelli, ma si respinga l'assalto"; e nugoli di frecce partirono dalla sommità delle mura e numerosi sassi furono scagliati dalle balestre, e i mangani infuriarono contro la torre, mentre i difensori urlavano contro il sanguinario imperatore le loro maledizioni e quelli legati ricevevano, senza lamentarsi, le offese dei loro medesimi congiunti.
Minacciando la torre di sfasciarsi, fu ritirata e gli infelici ostaggi furono slegati. Dei Milanesi quattro erano morti, e a distanza di secoli conosciamo anche i loro nomi, per il loro sacrificio e furono tramandati come martiri della libertà:

CADEMELIO da PUSTERLA ed ENRICO da LANDRIANO; dei Cremaschi TRUCO da BONATE, ARRIGO da GALIOSSO; un chierico ed altri due, GIOVANNI GAREFFI aveva le braccia spezzate, ALBERTO ROSSI le gambe fracassate; gli altri più o meno feriti.

Quello che fecero dopo i Cremaschi, fu una sacrosanta rappresaglia. Avevano anche loro in città numerosi prigionieri tedeschi, cremonesi e pavesi: sdegnati da quell'atto di ferocia, li trascinarono sulle mura e li impiccarono in un modo che il Barbarossa li potesse ben vedere.
Il Barbarossa vide e fece subito innalzare sotto le mura un gran numero di forche ed ordinò di appendervi tutti gli altri prigionieri ed ostaggi che aveva in mano.
Caddero allora in ginocchio davanti alla belva imperiale i vescovi e gli abati, scongiurandolo in nome di Dio di non fare altre vittime; ma la sete del sangue bruciava la gola di Federico e la sua generosità non poteva che essere cruenta. Il numero degli impiccati non fu rilevante come doveva essere, ma nove corpi penzolarono ugualmente dalle forche bene in vista.

I Milanesi, impotenti a recar soccorso a Crema, cercavano intanto di distogliere l'Imperatore dall'assedio. Per conseguire tale scopo portarono le armi contro Manerbio, castello sul lago di Como, difeso da milizie germaniche, ma l'impresa fallì per il pronto accorrere di truppe imperiali da Crema. Allora si diedero in qualche modo da fare per fornire di vettovaglie la città e aver modo di resistere a Federico, anche perché temevano, che una volta caduta Crema, lui sarebbe andato ad assediare Milano.
A quel punto critico, essendo stati i Piacentini messi anche loro al bando dell'impero, i Milanesi strinsero lega con loro, ma non si fermarono qui. Anzi, questa fu un'idea davvero clamorosa; iniziarono trattative per fare entrare nella lega anche il Pontefice che in questo periodo, lo abbiamo già appreso dalle altre pagine, i rapporti con il Barbarossa non erano per nulla buoni, dopo la pace fatta con i Normanni e con Roma. Ne parleremo più avanti.

Crema, nel frattempo, ed erano passati sette mesi, resisteva ancora ed avrebbe resistito molto tempo ancora se a capo della difesa fosse rimasto MARCHISIO. Ma costui, sollecitato dall'oro offerto da Federico, passò al campo imperiale e causò due fatti molto negativi: una gravissima perdita per gli assediati ed un prezioso acquisto per il Barbarossa, perché Marchisio conosceva i mezzi di difesa dei Cremaschi e ovviamente passato dall'altra parte riuscì a dare un nuovo ed efficace contributo all'opera dei Tedeschi le cui macchine furono da lui arricchite dai potenti suoi congegni.

Consigliato dal traditore, Federico tentò un assalto decisivo. Fatte costruire alcune torri di legno più alte delle mura, le riempì di scelti guerrieri, in cima vi mise un buon numero di balestrieri poi le fece accostare alle mura con il proposito di gettare dei ponti.

Tra torre e torre stavano degli ausiliari con zappe, picconi, pali ed altri curiosi strumenti. Mentre i balestrieri coprivano i primi saettando con le frecce i Cremaschi, dalle torri verso le mura venivano calati dei lunghi pali a mo' di ponti, e sopra di questi si precipitavano in gran numero all'assalto gli ausiliari. La difesa dei Cremaschi divenne drammatica, per tutto il giorno correndo da un punto all'altro rimasero a contendere la cinta agli assalitori; infine, stremati di forze, sopraffatti dal numero e tormentati dalle frecce che da ogni parte piovevano, si ritirarono nella cinta interna decisi a difendersi ad ogni costo; altro non potevano fare.

Ma quando si resero conto delle grandi perdite subite, della debolezza in cui si trovavano le difese interne e dell'inutilità di un'ulteriore resistenza, deliberarono di arrendersi e si rivolsero al patriarca PELLEGRINO di Aquileia, affinché con la sua intercessione ottenere patti sopportabili e non li consegnasse in mano ai Cremonesi, i loro spietati nemici.
Al patriarca, come mediatore, si aggiunse il duca di Baviera e il Barbarossa alla fine concesse i patti seguenti:
a) uscissero i Cremaschi con le mogli e i figli e con quanto riuscivano a portare con sé ed erano liberi di andare dove meglio loro piacesse;
b) uscissero i milanesi e i bresciani senz'armi e bagagli, liberi anch'essi di andare dove volevano.
Era il 25 gennaio del 1160 quando furono eseguiti i patti della resa: circa ventimila Cremaschi abbandonarono la loro città e si diressero alla volta di Milano; Crema fu invasa dalle soldatesche del Barbarossa e dopo averla orrendamente saccheggiata, fu appiccato il fuoco alla città che in poco tempo si trasformò in un gigantesco braciere.
I Cremonesi gioirono della rovina della città nemica, e mostrarono pure quanto fosse grande l'odio che in quei tempi teneva divise le città italiane; quei pochi edifici che erano stati risparmiati dalle fiamme, ci si accanirono fin quando distrussero l'ultima casa.
Distrutta Crema, ora il dramma iniziava per i Milanesi.

Moriva Adriano IV, saliva sul soglio Alessandro III, e il Barbarossa si sentì più forte, e anche più arrogante, fino a punire con la distruzione, e a concedere, come un Dio in Terra la vita e la morte,
a quegli uomini e al loro anelito di libertà.
Ed è la prossima puntata del nostro racconto di questo nuovo periodo.
MORTE DI PAPA ADRIANO IV


Prima ancora che cominciasse l'assedio di Crema si erano rotte le relazioni tra il Pontefice e il Barbarossa. La rottura era avvenuta a Bologna, nella dieta tenutasi dall'imperatore sul finire del 1156, ma si prevedeva fin da quando erano state pubblicate le decisioni di Roncaglia.
Decisione che offendeva Milano ma non per questo domata.

A Bologna, inviati da ADRIANO IV, intervennero quattro cardinali. Questi chiesero che doveva essere mantenuta la fede giurata da FEDERICO a papa Eugenio III con il quale il Barbarossa si era impegnato di abbattere la repubblica romana, rimettere Roma sotto l'assoluto dominio del Papa e di riconoscere a questo il diritto di esercitare le regalie nello stato della Chiesa; chiesero inoltre che la Chiesa non doveva essere tormentata nel possesso dei beni della contessa Matilde e delle isole di Corsica e di Sardegna.

A queste rimostranze l'imperatore rispose punto per punto: che non lui, ma papa ADRIANO IV aveva violato la "fede giurata" perché si era pacificato con i Romani e con Guglielmo di Sicilia; che i vescovi erano suoi vassalli perché in possesso di feudi imperiali; che Roma non apparteneva al Pontefice, ma a lui che portava il titolo di Re dei Romani.
Infine disse ai legati papali, che non avevano il regolare permesso da lui accordato, pertanto vietava loro di passare attraverso il territorio dell'impero; e vietava di alloggiare nei palazzi vescovili che erano tutti di proprietà dell'impero, perché edificati sopra il suolo imperiale.

Queste dichiarazioni di Federico provocarono una delle più tremende lettere della storia; quella scritta e inviata da ADRIANO IV agli arcivescovi di Magonza, Colonia e Treviri; redatta nei seguenti termini:

"Il vostro principe, nato da ingiusta stirpe, dimentico di ogni gratitudine e d'ogni timor di Dio, è entrato come volpe nella vigna del Signore e minaccia di distruggerla. Egli non ha mantenuto nessuna delle sue promesse; ha sempre e dovunque mentito; ribelle a Dio, da vero pagano, egli merita l'anatema. Né soltanto egli lo merita, ma (e lo diciamo per vostro avviso) chiunque gli tiene mano, chi palesemente o segretamente lo approva.
Egli ardisce paragonare alla nostra la sua potenza, come se la nostra fosse, al pari della sua, limitata a quell'angolo di terra che è la Germania, che era uno degl'infimi regni prima che i Papi la innalzassero. Come Roma è superiore ad Aquisgrana così noi siamo superiori a questo sovrano, il quale mentre si vanta della signoria del mondo, è incapace di ridurre all'obbedienza i suoi vassalli e di sottomettere la razza dei Frisi.
Egli possiede l'impero solo per merito nostro e noi abbiamo il diritto di riprendere quello che accordammo a chi credemmo capace di gratitudine. Riconducete sulla retta via il vostro principe; altrimenti, se nuovo conflitto scoppierà tra il regno e la Chiesa, anche voi sarete trascinati in un'irreparabile rovina".

PATTO DI… ANAGNI (QUI NASCE LA "LEGA LOMBARDA")

Ma lettera o non lettera il conflitto era già scoppiato.
Nell'agosto del 1159 il Pontefice anglosassone stipulava ad Anagni un trattato con i comuni di Milano, Brescia, Crema e Piacenza, collegati tra loro, con il quale queste città si obbligavano di non far pace con l'imperatore senza il consenso del Papa e questi prometteva di scomunicare entro quaranta giorni il Barbarossa.
Ad Anagni, in Ciociaria, insomma nasceva la "Lega Lombarda", concepita da un Papa inglese.

Riproponiamo qui, sinteticamente, la genesi della Lega Lombarda.

Nell' estate del 1159 Papa ADRIANO IV - già cardinale NICHOLAS BREAKSPEARE, unico pontefice inglese nella storia della Chiesa - si trovava in Anagni a rimuginare. Era tutto preso ad inventarsi "qualcosa" per stroncare l'antipatico imperatore tedesco dopo che alcune notizie a suo pro venivano dalla Lombardia. Un "qualcosa" che pochi sanno, compresi molti seguaci della odierna "Lega Lombarda" "Bossiana" (un mio sondaggio presso quelli che si dicono del "Carroccio" (che come abbiamo già letto non nasce in questo periodo ma oltre un secolo prima) non hanno saputo dirmi la vera e propria genesi; e nell'informarli mi hanno riso in faccia - Probabilmente, anzi sicuramente non sono mai andati ad Anagni!).

Per concretizzare subito un'azione decisiva nei confronti dello Svevo, Papa ADRIANO IV, convocò in Anagni i rappresentanti (o Legati) delle città (o meglio dei Comuni lombardi di Milano, Brescia, Cremona, Piacenza e Mantova per discutere il da farsi e predisporre un opportuno piano più che di difesa, un piano di attacco congiunto (scomunica e armi) contro l'Imperatore. Il 19 agosto di quel 1159 tra il pontefice ed i Legati veniva sottoscritto il primo "Pactum Anagninum" che sanciva la costituzione ufficiale di una Lega tra Comuni lombardi e il Papato contro l'imperatore Barbarossa. L'anno successivo (il 24 marzo 1160) la Lega ebbe la definitiva investitura con l'apposita bolla papale - promulgata sempre in Anagni alla presenza di tutti i vescovi lombardi - ma con il nuovo papa, ALESSANDRO III, successore da sette mesi di ADRIANO IV (morto il 1° settembre del 1159). E questo fu il secondo "Pactum Anagninum". Il resto lo leggiamo qui sotto, e lo leggeremo in seguito con gli altri eventi.
Ma vogliamo anticipare che sedici anni più tardi (maggio 1176) l' esercito della Lega Lombarda, all'insegna del Carroccio sconfiggerà definitivamente, nella battaglia di Legnano, il Barbarossa. Ma pochi sanno che alla vittoriosa impresa partecipò anche un forte contingente di fanti laziali inviato dal Papa tra cui ben 400 anagnini guidati da GIOVANNI CONTI , legato e segretario di Alessandro III. A tangibile ricordo della Lega Lombarda in Anagni permane oggi, possente ed austero, il Palazzo Civico, dove ha sede il Comune, eretto da MASTRO JACOPO da Iseo, architetto e diplomatico lombardo, e che fu anche lui un protagonista, qui in Ciociaria, di quegli eventi memorabili.

Dunque, ADRIANO IV, non ebbe il tempo di mantenere la promessa, dopo aver sottoscritto il patto del 19 agosto, undici giorni dopo, il 1° di settembre del 1159, quando l'eroica Crema resisteva ancora, lui moriva.

ELEZIONE DI VITTORE IV E DI ALESSANDRO III

La morte di Adriano diede luogo subito ad uno scisma. Radunatosi il collegio dei cardinali, dopo tre giorni di dispute, i voti della maggioranza conversero su quel ROLANDO BANDINELLI che a Besanzone aveva osato sostenere il diritto teocratico al cospetto del Barbarossa mandandolo in collera. (un anticipazione di ciò che avverrà in venti anni tra i due "giganti")
Due soli cardinali si opposero a quella scelta: GIOVANNI di S. MARTINO e GUIDO di S. CALLISTO, i quali gridarono papa, col nome di Vittore IV, il cardinale OTTAVIANO di Santa Cecilia.

Ne nacque un tumulto e, soffocato da un gruppo di armati guidati da GUIDO di BIANDRATE, dal conte palatino OTTONE e da ERIBERTO, che allora si trovavano a Roma. ROLANDO BANDINELLI, che aveva preso il nome di ALESSANDRO III, si rifugiò, con gli altri cardinali in una torre, aspettando, che il popolo, saputa la verità dei fatti, si dichiarasse in suo favore.
Ma il popolo e il basso clero presero le parti di Vittore e così Alessandro, lasciata Roma, si recò in terra Normanna, a Ninfe, dove si fece consacrare ed ottenne il riconoscimento dal re GUGLIELMO di Sicilia.

VITTORE IV si fece invece consacrare nell'abbazia di Farfa. Entrambi i due contendenti Pontefici si rivolsero all'imperatore, scrivendogli lunghissime lettere, e FEDERICO, il cui desiderio era quello di avere un papa ligio ai suoi doveri, si finse indignato alla notizia della duplice elezione ed espresse il proposito di risolvere lo scisma convocando un concilio che doveva tenersi a Pavia il 13 gennaio del 1160 con i vescovi e gli abati d'Italia, di Germania, di Francia, d'Inghilterra e di Spagna.

Latori delle lettere imperiali, annunzianti il concilio ai due Pontefici, furono i vescovi di Praga e di Verdun. VITTORE IV, che era spalleggiato dal popolo romano e dalla fazione imperiale, accolse lietamente l'invito di recarsi a Pavia; ALESSANDRO III invece, che si trovava di nuovo ad Anagni, rispose che
"....non riconosceva all'imperatore il diritto di convocare concili senza il consenso papale, che lui non era un vassallo del sovrano e perciò non aveva l'obbligo di ubbidire alla sua intimazione; che infine spettava solo al Pontefice di esaminare, giudicare e definire le questioni ecclesiastiche e che egli non avrebbe mai sacrificato la libertà della Chiesa, redenta dal sangue di tanti martiri".

Invece del giorno fissato, il concilio, durando l'assedio di Crema, si tenne non il 13 gennaio (la resa fu il 25) ma il 5 febbraio. Federico, sceso per la terza volta in Italia, presentatosi con un numeroso stuolo di baroni, esortò i convenuti alla giustizia e, dicendo di non volere influire con la sua presenza sulle decisioni dell'assemblea, si ritirò.
Il concilio durò sei giorni; l'11 febbraio (non potevano andare le cose diversamente) fu confermato pontefice VITTORE IV; Alessandro e il re Guglielmo di Sicilia furono da lui scomunicati e FEDERICO BARBAROSSA, dopo avere reso grandi onori al papa, scrisse ai grandi e ai vescovi dell'impero minacciando con un bando chi si fosse dichiarato fedele ad Alessandro.

Non aveva -come desiderava- potuto esautorare Adriano IV, ora si era presa la rivincita. Ma non sapeva con chi aveva a che fare; e sì che lo aveva conosciuto bene quell'"arrogante" e "battagliero" prelato a Besanzone.
Per vent'anni lo farà irritare, disperare, angosciare, e ad essere alla fine da lui sconfitto.

ALESSANDRO III, lo attacca fin dal primo giorno. Ricevuta notizia delle decisioni del concilio pavese, dal duomo di Anagni, il Giovedì Santo, scagliò l'anatema su VITTORE IV e su FEDERICO BARBAROSSA, sciolse i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà, scomunicò tutti i partigiani dell'antipapa ed inviò legati a tutti i re del mondo cattolico perché riconoscessero solo lui legittimo capo della Chiesa.
Dovunque, fuorché in Germania, ALESSANDRO III ebbe il desiderato riconoscimento; in Lombardia, come nelle altre province della penisola fu predicata la difesa del vero Pontefice e a Milano l'arcivescovo OBERTO - proprio lui che alla dieta di Roncaglia aveva sostenuto i diritti imperiali del Barbarossa - ora annunciava al popolo la scomunica lanciata da Alessandro al Barbarossa e a Vittore, e anche lui calcò la mano scomunicando per proprio conto i vescovi di Mantova, di Lodi, di Cremona, e i consoli di Cremona, Novara, Pavia, Lodi e Vercelli, GUIDO di Biandrate, il MARCHESE di MONFERRATO, i conti del SEPRIO e della MARTESANA e il castellano di BARADELLO.

Un anno dopo, nel marzo 1161 un concilio, convocato a Tolosa dai re di Francia e d'Inghilterra, dichiarava legittimo papa ALESSANDRO III, ma essendo stato tutto il Patrimonio di S. Pietro occupato dagli Imperiali, sul finire dello stesso anno il Pontefice, imbarcatosi al capo Circeo su navi siciliane, si recava a Genova e di là in Francia.
A Milano l'annuncio della scomunica del Barbarossa infiammò l'animo del popolo e poiché, espugnata Crema, le milizie germaniche erano ritornate in patria e al BARBAROSSA non erano rimaste che poche truppe con il duca FERDINANDO e i conti palatini OTTONE e CORRADO, fu deciso dai Milanesi di aprire le ostilità contro l'imperatore.
Un esercito, rinforzato da alcune schiere di Piacenza, marciò su San Romano, dove si trovava il Barbarossa, ma questi, prudentemente, non accettò battaglia e andò a chiudersi a Pavia.

A questo punto aumentò l'ardire dei Milanesi, i quali, approfittando dell'inazione dell'imperatore rivolsero le armi contro la nuova Lodi. Riusciti vani i tentativi di impadronirsene, dedicarono i loro sforzi al castello di Carcano che sorgeva nel territorio di Como. Nel luglio del 1160 le milizie di Porta Nuova, Porta Comacina e Porta Vercellina, aiutate da quelle di Brescia e guidate da alcuni consoli e dell'arcivescovo Oberto, andarono a stringere d'assedio il castello.
Deciso ad impedire che una posizione di tanta importanza qual'era Carcano cadesse nelle mani dei Milanesi, il Barbarossa radunò le milizie di Pavia, Novara, Como e Vercelli e, insieme con i duchi di Boemia e di Turingia, con il marchese del Monferrato e con Guido di Biandrate, corse in aiuto del castello minacciato.

L'assedio non era ancora cominciato e l'esercito milanese, diviso in tre corpi, si trovava a Parravicino, ad Erba e ad Ursinico. Il Barbarossa volle prendersi quel vantaggio da quella divisione delle forze nemiche impedendo a queste di congiungersi e poi di comunicare con Milano e gli riuscì di bloccare nella Val Tenera, tra il suo esercito e il castello di Carcano, le milizie milanesi che si trovavano ad Ursinico.

La situazione dei Milanesi diventò quasi disperata: prive di vettovaglie e strette fra due nemici non rimaneva loro scelta o arrendersi o tentare la sorte delle armi. Scelsero con disperato coraggio questa seconda via.
Spuntava l'alba dell'8 agosto 1160: l'arcivescovo celebrò la messa, arringò con parole vibranti i combattenti, li fece inginocchiare, li esortò a confessare a Dio le loro colpe, poi impartì a tutti l'assoluzione. Squillarono ad un tratto le trombe e i Milanesi, pieni di eccitazione, si scagliarono addosso al nemico, impegnando un sanguinoso combattimento, che per i Milanesi fu epico.

Il Barbarossa, che comandava l'ala destra del suo esercito, con uno sforzo poderoso, ruppe la sinistra dei Milanesi e andò tanto oltre che giunse dov'era il carroccio, ne ammazzò i buoi, ne strappò il vessillo e lo buttò in un fosso; poi credendo di aver vinto si ritirò nella tenda.
Ma la battaglia non era terminata, anzi era appena cominciata da un'altra parte: i cavalieri milanesi e bresciani che si trovavano all'ala destra; aiutati dai villani delle contrade vicine, ruppero e sbaragliarono la sinistra imperiale, e una parte la inseguirono fino a Montorfano, e una parte quella del marchese di Monferrato la tallonarono con le armi ai reni fino ad Anghiera.

Inebriati da quei due successi, quando i Milanesi tornarono anche loro negli alloggiamenti e appresero la notizia di quella modesta vittoria del Barbarossa, ma che però tuttavia aveva oltraggiato il carroccio, non scesero nemmeno dai cavalli e ritornarono con tutta la rabbia in corpo su quel campo dove il Barbarossa con i suoi stava già festeggiando la vittoria.
In quelle condizioni, presi alla sprovvista da quel "tornado", ci fu prima uno scompiglio, poi un fuggi fuggi, e lo stesso Barbarossa in fuga si salvò prima a Como poi a Baradello.
A festeggiare la vittoria furono i Milanesi, ma nel campo imperiale, abbandonato con tutte le armi, gli equipaggiamenti e le vettovaglie. Meglio di così quell'8 agosto non poteva finire. Festeggiarono, mangiarono e si inebriarono nel campo del nemico fino all'alba. Ma l'alba del giorno dopo, non è che non riservò un'altra bella sorpresa.

Infatti, il giorno dopo i Cremonesi e i Lodigiani, non sapendo questi nulla cos'era accaduto al Barbarossa, si recarono sul posto dove aveva avuto luogo la disfatta, ma invece di trovare le milizie dell'imperatore trovarono i Bresciani e i Milanesi e, prima ancora di rendersi conto di quanto era accaduto, furono subito assaliti, dalla sorpresa si sbandarono, lasciarono sul campo numerosi morti e nelle mani del nemico moltissimi prigionieri.

Il Barbarossa sconfitto e senza un vero esercito, si andò a rinchiudere a Pavia (era l'agosto del 1160) per passarvi l'inverno ma soprattutto per aspettarvi le milizie germaniche. Queste arrivarono nove mesi dopo nel maggio del 1161, condotte da CORRADO, fratello dell'imperatore, dal DUCA di SVEVIA, dal figlio del re di Boemia, dal langravio di Turingia, dall'arcivescovo RAINALDO di Colonia e da altri baroni, che con le milizie italiane raggiunsero il considerevole numero di centomila uomini.

ASSEDIO, RESA E DISTRUZIONE DI MILANO

Con questo esercito Federico si mosse alla controffensiva ed entrò il 31 maggio del 1161 nel territorio milanese, ma invece di mettere in assedio la vasta città o di compiervi di rischiosi assalti contro le potenti e numerose opere di fortificazioni che i Milanesi in 8 mesi avevano erette, si mise a distruggere sistematicamente tutti i dintorni, devastando i maturi raccolti, i fienili, tagliando gli alberi e le vigne in germoglio, e vigilando accuratamente affinché da nessuna parte, da strade, canali e fiumi (che erano allora le principali vie di comunicazione) entrassero cibarie di ogni tipo nella città, intorno alla quale creò il deserto per stroncare la forza di resistenza e costringerla alla resa.

Passarono cosi i primi sei mesi; sopraggiunto l'inverno, Federico mise il suo quartier generale a Lodi, dove lo raggiunse la moglie, e lì aspettò con altri sei mesi di totale assedio, la buona stagione per incalzare poi più da vicino i Milanesi.
Ma non ce ne fu bisogno: priva del raccolto delle campagne del 1161 e degli aiuti di Brescia e Piacenza, le comunicazioni con le quali erano tagliate dalle fortificazioni di Rivalta Secca e San Gervasio, aumentate le bocche da sfamare dall'affluire nella metropoli degli abitanti di tutti i dintorni, l'infelice città dopo aver passato uno dei suoi più tristi inverni, era tormentata dalla fame, sofferente dalla diserzione di non pochi nobili, dal malcontento dei timidi e infine dai tumulti della plebe, la quale voleva che s'iniziassero trattative di pace.

A questo scopo, nel febbraio 1162, otto dei più autorevoli cittadini furono mandati a Lodi e questi, presentatisi all'imperatore, con grande umiltà implorarono la pace offrendogli i seguenti patti che: avrebbero colmati i fossi; avrebbero aperte in sei punti le mura; avrebbero accettato un potestà imperiale anche di nazionalità tedesca; avrebbero fabbricato in città a proprie spese un palazzo imperiale; avrebbero accettato l'esercito imperiale dentro la città.
Come garanzia per rispettare scrupolosamente i patti s'impegnavano a consegnare per tre anni trecento ostaggi.

Il Barbarossa rifiutò tutte queste offerte e rispose con superbia che si dovevano arrendere senza nessuna condizione se volevano sperare da lui qualche grazia. Lo scoraggiamento della città alla risposta dell'imperatore fu grande: i pochi coraggiosi che c'erano ancora, proposero che si continuasse la resistenza, dissero che era meglio morire sotto le rovine della città che arrendersi ad un uomo il quale -dopo quello che gli aveva inferto- non certo amava Milano; prevalse però il volere della moltitudine che s'illudeva di ottenere qualche "umana" e non "barbara" grazia dalla clemenza di Federico.

Il 1° marzo del 1162 i consoli milanesi AMIZONE da Porta Romana, OTTONE VISCONTI, ANSELMO DALL'ORTO, ANDERICO CASSINA, ANSELMO da MONDELLO, GOTTIFREDO MAINERIO, ANDERICO da BONATE ed ALIPRANDO GIUDICE, insieme con venti nobili, si recarono nuovamente a Lodi e, giunti al cospetto del Barbarossa, gli s'inginocchiarono davanti e gli giurarono la resa della città.

Ma l'imperatore volle un altro giuramento: che da allora in poi avrebbero ubbidito solo a lui e ai suoi legati. Il 4 marzo, i consoli, accompagnati dall'architetto GUINTELINO e da trecento cavalieri, ritornarono a Lodi, rinnovarono il giuramento e deposero ai piedi del monarca le loro spade, le chiavi della città e trentasei bandiere del comune.

Due giorni dopo, il 6 marzo, per ordine di Federico, si recarono al suo cospetto i consoli degli ultimi tre anni e quasi tutto l'intero popolo milanese. Fu una processione impressionante: dietro i consoli venivano mille fanti e i comandanti dei luoghi soggetti al comune con novantaquattro bandiere, poi i cittadini dei tre quartieri della città, poi ancora il carroccio, e infine il resto della popolazione con il palio adorno dell'immagine di Sant'Ambrogio; e tutti avevano la corda al collo, una croce in mano e il capo cosparso di cenere in segno di pentimento perché avevano prese le armi "contra Romanorum, imperatorem dominum nostrum naturalem".

Il Barbarossa era adagiato sopra un magnifico trono, circondato da un numeroso stuolo di suoi feudatari; intorno a lui era tutto un impressionante scintillio di alabarde e di spade sguainate. Quando il carroccio giunse davanti all'imperatore, fu abbassato per tre volte, in segno di riverenza, l'albero, simbolo della libertà comunale, fu spogliato di tutti i suoi ornamenti, e infine ammainato cadde a terra il gonfalone della tanto amata città; poi le trombe del municipio squillarono; nel silenzio grandissimo, lo squillo di quelle trombe sulla moltitudine così prosternata e umiliata parve l'ultimo ed angoscioso sospiro della libertà milanese; per quanto squillante era un rantolo.

Quando si spensero gli echi di quel lugubre suono, uno dei consoli, a nome di tutta la città, invocò con dolenti parole la misericordia dell'imperatore e l'invocò silenziosamente la folla, levando solo le croci in alto come volersi appellare solo più a Lui a Cristo, o all'Altro che aveva le pretese di essere Lui e non un povero tedesco (che poi proprio come un poveraccio affogherà in un ruscello).

A quella vista e a quell' "assordante silenzio" che emanava l'orgoglio lacerato, una commozione grandissima riempì di lacrime gli occhi di tutti gli imperiali presenti; ma non Lui, soltanto il Barbarossa rimase imperturbabile, come se il suo viso fosse di pietra ("faciem suam firmavit ut petram" scrisse un cronista per i posteri).

Allora i1 conte GUIDO di BIANDRATE, o che simulasse o che fosse vinto dal rimorso di aver tradita la patria, prese in mano una croce, cadde ai piedi di Federico implorando grazia per Milanesi; ma l'imperatore anche davanti a quella scena non si commosse, rimase impassibile. Infine l'arcivescovo di Colonia disse alla folla dei Milanesi, ancora prostrati, che il principe accettava la resa a discrezione. A quel punto non c'era più nulla da dire né aspettarsi qualche umana clemenza, e la folla, atterrita dal freddo contegno di Federico, fece ritorno nell'infelice città.
Disperando della pietà imperiale, il giorno dopo i Milanesi cercarono di muovere a misericordia il cuore dell'imperatrice e si recarono da lei; ma non fu nemmeno concesso di essere ammessi alla sua presenza. Pareva che il Barbarossa volesse, con raffinata crudeltà, prolungare l'agonia della misera popolazione che si era illusa e aveva confidato nella benignità generosità dell'imperatore.

Lui, Barbarossa, l'8 di marzo fece conoscere le sue prime volontà. Chiamato nuovamente il popolo al suo cospetto parlò come un Dio in Terra e disse che
"se avesse voluto far giustizia avrebbe dovuto uccidere tutti, ma, essendo il suo animo propenso alla generosità, concedeva a tutti il dono della vita".

Poi comandò che il popolo tornasse a Milano, ma trattenne in qualità di ostaggi, i consoli, gli ex-consoli, e quattrocento tra cavalieri e giudici, temendo che essi, tornati in città, incitassero i cittadini a ritirare i patti e a resistere.
Il popolo, giurata fedeltà al sovrano, se ne tornò per la seconda volta lacrimante in città, scortati da dodici legati imperiali, sei tedeschi e sei lombardi, che dovevano ricevere il giuramento dal resto della popolazione rimasta a Milano.
Qui giunti, i messi si fecero consegnare gli ultimi quattro castelli che rimanevano al comune ed ordinarono che fosse abbattuto un lungo tratto delle mura e colmato il fosso prospiciente di modo che l'esercito potesse entrare comodamente in città.

Da Lodi il Barbarossa si recò a Pavia e da qui il 19 marzo 1162, emanò un ordine ai Milanesi che, entro otto giorni, tutti, uomini e donne, dovevano uscire dalla città, portando con sé solo quello che potevano reggere sulle spalle.

L'esodo avvenne il 26 marzo, fra il pianto generale. I ricchi se ne andarono a Pavia, a Bergamo, a Lodi, a Como e nelle altre terre vicine; la plebe rimase nelle vicinanze delle mura, affamata, mezzo nuda, esposta all'inclemenza della stagione, e pur con gli stracci addosso riluttante ad allontanarsi dalla città, forse sperando che quel pietoso spettacolo commuovesse l'animo dell'imperatore.
Ben presto però i Milanesi ebbero la prova della "generosità" imperiale! Il giorno dopo Federico comparve alla testa del suo esercito e penetrato dentro Milano dalla breccia aperta nelle mura, ordinò alle sue "nobili" truppe di saccheggiare la città.

Quel giorno stesso radunata un'assemblea, davanti agli Italiani che vi erano intervenuti disse che
"come per tutto il mondo si era sparsa la notizia della ribellione di Milano, così voleva ora che in tutto il mondo si udisse il grido dei puniti". E chiese quale pena si dovesse infliggere alla città ribelle. I Pavesi, i Cremonesi, i Comaschi e i Lodigiani risposero che Milano doveva subire la medesima sorte che essa aveva fatto patire a Como e a Lodi, e il Barbarossa, assentendo, ordinò che gli stessi italiani delle città nemiche distruggessero Milano.

Pronunziata la sentenza Federico uscì con il suo esercito e si mise nelle vicinanze a godersi lo spettacolo. I novelli vandali fissarono ciascuno la propria zona da distruggere: i Cremonesi si presero il quartiere di Porta Romana, i Lodigiani quello di Porta Orientale, i Pavesi quello di Porta Ticinese, i Comaschi quello di Porta Comacina, i Novaresi quello di porta Vercellina e i vassalli del Seprio e della Martesana quello di Porta Nuova.

La distruzione della città, rea soltanto di aver voluto difendere la propria libertà, fu poi completata quando iniziarono gli incendi che i saccheggiatori dopo averla depredata appiccarono contemporaneamente in tutti i quartieri, e che, rapidamente propagatosi, distrusse tutto quello che poteva.
La distruzione del fuoco compiuta dagli uomini in pochi giorni, nel racconto di un cronista, causò "una devastazione per la quale non sarebbero bastati dei mesi".

Ma la distruzione non fu, né poteva essere completa; i fossi solo in parte furono colmati e le gigantesche mura e le saldissime torri rimasero in gran parte in piedi; ma la città propriamente detta fu ridotta in un immenso campo di rovine, in mezzo alle quali soltanto le chiese rimasero ritte, ma spoglie però dei tesori, dei sacri arredi e delle preziose reliquie e di ogni cosa appena di qualche valore. Ma alla fine anche le chiese ebbero la loro punizione.

Mancava una settimana a Pasqua, e con la Settimana Santa, qualcuno sperò che lo scempio infame sarebbe finito. E lo fece sperare quando il Barbarossa la domenica precedente la celebrazione della resurrezione di Cristo, si recò alla Chiesa metropolitana, intatta fra le macerie, ed assistette alla funzione delle Palme. Ma il giorno dopo, tornò a fare l'Attila, e in città riprese l'opera di distruzione: ordinò che si abbattessero tutti i campanili e quello della Basilica Ambrosiana si troncasse a metà. L'ordine fu eseguito immediatamente da una marmaglie di "barbari" con picche e picconi, e maldestramente abbattuto il campanile ambrosiano, crollando, distrusse in gran parte la meravigliosa basilica.

La popolazione milanese fu divisa in quattro borghi, detti Vigentino, Noceto, San Siro e Carrara, e fu diffidata di far risorgere la città dalle sue rovine. FEDERICO compiuta l'opera fino in fondo, si recò a Pavia a celebrare la vittoria e, poiché aveva giurato di non mettersi la corona sul capo finché Milano rimaneva in piedi, volle, distrutta la città ribelle, farsi pomposamente incoronare nel giorno di Pasqua in mezzo a una folla di conti, baroni, vescovi, abati e consoli accorsi a congratularsi con lui del suo "meraviglioso" trionfo.

Intanto l'eccidio e lo scempio di Milano che doveva servire d'esempio agli altri comuni lombardi, produceva l'effetto che il Barbarossa si era ripromesso.

Le città italiane a lui nemiche, atterrite, temendo di subire la stessa sorte della metropoli lombarda, piegavano subito il capo sotto il giogo imperiale.
I Bresciani si affrettarono a sottomettersi, accettando le più dure condizioni, di colmare cioè i fossi, di abbattere le mura e le torri, di cedere le fortezze del loro territorio, di pagare una grossa somma e di accettare il podestà imperiale.
Agli stessi patti si sottomisero Piacenza, Bologna, Imola e Faenza; invece Cremona, Lodi, Parma ed altre città fedeli ricevettero il privilegio di eleggere i loro consoli e di essere esenti dal podestà.
Anche Genova che pareva volesse resistere, si piegò: i suoi consoli chiamati a Pavia, vi si recarono, giurarono fedeltà nelle mani dell'imperatore cui promisero di aiutarlo con la flotta nell'impresa contro i Normanni e in compenso Federico confermò alla Repubblica, tutti i diritti di regalia che esercitavano e tutti i loro possessi; concesse il privilegio di trafficare in tutti i porti dell'impero e promise a vittoria ottenuta sui Normanni di concederle in feudo la costa da Monaco a Porto Venere, la città di Siracusa e duecentocinquanta feudi nella valle di Noto in Sicilia (9 giugno 1162).

La "nuova fede" sembrò quindi sopraffatta da una nuova barbaria, ma dopo quel rogo che l'aveva oscurata ma non spenta, dalle ceneri i Milanesi covavano nel segreto e trovavano alimento per diffondere intorno piccoli carboni ardenti, tutti pronti a dare vita a un incendio ben diverso.

Inconsapevolemente, e sembra un paradosso, gli imperiali portarono una nuova anomala civiltà, dalla quale siamo figli, e che è quella dell'individualismo: una sintesi dell'universalismo cristiano romano e l'individualismo germanico barbaro.
Già dal V secolo, con le invasioni barbariche, i germanici avevano sconvolto gli ordinamenti del passato e portato anche la desolazione nelle fiorenti e bene organizzate contrade della penisola. Questi barbari sentivano altamente il valore dell'individuo singolo, quanto il romano sentiva il vincolo della patria. Solo l'eccesso di questi due valori porta alle disgrazie, quando il primo diventa cinico egoismo e il secondo a un cieco nazionalismo. Ma allora non sono più valori ma aberrazioni.

Le tribù "barbare" (la "civitas", il "diritto", "l'amministrazione", e perfino la "moneta" non avevano nemmeno idea cosa fossero - così per duecento anni i Longobardi) con i capi della "fariae" (anche se poi si chiamarono "ducati") anche in tempo di pace vivevano staccate le une dalle altre, e spesso si accozzavano in guerra; in ognuna eleggevano un capo, che non era un re, ma semplicemente un condottiero (dux- duca). Stabilitosi nel territorio conquistato, non vi costituirono una compatta unità etnica o nazionale, ma anzi scomposero il vecchio e crearono il nuovo mondo barbarico in mille frazioni, su ognuna delle quali dominava la volontà del "più forte". La società feudale che sorge dal particolarismo germanico, è ambiente propizio allo sfrenarsi della brutalità violenta di ogni cupidigia, dalla quale il debole italiano o è abbattuto o è costretto a servire.
Su quel mondo più rozzo che pagano, l'unica forza morale del popolo italico, in quella prima dissoluzione dell'Impero Romano, fu il rifugiarsi nella la religione, nella Chiesa; ma nonostante fosse bene organizzata essa non potè cogliere i frutti di quella grande eredità, più ricevuta che conquistata.

Questo stato di cose non era terminato dopo la scomparsa dei longobardi, ma continuò con il Sacro Romano Impero di Carlo Magno e fino a Ottone (Un impero che di Sacro c'era rimasto poco, di Romano più nulla, e come impero il territorio era solo germanico e non più latino).

Ma su questo "individualismo, spirito di ardimento, coscienza ed esercizio della forza materiale", attraverso un'azione che inizia con l'audacia di quel (sapientissimo) monaco benedettino Silvestro II, prosegue con l'altrettanto intrepido Gregorio VII, e si inserisce lo spirito della Chiesa Nuova, riformata, che spazza via con una sua lotta interna, lentamente la corruzione) operandovi un benefico rinnovamento.

L'uomo, il popolo, non solo fatto di plebe, fino allora era rimasto turbato dallo sconvolgimento; ed era fuggito dalle città, si era rifugiato nelle campagne, si era messo sotto la protezione di altri uomini corrotti, e solo per campare sotto la rassegnazione, perseguendo -e solo questo gli insegnavano- il suo misero ideale al di sopra degli uomini e delle cose. Un eremita insomma dell'umanità, immerso fino al collo dalla nascita alla morte, nell'ascesi del clero dominante.
Ma ben presto a quest'uomo eremita dalla coscienza annientata e a questo clero assolutistico e corrotto che vendeva al maggior offerente perfino la tiara di Papa, succede il monaco, che sente il bisogno si scendere dentro questa società con un'azione positiva, e lo fa con la predicazione e l'esempio. Ascetismo e attivismo (e tanto coraggio) si uniscono.

Quando escono quei monaci da Cluny, Furfa, Montecassino ecc. non sono solo monaci, ma sono "indomiti guerrieri".
S. Benedetto ai suoi seguaci, aveva inculcato insieme all'ascesi il dovere del lavoro, prima nei loro conventi e poi nella plebe; di una plebe che disertava perfino le campagne lasciandole incolte. Questo esortare, questo attivismo porta a un cambiamento epocale, perché in breve tempo si crea una nuova organizzazione, che poi raggiunge anche il borgo, che diventa sempre di più il luogo dove in competizione si producono nuove attrezzi, nuove tecniche, e soprattutto nasce una nuova organizzazione della società, ci si danno delle regole, diventa necessario nel mercanteggiare i beni che ora si producono in abbondanza al di sopra del proprio fabbisogno, avere regolamenti, ordinamenti, statuti.

In questa trasformazione, l'asceta combatte a fianco del popolo del "borgo" (Come a Milano la Pataria, con i Baggio, i Cotta ecc) che ora -emancipandosi- difende le proprie conquiste; di libertà innanzitutto economiche, contro il signore feudale, contro il clero corrotto, contro re e imperatori. Prende coscienza che la ricchezza del proprio "borgo" ne è lui l'artefice.

E nasce dal "borgo" il "borghese"; che non è solo un materialista e non abbandona affatto l'aspirazione mistica; e perciò sbagliato pensare che in questo preludio della civiltà umanistica la via percorsa è lastricata da atteggiamenti paganeggianti e antireligiosi; infatti, nelle città accanto al palazzo del comune fa sorgere meravigliosi tempi, le migliori cattedrali; le stesse corporazione che stanno per nascere, delle arti, dei mestieri, gli artigiani si riuniscono sotto il patrocinio di una Santo; le navi delle quattro repubbliche salpano dai porti con i vessilli e le immagini della Vergine, di San Marco, di San Giorgio ecc. E le stesse assemblee legiferano in nome di Cristo. Tutta la vita cittadina è permeata da riti religiosi, da solenni celebrazioni che come fasto, solennità e soprattutto come partecipazione è molto maggiore che non nello sparso contado dove i tempi e il tipo di lavoro e la tipologia dei fedeli sono diversi.

L'aspirazione dunque mistica aleggia nel "borgo", è andata fuori dal convento, è ha scatenato con il nuovo "spirito del tempo", un tumulto di passioni di altro tipo che è il bel produrre, il bel vivere, il bel vestire, e il bel "sapere". E saranno proprio loro a promuovere cenacoli, discussioni, rivisitazione della storia e la filosofia della vita.
Coluccio Salutati deve ancora nascere, ma è già presente quella sua frase "cosa santa é la peregrinatio, piu' santa è la giustizia, ma a nostro giudizio, "santissima" è la marcatura (il commercio) senza la quale il mondo non può vivere".
L'ago della bilancia inizia a spostarsi dalla parte opposta della nobiltà e del clero, e la vedremo sempre di più pendere verso la borghesia mercantile, sempre più agguerrita, sempre più forte, capace di condizionare le prime due, che predicano la morale ma hanno bisogno per sostenersi di soldi.
Come non ricordare quel passo nel '400 del Novellino (un testo dove é riportato il quotidiano) dove troviamo propria una di queste testimonianze "Messere, io sono mercante molto ricco, e questa ricchezza che ho, non l'ho di mio patrimonio, ma tutta guadagnata di mia sollecitudine nell'operar nel mio umile mestiere".

Quello che modifica enormemente la società non è solo quell'unito ascetismo-attivismo di cui abbiamo parlato sopra; l'uomo nuovo del "borgo" ha ereditato dal guerriero e dal cavaliere lo spirito d'ardimento, il coraggio, lui fa le sue "avventure" in altri campi, e costituisce (anche lui come i feudatari) un corpo politico che pretende i suoi diritti. All'inizio è un ceto ristretto, ma poi a queste prime espressioni di questa comune coscienza, in questa nuova "società" collegiale troviamo a fare giuramenti tutti gli "habitatoris urbis", la cui volontà trova manifestazione nelle assemblee generali; e l'attivismo diventa generale, "pubblico", si forma una cultura e una specifica coscienza cittadina che lentamente si estende nei suoi dintorni, anche perché ora questi, in buona parte (le "pievi" vicarie o i "contadi" feudali) sono sempre meno in possesso dell' abulico feudatario, sono in mano a forze signorili più dinamiche (ex conti, ex ecclesiastici, ex nobili cavalieri) che ora vivono in città, e che spesso entreranno in contrasto con i resistenti a questa nuova realtà che ha fatto emergere i popolani più ricchi, spesso affiancati dagli strati più bassi della popolazione che essi pure aspirano ad avere -ricchi, capaci, autorevoli- rappresentanti nei governi cittadini (vedi poi i Medici, i Visconti, gli Sforza ecc.).

Una dinamica sociale, che portavano alla ribalta di volta in volta, fazioni, gruppi e ceti diversi. E spesso alcuni "nobili" e "vescovi" a lottare con quella retriva aristocrazia da dove essi stessi discendevano, lasciandosi così alle spalle soggetti che non avevano nessun merito, ma erano solo membri di una casta parassita che si tramandava privilegi da padre in figlio, e che spesso la sua superbia faceva a gara con la sua imbecillità, anche questa dispensata dal "Buon Dio"; che ovviamente nel loro "delirio di potenza" non ammettevano, anzi volevano sostituirsi a Lui. Come non rammentare qui la frase di Barbarossa davanti ai Milanesi: "se avessi voluto far giustizia avrei dovuto uccidere tutti, ma, essendo il mio animo propenso alla generosità, concedo a tutti il dono della vita".
Anche un non credente a queste parole si sarebbe sentito ribollire il sangue!

Quello che è avvenuto quest'anno a Milano, più che la distruzione e lo scempio, fu lo sconvolgimento delle coscienze in quel lugubre silenzioso corteo di prelati, nobili e popolo vestito a lutto, con la corda al collo, davanti a Federico.
Ma in quel momento non sfilavano solo i Milanesi, per la prima volta, anche se non erano presenti, sfilavano anche le città vicine. Anche quelle filo-imperiali, dimenticarono le loro contese locali, e per la prima volta sentivano di essere un solo popolo con una forza morale tutta nuova.
Ci saranno ancora contrasti, dissoluzioni, difficoltà, lotte intestine di comuni e comuni (in seguito le Signorie) spesso inutili; desolazioni di fiorenti contrade, tentativi degli stranieri di annichilire quella forza morale sempre latente, ma nonostante tutto ciò, le lotte di questo periodo non saranno mai più dimenticate, e quando quella forza tornerà a farsi sentire sette secoli dopo, proprio nelle stesse contrade, le passioni e le contese stesse, che agitarono questo glorioso periodo del medioevo, furono poi decisive nel secolo XIX e per il successivo sviluppo storico dell'Italia Unita.
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Torniamo agli eventi di questo periodo. Dopo quelle promesse fatte ai Genovesi, tutti ora si aspettavano che il Barbarossa scendesse a Sud e desse inizio all'impresa contro i Normanni; ma il desiderio di risolvere prima lo scisma papale e un'improvvisa guerra sorta tra Pisa e Genova lo persuasero a rimandare ad altro tempo la spedizione e nell'agosto del 1162, fatta giurare una tregua alle due repubbliche, attraverso la via del Piemonte si mise in viaggio verso la Borgogna.
Visto sopra che Barbarossa sta pensando in tempi brevi di scendere nuovamente in Italia per aggredire e impossessarsi del Regno Normanno, noi dobbiamo andarci prima, per vedere in quali condizioni era ritornato il regno dopo i successi in Puglia di Guglielmo, e dopo la famosa pace di Benevento fatta con il Papa.
Per Guglielmo, diventato troppo potente, non fu un periodo questo privo né di contrasti né di momenti drammatici, ed è il periodo che andiamo a narrare...
dall'anno 1154 al 1166
IL GRANDE AMMIRAGLIO MAIONE E MATTEO BONELLO
Abbiamo visto nel precedente capitolo (quello sulla triste sorte toccata a Milano) il Barbarossa raccogliere gli applausi per lo scempio compiuto su Milano, e promettere (era il 9 giugno 1162) ai Genovesi in cambio dell'aiuto con le loro navi per la spedizione nel Regno di Sicilia, che a vittoria ottenuta sui Normanni avrebbe concesso loro, come ricompensa, in feudo la costa da Monaco a Porto Venere, la città di Siracusa e duecentocinquanta feudi nella valle di Noto in Sicilia.
Barbarossa poi, per tanti motivi, rimandò a successivi tempi l'invasione, e lasciati in Lombardia dei propri rappresentanti con l'incarico di mantenere il controllo sulla provincia, attraversò le Alpi per far ritorno in Germania.
Ma era proprio così facile scendere nel Sud e prendersi il Regno?
Dobbiamo quindi tornare indietro di qualche anno per vedere in quali condizioni era messo il Sud.

Abbiamo visto come nel giugno del 1156, domata la rivolta pugliese provocata dall'esoso governo di MAIONE e, soffocate le offensive bizantine che avevano approfittato mentre era malato a Palermo, GUGLIELMO di Sicilia tornato ad essere in buona salute e intrepido, vincitore su tutti i fronti, riportate all'obbedienza le province ribelli, da PAPA ADRIANO IV (che anche lui aveva approfittato, e anche lui era stato umiliato nella sconfitta) riceveva presso Benevento, l'investitura del regno siciliano, del ducato di Puglia; del principato di Capua e quella di Salerno, di Napoli, di Amalfi e degli Abruzzi.
Concluse la campagna con un regno che era più grande e più forte di prima.

Avvenuta questa pacificazione che tanto indispettiva il re di Germania, Guglielmo se ne tornò a Palermo e s'immerse di nuovo nell'ozio dorato del suo magnifico palazzo, nei piaceri che gli procuravano, snervandolo, le numerose concubine cristiane e musulmane, estraniandosi, dopo l'insolito vigore dimostrato nella passata guerra, dalle cure del regno che rimase, come prima, affidato all'equivoca attività del Grande Ammiraglio MAIONE.

La potenza di costui era divenuta più grande di quella dello stesso re, che in lui riponeva la più cieca fiducia. Vuole qualche storico che il tristo ammiraglio aspirasse alla corona e che con queste ambiziose mire creasse il vuoto intorno al sovrano e cercasse d'ingraziarsi la plebe. Oltre che a crearsi un fedele seguito. Promosse al grado di ammiraglio il fratello Stefano e a quello di governatore della Puglia il cognato Simeone Siniscalco.
Qualche altro storico pensa invece che Maione era spinto al suo tirannico governo non dalla brama di usurpare il regno al Normanno, ma solo dal desiderio sfrenato di ammassare ricchezze, e per meglio impunemente riuscirci si liberava di quanti erano in grado di fare aprire gli occhi al re per farlo cadere in disgrazia. C'è anche da dire, che oltre a questi timori, c'era una reciproca insofferenza nei rapporti con i nobili; questo perché la sua origine era plebea e nonostante avesse raggiunto le ricchezze superiori ai nobili, lui li odiava e a loro volta gli altri lo disprezzavano.

Tuttavia si può spiegare il movente dell'opera malvagia del ministro accettando l'una e l'altra opinione degli storici. MAIONE era mosso, sì, dal suo odio di popolano contro la nobiltà feudale del regno e dalla sete di ricchezze e d'incontrastato dominio; ma aspirava anche ad impadronirsi dello scettro.
Solo con l'ammettere queste sue mire noi possiamo spiegarci certi atti della politica di Maione. La pace, ad esempio, da lui sostenuta, con Adriano IV, che, nelle condizioni in cui il Papato versava, a Guglielmo non era per nulla necessario, avrebbe potuto facilmente liberarsi dal nominale vassallaggio della Santa Sede.

Poi l'abbandono di Mhedia, in Africa, che assediata dagli Africani, si dice, che non ricevette le vettovaglie né fu soccorsa, per ordine del ministro, da una flotta siciliana al comando del gaito (corruzione di Kaid) PIETRO; eunuco musulmano, apparentemente convertito come tanti ce n'erano alla corte di Palermo.
Tanto nella pace con il Pontefice, quanto nell'abbandono di Mhedia, Maione fece sparger la voce che lui aveva eseguito gli ordini del re, con lo scopo di suscitare il malcontento dei sudditi contro il sovrano. A questi fatti altri si possono aggiungere che, pur non essendo provati, dimostrano come la fama delle oscure mire di Maione era diffusa in tutto il regno.
Si diceva, infatti, che, per buttare giù dal trono il re, lui era riuscito a diventare l'amante della regina Margherita, e che lei teneva in casa, già pronti il diadema e le insegne regie; ed infine - si diceva anche questo- che avesse inviato una gran somma di denaro a papa Alessandro perché dichiarasse Guglielmo incapace di regnare e affidasse a lui l'investitura.

Queste accuse o vere o false, un fatto era certo: Maione era odiato da tutti per la sua tirannide. Numerose erano le vittime della ferocia del ministro: i conti di MONTESCAGLIOSO e di SQUILLACE erano stati imprigionati e privati della vista; banditi dal regno erano stati i conti di LORETELLO e di RUPE CANINA; relegati in una torre il cancelliere ASCONTINO, e così prosegue la lunga lista che ci ha lasciato il Palmeri
"GUGLIELMO conte D'ALOSA, BOEMONDO conte di Tarso, ROBERTO di BUOVO, valoroso cavaliere zio del conte di Squillace, e migliaia d'altri nobili personaggi erano, ad affollare le carceri di Palermo, alcuni accecati, altri crudelmente frustrati, altri gettati in oscuri e sozzi sotterranei".

Né rimanevano illese le mogli e le loro figliuole. Vedevi matrone e vergini di sangue nobile strappate dai loro palazzi, altre rinchiuse in carcere con i più vili malfattori; altre per fornire sozzi piaceri al grand'ammiraglio; ed altre ridotte ad esercitare ignobili mestieri per vivere. Gli stessi principi TANCREDI e GUGLIELMO, figli naturali di Ruggero duca di Puglia, fratello primogenito del re, erano con rigore custoditi nel palazzo (Palmeri)."
.
Il malcontento, a lungo represso, scoppiò alla fine dentro
le file della nobiltà, che era -loro avevano i beni- quella che più d'ogni classe era stata bersagliata dall'odio del potente ministro. La scintilla della ribellione partì da Melfi, che dichiarò di non voler obbedire a qualsiasi ordine impartito da Maione né ricevere dentro le sue mura i rappresentanti del Grande Ammiraglio.
L'incendio si propagò rapidamente in tutta la Puglia: la nobiltà si levò in armi e giurò di non deporle fino a quando il malvagio ministro rimaneva al potere; i conti GIONATA di CONZA, GILBERTO di GRAVINA, BOEMONDO di MONOPOLI, RUGGERO di ACERRA, FILIPPO del SANGRO, RUGGERO di TRICARICO, RICCARDO d'AQUILA e molti altri si diedero a percorrere il ducato per sollevare le popolazioni.

Invano Maione tentò di spegnere l'incendio; Amalfi, Sorrento, Napoli, Taranto, Otranto e Barletta si rifiutarono di ricevere le lettere del ministro che invitava queste città a rimaner fedeli pena il castigo; SIMONE MANISCALCO, impotente a domare la rivolta, si vide costretto a chiudersi in un castello; il Vescovo di MAZZARA, mandato a Melfi, non appena giunto, andato per calmare per calmare gli animi, invece li rianimò.
L'incendio minacciava di estendersi nella Calabria. Per impedire che anche questa provincia fosse travolta dalla ribellione, Maione si servì di MATTEO BONELLO. Era, questi, signore di CACCAMO, in Sicilia; giovane bello, valoroso, magnanimo, imparentato alla più alta nobiltà calabrese, stimatissimo nell'isola e fuori, che Maione aveva saputo attirare a sé, fidanzandolo con sua figlia e strappandolo all'amore della bellissima e ricca contessa di Catanzaro, vedova del conte del Molise e sorella naturale del re.

MATTEO BONELLO fu mandato in Calabria e, giuntovi, radunò in assemblea i principali baroni per convincerli che erano tutte voci false quelle sparse contro il Grande Ammiraglio e che, per ciò, dovevano rimaner tranquilli e fedeli. Successe invece quel che mai il ministro non si sarebbe aspettato: i baroni persuasero lui dell'ignobile causa che si era messo a sostenere, lo convinsero della malvagità di Maione e dei tristi disegni che aveva in mente, e sostennero che a lui non conveniva proprio andare a nozze con la figlia del tiranno, perché dopo tanta stima che avevano di lui, se stringeva amicizia con il ministro sarebbe stato accusato di essere un suo complice, che avrebbe tradito la fede giurata al re, e che avrebbe coperto con una sozza macchia la nobiltà dei suoi natali; lo esortarono infine a sposare la causa della nobiltà e a procacciarsi gloria e la riconoscenza di tutti gli oppressi "spegnendo" il Grande Ammiraglio e, per meglio persuaderlo, gli promisero la mano della contessa di Catanzaro, che sapevano essere lui innamorato.

MATTEO BONELLO si lasciò persuadere dalle parole dei baroni, accettò lieto la mano che la bella contessa personalmente gli promise, e, dopo aver giurato di uccidere colui che doveva essere suo suocero, fece ritorno in Sicilia.
"Qui - scrive il Palmeri - un certo NICCOLÒ LOGOTETA, che era in Calabria, avvisò il grand'ammiraglio del matrimonio tra Monello e la contessa di Catanzaro, e del partito che lui aveva preso con i baroni calabresi.
Maione non voleva prestar fede a quella notizia, ma poi confermata da altri, piuttosto scocciato si preparò a prevenire il colpo e farla pagar cara a Bonello.

Costui, intanto, reduce dalla Calabria, era giunto a Termini, e qui lo raggiunse uno dei suoi uomini che aveva lasciato Palermo, e lo avvertì che il grand'ammiraglio aveva promesso vendetta e stava solo attendendo il momento per compierla.
Bonello scrisse a Maione una lettera molto affettuosa, nella quale gli diceva: che in Calabria tutto era tranquillo; che i baroni erano tornati all'obbedienza; e aggiungeva, che era stato e sarebbe sempre stato in avvenire pronto a qualunque fatica, pronto ad affrontare qualunque pericolo per lui; ma non di averne ancora avuta quell'occasione; e che anche il suo cuore non desiderava altro che le nozze con sua figlia; e caldamente lo pregava di non differire oltre il matrimonio. Questa lettera fece sparire i sospetti del grande ammiraglio, il quale credendo di smentire tutti coloro, che lo avevano avvertito dell'intenzione di Bonello, gongolando a tutti quella lettera mostrava.

Con altrettanto affetto rispose, ringraziando Bonello di ciò che aveva fatto e lo pregava di scendere presto a Palermo, dove le sue nozze non sarebbero state più a lungo rimandate.
Bonello non indugiò a far ritorno, e fu accolto affabilmente da colui che invece, aveva giurato di sopprimere. Le vicende di questo fosco periodo di storia, siciliana acquistano, ora l'aspetto di un romanzo, o di leggenda che a quei tempi erano un prodotto comune.

Maione in Sicilia si era creato un altro nemico, molto potente perché costui godeva della fiducia del sovrano; era l'arcivescovo UGO di Palermo. Il Grand'ammiraglio non poteva né metterlo in cattiva luce presso Guglielmo, né era prudente rischiare di sollevare lo sdegno degli ecclesiastici dell'isola mettendolo in una prigione, aveva tentato di sbarazzarsene, e fingendosi sempre amico un bel giorno colse l'occasione per fargli propinare un veleno.
Era il 10 novembre del 1160. L'arcivescovo giaceva solo infermo, forse per il veleno già ingerito con un primo tentativo; Maione, però temendo che il suo nemico guarisse, preparò un veleno ancora più forte e glielo portò lui stesso, sul far della sera, facendogli credere che fosse una miracolosa medicina.

L'arcivescovo, che conosceva le intenzioni di Matteo Bonello, appena il grand'ammiraglio fu in casa sua, fece avvertire il giovane della presenza del ministro nel suo palazzo; e, nella serata, Matteo radunò un buon numero di fedeli armati, li mise in agguato nelle vie, dove Maione, rincasando, doveva passare, e lui stesso si appostò presso la porta detta di S. Agata.
Nella casa del prelato era, intanto, fallito il tentativo di far bere all'arcivescovo il veleno; l'ammalato, fiutando l'inganno, si era rifiutato, dicendo che le medicine gli erano diventate insofferenti. Il grande ammiraglio restò fino a tarda sera a conversare con l'arcivescovo, poi si accomiatò ed uscì mentre, per ordine dell'infermo, venivano sprangate, dietro il ministro, le porte del palazzo.
Qualche cosa doveva però esser trapelata dell'agguato perché, quando Maione giunse nel luogo dell'insidia, il protonotaro MATTEO D'AIELLO e il gran camerlengo ADENOLFO, facendosi largo tra il seguito del ministro, gli si accostarono e gli sussurrarono all'orecchio che lì vicino stava nascosto il Bonello con un gruppo d'armati.
Ma proprio in quell'attimo, sbucava dall'ombra Matteo Bonello e, gridando che era giunto il momento di vendicare tanti innocenti, trapassò con la spada il grande ammiraglio, che cadde esanime al suolo. Gli accompagnatori del ministro, atterriti, si diedero alla fuga; il gran protonotaro, che era stato ferito, a stento riuscì a salvarsi.

CONGIURA BARONALE - DEPOSIZIONE DI GUGLIELMO E SUO RITORNO AL TRONO
GUERRA DI BUTERA E RIVOLTA PUGLIESE - PRIGIONIA DI MATTEO BONELLO
MORTE DI GUGLIELMO

Sparsasi la notizia dell'uccisione di Maione, il giubilo del popolo di Palermo fu proprio grande, si era liberato finalmente dal tiranno e sfogò l'odio, da lungo tempo represso, insultando il cadavere del malvagio ministro.
Scomparso Maione, i baroni della Puglia e della Calabria posarono le armi; ma dichiararono di riprenderle subito se si fosse osato punire il Bonello.

Nessuno però pensava di toccare chi aveva soppresso il mostro; tacevano atterriti i numerosi amici del ministro e il nome dell'uccisore era benedetto dal popolo ed esaltato dalla nobiltà. Il re che sulle prime si era mostrato sdegnato per l'accaduto, avute le prove dei misfatti del grande ammiraglio, si era poi calmato, e aveva dato la carica ad Arrigo Aristippo, arcidiacono di Catania, e concesso a Matteo Bonello, che si era rifugiato in Caccamo, di tornare a Palermo.
Il suo ingresso nella capitale dell'isola fu un vero trionfo; una moltitudine infinita di gente d'ogni condizione andò ad incontrarlo, gridandolo "liberatore"; fra le acclamazioni fu accompagnato al palazzo reale, dove Guglielmo lo accolse con grandi dimostrazioni di stima; poi dai più illustri personaggi della corte fu condotto a casa.

Ma il trionfo del Bonello non durò a lungo. Gli amici del defunto Grande ammiraglio, tra cui i più influenti erano la regina, Matteo d'Aiello ed Adenolfo, non sopportavano proprio gli onori che riceveva il signore di Caccamo e iniziarono un'abilissima campagna, presso il re, di riabilitazione della memoria di Maione e di maligne insinuazioni contro il Bonello, che dipingevano come uomo violento, incapace di fedeltà e gratitudine, avido di gloria e di dominio, desideroso non solo di primeggiare nel regno ma che mirava anche di mettersi sul capo la corona di Sicilia.
Ben presto le insinuazioni dei partigiani di Maione produssero l'effetto che si ripromettevano: Bonello fu tenuto lontano dalla corte e tornarono a spadroneggiare gli astuti consiglieri. Caduto in disgrazia, Matteo Bonello convocò segretamente presso di sé i baroni suoi amici per provvedere alla salvezza comune, e tutti - compresi i principi del sangue Simone, fratello naturale del re, Tancredi, nipote di Guglielmo, e il conte Ruggero di Avellino - furono dell'avviso di deporre il sovrano, confinarlo in una vicina isoletta e mettere sul trono il figlio del re che portava il nome dell'avo RUGGERO.

L'impresa non era facile perché la custodia del palazzo reale era affidata a MALGERIO, ufficiale prode e fedele, e le guardie erano tante e così bene disposte che era impossibile giungere segretamente o per forza alle stanze del re; ma, poiché Malgerio si assentava molte volte lasciando in sua vece il custode delle carceri, che a quel tempo erano nel palazzo, riuscì ai congiurati di corrompere costui e farsi promettere d'introdurli nella reggia e liberare ed armare i prigionieri per cooperare all'impresa.
Stabilita ogni cosa, il Bonello se n'andò a Mistretta per raccogliervi viveri ed armi nell'eventualità di una guerra e raccomandò ai suoi compagni di non tentar nulla prima del suo ritorno; ma questi, essendo la congiura venuta per caso a conoscenza di un soldato imprudentemente invitato a farvi parte, furono costretti a metterla in esecuzione durante l'assenza di Matteo Bonello.

Il colpo fu fatto di mattina. I prigionieri politici e i congiurati, guidati da SIMONE e TANCREDI, penetrarono improvvisamente nelle camere del sovrano, mentre questi si trovava a colloquio con il grand'ammiraglio ARISTIPPO. Guglielmo, atterrito, tentò di scappare; trattenuto e rassicurato da Riccardo di Mandra, che impedì agli altri di toccarlo, si dichiarò pronto ad abdicare.

Tutto era stato fatto senza che fuori nulla trapelasse: a render clamoroso il colpo di stato fu la peggiore feccia dei carcerati, i quali, evasi, si diedero a saccheggiare la reggia, facendo man bassa degli ingenti tesori che vi erano e violentando le donzelle addette al servizio della regina. Nel trambusto che ne seguì un gran numero d'eunuchi e di Saraceni furono trucidati.

Chiuso il sovrano nelle sue stanze, i congiurati gridarono Re il piccolo RUGGERO primogenito di Guglielmo, poi messo su un cavallo lo condussero per le vie della città, dicendo al popolo che lo avrebbero incoronato al ritorno del Bonello.
La popolazione, al sentire che MATTEO BONELLO era stato l'organizzatore della congiura, si mostrò lieta dell'avvenimento, ma poiché, trascorsi tre giorni, lui non tornava, si era sparsa la voce che si voleva dare lo scettro al conte SIMONE; a quel punto i Palermitani cominciarono a mormorare, poi si diedero a tumultuare, e, infine prese le armi, corsero alla reggia reclamando la liberazione di Gugliemo.

I congiurati tentarono di opporsi alla folla e s'impegnarono in un violento combattimento; ma, quando erano sul punto di essere sopraffatti, rimisero in libertà il sovrano, facendosi prima promettere uscire liberi per lasciare Palermo. Durante questa breve lotta trovò la morte il più innocente di tutti, il piccolo Ruggero. La sua fine fu da alcuni attribuita ad una freccia, che, scagliata dal popolo, andò a colpire il fanciullo; altri affermarono che Ruggero, visto il padre in libertà, corse da lui festosamente ma con rabbia fu respinto con un calcio mortale e spirò, poco dopo, tra le braccia della madre.

" Re GUGLIELMO - scrive il Palmeri -intanto, sopraffatto da quel grave oltraggio, cadde in una tale avvilimento d'animo che, deposto il regio manto se ne stava seduto a terra, piangendo amaramente; come prescriveva il divieto reale nessuno poteva parlargli né avvicinarsi a lui, invece gli erano tutti attorno e lui piangendo a tutti narrava piangendo, quell'atto miserevole che gli era capitato.

Finalmente, confortato dai vescovi, si recò nella gran sala, contigua al palazzo, e qui convocato il popolo, si diede a ringraziarlo di ciò che aveva fatto per lui, ed ad esortarlo a conservar sempre la stessa fedeltà. Confessava di essere stata quella disgrazia un castigo di Dio, per la sua mala condotta, e prometteva di ravvedersi e riscattarsi, e dichiarava di esser pronto a concedere ai sudditi quanto da loro era stato chiesto, che andava a loro bene; diceva volere abrogare tutte le consuetudini nel suo regno introdotte, ma faceva anche notare che così facendo poteva essere ristretta la libertà dei cittadini, mentre in caso contrario essere gravati di pesi straordinari; finalmente, in merito del servizio prestato, concesse al popolo di Palermo l'esenzione di tutte le gabelle nel comprare, vendere, e liberi di portare in città ogni genere di prodotti della terra".

Lo scacco patito dalla rivolta popolare e le improvvise liberalità del sovrano non potevano che provocare una reazione da parte dei congiurati, i quali avevano trovato ospitalità in Caccamo, presso MATTEO BONELLO. Costui, rimproverato dal sovrano di aver concesso asilo a tanti traditori, rispose altezzosamente, in nome di tutti, che a lungo la nobiltà aveva sopportato i soprusi del re, fra i quali il più intollerabile era l'ostacolo opposto alle nozze delle figlie dei baroni, al cui matrimonio era spesso negato il consenso regio; che i nobili male tolleravano le illegali riforme recentemente introdotte e che infine reclamavano che fossero rimessi in vigore gli antichi statuti sanciti da Roberto il Guiscardo e confermati dal conte Ruggero.

La risposta del Bonello sdegnò Guglielmo, il quale fece riferire che avrebbe concesso ai nobili quanto loro chiedevano se, essi, abbandonati i traditori, fossero venuti a lui umili ed inermi. Pieni di collera a queste parole, i baroni cominciarono a rimproverare il Bonello, al cui temporeggiare attribuivano il cattivo esito dell'impresa, e tanto dissero che alla fine il Signore di Caccamo, radunate le sue schiere mosse contro la capitale.
Guglielmo si vide perduto; tardavano a venire i soccorsi chiesti da Messina; le vettovaglie raccolte rapidamente nelle campagne erano insufficienti per un assedio; i partigiani di Maione, sgomenti, anziché prepararsi alla difesa, si preparavano a mettersi in salvo con le loro cose; la popolazione mostrava di volere schierarsi dalla parte dei baroni che marciavano verso la città.

A un tratto però quel temporale che si addensava sul capo del sovrano si dissipò: Bonello, spaventato forse dalle conseguenze dell'impresa più che dall'impresa stessa, la quale si presentava facilissima, giunto nelle vicinanze di Palermo, ritornò indietro. Vollero i baroni, per conto loro, ritentare l'impresa; ma ormai era troppo tardi, perché da ogni parte erano giunti soccorsi di truppe al re; accettarono quindi i patti che furono loro offerti da Guglielmo per mezzo del canonico Roberto di S. Giovanni, di uscir cioè dal regno.

Soltanto tre furono esclusi dal bando: il conte di Avellino, ultimo di quel casato, per l'età giovanile e le preghiere della nonna, cugina del re; MATTEO BONELLO per il grande favore che godeva presso il popolo; e RICCARDO di MANDRA, che, per aver salvata la vita del sovrano durante la rivolta, si ebbe la carica di Conestabile. ARRIGO ARISTIPPO, sospetto di complicità con i baroni, perse il favore del re; lo riacquistò invece MATTEO D'AIELLO, che, liberato dalla prigione, riebbe la carica di protonotaro.

Guglielmo giurò di perdonare il passato di Bonello e di rimetterlo nella sua grazia ma ben presto il signore di Caccamo dovette imparare quanto sia stolto colui che crede al perdono di un principe contro il quale ha snudato la spada.
Non tutti i baroni avevano voluto assoggettarsi ai patti di Caccamo. Capitanati da TANCREDI, da SIMONE e da RUGGERO SCLAVO, figlio illegittimo di quest'ultimo, mantennero viva l'agitazione e, fatto il centro della rivoluzione la forte Butera, Piazza ed altre terre popolate da Lombardi, diedero addosso alle popolazioni musulmane di quelle parti, fedeli al re, e spinsero le loro incursioni fin sotto Siracusa e Catania.

Deciso a domare i ribelli, Guglielmo radunò un fortissimo esercito; prima però di partire, ascoltando le parole degli amici di Maione che lo consigliavano di non lasciar libero a Palermo Matteo Bonello, chiamato alla reggia, ordinò poi di arrestarlo e di chiuderlo in prigione. Qui all'infelice giovane gli furono barbaramente cavati gli occhi e tagliati i garretti. Uguale sorte toccò a qualche suo parente ed amico. Ma il popolo volle vendicare il suo eroe; uccisero il gran camerlengo ADENOLFO e tentò pure di assalire la reggia; ma questa era ben difesa e dopo inutili sforzi i Palermitani desistettero dagli assalti e la calma ritornò in città.

A quel punto Guglielmo mosse contro i ribelli ed assediò Butera dove si erano ritirati; ma la città era fortissima come luogo di difesa, né si poteva prender per fame essendo fornita di una gran quantità di vettovaglie; l'assedio durò quindi a lungo e già il sovrano, perdendo la speranza d'impadronirsene, aveva deliberato di allontanarsi, quando un'improvvisa discordia, sorta tra gli abitanti e la guarnigione, gli porse l'occasione di avere per patti Butera. La città fu smantellata e distrutta; Ruggero Selavo e Tancredi ebbero salva la vita a condizione che partissero subito dal regno.
Domata la rivolta in Sicilia, Guglielmo portò le armi in Calabria, dove qui il conte di LORETELLO, dopo avere invasa la Puglia, si era spinto ribellandovi i baroni locali, ai quali si era unita la contessa di Catanzaro.

"Il primo ad essere assalito fu il castello di Taverna, di proprietà proprio della bella contessa. Era posto sopra la cima di una rupe erta da tutti i lati, e vani furono i tentativi per espugnarlo; gli assalitori ne furono sempre respinti, senza alcun danno degli assediati, i quali mandavano giù botti, armate esternamente di lunghi chiodi di ferro, ed enormi macigni, che rotolando giù con un gran fracasso, colpivano, ferivano, disperdevano le schiere nemiche. Ognuno riteneva impossibile sottomettere con la forza quel castello, e tutti consigliavano il re a rinunciare, per correre in Puglia che era più necessario. Ma, se duro era l'ostacolo, più duro era Guglielmo nella sua ostinazione. Gli assediati, ritenendo veramente inaccessibile un lato della rupe non si curavano di custodirlo; il re vista quest'unica possibilità scelse i più audaci soldati e ordinò di dare la scalata da quel lato; e tanto fecero costoro che alla fine inerpicandosi giunsero in vetta sulla rupe poi senza incontrare altri ostacoli penetrarono nel castello, e mentre gli abitanti correvano a nascondersi in ogni angolo, aprirono le porte principali ai loro compagni".

"La contessa con la madre e gli zii Alferio e Tommaso, che governavano la milizia, caddero in mano del re. Alferio sul campo stesso pagò il tradimento con l'estremo supplizio; Tommaso fu impiccato poi a Messina; gli altri ribelli ad alcuni gli furono troncate le mani ed altri cavati gli occhi; la contessa e la madre furono mandate nelle carceri di Palermo (Palmeri)".

Espugnato il castello di Taverna, il re passò nella Puglia, dove non trovò resistenza; fuggito nell'Abruzzo era il conte di LORETELLO, fuggiti i conti di Fondi, di Conza, d'Acerra e gli altri; le città sollevate si affrettavano a fare atto di sottomissione al re che imponeva forti taglie e mandava nelle carceri di Palermo tutte quelle persone che credeva responsabili della rivolta ed altre ancora.

Giunto a Taranto, la città aprì le porte e il re fece impiccare i pochi soldati che il conte di Loretello vi aveva lasciati; Bari fu rasa al suolo e poco dopo Salerno avrebbe subito la stessa sorte se non l'avessero salvata le preghiere del gran protonotaro D'AIELLO, ch'era salernitano, il conte di MARSICO e RICCARDO PALMER vescovo di Siracusa, e un'improvvisa, furiosa tempesta, che costrinse il sovrano ad allontanarsi.

Poiché tutte le città dei suoi domini di terraferma erano ritornate all'obbedienza, il sovrano fece ritorno in Sicilia.

"E a Palermo - scrive il Prutz - ricadeva Guglielmo nella molle consueta indolenza. Vi cercava, l'oblio di dure memorie, rimorsi, cordogli quell'indole strana giungeva così a inebriarsi e stordirsi di piaceri e di crapule: perché nulla guastasse il sereno dei voluttuosi suoi giorni, proibì di recapitargli novelle troppo serie e sgradevoli. Il potere della gruppo musulmano che lo proteggeva a corte, era sempre predominante".

"Le terre dei Lombardi pagavano molto caro lo scotto delle recenti violenze e ci pensarono gli esecutori di Guglielmo; nelle province di Puglia, i Giustizieri, gli Strateghi, altri regi ufficiali, gli eunuchi e i paggi, di cui fidava del tutto Guglielmo, erano loro a compiere le vendette ed i rigori contro i feudatari e i Comuni, che avevano causato o in qualche modo concorso nei passati tumulti.

"L'elemento del quale si era minacciata l'oppressione, a sua volta si faceva oppressore: la reggia normanna mai come allora prese le sembianze, e sposò l'interesse e la causa del soggiogato islamismo.
Qualche funzionario cristiano e borghese, uscito dalle file dove era uscito Maione, scapitava e contava assai poco di fronte ai gaiti arabi: né il nuovo predominio accordato a costoro si moderava davanti alla stima di cui talvolta diede prova Guglielmo a questo od a quest'altro prelato, nazionale o straniero: né per le sue tendenze musulmane gli parve un compenso abbastanza accettabile quello offertogli da qualche ecclesiastico per limitare quelle tendenze.

"Inoltre, la precedente rapacità di Maione e le sue infamanti accuse indirizzate al Re per coprire le sue malefatte, avevano procurato e lasciato allo stesso la nomina d'avaro e di lussurioso; ma sappiamo che erano ingiuste, del resto lui sapendo che erano falsità non se la prendeva più di tanto, perché ai propri fedeli o cristiani o musulmani indifferentemente lui si mostrava larghissimo dispensatore d'elogi e dispensava loro moltissimi doni".

"Uno dei tanti immotivati rimproveri (era in fin dei conti un Re del più gran regno d'Europa) era quello di possedere una splendida villa, fatta costruire e poi adornata cercando di emulare quelle musulmane e con i piaceri e le delizie che avevano le antiche dimore degli Emiri di Palermo.
E fu in questa dimora che nel 1166, dopo 15 anni di regno, e 46 di vita, improvvisamente moriva GUGLIELMO I d'ALTAVILLA (figlio di Ruggero II).

Negli ultimi istanti dettò il suo testamento; affidò il trono al maggior dei suoi figli, GUGLIELMO II di 13 anni, il minore fu confermato nel principato di Capua, e come tutrice di entrambi nominò Margherita sua moglie".

"Le esequie che accompagnano i principi, a GUGLIELMO d'ALTAVILLA non mancarono e furono solenni e sfarzose. La città lo accompagnò nel suo ultimo viaggio tutta in gramaglie: e durante il trasporto schiere di matrone sia musulmane sia cristiane, sparsi i capelli, avvolte di rozzi sacchi, precedute da una turba di serve, percorrevano in giro le vie, recitando lugubri nenie al cupo suono di timpano: e, nota Ugo Falcando, "se fu vero dolore, le Musulmane lo sentivano".
Ma la storia tramandò il nome dell'iniquo monarca ai posteri con l'appellativo di "Malo".

Mentre suo figlio l'appellativo fu "il buono", che morì più giovane del padre, a soli 36 anni, aprendo la strada agli Svevi, perché sua zia paterna, era COSTANZA (1154-1198 - figlia di Ruggero II, quindi sorella di Guglielmo), andata poi in moglie (1186) ad Enrico VI di Svevia (figlio del Barbarossa, e fu lui a farla sposare con la Normanna), ed alla cui morte l'imperatrice fece incoronare il 4 enne figlio, Re di Sicilia, il futuro imperatore Federico II (1194-1250).

Questa era il Regno di Sicilia, nel periodo di Barbarossa, dopo Milano.
Ora, a quell'anno del suo successo in Italia dobbiamo ritornare; quando Federico rinuncia e rimanda la sua discesa nel regno Normanno; torna in Germania, inizia a prepararsi.
Questi i progetti, ma molte cose accadranno in Lombardia, che andiamo a narrare con il prossimo

periodo dall'anno 1162 al 1177
LA TERZA DISCESA DI FEDERICO IN ITALIA - LEGA VERONESE

Abbiamo visto nel capitolo dell'anno 1159-1162 (quello sulla triste sorte toccata a Milano) il Barbarossa raccogliere nelle città nemiche dei Milanesi, gli applausi per lo scempio compiuto sulla città, e promettere (era il 9 giugno 1162) ai Genovesi in cambio dell'aiuto con le loro navi per la spedizione nel Regno di Sicilia, che a vittoria ottenuta sui Normanni avrebbe concesso loro, come ricompensa in feudo la costa da Monaco a Porto Venere, la città di Siracusa e duecentocinquanta feudi nella valle di Noto in Sicilia.

Barbarossa poi, per tanti motivi, rimandò a successivi tempi l'invasione, e lasciati in Lombardia dei propri rappresentanti con l'incarico di mantenere il controllo sulla provincia, attraversò le Alpi per andare prima in Borgogna poi far ritorno in Germania.

La causa che spingeva Federico Barbarossa in Borgogna era il desiderio di risolvere pacificamente lo scisma papale. L'Imperatore aveva cercato di togliere ad ALESSANDRO III il favore del re LUIGI VII di Francia promettendo a quest'ultimo di aiutarlo contro ENRICO II d'Inghilterra (in quegli anni in forte contrasti con il sovrano francese.

Gli Inglesi a conoscenza di questi passi per un'eventuale alleanza, si allarmarono, e fu proprio Federico alla fine a far interrompere i contrasti e a far nascere un'intesa di Enrico II e Luigi VII.

Quest'ultimo era ad un passo dall'alleanza, andò perfino all'incontro che doveva avvenire il 29 agosto 1162 a Saint-Jean-de-Losne ( o Lune, o Launes), con l'Imperatore; già lo aveva voluto evitare e ci si recò con grandi incertezze, poi quando fu sul posto e gli annunciarono che Federico era già arrivato ma non trovandolo se n'era andato, e irritato, ma anche sollevato, se ne tornò a Digione. Non ebbe poi a pentirsi della scelta.

Luigi VII aveva accettato la proposta di Federico - trasmessagli dal cognato Ugo di Champagne - di convocare in quella città una dieta generale dei due regni nella quale sarebbero state sottoposte a un definitivo esame le ragioni dei due papi. Come sede della dieta era stata appunto scelta Losne, sulla Saona ed era stato deciso che, se uno soltanto dei pontefici si fosse presentato, quello sarebbe stato dichiarato legittimo Papa.

A Losne, però, come era da prevedersi, ALESSANDRO III non comparve: si rifiutò affermando che "non conveniva alla maestà di un pontefice regolarmente eletto sottoporsi al giudizio di un concilio convocato da chi apertamente favoriva l'antipapa"; intervenne invece VITTORE IV che dal Barbarossa ebbe la conferma della legittimità attribuitagli al concilio di Pavia.

Dopo due giorni di vivo dibattito, i vescovi francesi si rifiutarono di riconoscere Vittore come Capo legittimo della Chiesa e il Barbarossa, pieno di sdegno, se ne tornò in Germania.

La dieta di Losne riuscì però di gran vantaggio ad ALESSANDRO III, il quale non solo ebbe il riconoscimento di Luigi, ma ebbe anche quello del re d'Inghilterra. I due sovrani, incontratisi a Tours, tennero la staffa al Pontefice e, dimenticando le antiche rivalità, conclusero un patto d'alleanza.

Un bel pasticcio per Federico, proprio quando si sentiva maggiormente sicuro della sua posizione, si ritrovò invece minacciato da un pericolo inatteso.

Aveva contro la Francia, l'Inghilterra, il Papato già alleatosi con i Normanni, questi ultimi due con i Bizantini e i Veneziani, e in quanto alla Lombardia sapeva benissimo che dopo il suo passaggio non era certo rimasto nei cuori della gente e che quel popolo aspettava solo l'occasione buona; in più per risolvere alcuni affari era necessaria la sua presenza in Germania.

Incoraggiato dall'aiuto dei due sovrani che avevano fatto pace, ALESSANDRO III, convocò a Tours, per il giugno del 1163, un concilio. Vi parteciparono diciassette cardinali, centoventiquattro vescovi, quattrocento abati, convenuti dalla Francia, dalla Spagna, dall'Inghilterra, dalla Scozia e dall'Irlanda, oltre una moltitudine di chierici minori e di laici. Nel concilio furono presi parecchi provvedimenti riguardanti la disciplina ecclesiastica; ma l'atto più importante fu l'anatema lanciato contro VITTORE IV e l'invito fatto al Barbarossa di abbandonarlo, altrimenti l'anatema era già pronto anche per lui.
Qui Federico non fu proprio politicamente abile, e nemmeno riuscì a capire quanto invece era stato abile il suo avversario che aveva fatto sentire tutto il peso della sua influenza ai due sovrani; di riflesso riceveva omaggi e riconoscimenti da gran parte del clero europeo; né gli venne in mente che in Lombardia quelli che lui credeva domati e umiliati, erano ora ancora più decisi di prima di combatterlo fino a distruggerlo.

Prendiamo un passo di Bertolini: "La fortuna del Barbarossa cominciava dunque a declinare; e una volta che si era messa sulla sdrucciolevole via, proseguì il fatale cammino fino a che non ebbe compiuto la sua rovina e dell'intera sua casa. Questa politica italiana seguita fedelmente dai suoi successori, fu poi la cagione della luttuosa catastrofe degli Hohenstaufen. Quella politica era, infatti, tutta una cosa personale (fra lui e il Papa). E per questa ragione, il regno germanico vide consumarsi le vite dei suoi figli, i suoi sogni e il suo stesso prestigio, e con questo dissolversi l'egemonia esercitata dall'impero fin dal tempo degli Ottoni su l'Europa.

"Non è, infatti, con l'esagerazione del rigore, né con gli atti di ferocia che il potere si afferma. La vittima dell'oggi è il vendicatore del domani; e la vittima solleva sempre intorno a sé la compassione con lo spettacolo stesso delle sue sventure; e a tale sentimento del tutto umano nessuno resiste. Non può far quindi meraviglia, di vedere i devastatori di Milano divenuti poi ospiti dei cittadini rimasti senza patria: Pavia, Cremona, Lodi, Como fecero a gara nell'ospitare i miseri orfani, come prima avevano fatto a gara nell'opera di distruzione della loro città loro (Bertolini)".
Il popolo alla fine "fa sempre quello che vuole, quando vuole, e dove vuole"!

Né era soltanto il sentimento d'umanità di fronte alla sventura di Milano che inteneriva l'anima degli abitanti delle città rivali: era, anche quasi una protesta alle vessazioni che i luogotenenti imperiali facevano patire alle terre dell'alta Italia. Sappiamo perfino i nomi di alcuni tra questi luogotenenti, che spogliavano, imprigionavano, uccidevano senza pietà: ARNALDO BARBAVARIA a Piacenza, BELLANUCE a Ferrara, MARQUARDO di GRUMBACH a Bergamo e a Brescia, EZIO a Parma, PAGANO a Como.


Ma più di tutti tiranneggiava un PIETRO CLUNIN, procuratore imperiale nelle quattro misere borgate milanesi, a paragone del quale VERRE si poteva considerarlo un galantuomo.
Le popolazioni lombarde nei confronti dell'Imperatore erano nonostante tutto, perfino generose - e se dobbiamo credere al cronista "Acerbo Morena" - non credevano che tutte queste vessazioni fossero state ordinate dall'Imperatore ed erano sicure che Federico, ritornando, si sarebbe mostrato dispiaciuto della condotta dei suoi luogotenenti ed avrebbe sollevato i cittadini dai mali da cui erano afflitti: e fiduciosi aspettavano ogni giorno l'arrivo del Barbarossa ("Imperatoris adventum quotidie expeotabant").
Anche se sotto il monito della terribile sorte cui era andata incontro, sotto la superficie stava già maturando il germe della rivolta.

E Federico scese per la terza volta in Italia nell'ottobre del 1162, senza esercito, ma con un numeroso seguito di principi e di vescovi. E fu assediato letteralmente dalle rimostranze contro l'esosità dei suoi agenti e dalle richieste di mitigare le pene delle popolazioni oppresse.
A Lodi, dove alcuni giorni dopo il suo arrivo lo raggiunse VITTORE IV, convocò una dieta alla quale intervennero i legati di Pisa e Genova, con cui fu stabilito che il 1° maggio dell'anno seguente le due repubbliche avrebbero messo a disposizione dell'Imperatore le loro flotte per l'impresa di Sicilia.

Da Lodi il Barbarossa passò a Pavia. I Pavesi si dispiacquero con lui per la resurrezione di Tortona e l'Imperatore, il 24 novembre, accordò loro di distruggerla una seconda volta, mostrando alle popolazioni lombarde quanto era fragile la speranza di sollievo che riponevano nell'arrivo del principe. Nonostante questo, il 3 di dicembre, quando il Barbarossa si recò a Monza, i Milanesi di Borgo Vigentino gli andarono incontro sotto una battente pioggia e, gettatisi ai suoi piedi, lo pregarono con le lacrime agli occhi che restituisse loro i beni e la patria. Parve commuoversi a quelle preghiere, ma in effetti non prestò quasi orecchio a questi appelli, si limitò l'Imperatore ad incaricare l'arcivescovo di Colonia, perché li ascoltasse lui e vi provvedesse.

Ma quando i deputati dei quattro borghi portarono al prelato le loro rimostranze per le vessazioni, da cui erano oppressi, ottennero un'altra vessazione; cioè si sentirono domandare una forte somma di denaro.

All'inizio del 1164 il Barbarossa passò il Po, visitò la Romagna e si spinse fino a Fano, dove lo troviamo il 24 febbraio dello stesso anno. Qui gli si presentarono i legati di Genova per chiedergli se confermava la data fissata a Lodi per la spedizione di Sicilia. L'Imperatore invitò i legati a seguirlo a, Parma, dove il 22 marzo aveva convocata una dieta. Ma qui nulla fu deciso per l'impresa contro i Normanni; fu invece trattata solo la questione della Sardegna.

Al possesso di quest'isola aspiravano la Santa Sede, Genova e Pisa. Queste due repubbliche vi avevano stabilito fiorenti colonie e avevano in mano tutto il commercio isolano, e, stando in perpetua rivalità tra loro, s'intromettevano nella politica interna della Sardegna che allora era divisa nelle quattro giudicature di Gallura, di Logudoru, di Arborea e di Cagliari.

In questo periodo, BARESONE, principe della Gallura, per le trame dei Pisani era stato cacciato dalla sua giudicatura. Per rientrare in possesso del suo principato si era rivolto a Genova affinché con le sue buone relazioni con l'imperatore gli procurasse l'appoggio del Barbarossa; e alla dieta di Parma aveva mandato come suo legato il vescovo di San Giulio in compagnia di due autorevoli cittadini genovesi.

Volendo Federico far valere i diritti dell'Impero anche sulla Sardegna, creò re dell'isola Baresone a patto che pagasse quattromila marchi. Non avendo però quel tale somma, pagò Genova per lui; ma, avendo la repubblica sospettato che il re cercasse di avvicinarsi ai Pisani, per non perdere la somma prestata, trattenne presso di sé Baresone fino a che non avesse pagato il suo debito.

Verso la fine di marzo 1164, Barbarossa, lasciata Parma, si recò a Pavia dove si ammalò e per alcune settimane sua fedele compagna fu la febbre; di modo che fu costretto a rinunziare all'impresa di Sicilia. Altro motivo che lo consigliò a rimandare ad altri tempi la spedizione contro i Normanni fu la morte di VITTORE IV, avvenuta a Lucca il mese dopo, il 20 aprile del 1164.
La fine dell'antipapa non servì a far cessare lo scisma, perché i cardinali sostenitori del Barbarossa, (mal) consigliati dall'arcivescovo di Colonia, elessero con il nome di PASQUALE III il cardinale GUIDO da Cremona, discendente di nobile famiglia, uomo magniloquente, accorto ed energico, il quale per le sue qualità dava a Federico la certezza che avrebbe condotto ad oltranza la lotta contro ALESSANDRO III.

Ma non era solo con lo scisma che poteva il Barbarossa sostenersi in Italia, scisma che tutti sapevano avere origine prettamente politica; né era sufficiente la sua presenza, nella penisola per tenere a freno le popolazioni soggette. Un gravissimo malcontento serpeggiava fra gl'Italiani del nord e del centro; i Milanesi che andavano peregrinanti in ogni luogo raccontando la misera fine della loro città, il malumore mentre lo allargavano nello stesso tempo mitigavano nelle popolazioni le antiche o recenti rivalità municipali e quell'impulso fratricida.

L'opera tirannica dei luogotenenti imperiali rendeva pesante il giogo tedesco e faceva pensare con nostalgia, anche alle città una volta amiche di Federico, al tempo in cui fiorivano le libere istituzioni comunali.
La politica egoistica del Barbarossa aveva insomma destato nelle città italiane una gran preoccupazione e le aveva rese tutte pensose del loro avvenire; inascoltate ogni tipo di richieste, si resero conto che avrebbero potuto contare solo sulle proprie forze.

Anche perché ormai vedevano in lui un serio ostacolo al proprio sviluppo, un danno irreparabile per loro interessi, né si vedevano avvantaggiate dalla sua amicizia, come ai Pisani aveva dimostrato la decisione di Parma circa la questione della Sardegna.
Preoccupata più di tutte era Venezia, che con un'accorta politica si era schierata a seconda che le circostanze richiedevano, ora con i Bizantini, ora con i Normanni e che sotto il doge DOMENICO MOROSINI, aveva stretto un trattato con il Barbarossa rinnovando i rapporti amichevoli che aveva tenuto con i suoi predecessori. A Venezia conveniva che la potenza di Federico non si affermasse nell'Italia settentrionale, perché la politica espansionista della repubblica poteva ottenere maggiori vantaggi da città rette a comune e divise tra loro, che non da un organismo compatto dipendente da un monarca quasi assoluto.

Un grido di allarme era stato provocato dal decreto emanato dall'imperatore dopo la distruzione di Milano: quello a favore dei Genovesi, ai quali era arbitrariamente accordata libertà di traffico nei possedimenti veneziani. Da allora Venezia giustamente preoccupata del suo avvenire, politico e commerciale, corse ai ripari e trovò nello scisma e nel malcontento delle città vicine un terreno favorevole alla difesa de suoi interessi.
Nella lotta tra i due pontefici, dietro iniziativa del patriarca di Grado, Venezia si schierò a favore di Alessandro III, il che gli procurò pure un avvicinamento con Guglielmo di Sicilia; colse poi occasione dal malcontento che tenevano in agitazione alcune città dell'Italia superiore per promuovere e capeggiare una lega tra Verona, Vicenza e Padova, che passò alla storia con il nome di LEGA VERONESE.

Era, questo, un avvenimento di grande importanza, che non poteva lasciare indifferente il Barbarossa e che costituì uno dei motivi del rinvio della spedizione siciliana (inverno del 1163-64). Non disponendo di un forte esercito e fidandosi poco delle milizie lombarde, l'imperatore cercò di scongiurare il pericolo minacciato dalla nuova coalizione concedendo alle città di dubbia fede vicine della marca veronese privilegi che in altri tempi non avrebbe mai concessi. E così non solo le città di Treviso, Mantova e Ferrara ebbero confermate nel maggio del 1164 le franchigie comunali, ma ne furono accordate pure alle altre città lombarde fedeli, tra le quali Pavia fu la più favorita di tutte, ottenendo che i consoli, liberamente eletti, fossero parificati per dignità ai marchesi e ai conti.

Ma il provvedimento, oltre che preso troppo tardi, era parziale e perciò non solo inefficace, ma dannoso. Il malcontento, anziché cessare, s'inasprì e si estese, e Bologna e Piacenza scacciarono i podestà imperiali.
Allora il Barbarossa si convinse che gli occorreva ritornare al sistema della forza, a quel sistema che, se gli aveva dato un tempo il successo, era stato (ma lo dimenticava) pure la causa della situazione attuale.
Con il proposito di radunare un forte esercito e tornare poi in Italia per domarla con le armi, nell'autunno del 1164 prese la via del ritorno verso la Germania.

QUARTA DISCESA DI FEDERICO IN ITALIA
LA LEGA LOMBARDA E IL GIURAMENTO DI PONTIDA

La posizione del Barbarossa era più grave di quanto lui credesse. Non era soltanto nella rivolta delle città lombarde il pericolo, ma nell'atteggiamento degli stati occidentali, decisi ad opporsi alla politica imperiale la quale apertamente, tendeva al dominio mondiale. Della coalizione, che contro le mire del Barbarossa si veniva formando, aveva assunto la direzione Alessandro III, che presto vide accrescere paradossalmente le file dei suoi aderenti anche in Germania, dove gli arcivescovi di Salisburgo e di Treviri si rifiutarono di riconoscere l'antipapa Pasquale III e lo stesso fece Corrado di Wittelsbach, arcivescovo di Magonza, che pure doveva a Federico la sua nomina.

Barbarossa tentò di rompere la coalizione guadagnando alla sua causa ENRICO II d'Inghilterra. Nella Pasqua del 1165 inviò l'arcivescovo di Colonia a Rouen presso la corte di Enrico. La missione ebbe buone accoglienze e l'arcivescovo ottenne un considerevole successo: infatti, Matilde, la figlia maggiore del re inglese fu fidanzata al duca di Sassonia e di Baviera e un'altra figlia minorenne fu promessa in matrimonio ad Enrico, primogenito del Barbarossa.

Politicamente fu però un successo debole, perché l'arcivescovo di Colonia non riuscì a guadagnare Enrico II alla causa dell'antipapa; il re d'Inghilterra anzi avendo i suoi legati giurato a nome suo, alla dieta di Wúrzburg, di non riconoscere Alessandro, disapprovò la condotta dei suoi ambasciatori, e dichiarò non valido quel giuramento, perché non da lui autorizzato e nel frattempo si ritirò dall'alleanza che aveva concluso con l'imperatore.

La dieta di Wiirzburg era avvenuta nella Pentecoste del 1165. Vi erano convenuti centoquaranta prelati germanici, che riconoscevano l'antipapa Pasquale III come Capo legittimo della Chiesa e si erano impegnati con un giuramento a non prestare obbedienza ad Alessandro. In quella dieta si stabilì inoltre che i principi temporali e spirituali non intervenuti prestassero lo stesso giuramento entro un certo spazio di tempo.

La dieta non rialzò proprio per nulla le sorti di Pasquale III; spronò invece i sostenitori del Papa legittimo ad appoggiare più energicamente la lotta. Alessandro III si trovava allora in Francia, ma aveva moltissimi sostenitori in Italia, specie fra le popolazioni nemiche al Barbarossa; e anche a Roma la situazione si era mutata in suo favore, grazie all'abilità del cardinal di S. Giovanni e Paolo, suo vicario. Questi fece tanto che riuscì a guadagnare i Romani alla causa di Alessandro, s'impadronì della Basilica di S. Pietro fino allora in mano ai seguaci di Pasquale III, ricondusse la Sabina all'obbedienza del Pontefice, poi convocò una grand'assemblea a Roma di ecclesiastici e laici dove fu deliberato di inviare in Francia ambasciatori per invitare Alessandro in nome dei Romani a fare ritorno nella capitale della Cristianità.

Nell'agosto del 1165 Alessandro 111 s'imbarcò a Maguelonne con parecchi cardinali su una nave narbonese; sfuggito a stento prima ad una crociera di navi pisane poi ad una furiosa tempesta, approdò a Messina; di qua scortato da cinque galee di re Guglieimo e da vescovi e baroni siciliani, andò a Salerno ed infine ad Ostia, dove giunse il 22 novembre 1165. Il giorno dopo il Senato, recatosi ad Ostia, lo condusse a Roma.

Fuori la città lo aspettavano i magistrati, il clero, le milizie con i loro vessilli e una moltitudine di gente, che accompagnarono in trionfo il Pontefice fino al palazzo del Laterano.

"Tuttavia erano ben tristi le condizioni del Papa, gravato com'era da debiti: qualche elemosina e qualche prestito ricevute e avuto in Francia (dall'arcivescovo di Reims) gli davano poco da vivere a Roma; mentre aveva attorno a sé un popolo avido il quale, per dirla con le sue parole, anche in tempo di pace, non guardava altro che alle mani del Pontefice. La morte di Guglielmo I nel maggio del 1166, e l'esaltazione al trono di suo figlio Guglielmo II che era ancora in età minore, con reggente la madre, rendevano ad Alessandro assai dubbio l'aiuto della Sicilia, da cui ebbe però un sostegno in danaro.

Pericoloso, d'altro canto, era un nuovo alleato che gli si offriva: era questi EMANUELE COMNENO di Bisanzio, che rotta l'amicizia con Federico, proponeva al Papa una lega. Come tanti imperatori greci, anche Emanuele sperava di ricavar vantaggio dallo scisma per restaurare la sua signoria in Italia, dove aveva da qualche tempo già messo un saldo piede nella munita e forte Ancona.
Cercò di sedurre il Papa con la prospettiva di ricondurre all'unione le due chiese, faceva mostra d'ogni sorta di attenzioni, gli offrì ricchi sussidi, promise di riportargli in sudditanza Roma e l'Italia, ma in cambio chiedeva la corona dell'Impero Romano.

Bisanzio in ogni momento si ricordava delle sue pretese su Roma, questa era sempre nella memoria dei legittimisti.
Alessandro accolse molto bene l'ambasciatore bizantino, che era l'augusto GIORDANO, figlio dello sventurato Roberto di Capua.

Ma Alessandro non fece alcun conto su questa prospettiva; e se fece finta di ascoltare e anche di aderire -tuttavia non formalmente-, e se inviò pure i suoi legati a Bizanzio, facendolo sapere in giro, è perché voleva incutere timore all'imperatore tedesco; ma nello stesso tempo - questo dipendeva dalle future circostanze, che riteneva prossime- avere sgombra la via per quell'utile alleanza" (La Lumia)

ALESSANDRO III aveva ragione di temere il Barbarossa, perché sapeva che la spedizione che l'imperatore stava preparando, era, in parte rivolta contro di lui, e già si aspettava di veder comparire le truppe germaniche sotto le mura di Roma.

Mentre lui guardava con abilità e chiarezza al futuro, e rientrato a Roma il 22 novembre celebrava il Natale '65, il suo avversario nello stesso Natale, guardava al passato, e "resuscitava" dalla tomba il suo predecessore ad Aquisgrana; riportava alla luce, per accrescere con l'ombra di un fantasma l'autorità dell'Impero, CARLOMAGNO.
Alla celebrazione della Natività, dal suo antipapa Pasquale, faceva canonizzare l'antico imperatore, riportandolo in mezzo ai vivi, in una situazione che era ormai completamente diversa da quel periodo, quando era la gente ad essere fantasma e lui vivo, mentre ora era lui un fantasma e la gente viva.

 

BARBAROSSA mise insieme durante l'estate '66 un potente esercito e partì dalla Germania circa un anno dopo l'ingresso trionfale del Pontefice. Preceduto dall'arcivescovo RAINALDO di Colonia, con lui in testa, accompagnato dall'Imperatrice, nell'ottobre del 1166, scese per la quarta volta in Italia, Passò per la Valcamonica, essendo la valle dell'Adige difesa dai Veronesi e dai Padovani, e, giunto nel bresciano, fece subito sentire la sua presenza devastando la contrada. Non si rese subito conto che l'ostilità era maggiore di quanto non fosse mai stata, e che intorno a lui era venuta a crearsi un'atmosfera di odio molto intenso.

Giunto in Lombardia, a Lodi fu tenuta una dieta generale e solo in questa l'imperatore si accorse quanto fosse difficile l'opera alla quale si accingeva. Per la spedizione contro i Normanni gli erano indispensabili le navi dei Pisani e Genovesi; ma le due repubbliche marinare erano ancora in guerra tra loro per il possesso della Sardegna. I rappresentanti delle due città erano andati a Lodi solo per presentare le rispettive pretese. E da due alleati così non ci poteva di sicuro fare affidamento. Il Barbarossa cercò di pacificarle, ma i suoi sforzi riuscirono inutili, e la speranza di averle a fianco pure.

Durante la dieta di Lodi, furono poi all'imperatore presentate dalle città lombarde numerose lagnanze per le vessazioni dei procuratori imperiali.


Era da due anni che le infelici popolazioni imploravano Federico affinché 1e sollevasse dai mali che le affliggevano e le liberasse dalla rapacità dei magistrati da lui imposti. Ma neppure questa volta il Barbarossa volle dare ascolto alla voce degli oppressi; anzi dopo aver fatto alcune scorrerie a Bergamo e nei dintorni di Bresci, aggravò la situazione calcando la mano, illudendosi con la forza di tenere a freno le città ribelli, facendosi consegnare da quelle più sospette, come Brescia e Bologna, degli ostaggi.

Dopo la dieta e dopo le scorrerie, Federico nella primavera del 1167 si mosse verso l'Italia centrale ma a Bologna invece di prendere la direzione per Roma per liquidare subito la questione di Alessandro, marciò verso Imola, Faenza, Forlì, taglieggiando i luoghi che attraversava, fiaccando alcune resistenze, chiedendo prima di avvicinarsi ostaggi con la minaccia altrimenti di devastare i dintorni, e giunse, dopo alcune settimane di marcia, ad Ancona che gli chiuse le porte in faccia. Non potendo lasciarsi alle spalle una città, che, per la sua posizione e per gli aiuti bizantini, avrebbe costituito una seria minaccia al suo esercito, l'imperatore la pose in assedio.
Solo una piccola parte del suo esercito, a Bologna, prese la via per Roma, al comando di RAINALDO arcivescovo di Colonia, e l'arcivescovo guerriero CRISTIANO BUCH di Magonza.

Ma mentre lui lasciata la Lombardia si era messo in marcia, alle sue spalle, le città oppresse inalberavano la bandiera della rivolta. La prima Cremona, una città filo-imperiale.
La misura era colma, ora perfino quelle terre che erano state fedeli a Federico e da lui avevano rivevuto onori e privilegi levavano il capo contro il tiranno, avendo finalmente compreso che la politica egoistica del Barbarossa e la discordia dei comuni prima o poi avrebbero determinata la rovina di tutti.

Le città di Verona, Padova e Vicenza avevano dato l'esempio: le seguirono oltre Cremona, Mantova, Bergamo e Brescia che l'8 di marzo del 1167 si strinsero in lega e subito si misero in relazione con i Milanesi, che taglieggiati e orribilmente oppressi dal conte di DIETZ, vicario imperiale, non potevano di certo che rispondere all'appello.
Il 4 aprile i legati delle quattro città suddette ebbero un incontro con i legati Milanesi e fu fissato un convegno da tenersi tre giorni dopo per concludere l'accordo e al quale dovevano intervenire i delegati di altre città, tra cui quelli di Ferrara.
Il convegno avvenne il 7 aprile 1167, nel monastero di S. Giacomo di Pontida, tra Bergamo e Lecco. Qui i convenuti furono unanimemente dell'avviso di doversi dimenticare ogni discordia passata e unire tutte le loro forze in una sola forza per scuotere l'insopportabile tirannide tedesca; decisero quindi la costituzione di una coalizione, che fu detta LEGA LOMBARDA, la quale doveva prendere accordi con quella Veronese e doveva durare cinquant'anni.

I collegati si obbligavano con giuramento di rivendicare i diritti che i loro comuni godevano da tempo di Enrico IV, di opporsi con le armi alle vessazioni dei ministri imperiali, di mantenere fedeltà all'imperatore, ma di non prestargli obbedienza fino a che non avessero ottenuta la restaurazione dei loro diritti, "cosa che parrebbe strana ai giorni nostri, - osserva l'Emiliani-Giudici - come era naturale a quei tempi in cui l'idea dell'impero personificata nei Cesari germanici, non era impugnata, né messa in dubbio dai papi, i loro perpetui nemici, ed era invece rispettata dai popoli con un tradizionale e continua devozione, che le vicissitudini di tanti secoli non erano riuscite a far cessare".

 

Tutti inoltre s' impegnavano di soccorrersi a vicenda, di non far pace separata, di non prendere nessuna decisione senza il consiglio e il consenso degli altri, di restituirsi le terre donate (perché usurpate) dal Barbarossa e di regolare amichevolmente le questioni pendenti tra le città collegate.

Gli aderenti, sulle pagine aperte del Vangelo, al luccichio della spade snudate, giurarono fede ai patti e ciascun deputato portò con se una copia della formula del giuramento affinché fosse pronunciata dagli abitanti di ogni città. Prima che il convegno si sciogliesse fu stabilito di riedificare e fortificare Milano a spese della lega.

Il 27 aprile i Milanesi di uno dei quattro sobborghi videro con gioia comparire dieci cavalieri bergamaschi con gli stendardi del loro comune, che annunciarono di essere finalmente per loro giunto il momento di riavere la patria. Comparvero, più tardi, con le insegne spiegate, le milizie di Brescia, di Cremona, di Mantova, di Verona e di Treviso, che accompagnarono gli esuli sul luogo in cui le rovine della grande città facevano testimonianza della ferocia imperiale e dei malefici effetti della discordia intestina.
Per fortuna il grande fossato non era che in minima parte colmato e le imponenti i mura erano soltanto qua e là sbrecciate; non fu quindi impresa lunga e difficile alla moltitudine dei Milanesi (che nonostante tutto lì erano rimasti), aiutati dai collegati, di rimettere in efficienza tutta la cinta fortificata.
Un grande errore! - disse in seguito un cronista dell'epoca - non destinarli a località lontane dalla città in rovina! Nessuno infatti, avrebbe immaginato che la città e i Milanesi in quelle condizioni potessero risorgere. Fra l'altro in un periodo di grande potenza del Barbarossa.

La riedificazione di Milano era un atto giusto e nobile di riparazione; la città risorgeva come simbolo della giurata fraternità e come monito severissimo alla superbia del Barbarossa. Ai lavori partecipavano alacremente non pochi di coloro che spinti da un cieco e stolto odio, avevano quattro anni prima contribuito alla rovina di Milano.

Ma non tutti i vecchi nemici erano là, a ricostruire la metropoli: mancavano i Pavesi, mancavano i Comaschi, mancavano i Lodigiani. La mancanza di questi ultimi, come quelli che erano più vicini, costituiva una minaccia non trascurabile alla sicurezza della nuova Milano. Furono pertanto avviate trattative con Lodi affinché entrasse nella lega, dimenticando gli antichi rancori; ma i Lodigiani, con una lealtà degna di miglior causa, dichiararono di non voler macchiarsi d'infamia staccandosi dall'imperatore che li aveva aiutati ed aveva loro concesso la riedificazione della nuova città.

Riuscite vane le preghiere, si ricorse alle minacce, ma neppure queste valsero a piegare i Lodigiani; e allora le città della lega si videro costrette ad usare le armi, quelle armi, che preparate contro il Tedesco, per necessità furono rivolte contro una città italiana.

Il 12 maggio del 1167 il primo esercito della Lega Lombarda si presentava. sotto le mura di Lodi e il 19 dello stesso mese i Lodigiani erano sconfitti a Serravalle sull'Adda. Stretta d'assedio e tormentata dalla fame, Lodi si arrese ed entrò nella confederazione: i collegati le riconobbero tutti i diritti di libero comune, le giurarono amicizia e protezione, le promisero di rafforzarne le difese e le restituirono il territorio che Milano le aveva portato via.

Dopo Lodi, anche Piacenza entrò nella Lega; più tardi, il 10 agosto, i Parmigiani, vinti sul Taro, vi entrarono pure loro, e restituirono a Bologna gli ostaggi che il Barbarossa aveva loro dati in custodia. Purtroppo la guerra per l'indipendenza s'inaugurava bagnando di sangue italiano il suolo della patria; i fratelli uccidevano ancora i fratelli, ma facevano anche sentire il peso della loro forza ai traditori e agli stranieri, perché, infatti, tra la battaglia di Serravalle e quella del Taro, il castello di Biandrate era distrutto e quello di Trezzo, presidiato da una numerosa guarnigione tedesca, fu preso per fame poi distrutto fino alle fondamenta.

IL BARBAROSSA A ROMA - PROGRESSI DELLA LEGA LOMBARDA
FUGA DELL'IMPERATORE DALL' ITALIA

FEDERICO BARBAROSSA ebbe le prime notizie della rivolta lombarda e della lega mentre si trovava all'assedio di Ancona. Ma invece di ascoltare la voce dell'interesse, che lo chiamava al nord, prestò orecchio a quella dell'orgoglio e volendo, prima, costringere la città assediata ad arrendersi, rimase. (da questa sciocca ostinazione che fu poi negativa, non fece tesoro, e più avanti come vedremo ad Alessandria, la stessa testardaggine fu la sua rovina)

Sperava pure che dopo una vittoriosa spedizione su una Roma facile, poi gli sarebbe riuscito senza difficoltà domare i comuni lombardi cui nel frattempo dovevano tener testa Como, Pavia e le altre città a lui fedeli.

Per non perdere troppo tempo, mandò una schiera tedesca verso lo stato pontificio a rinforzare l'arcivescovo di Colonia, il quale, il 18 maggio del 1167, con l'aiuto di navi pisane, si impadronì di Civitavecchia, poi andò a Tusculo, chiamato dagli abitanti. Questo fatto irritò il Senato romano, che, nonostante la disapprovazione del Pontefice, armò un esercito di trentamila uomini - questa cifra è data dai cronisti contemporanei, ma ci sembra esagerata - e lo mandò ad assediare e a punire il tradimento di Tusculo.

A mal partito sarebbe stato ridotto l'orgoglioso Rainaldo di Colonia se non l'avesse in tempo aiutato con un compagnia di milizie tedesche l'arcivescovo Cristiano di Magonza, che il 29 maggio fu attaccato dai Romani a Monte Porzio. La battaglia fu accanita e sarebbe terminata con la vittoria delle truppe romane se queste fossero state più disciplinate e meglio comandate; ma mancavano la disciplina e un buon capo. Vedendo le truppe di Cristiano indietreggiare, si diedero disordinatamente ad inseguirle, credendo di averle vinte; quelle invece ricomposte e tornarono ben compatte alla carica; da Tusculo uscirono dalle mura le milizie di Rainaldo con gli abitanti locali e attaccati di fronte e alle spalle, assalirono i Romani, che sebbene superiori di numero, subirono una drammatica sconfitta.

La rotta di Monte Porzio apriva la via di Roma all'imperatore e questi sarebbe corso ben presto a dare man forte ai due arcivescovi se non lo avesse trattenuto l'assedio di Ancona, che più ostinata di lui ancora resisteva. Alla notizia della vittoria sui Romani seguirono poco dopo altre notizie preoccupanti: alcuni baroni pugliesi, insorti, si trovavano a mal partito di fronte all'avanzarsi delle truppe che, al comando del Conte di GRAVINA, la reggente dei Normanni MARGHERITA aveva mandato contro di loro; e questi ora chiedevano aiuto all'imperatore.

Allora il Barbarossa ruppe gl'indugi, fece proposte di pace con gli Anconitani, accettò una forte somma di denari, richiese quindici ostaggi e partì alla volta del mezzogiorno.

Scarse notizie ci danno gli storici contemporanei intorno a questa spedizione di Barbarossa contro i Normanni (ribelli): sappiamo solo da loro che gl'imperiali liberarono una fortezza assediata dal nemico (normanni regi) e che lo inseguirono fino a un fiume, dove moltissimi Normanni perirono; però né della fortezza né del fiume è stato tramandato il nome.

Del resto per quanto lacunosa quella riferita dagli storici, la spedizione nel mezzogiorno fu priva d'importanza e anche di brevissima durata; infatti, il Barbarossa, il 24 luglio era con l'esercito già a Monte Mario e iniziava l'assedio della città Leonina. Ma vani riuscirono gli assalti sferrati dalle truppe germaniche; per otto giorni i Romani si difesero con valore, ricacciando indietro il nemico e tentando pure qualche sortita per incalzarlo; solo nell'ultimo giorno di luglio, avendo Federico dato fuoco alla chiesa di Santa Maria in Terni, i difensori si arresero per impedire che l'incendio distruggesse la vicina basilica di S. Pietro e qui, il giorno dopo, l'imperatore ricevette per la seconda volta dalle mani dell'antipapa (Pasquale III) la corona imperiale.

Ma la grande, la vera città resisteva, ed Alessandro III aveva trovato asilo sicuro nelle torri dei Frangipane. Il Barbarossa, o perché ritenne non facile l'espugnazione del resto di Roma, o perché voleva mostrarsi ai Romani animato da buone intenzioni, propose agli abitanti di risolvere lo scisma deponendo i due Pontefici e facendo eleggere un nuovo Papa; ma ALESSANDRO III, udita la proposta, rispose che "Dio solo poteva giudicare il Pontefice"; e presentatasi l'occasione, poiché non si sentiva più sicuro a Roma, fuggì travestito da pellegrino prima a Terracina poi scese a Benevento.

"Nel momento in cui il gran nemico dell'imperatore - scrive il Bertolini - si metteva in salvo con la fuga, giunsero a Roma, risalendo il corso del Tevere, otto galere inviate al Barbarossa dai Pisani, per facilitargli la conquista della metropoli.
La fuga del Papa e la comparsa delle navi pisane persuasero i Romani che ogni resistenza sarebbe stata inutile. Tuttavia Senato e popolo si accordarono di mandare legati all'imperatore per sapere a quali condizioni lui avrebbe concesso la pace alla città. L'imperatore fu abbastanza moderato nelle sue richieste: a) che i Romani giurassero fedeltà a lui e al papa Pasquale; b) consegnassero 400 ostaggi; c) dovevano accettare un nuovo Senato da lui formato.

Senza tanta esitazione il popolo accettò queste condizioni: e l'imperatore, soddisfatto per il successo conseguito con così poca fatica, si accingeva ad entrare in trionfo nell'antica Roma, quando una calamità spaventosa piombò improvvisamente sul suo capo.

Si era nell'afoso fine luglio-agosto del 1167.

I cristiani di Roma sostennero che erano i biblici "Angeli sterminatori" armati del flagello delle febbri, che invasero il campo imperiale, compiendovi una strage orribile nelle sue truppe".
I partigiani di Alessandro gridarono al "miracolo" e interpretarono il flagello per una punizione divina inflitta a chi aveva osato infrangere l'unità della Chiesa. II versetto biblico: "E il Signore mandò un angelo, il quale distrusse ogni valente uomo ed ogni capo e capitano che era nel campo del re degli Assiri; laonde egli se ne tornò svergognato al suo paese", fu applicato al Barbarossa, novello Sennacheribbo, e ispirò ai cronisti invettive contro di lui. L'analogia, infatti, non mancava; anche a lui la peste aveva ucciso i migliori duci del suo esercito.

Morirono l'arcivescovo RAINALDO di Colonia, che era stato il braccio destro della, politica di Federico, il giovane, bello e cavalleresco duca di Svevia, cugino dell'imperatore, GUELFO VII, i conti di NASSAU, di STULTZBACH, di ALTOMONTE, di LIPPE, di TUBINGA, i vescovi di RATISBONA, PRAGA, VERDUN, SPIRA, LIEGI e molti altri grandi laici ed ecclesiastici. Morì, fra gli altri, il cronista ACERBO MORENA, figlio di Ottone, storico imperiale anche lui.

A quel punto Barbarossa lasciò Roma, con una pestilenza che seminava strage non solo ai nemici ma anche tra gli abitanti, e prese la via del nord, portandosi dietro un esercito decimato e i supersiti con addosso il morbo. Fu un Odissea nell'attraversare le contrade d'Italia.

I Pisani e i Lucchesi videro passare dalle loro terre le truppe imperiali, disordinate come dopo una tremenda rotta. La metà dell'esercito febbricitante che si trascinava dietro dentro carri o barelle l'altra metà e i più autorevoli comandanti in fin di vita, o le loro salme da riportare in patria. Federico si diresse verso gli Appennini, ma i Pontremolesi, aizzati e soccorsi dai Lombardi, sbarrarono i passi e lo costrinsero a cambiare percorso eludendo l'esercito della lega grazie all'aiuto del Marchese Obizzo Malaspina che lo scortò nei i suoi possedimenti che si estendevano (dalla Lunigiana alla valle Padana) passando per le valli appenniniche (Val Borbera, Val Trebbia Valle Staffora) sostando ad Oramala (Pv) nell'imprendibile castello dei Malaspina, proseguendo poi per Voghera.

Verso la metà del settembre del 1167 il Barbarossa era a Pavia. Non rassegnandosi all'insuccesso della spedizione romana e non rendendosi conto della situazione della Lombardia, la quale non credeva proprio che poteva essere cambiata con una semplice dieta di ribelli, il Barbarossa ne convocò una lui pochi giorni dopo il suo arrivo a Pavia.


Com'era da prevedersi pochissimi furono gl'intervenuti; di tutte le città lombarde soltanto Pavia, Como, Vercelli e Novara inviarono rappresentanti; dei feudatari intervennero i marchesi GUGLIELMO del Monferrato ed OBIZZO MALASPINA, il conte BIANDRATE e i Signori del SEPRIO, della MARTESANA e di BELFORTE.

FEDERICO dichiarò ribelli tutte le città della lega, le mise al bando dell'impero escluse Lodi e Cremona, che volle credere trascinate con la forza dalle altre e, gettato il guanto in mezzo all'assemblea, proclamò la guerra per punire i collegati.

Le ostilità furono subito iniziate contro alcuni territori vicini a Milano, quali Rosate, Abbiategrasso, Magenta e Corbetta, ma la fortuna non era dalla parte all'imperatore, soprattutto perché era in quelle misere condizioni, e per il tempestivo accorrere delle milizie delle lega e fu ricacciato indietro. Ed anche un tentativo fatto contro Piacenza fallì, e da lì Barbarossa fu costretto a rifugiarsi a Pavia, dove aveva intenzione di rinchiudersi e passare l'inverno.

" Fino al mese di marzo 1168 -scrive l'Emiliani-Giudici - continuò a fare una guerra magra, evitando sempre di correre il rischio di impegnarsi in una gran giornata campale: con quelle ripetute scaramucce s'ingegnava solo per poter coprire la propria impotenza, la quale si rendeva in ogni scontro più manifesta, gli tolse la reputazione; e siccome era l'epoca dei giudizi di Dio, da questo suo continuo indietreggiare, scansarsi, o fuggire, i popoli e perfino le sue genti credevano che il cielo ora proteggesse la giusta causa dei ribelli contro la malvagità del loro oppressore.

Federico a quel punto era moralmente sconfitto; restare ancora a lungo in Italia sarebbe stato un irreparabile errore.
"E tanto più che la lega lombarda nell'inverno si era meglio organizzata dopo l'arrivo a Milano del nuovo arcivescovo GALDINO. Costui discendeva dalla nobile famiglia milanese de' VALVASSORI di SALA. Morto a Benevento il vecchio arcivescovo Oberto, papa Alessandro III nell'anno 1166 elesse Galdino, già cardinale, alla sedia di Milano, e lo deputò suo legato apostolico.

Vi giunse circa due anni dopo, quindi in questo periodo e il suo arrivo fece crescere nuove speranze alle città della lega lombarda, la quale mentre un altro legato di nome ILDEBRANDO CRASSO agitava i territori sulla riva meridionale del Po, il 1° dicembre dell'anno 1167 in solenne parlamento si unì alla lega veronese, con tali vincoli ed ordinamenti da diventare un corpo solo.
Le città intervenute alla memoranda assemblea furono queste: Venezia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Ferrara, Brescia, Bergamo, Cremona, Milano, Lodi, Piacenza, Parma, Modena, Bologna.

Rinnovarono il giuramento di reciproca difesa, sentenziando che la loro lega non mirava ad altro che a rivendicare i diritti che i liberi comuni godevano prima del regno di Federico Barbarossa, cui tuttavia promettevano di mantenere fedeltà come capo dell'impero; ordinarono stabilmente gli interessi e i doveri della società, sottoponendola ad un magistrato detto de' "Rettori della lega", i quali costituivano ciò che ai giorni nostri indichiamo come il potere esecutivo della confederazione, superiore a tutti quelli che ne facevano parte, e al tempo stesso soggetto al sindacato di tutti.
E dalle convenzioni passando subito ai fatti, armarono un esercito di ventimila guerrieri pronti ad un cenno dei rettori ad uscire dal campo.

Nel frattempo la lega faceva altri preziosi acquisti: vi entrava il marchese OBIZZO MALASPINA che per la sua perizia nelle cose di guerra era destinato a sostenervi una parte notevole, e vi entravano Novara, Vercelli, Como ed Asti, di modo che, sul finire del 1167, unico sostegno dell'imperatore nell'Italia settentrionale rimanevano il marchese Guglielmo di Monferrato e Pavia.

Prima che finisse l'inverno 1167, BARBAROSSA stimò prudente lasciare Pavia, perché un atto di ferocia commesso in città da un tedesco contro un nobile pavese, aveva suscitato una generale indignazione e malcontento. Con poco seguito, evitando di passare dalla Lombardia (in quelle condizioni l'avrebbero annientato) fece un lungo giro, si portò in Piemonte e alla chetichella si trasferì nel Monferrato, e da qui pensò di passare in Borgogna; ma il passaggio di Susa gli fu negato da UMBERTO III di SAVOIA, detto "il Santo" ma "indiavolato" contro l'imperatore perché ai vescovi della sua contea aveva concesso privilegi che oltraggiavano la sua sovranità e occorsero i buoni uffici del marchese Guglielmo del Monferrato e la promessa di revocare le concessioni per far desistere il conte dal rifiuto.

Ma nel passare da Susa, poco mancò che il Barbarossa non finisse ingloriosamente la sua vita, perché, avendo fatto impiccare un nobile bresciano, uno degli ostaggi che si portava dietro in Germania dalla Lombardia, il popolo, sdegnato, si levò a tumulto ed obbligò con le minacce l'imperatore a rimettere in libertà gli altri. Ma poi corsa la voce che in città si era ordita una congiura contro di lui, si travesti da servo e, lasciato nel suo letto un cavaliere che gli rassomigliava, con il favore della notte fuggì e valicò, nel mezzo del 1168, quelle Alpi per le quali, fuggiasco da Spira, Enrico IV era disceso, subendovi al pari di lui un'umiliazione per opera di un altro Savoia.

Un'umiliazione quella fuga nella notte, come un ladro, che Barbarossa inizia a rimuginare; il suo primo pensiero nella prossima discesa sarà quello di andare a punire Susa, per poi, con altrettanta ostinazione andarsi ad impantanare ad Alessandria, una città che gli fu fatale.

Appena Barbarossa si era messo in fuga, a Milano si preparavano alla riscossa e progettavano come metterlo in "trappola" se tornava a scendere in Italia. Ed è il prossimo capitolo

dall'anno 1168 al 1176

FONDAZIONE DI ALESSANDRIA


II Barbarossa era partito già da un mese, quando i collegati, forse dietro consiglio di OBIZZO MALASPINA, posero le fondamenta di una nuova città. Si trattava di impedire le comunicazioni tra il territorio di Pavia e il Monferrato e difendere la risorta Tortona.
Fu scelta un'arida pianura al confine dei due territori nemici della lega, dove la Bormida sbocca nel Tanaro, di proprietà dei MARCHESI del BOSCO.

La sconosciuta località anche se era già un plurisecolare piccolo paese (Paleo, o Cesaria) diventa città e nasce volutamente subito grande per un'esigenza logistica, su una posizione ideale, tale da essere in grado di controllare da ovest, est e sud, tutti i punti d'ingresso nella piana lombarda.

La lega a Lodi, decise di farne il baluardo della Lombardia; la città nacque in brevissimo tempo, senza edifici di lusso, ma con una fortificazione estrema. In breve abitata da 15.000 "leoni". In segno di fedeltà e di alleanza con il papa ALESSANDRO III, un cittadino propose di chiamarla proprio con il suo nome: ALESSANDRIA.
Quel cittadino - a parte la solidità urbana che si era venuta a creare con gli immensi bastioni - non poteva avere avuto idea migliore; fu un lampo di genio, con un forte impatto psicologico. Quando FEDERICO scese dalla Savoia, per la quinta volta in Italia e iniziò a distruggere nel '174 tutte le città piemontesi, quando giunse davanti a questo paese (trasformato un una turrita città) che non era menzionato da nessuna parte, del tutto sconosciuto, ma che gli attraversava la strada, sconvolse tutti suoi piani. Perché, lo abbiamo detto più volte, la sua ostinazione gli faceva dimenticare non solo l'accorta politica ma anche la strategia militare.

Il 20 aprile del 1168 convennero sul luogo prescelto le milizie di Milano, Cremona e Piacenza, che presero possesso della terra e, tracciati i limiti, con un lavoro degni di Ciclopi, posero le basi della nuova potente città.

Andarono ad abitarla le popolazioni di Gamandio, Bergoglio, Roveredo, Marengo, Olivia, Solera ed altri villaggi vicini; fu circondata di forti mura e di un fosso profondo; ma i tetti delle case, in un primo tempo, erano tutte fatte con la paglia, per la fretta di costruire i bastioni ma anche per la mancanza di materiale, onde i pavesi per scherno la soprannominarono "città della paglia". I consoli della nuova città, che ebbe i privilegi di libero comune e fece ovviamente parte della lega, andarono ad offrire Alessandria al Pontefice che più tardi v'istituì un vescovado; e la popolazione aumentò così rapidamente che dopo un anno dalla fondazione essa poteva contare sotto le armi quindicimila uomini validi.

Pareva che la causa dell'imperatore nell'Italia settentrionale fosse perduta per sempre. Sconfitto il conte di Biandrate, che fu punito con il castello distrutto, e circondata da ogni parte di nemici, alla fine la stessa Pavia entrò nella Lega Lombarda, giurò i patti e prestò obbedienza ai Rettori. Non rimaneva a Federico che il marchese Guglielmo di Monferrato, ma anche questi sconfitto dai collegati a Montebello il 19 giugno del 1172, se volle ottenere pace dovette cedere terre e castelli, dare ostaggi, tra cui un figlio, e giurare obbedienza ai consoli delle città collegate.
Ma i locali non dimenticarono le sue angherie, quando anche lui più tardi volle conquistare Alessandria, mal gliene incolse, gli alessandrini lo catturarono e gli riserbarono una sorte terribile: chiuso in una gabbia, sospesa in piazza davanti agli occhi di tutti, lo alimentarono con dileggio come una cornacchia in gabbia, e lo tennero lì qualche anno, fino alla morte.

A Roma invece il sopravvento era ancora del partito imperiale: PASQUALE III era morto e il 20 settembre del 1168 gli era stato dato per successore l'ungherese Giovanni da Struma col nome di CALLISTO III, il quale si era barricato dentro la città papale.

Tuttavia, sebbene fuori, ALESSANDRO III, iniziò a godere dell'appoggio dei Frangipani, si era guadagnata l'amicizia di Tusculo ed acquistato in Italia tanta autorità che perfino il Barbaroma a quel punto cercò di avvicinarsi a lui, ma solo per poter togliere un importante protettore alla lega.

Le trattative tra l'imperatore e il Pontefice erano state già iniziate a Benevento nella primavera del 1169, ma non approdarono a nulla; furono riprese nel marzo del 1170, a Veroli, dove si recò, inviato da Federico, il vescovo EVERARDO di Bamberga, cui Alessandro III fieramente rispose che il Barbarossa, "se voleva pacificarsi con la Chiesa, doveva umilmente piegare l'orgoglioso capo al Pontefice, mostrarsi benevolo, riverente e grato alla Santa Sede che lo aveva innalzato alla dignità imperiale e non osare di togliere al Papato la libertà che il suo divino istitutore gli aveva concessa".

Successo migliore non ebbero le trattative che il Barbarossa cercò d'intavolare con GUGLIELMO II di Sicilia; ma gli riuscì d'impedire che le città dell'Italia centrale aderissero alla Lega Lombarda che già andava propagandosi nella Romagna.

CRISTIANO DI MAGONZA NELL'ITALIA CENTRALE

EMMANNELE COMNENO, imperatore d'Oriente, continuava a complottare in Italia per ottenere la corona: aveva offerto denari ai Milanesi, aveva messo piede nella munita fortezza di Ancona, aveva sposato una sua nipote con Ottone Frangipane, ed ora faceva pure trame con la repubblica di Genova.

Al dire del Muratori erano quivi giunti ambasciatori bizantini con molte migliaia di monete d'oro, quando, nel 1171, il Barbarossa, allo scopo di turbare gli accordi, -vi mandò con un corpo di milizie l'arcivescovo Cristiano di Magonza, il quale aveva anche l'incarico di pacificare la Toscana che stava allora divisa in due campi: da un lato stavano Pisa e Firenze, la prima delle quali il 26 novembre del 1170 a Motrone aveva sconfitto i Lucchesi, dall'altro stavano Pistoia e Siena, collegate con i Genovesi.

Ma la politica dell'arcivescovo, per quanto accorta, non poteva conseguire grandi successi in quel nodo inestricabile di gelosie, di opposti interessi e di competizioni. Eterno pomo della discordia era la Sardegna; e i Pisani, quando si accorsero che Cristiano di Magonza propendeva a darne il possesso ai Genovesi, per ripicca strinsero alleanza con Emmanuele Comneno.

Avuta notizia di ciò, l'arcivescovo corse a Pisa e vi convocò una dieta dei feudatari imperiali e dei consoli delle città della Toscana, della Romagna, delle Marche e dell'Umbria per tentare di pacificare Pisa, Genova e le altre città che parteggiavano per le due repubbliche. Il tentativo fallì per l'ostinazione dei Pisani, di modo che Cristiano di Magonza, convocata una nuova dieta a Siena, mise Pisa al bando dell'impero e le tolse il diritto di zecca e le altre regalie.
Pisa, per nulla intimidita, armò con l'aiuto di Firenze un esercito e lo mandò contro S. Miniato, presidiato da milizie tedesche. Quest'azione, che militarmente fu un insuccesso, ebbe però gravi conseguenze perché fu messa al bando pure la stessa Firenze.

L'anno seguente, l'arcivescovo di Magonza, poiché a nulla valevano le minacce, tornò a Pisa (estate del 1173) e la sciolse dal bando, poi evocò una dieta a S. Genesio, alla quale convennero i legati pisani e fiorentini, ma essendosi questi rifiutati di accettare certe condizioni imposte da lui, li fece arrestare, poi con le milizie di Lucca, Siena e Pistoia e del conte Guido Guerra andò a porre l'assedio a Firenze, che più tardi dovette togliere essendosene i Lucchesi partiti per difendere il loro territorio invaso dai Pisani.

ASSEDIO DI ANCONA

Avendo visto che non gli riusciva di pacificare la Toscana, Cristiano di Magonza volle tentare un colpo di mano su Tusculo per impadronirsi del Papa che vi si trovava, ma essendogli fallito il colpo, con un forte esercito di Tedeschi, Toscani e Romagnoli marciò contro Ancona per punirla di essersi data a Costantinopoli e riuscì a trascinare in questa guerra i Veneziani, i quali, sebbene (*) facessero parte della Lega Lombarda, portarono aiuto al vicario imperiale, spinti dalle rivalità commerciali che li rendevano gelosi di ogni altra città adriatica.

Dobbiamo ricordare che i Veneziani erano quest'anno ai ferri corti con i Bizantini: questi il 12 marzo del 1171 in un sol giorno, in tutto l'impero, li avevano arrestati e i loro beni, le navi, i fondachi confiscati. Per dieci anni, fino alla morte di Manuele Comneno (gli succederà Alessio II) tutti i rapporti rimasero interrotti. Fu una crisi tremenda per la Serenissima.

Ancona fu dunque assediata: dal mare la bloccavano quaranta galere veneziane, tra cui una con una mole straordinaria; dalla parte di terra stava l'esercito di Cristiano di Magonza, il quale era giunto sotto le mura della città dopo averne barbaramente devastata la campagna. L'assedio di Ancona costituisce una delle pagine più gloriose della storia delle città italiane del medioevo. Stretti da ogni parte, gli Anconitani seppero difendersi con grandissimo valore per parecchi mesi ributtando i quotidiani assalti dell'esercito dell'arcivescovo; tormentati dalla fame, non vollero cedere e, tutte le volte che le campane chiamavano a raccolta i cittadini per un improvviso attacco, una turba di uomini denutriti e scarni accorreva alle mura per difendere con le ultime forze la città in pericolo. Si videro vecchi rincuorare i giovani alla resistenza con la parola e con l'esempio, si videro donne sfinite ristorare con lo scarso latte delle loro mammelle i propri figli e gli stessi mariti guerrieri, ci furono anche altre donne che in un nobilissimo slancio si dissero pronte a sacrificarsi per dare la propria carne per sfamare i combattenti.

Fra i molti, due grandi esempi di valore registra la storia dell'assedio che meritano di essere ricordati. Sembrò un giorno che le truppe di Cristiano di Magonza dovevano impadronirsi della città. Già dalle navi veneziane numerosi soldati erano riusciti ad effettuare uno sbarco e avanzavano minacciosi dal porto; già l'esercito imperiale aveva quasi sopraffatto gli scarsi difensori delle mura. Ed ecco suonare a stormo le campane per far brandire ai cittadini le armi; una parte corre al porto e ributta in mare il nemico, lo insegue con alcuni navigli e cattura parecchie galere; e un'altra parte irrompe coraggiosamente fuori delle porte e lottando con disperato accanimento ricaccia gli assedianti oltre le macchine da guerra, gettando poi su queste, legna intrisa di pece e resina.

Ma dalle torri di legno gli arcieri scagliano nugoli di frecce; gli Anconitani arretrano e non osano riavvicinarsi per appiccare il fuoco. Fra gli indecisi una donna avanza: è una vedova di nome STAMURA, che impavida si accosta alle macchine e fra la pioggia dei dardi accatasta la legna intorno alle torri e con una fiaccola in mano appiccare il fuoco. Riprese così la battaglia: gli Anconitani, rianimati dall'esempio della donna, tornarono ad assalire il nemico e lo ricacciarono ancora più lontano, catturando numerosi cavalli che servirono poi agli abitanti come provvidenziale nutrimento.

Poi l'atto di gran coraggio, compiuto da un prete, che anche questo va ricordato fra gli atti di valore. Volendo recar danno alla flotta nemica, un prete di nome GIOVANNI, in una giornata in cui un vento impetuoso gonfiava le onde, gettatosi in mare, raggiunse a nuoto il galeone veneziano e con una scure cominciò a tempestar di colpi la grossa corda che teneva l'ancora. Scoperto dai nemici fu fatto segno ad un nutrito e ininterrotto tiro di frecce; ma l'audace prete non abbandonò l'impresa e riuscì a tagliare il cavo e tornare incolume alla riva. Il galeone, sbattuto dalla tempesta, fu abbandonato dall'equipaggio. L'esempio del prete, imitato da altri coraggiosi, valse, più tardi, la cattura di sette galere veneziane.
Non potendo sostenersi oltre con le sole loro forze, gli Anconitani chiesero aiuti a GUGLIELMO MARCHESELLI, nobile ferrarese, e alla contessa ALDRUDA di BERTINORO, i quali, raccolte truppe in Lombardia e in Romagna, si affrettarono a soccorrere Ancona. Una battaglia sanguinosa fu combattuta di notte nelle vicinanze della città. Lombardi e Romagnoli assalirono con impeto sovrumano il campo dell'arcivescovo ed aiutati dagli Anconitani usciti fuori a dar man forte nella battaglia, sbaragliarono l'esercito di Cristiano di Magonza che fu costretto a darsi alla fuga.

Da sei anni l'imperatore mancava dall'Italia e in questo tempo egli aveva potuto migliorare la propria posizione. BARBAROSSA, infatti, aveva riaffermato nella Sassonia l'autorità di ENRICO il "Leone", aveva fatto pacificare i re di Francia e d'Inghilterra promettendo di intraprendere con loro una nuova crociata, ed era riuscito a fare eleggere e coronare re dei Romani il proprio figlio ENRICO.

Nella sua assenza, il pensiero del Barbarossa era stato costantemente rivolto all'Italia. La mente e l'anima dell'orgoglioso monarca erano logorate dal desiderio di punire le città ribelli e di vendicarsi delle onte patite e con tali propositi nel 1174 si accinse a discendere per la quinta volta nella penisola, dopo quell'ignominiosa fuga nel '67 da Susa.

QUINTA SPEDIZIONE ITALIANA DEL BARBAROSSA

BARBAROSSA diede l'annuncio della spedizione in una dieta convocata a Ratisbona nel maggio del 1174 e per allettare i principi a seguirlo non accennò a Roma e al Papato, ma parlò sole di città lombarde. Ciononostante l'annuncio fu accolto con molta freddezza dai grandi, e pochi risposero all'appello. Fra i principi che rimasero in Germania va ricordato il più potente: ENRICO il "Leone"; che però non scopre ancora le sue carte.

Nel settembre del 1174 con un esercito di poco più che ottomila uomini, in compagnia del fratello CORRADO, del re LADISLAO di Boemia, di OTTONE di WITTELSBACH, degli arcivescovi di Colonia e Treviri e di altri grandi, il Barbarossa scese in Italia per la via della Borgogna (da dove era fuggito la volta precedente).

Il principio della campagna registrò per lui dei successi: Susa fu presa e perché fosse vendicata la fuga alla quale l'imperatore era stato costretto sei anni prima, fu selvaggiamente distrutta, rasa al suolo; Torino fu occupata; Asti dopo soli otto giorni d'assedio si arrese e ovviamente si staccò dalla Lega; lo stesso fecero Como, Pavia, il marchese di Monferrato ed altri baroni.
Lieto di questi immediati successi, Barbarossa proseguì la marcia fin quando giunse davanti a quel paese (ora trasformato un una turrita città) che non era menzionato da nessuna parte, fino allora era del tutto sconosciuta, ma che però gli sbarrava la strada. Si trovava dunque davanti ad Alessandria, intorno alla quale lui pose l'assedio, sicuro di prenderla in breve tempo.

Invece s'ingannò: fortemente guidati dal podestà RODOLFO CONCESA, gli abitanti respinsero con audacia mai vista prima d'ora gli assalti imperiali, e diedero tempo alle città della Lega di riunire le loro milizie e mandarle in soccorso della città assediata.

Quando BARBAROSSA arrivò davanti alle sue mura, Alessandria gli tolse il sonno. Il nome prima di tutto gli ricordava il suo avversario, poi con i tanti e vani tentativi di prenderla e distruggerla, lui cominciò a vederla (in effetti lo era) come il simbolo e il baluardo della ribellione. Questa città, con i primi assalti andati a vuoto con pesanti perdite, diventò la sua ossessione e la sua rovina. Ci riprovò diverse volte, ma ogni volta una carneficina; fallimenti uno dietro l'altro che invece di scoraggiarlo provocarono un'irrazionale ostinazione, che si dimostrò alla fine fatale.

Se questa città non spariva dalla faccia della terra, la sua inespugnabilità poteva diventare la "favola" di papa Alessandro; questa località sconosciuta a tutti, sarebbe diventato il sollazzo dei suoi nemici; le sue mura se restavano in piedi, sarebbero diventate oggetto di scherno; uscirne sconfitti una vera onta per l'esercito imperiale; e per lui, che aveva distrutto e incenerito la grande Milano, rappresentava un vero e proprio affronto.

Aveva purtroppo scelto l'inverno 1174 per assediarla, e ancora una volta aveva avverso il destino. L'inverno fu uno dei più rigidi e causò più sofferenze agli assedianti che non agli assediati. Una ecatombe ogni volta che si tentava di prenderla d'assalto per porre fine all'assedio e poter continuare la campagna militare sul resto d'Italia.
Dopo mesi, con la "favola" già raccontata in giro in tutta la Lombardia, per schernire i nemici e sollazzare gli amici, FEDERICO si ostinò a far giungere rinforzi; uomini e mezzi da ogni parte; poi nell'aprile del 1175 Barbarossa non riuscendo ad espugnarla con la forza, ricorse all'astuzia; fece scavare delle lunghe gallerie sotterranee attraverso le quale i suoi uomini dovevano introdursi dentro la fortezza.

A lavori ultimati, l'impresa fu tentata il Venerdì Santo e, sebbene i cittadini non sospettando di nulla se ne stavano tranquilli per una tregua reciproca in nome della Settimana Santa, furono scoperti; ci fu un'altra ecatombe di tedeschi; e n'approfittarono gli alessandrini che con gran coraggio, uscirono i veri "leoni" da quelle stesse gallerie, attaccarono il campo dell'imperatore distruggendo e appiccando il fuoco agli accampamenti e alle macchine da guerra, poi rientrarono dalle stesse galleria lasciandosele poi dietro distrutte. Per Barbarossa fu un disastro, un inferno! Per gli Alessandrini invece fu una vera "Pasqua".

Preoccupato dall'avvicinarsi dell'esercito della lega e disperando di impadronirsi di Alessandria (erano intanto passati sei mesi) il Barbarossa giunto a quel punto critico, rinunciò all'impresa e abbandonò il campo e, dopo una marcia di un giorno e mezzo, giunse nei pressi di Voghera, a tre miglia di distanza dai collegati che si trovavano accampati nelle vicinanze di Casteggio.

Pareva che i due eserciti stessero per venire a battaglia quando s'iniziarono improvvisamente trattative di pace, delle quali non si sa bene chi prese l'iniziativa. Ma lo possiamo intuire. Era in quel momento Barbarossa in difficoltà non la Lega, e lui sperava di prendere tempo per ricostituire la sua armata con dei rinforzi provenienti dalla Germania; ed infatti, questi richiesti in Germania arrivarono nella successiva primavera nel '176, ma era un esercito di sbandati, inoltre mancava ENRICO il "leone", su cui Federico faceva molto affidamento; invece l'amico non accolse il suo appello; e -date le condizioni in cui si trovava l'imperatore- fu quasi un tradimento.

I preliminari di pace furono fissati il 18 aprile 1175 a Montebello e quel giorno stesso si stabilì che la contesa tra i comuni e l'imperatore sarebbe stata risolta da sei arbitri, tre scelti da Federico e tre dai collegati. Se questi non fossero riusciti a raggiungere il completo accordo, i punti controversi sarebbero stati rimessi al giudizio dei consoli, cremonesi che avrebbero avuto quindici giorni di tempo per risolverli.
Dopo di ciò il Barbarossa, credendo sicura la pace, licenziò la maggior parte dell'esercito e si ritirò a Pavia; la Lega, dal canto suo, rimandò le milizie alle proprio città. Arbitri della parte imperiale furono l'arcivescovo FILIPPO di Colonia, GUGLIELMO da Pozzasca e un pavese; la Lega scelse ALBERTO da GAMBARA, bresciano, GEZONE, veronese, e il milanese GHERARDO da PASTA.

La Lega pose come condizioni di pace che la città di Alessandria fosse conservata; che l'imperatore si pacificasse con la Chiesa e riconoscesse come pontefice legittimo ALESSANDRO III; che Federico concedesse l'amnistia e restituisse tutte le proprietà e i diritti sottratti ai comuni; ai vescovi e ai signori aderenti alla Lega, confermasse le sentenze consolari e riconoscesse alle città il diritto di eleggere i propri magistrati; di innalzare fortificazioni e costituirsi in leghe.
L'imperatore doveva accontentarsi dei tributi che erano stati fissati dopo la morte di Enrico IV. Inoltre doveva essere mantenuto il diritto consuetudinario delle città e, in caso di dubbio, doveva bastare a provarne la legittimità il giuramento dei consoli, dai quali sarebbe stata amministrata la giustizia.

"Ma poteva - nota il Gregorovius - l'imperatore, dopo tante vittime e tante repressioni, accettare questi patti, cedere a questi capitolati? Poteva rinunciare tutto ad un tratto a quel copioso diritto che gli era stato aggiudicato dalla dieta di Roncaglia?".

Fra le questioni da risolvere ve n'erano due particolarmente difficili: quella che riguardava la città d'Alessandria e quello che si riferiva al riconoscimento di Alessandro III. Riguardo alla prima l'imperatore voleva che la nuova città fosse distrutta, mentre i collegati intendevano che fosse conservata; riguardo alla seconda Federico non voleva che lo scisma fosse composto pur dando libertà ai collegati di riconoscere Alessandro.

Mantenendosi le due parti ferme nei loro rispettivi punti di vista, nonostante il responso dei consoli cremonesi favorevoli al Barbarossa, l'accordo non fu possibile. Tentò allora Federico di staccare il Pontefice dalla Lega, ma i legati del primo, giunti a Pavia per trattare, misero come condizioni irrevocabili la condanna dello scisma e l'umiliazione del Barbarossa dinanzi alla Santa Sede; e il tentativo, ovviamente davanti all'orgoglio dell'ostinato tedesco, non ebbe successo.

Non rimaneva quindi che riprendere le armi ed affidar a quelle la soluzione della gran contesa. BARBAROSSA non poteva fare altro che tentare ugualmente la sua "ultima e disperata carta". Attaccare in quelle condizioni, anche se la situazione per lui in Italia era un po' migliorata: Cristiano di Magonza era riuscito ad espugnare il castello di S. Càssiano; Pisa e Lucca erano tornate alla parte imperiale; ma le forze di cui l'imperatore poteva disporre non erano per nulla aumentate e di certo non poteva prendere lui l'offensiva se prima non gli giungevano dalla Germania le truppe richieste.

Queste -come già accennato sopra- gli giunsero nella primavera del 1176, ma in numero veramente irrisorio e anche scompaginate. Il Barbarossa fondava tutte le sue speranze sui soccorsi di ENRICO il "Leone", ma questi, che avrebbe potuto fornirgli numerose ed efficienti milizie, o che non approvava la guerra d'Italia o perché tormentato dalla scomunica papale, o che volesse vendicarsi dell'imperatore che alla morte di Guelfo di Toscana aveva incamerati i feudi ai quali Enrico credeva di aver diritto, si rifiutò di partecipare all'impresa contro i comuni né si lasciò commuovere dalle disperate preghiere di Federico, il quale in un incontro a Chiavenna invano gli s'inginocchiò davanti scongiurandolo di non lasciarlo solo.

Essendo le Chiuse dell'Adige difese dai Veronesi, i pochi rinforzi, venuti per la via dei Grigioni, erano scesi dalla parte di Como e si erano congiunti ad un migliaio di combattenti forniti da questa città. Circa quattromila uomini in tutto, alla testa dei quali il Barbarossa iniziò a muoversi alla volta di Seprio per congiungersi ai Pavesi, e alle milizie del marchese di Monferrato.

Milano aveva intanto mobilitato le sue milizie e con l'aiuto di Lodi, Novara, Vercelli, Piacenza, Brescia, Verona e Treviso, che avevano mandato dei contingenti di cavalleria, aveva allestito un esercito di dodicimila uomini, inviandolo verso la pianura tra l'Olona e il Ticino.

Seguiva l'esercito il Carroccio milanese, scortato da trecento Giovani appartenenti alle più cospicue famiglie di Milano che avevano giurato piuttosto
di morire che vedere il sacro palladio della patria caduto nelle mani del nemico. Stesso giuramento avevano fatto novecento guerrieri che formavano la "Compagnia della morte".

Era il 29 maggio del 1176. L'esercito lombardo, avendo saputo che gli imperiali: si trovavano a breve distanza, inviò settecento cavalieri a spiare le mosse del nemico. Dopo tre miglia di cammino si trovarono di fronte a trecento cavalieri tedeschi che costituivano l'avanguardia imperiale e la lotta ingaggiata fra i due avamposti fu furiosa Ma ben presto i cavalieri lombardi ebbero addosso tutto l'esercito di Federico e, non potendone sostener l'urto, si ritirarono frettolosamente verso il grosso, incalzati dagli imperiali.

BATTAGLIA DI LEGNANO

La vera battaglia avvenne a Legnano, nella pianura dov'era accampato l'esercito della Lega, il quale, vedendo retrocedere l'avanguardia inseguiti dagli imperiali, si schierò diviso in cinque corpi per sostenere l'impatto delle truppe del Barbarossa. E questo fu così furioso che l'ala destra lombarda, dopo una breve ma accanita resistenza, fu sbaragliata e il Caroccio si trovò improvvisamente circondato da tutte le milizie imperiali. Si stava quasi ripetendo la scena dell'8 agosto del 1160.

Ma se la scena era quasi uguale, uguale e peggiore fu questa volta il finale.

Per un momento parve che la battaglia fosse perduta per la Lega. I trecento, in verità, opponevano alle offese nemiche una barriera d'acciaio e sui loro cadaveri dovevano passare i Tedeschi prima di giungere al Carroccio; ma per quanto eroica la loro resistenza non poteva durare a lungo contro un numero di combattenti dieci volte maggiore, che era già inebriato da quel primo successo e piuttosto irritato dalla tenacia di quel manipolo di valorosi.

Ecco però ad un tratto un poderoso urlo inalzarsi al cielo superando il fragore della battaglia: S. Ambrogio! S. Ambrogio! È la "Compagnia della morte" che, lanciando il grido di guerra, si precipita come valanga addosso agli imperiali in difesa del Carroccio, rincuorando i dubbiosi, richiamando all'attacco i fuggiaschi e facendo raddoppiare gli sforzi alla difesa disperata dei trecento.

Ora le sorti della battaglia cambiarono direzione; i tedeschi, assaliti da ogni parte opposero una formidabile resistenza; ma premuti, decimati dall'impeto dei Lombardi, le loro file si scompaginarono.
Il Barbarossa, che era anche lui in mezzo alla mischia, vide prima strappato al suo alfiere lo stendardo imperiale, poi un colpo di lancia al ventre gli uccise il cavallo e l'imperatore stramazzò a terra tra un groviglio di morti e feriti.

Poi sparì dalla vista. La sconfitta fu totale. Lui in fuga; mentre in mano ai veri "leoni", il suo scudo, la sua lancia, il suo cavallo, il suo vessillo, il suo forziere, i suoi uomini, il suo generale e persino qualche suo parente.

A quella vista gl'imperiali cedono, si scompaginano, si danno a precipitosa fuga, inseguiti per otto miglia dai Lombardi; molti periscono miseramente nelle acque del Ticino; i resti dell'esercito, sfiniti, senz'armi, avviliti, riescono a mettersi in salvo a Pavia, dove, si sparge la voce che l'imperatore è morto, e l'imperatrice pure lei convinta si copre di gramaglie.

La battaglia di Legnano veniva a cancellare l'onta dell'umiliazione e della distruzione di Milano. Fra i moltissimi prigionieri vi erano il duca BERTOLDO di Zaringa, il fratello dell'arcivescovo di Colonia e un nipote di Federico; dei Comaschi caduti nelle mani dei collegati nessuno fu risparmiato avendo tradita la fede giurata. Immenso fu il bottino fra cui la cassa militare e i trofei d'inestimabile valore, la lancia, la croce, lo scudo e il vessillo del Barbarossa. Il "CARROCCIO" simbolo della lega, diventò perfino troppo piccolo per caricarci tutto.
Ma a parte i tesori, BARBAROSSA lasciò su quel campo la sua dignità e la maestà dell'impero

IL CONGRESSO DI VENEZIA

Federico Barbarossa, dopo la fuga, essendo riuscito a nascondersi, dopo alcuni giorni dalla battaglia di Legnano giunse una notte a Pavia. Sebbene sconfitto, pensava di potere riprendere la lotta contro i comuni. L'atteggiamento dei prelati di Germania e dei principi tedeschi, contrari alla ripresa delle ostilità e ostili alla sbagliata politica ecclesiastica dell'imperatore, lo convinsero a rinunciare ai propositi bellicosi da cui era animato e lo consigliarono a seguire una via diversa.
La migliore per lui era quella di staccare il Pontefice dalla Lega Lombarda. Tale distacco avrebbe fatto cessare l'opposizione ecclesiastica della Germania, avrebbe diminuito la forza dei collegati, togliendo loro l'autorità importantissima del Capo della Chiesa, ed avrebbe portato la discordia in seno alla Lega stessa.

"Conoscitore dei principi e della morale della Curia romana - scrive il Bertolini - Barbarossa sapeva quanto fragili erano le fondamenta su cui poggiava l'alleanza di papa Alessandro III con la Lega Lombarda. Il solo interesse che li associava consisteva nell'avere in comune il nemico. Tolto di mezzo questo interesse, fra il papa e la Lega non restavano che antagonismi, i quali li avrebbero allontanati l'uno dall'altra. Questa diagnosi dello stato reale delle cose, persuase Federico a riprendere con il Papa le interrotte trattative, concedendogli ora ciò che aveva sempre negato prima, cioè il riconoscimento della sua legittimità.

Inviò pertanto suoi legati ad Anagni, dove il papa risiedeva, e qui furono gettate le basi di una pace definitiva. Le concessioni fatte dai legati imperiali al Papa dimostrano il fermo proposito del Barbarossa di riconciliarsi con Alessandro. E fu visto allora quale debole legame c'era nell'alleanza del papa con le città lombarde.
Alessandro III era soddisfatto di essere riconosciuto papa legittimo; dei vantaggi conseguiti alla Chiesa; del riacquisto delle regalie possedute dal tempo di Innocenzo II e dei beni della contessa Matilde nella misura in cui li aveva ottenuti dal tempo dell'imperatore Lotario; della rinuncia fatta da Federico al papa d'ogni potere sovrano su Roma, si ritenne appagato che nei preliminari di Anagni si stabilisse di definire la soluzione della contesa dell'imperatore con le città lombarde e con il re di Sicilia a un consiglio di arbitri; ma tutto ciò senza avere interpellato né la Lega, né il re Guglielmo per sapere se accettavano una tale soluzione.

Non fa pertanto meraviglia che la Lega, nel sentire gli accordi conclusi tra ALESSANDRO III e BARBAROSSA, accusasse il primo d'infedeltà e di tradimento. Il Papa non si scompose da quest'accusa, dichiarando che la pace definitiva non era stata ancora conclusa, né si sarebbe conclusa senza la partecipazione della Lega.
Intanto la defezione di Alessandro cominciava a produrre i suoi pessimi effetti in seno alla Lega. Due città, Cremona e Tortona, ne uscirono e fecero una pace separata con l'imperatore, la defezione troverà imitatori in altre città, e si allargherà fino a portare alla Lega un corpo mortale.

La pace tra l'Imperatore e Cremona avvenne il 12 dicembre del 1176.

Alessandro III, assicurato che non avrebbe patito ingiurie o inganni dai Tedeschi, recatosi al Vasto con cinque cardinali, s'imbarcò sopra navi del re di Sicilia e prese il mare con l'arcivescovo di Salerno e col Conte Ruggero d'Andria, deputati da Guglielmo per le trattative, che dovevano farsi a Bologna.

Papa ALESSANDRO III, dopo il trattato di Anagni, voleva far seguire una gran cerimonia per dimostrare al mondo intero che lui piccolo e vecchio prete, disarmato, era riuscito a resistere e a non farsi sottomettere dal potente imperatore tedesco, e che indubbiamente non poteva essere questa vittoria solo opera umana ma un miracolo di Dio.

Imbarcatosi in Meridione, il Pontefice affrontò un faticoso viaggio e uscito indenne da una tempesta presso Zara, il 17 marzo del 1177 giunse a Venezia, accoltovi festosamente dal doge, dai patriarchi di Grado e di Aquileia e dal popolo.
Qui, appena saputo il suo arrivo, l'imperatore gli inviò due prelati, WICHMAN di Brandeburgo e CORRADO di Worms, per pregarlo che mutasse il luogo del convegno. Convocati a Ferrara i rappresentanti della Lega, dopo lungo discutere si stabilì come sede del Congresso non a Bologna ma Venezia, dove il Papa che vi era già, convocò il vescovo UBALDO d'Ostia, MANFREDI di Palestrina, GUGLIELMO di Porto, Giovanni di Santa Anastasia, TEODEVINO di San Vitale e GIACINTO di Santa Maria in Cosmedin suoi legati, con i vescovi GUALLA di Bergamo, ANSELMO di Como, MILONE di Torino, GUGLIELMO d'Asti, GHERARDO di Pesta, GEZANO di Verona e ALBERTO di Gambara e altri delegati della Lega.
Rappresentanti dell'imperatore furono il cancelliere GOFFREDO di Hoffenstein, il protonotaro GERTUSINO e gli arcivescovi di Treviri, Magonza, Magdeburgo e Worms.

Mediatori erano il DOGE per la repubblica di Venezia, il vescovo di CLERMONT per il re di Francia e l'abate di BONNIVAL per il re d'Inghilterra. Apertosi il Congresso per accontentare i risentiti lombardi (per il fatto che il trattato di Anagni era stato concluso senza la loro partecipazione) il Pontefice rivolse a loro un discorso nella chiesa di San Giorgio, affermando che la pace era stata solo prospettata da Barbarossa, ma si era rifiutato di concluderla senza di loro; era per questo che aveva intrapreso questo faticoso viaggio e organizzato la cerimonia a Venezia; tutti dovevano vedere la sottomissione del Barbarossa.

Nella seguita discussione, si vide subito quante difficoltà c'erano per venire ad un accordo. I delegati imperiali volevano che fossero mantenute le deliberazioni della dieta di Roncaglia, dimenticando gli anni e gli avvenimenti che si erano succeduti dopo quella famosa assemblea, i legati lombardi dichiararono che non avrebbero fatto nessuna pace se non fossero state accettate le condizioni esposte nel convegno di Montebello. In mezzo a questi pareri opposti, il Pontefice accettò la pace per sé, rinunciando per quindici anni all'usufrutto dei beni matildini, e propose una tregua di sei anni tra la Lega Lombarda e l'imperatore e di quindici tra questi e il re di Sicilia.
Cercò di opporsi a queste proposte, Federico, il quale anzi fece insorgere contro il doge il popolo di Venezia, che chiedeva di fare entrare in città l'imperatore.

I Lombardi non erano d'accordo di fare entrare a Venezia lo scomunicato Barbarossa e per protesta minacciarono di abbandonare la città. Pure una fazione di veneziani era ostile all'ingresso in laguna dello scomunicato imperatore; ma ci pensarono a far cambiare idea i delegati siciliani. Minacciarono di abbandonare pure loro Venezia e si sarebbero poi pure vendicati (in Sicilia operavano molti veneziani, e il pericolo di una ritorsione con alcune confische era quella che ci si poteva aspettare dai siciliani).

Stava per nascere un'altra guerra. Finalmente si trovò una via d'uscita.

Il 21 luglio del 1176 fu concluso il trattato e due giorni dopo sei galere veneziane andarono a prendere a Chioggia l'imperatore e lo condussero a San Niccolò al Lido
Dopo varie e complesse trattative il giorno prima il 23 LUGLIO, il patriarca di Aquileia si recò incontro all'imperatore al Lido; qui con un collegio di cardinali alla chiesa di San Nicolò, revocarono a Barbarossa la scomunica e fecero abiurare lo scisma papale al clero che lo seguiva. Tutto era stato fatto fuori dei confini, le apparenze salve.

Il 24 LUGLIO in pompa magna scortarono BARBAROSSA in piazza San Marco per il fatidico incontro con i legati siciliani, con i rappresentanti della Lega e con ALESSANDRO III che attendeva con suoi prelati sulla soglia della Basilica il sovrano.

I due avversari che avevano lottato per diciotto anni, ognuno rivendicando la propria giustizia divina, s'incontrarono per la prima volta faccia a faccia.
Il momento fu solenne e commovente per tutti i presenti. L'imperatore, appena sbarcato, si vide venire incontro l'anziana figura del vecchio papa con le braccia aperte accogliendolo come un figlio. Barbarossa non seppe trattenere la grande commozione, ne fu sopraffatto, buttò via il mantello imperiale e s'inginocchiò ai suoi piedi. Alessandro, anche lui in lacrime, lo sollevò da terra e l'abbracciò proprio come un padre.
Insieme poi s'incamminarono per la messa in San Marco e per la benedizione.
Poi gli riconfermò il titolo imperiale e quello reale al figlio Enrico, ma non gli riconobbe la supremazia imperiale su Roma.
Nel lasciarsi, Federico, in atto d'umiltà, gli tenne la staffa e gli prese la briglia; Alessandro lo dispensò di farsi accompagnare fino all'imbarcadero.

Questa scena sembrava confermare il trionfo del papa; e invece il vero trionfatore era l'astuto Barbarossa, che era riuscito a pacificarsi con la Santa Sede, aveva raccolto intorno a sé nell'Italia settentrionale un buon numero di città e signori con cui sarebbe stato in grado di fronteggiare la Lega e, infine, non la pace, rinunziando al suo programma politico, aveva concluso con i collegati e il re di Sicilia, ma una tregua; tregua per lui vantaggiosa perché gli concedeva tempo sufficiente per rifarsi dei danni patiti, e riprendere se avesse voluto, in migliori condizioni, l'offensiva per l'attuazione del suo programma.
Stava già pensando ai nuovi orientamenti politici dei suoi rapporti con l'Italia meridionale, e stava preparando il terreno per i suoi obiettivi futuri.

 

FEDERICO BARBAROSSA, lasciò Venezia il 18 settembre del 1177 non per far ritorno in Germania ma diretto verso l'Italia centrale.
Mentre ALESSANDRO III lasciava Venezia un mese dopo il 16 ottobre diretto prima ad Anagni poi a Roma, mentre a Viterbo l'antipapa CALLISTO rifiutava di deporre la tiara.

Sono le vicende del prossimo capitolo
fino alla morte di Alessandro e di Barbarossa

periodo dall'anno 1177 al 1190

DALLA TREGUA DI VENEZIA ALLA PACE DI COSTANZA

Come abbiamo letto -nel precedente capitolo- dopo la scena lacrimevole fatta a Venezia davanti al Papa, FEDERICO BARBAROSSA, lasciò la città lagunare il 18 settembre del 1177 non per far ritorno in Germania ma diretto verso l'Italia centrale.

ALESSANDRO III lasciava invece Venezia un mese dopo, il 16 ottobre, diretto ad Anagni, dove ricevette accoglienze entusiastiche. Fu comunque un entusiasmo poco durevole e non veniva fra l'altro da Roma. Qui, tutti i vecchi conflitti erano ancora vivi, e i contrasti tra le pretese temporali del papa e quelle del partito della libertà municipale tornarono ben presto a farsi sentire. Questo mentre a Viterbo l'antipapa CALLISTO, filo-imperiale rifiutava di deporre la tiara; ed era una contraddizione, fra Impero e Papato, poiché Federico a Venezia aveva riconosciuto anche se solo "manifestamente" Innocenzo III.

BARBAROSSA, lasciata Venezia, dove aveva fatto "teatro", stava, infatti, già pensando ai nuovi orientamenti politici dei suoi rapporti con il Papato, con l'Italia meridionale, e preparando il terreno per i suoi obiettivi futuri. Sapeva inoltre che a Roma poteva ancora contare su molti suoi sostenitori; ed anche nelle città della Lega, non è che all'improvviso queste erano diventate Guelfe, vale a dire, del partito sostenitore del papato che era da sempre contro la politica imperiale.

Quando giunse ad Anagni, Alessandro III, aspettò che CRISTIANO di Magonza con un contingente di milizie, come l'imperatore aveva stabilito, lo conducesse a Roma; ma si opponevano al ritorno di Alessandro III il Senato e il popolo romano, i quali non volevano rassegnarsi ad abbandonare le franchigie che da quasi quarant'anni godevano. Ed era solo per questo che parteggiavano per l'Antipapa.

Di fronte a queste difficoltà l'arcivescovo di Magonza chiese istruzioni al Barbarossa che si trovava allora ad Assisi. Questi intimò all'antipapa di sottomettersi, pena il bando, e spedì a Cristiano un altro più nutrito corpo di milizie. Sotto la minaccia di un assedio il Senato si accordò con il Pontefice, prestandogli il giuramento feudale e restituendogli S. Pietro e tutte le regalie. Così Alessandro III poté il 12 marzo del 1178 entrare in Roma fra le acclamazioni del popolo festante.

Sentendosi poco sicuro a Viterbo, l'antipapa si ritirò a Montalbano e i viterbesi, vinta la resistenza di alcuni nobili, pure loro si sottomisero ad Alessandro III. Trovandosi questi il 29 agosto a Tusculo, giunse a fargli atto di sottomissione con alcuni prelati CALLISTO, e il Pontefice non solo gli concesse il perdono, ma lo trattenne per qualche tempo presso di sé colmandolo di onori, poi lo mandò a governare Benevento.

"Ora Alessandro III, poté rivolgere l'intera sua opera ad ordinare la convocazione del concilio ecumenico promesso nell'incontro di Venezia. Il 5 marzo 1179 il concilio si radunò nella basilica lateranense. V'intervennero circa 300 vescovi, la maggior parte italiani. Dopo avere eliminati gli ultimi residui dello scisma regolando lo stato delle sedi vescovili, nella sessione del 19 marzo, che fu la terza ed ultima, riformò la costituzione elettorale dei papi, stabilendo che in caso di scisma, si dovesse ritenere per papa legittimo quello che aveva riportato i suffragi di due terzi del sacro collegio.

Era precisamente il caso suo, di Alessandro III, al quale con questo decreto si dava una convalidazione retroattiva.
Uno dei decreti del concilio lateranense bandiva una crociata ma non solo contro gli infedeli, i quali con Saladino a guidarli, stavano distruggendo in Terrasanta l'opera della prima crociata; ma anche una contro gli eretici d'Occidente, che avevano fissato la loro principale sede nella Francia meridionale: e con i nomi di Catari (puri) Valdesi (dal riformatore lionese Pietro Valdo), Albigesi (della città di Albì (Alba), VEDI centro della setta) ecc., facevano guerra al papato, predicando la povertà cristiana, dalla Chiesa profanata con le sue pompe.

E fu da questo decreto conciliare che ebbero inizio le guerre feroci combattute in nome del papato contro gli eretici, conosciute sotto il nome di guerre degli Albigesi; le quali -secondo le accuse- "causavano la separazione del cattolicesimo dalla religione del Vangelo" (Bertolini)".

ALESSANDRO III visse ancora poco più di due anni, e non furono, questi, anni di pace. Risorse, infatti -dopo la sottomissione di Callisto- anche se per poco, lo scisma con l'elezione di un antipapa ch'ebbe il nome di INNOCENZO III, che, durò per qualche mese, perché preso con i suoi complici, fu fatto prigioniero poi confinato all'abbazia di Cava.


Altre turbolenze che avrebbero potuto produrre serie conseguenze avvennero nel regno italico in questo periodo: moti contro 1'imperatore ci furono in Romagna; una flotta bizantina comparve nelle acque di Ancona; infine una congiura fu ordita dal marchese Corrado del Monferrato con Emmanuele Comneno che portarono nelle prigioni bizantine Cristiano di Magonza.

Effetto di tali turbolenze poteva essere la rottura del trattato di Venezia e la ripresa della guerra tra il Barbarossa e i comuni, ma a scongiurare in Alta Italia un nuovo conflitto, fu solo l'assenza di Federico, impegnato in Germania, come diremo più avanti, contro ENRICO il "Leone"; e fu anche scongiurata dalla morte dell' imperatore bizantino avvenuta il 24 settembre del 1180 e il rilascio dell'arcivescovo di Magonza dietro il pagamento di dodicimila pezzi d'oro.

Alessandro III morì il 30 agosto del 1181 a Civita Castellana, quando negli ultimi mesi i rapporti con i Romani si erano ormai già guastati; e per questo il suo cadavere fu dal popolo insultato mentre era condotto in Laterano.

Ventidue anni era durato il suo pontificato e di questi, diciotto, li aveva passati in mezzo allo scisma e più di dieci in esilio. Di lui che fu certamente un gran Papa, la storia ricorda la tenacia nella lunga lotta contro l'imperatore, dalla tempra fortissima, e dal vigoroso temperamento che non si lasciò abbattere dalle durissime vicende del suo pontificato e conobbe la gloria di aver visto il Barbarossa prostrato ai suoi piedi; ma la storia deve anche ricordare che non pochi dei successi di questo Papa furono dovute alle circostanze più che all'opera sua personale e deve togliergli quella che fu creduta e poteva essere la sua vera gloria; perché un Pontefice amico delle libertà comunali egli non fu di certo, né del resto, un Papa di quei tempi poteva essere.

Il suo pontificato comunque resta senza dubbio uno dei più importanti nella storia della Chiesa: per ventidue anni l'aveva guidata in mezzo a difficoltà di ogni genere, con eccezionale prudenza e grande fermezza. I nemici erano stati molti, ma fra tutti -e in aperto conflitto- quell'impero guidato da uno dei più grandi personaggi che abbiano mai portato la corona imperiale.
Due grandi personaggi contemporaneamente sulla scena, che rappresentavano ideali contrapposti che difficilmente avrebbero potuto conciliarsi.
In questa lotta, entrambi dotati di una grande energia, animata da una fede profonda negli ideali per i quali erano scesi in campo.

Nelle vicende del periodo che abbiamo narrato nei tre precedenti capitoli, cioè nelle tremende e drammatiche lotte contro l'imperatore, con la Lega alleata al papato, non ci è di certo sfuggito che c'era una profonda contraddizione. La Lega a Pontida non aveva respinto la dominazione imperiale, aveva giurato solo di opporsi con le armi alle vessazioni dei ministri imperiali, e che si sarebbe sempre "mantenuta fedele all'imperatore" anche se, aggiunsero, che "non gli avrebbero prestata obbedienza fino a che non avessero ottenuta la restaurazione dei loro (antecedenti imperiali) diritti". Erano insomma filo-imperiali, cioè "Ghibellini", non "Guelfi"; anche se questi due termini solo dopo assunsero il significato di sostenitore (il primo) della politica imperiale contro quella del papato.

Dunque, alleandosi con i comuni lombardi ALESSANDRO III non pensò di giovare alla causa della libertà dei Lombardi, ma all'interesse esclusivo del Papato e soltanto da questo interesse fu ancora mosso, quando ad Anagni, tradendo la causa dei comuni, si accordò con Federico senza nemmeno convocare e interpellare i rappresentanti delle città unite nella Lega che a Legnano avevano sconfitto duramente Barbarossa, pagando con molto sangue e rovine.

La storia deve ricordare che, se Alessandro sofferse impavido l'esilio, se riuscì a liberare la chiesa dallo scisma, se ottenne che il Barbarossa gli baciasse i piedi ed umilmente gli tenesse la staffa, si deve anche non dimenticare che coronò la sua politica abile ma tortuosa accettando per ritornare a Roma (paradossalmente) l'ausilio delle armi imperiali e per mezzo di queste a Roma riuscì ad uccidere la risorta repubblica.

Morto lui, i cardinali, raccolti a Velletri, il 6 settembre 1181 elessero ed ordinarono Pontefice UBALDO ALLUCINGOLI di Lucca, che prese il nome di LUCIO III. Questi, venuto a discordia con i Romani, dopo tre mesi dalla sua elezione andò a stabilirsi a Velletri. Una delle tante cause della discordia tra il Papa e i Romani era la città di Tusculo, che Roma repubblicana voleva punire e distruggere, mentre la Santa Sede la proteggeva.

Il 28 giugno del 1183 numerose schiere romane (filo-repubblicane) mossero contro l'odiata città; ma, essendo stato chiamato da Lucio per la difesa di Tuscolo l'arcivescovo di Magonza che era rimasto in Italia, gli assalitori si ritirarono inseguiti da Cristiano.
Questa fu l'ultima vicenda guerresca del bellicoso arcivescovo che gli costò anche cara. Contratta una febbre perniciosa sotto le mura di Roma, si ritirò a Tuscolo ma qui cessò di vivere pochi giorni dopo, il 25 agosto del 1183.

Due mesi prima della morte dell'arcivescovo di Magonza la tregua di Venezia tra i comuni lombardi e il Barbarossa era divenuta (sembrava) pace definitiva con quella negoziata a Piacenza poi a Costanza.

"Non si conoscono bene i particolari delle trattative per giungere alla pace definitiva, prima che spirasse la tregua, ma sembra che sin da principio si era d'accordo sulle questioni di massima e si studiava l'intesa intorno a cose di minore importanza; nell'iniziare il negoziato si era partiti da quelle basi già stipulate a Montebello e dall'arbitrato dei Cremonesi del 1174, ove già era riconosciuta dall'imperatore la costituzione consolare e la libertà dei Comuni lombardi che vi era appoggiata.

Rimanevano tuttavia serie differenze da conciliare. I Lombardi volevano concedere all'autorità sovrana del monarca germanico soltanto un carattere puramente formale, nel senso che una sola volta, sotto ogni nuovo sovrano, i loro consoli avrebbero dovuto sollecitare il conferimento dei diritti sovrani da loro esercitati in nome dell'impero; e quei diritti dovevano esser concessi non solo per il circondario della città, ma per tutta l'estensione della rispettiva diocesi. Inoltre pretendevano la cassazione di ogni decreto emanato in passato a danno dell'uno o dell'altro dei Comuni; e finalmente insistevano, come già a Montebello, affinché ad Alessandria, fosse accordato lo stesso trattamento di ogni altra città della Lega, né le venisse inflitto alcun castigo speciale (lo si temeva questo, puramente personale) voluto dall'imperatore irritato per quella famosa -per lui umiliante- sconfitta.

Si discusse, intorno a tale questione, con i plenipotenziari della Lega, a Norimberga, nel gennaio-febbraio del 1183. Presentava difficoltà serie e speciali il caso di Alessandria, poiché nessuna delle parti credeva di poter cedere in un punto senza offendere il proprio onore.

" Il nome e l'esistenza di quella città, per l'imperatore era un'offesa, una sfida continua, mentre per i Lombardi era il monumento della gloriosa guerra d'indipendenza. Più che una questione politica era una ragione sentimentale personale; ad uno bruciava quello scotto, ma l'altro ne menava vanto".

"Finalmente si trovò un mezzo di accontentare tutti. Con il consenso dei suoi alleati, Alessandria il 14 marzo del 1183 concluse con l'imperatore un contratto speciale: la città fece a Federico atto di sottomissione incondizionata, fu graziata ma doveva portare il nome di Cesarea ed ebbe come dono i diritti e la libertà che dovevano esser concessi a tutte le altre città. In tal modo fu data soddisfazione all'onore dell'imperatore senza che i Lombardi dovessero sacrificare la fortezza alleata e simbolo del loro orgoglio; il cambiamento del suo nome però conteneva una critica posticipata, ma perciò non meno chiara e severa, della politica papale all'epoca della pace di Venezia. Superato quell'ostacolo, riuscì facile l'accordo su tutti gli altri punti, giacché l'una e l'altra parte restrinsero alcune pretese.
Non una volta nel corso di ciascun regno, ma ogni cinque anni i consoli dovevano sollecitare l'investitura dall'imperatore o da chi ne faceva le veci, e quest'atto doveva avvenire in Italia stessa. D'altra parte dovevano essere annullati i provvedimenti presi per castigare l'una o l'altra città solo perché aveva fatto parte della Lega Lombarda. (Prutz)".

Raggiunto l'accordo nei punti principali, nei mesi di Marzo-Aprile 1183, i rettori della Lega, convenuti per i negoziati a Piacenza nella chiesa di Santa Brigida, dove il trattato fu definitivamente redatto, giurarono di osservarlo, poi i plenipotenziari si trasferirono a Costanza per la ratificazione.

Il trattato, che nella storia prese il nome di PACE DI COSTANZA, si compone di trentatré articoli, più un prologo ed un epilogo. Con questo, Federico e il figlio Enrico, concedevano alle città, ai luoghi e alle persone della Lega le regalie e le consuetudini godute "ab antiquo" entro le mura e nel contado; il fodro (accoglienza del re e del suo seguito), i boschi, i pascoli, i ponti, le acque, i molini, l'esercito, le munizioni, la giurisdizione civile e criminale. Se in un comune sorgevano dubbi intorno ai limiti e all'estensione di questi diritti, il vescovo del luogo e alcuni uomini incorrotti e imparziali dovevano esaminare e giudicare la questione; se poi il comune credeva di non proseguire nelle indagini allora esso doveva pagare all'erario imperiale l'annuo tributo di duemila marche d'argento, che poteva esser diminuito a beneplacito del sovrano.

Erano confermate e mantenute le concessioni fatte dall'imperatore o dai suoi antecessori prima della guerra, ai vescovi, alle chiese, alle città e a qualsiasi altra persona; erano invece annullati tutti i privilegi e le concessioni fatte, durante la guerra, a danno dei comuni e degli uomini appartenenti alla Lega. In quelle città in cui il vescovo rivestiva la carica di conte i consoli avrebbero continuato a ricever da lui l'investitura se tale era il costume, nelle altre dovevano riceverla dall'imperatore per mezzo del suo nunzio.

L'investitura doveva essere rinnovata gratuitamente ogni cinque anni. Nelle cause civili che eccedevano la somma di 25 lire imperiali si poteva ricorrere all'appello sovrano, senz'obbligo di andare in Germania perché nelle città un apposito commissario imperiale le avrebbe ricevute e giudicate nello spazio di due mesi secondo le leggi e le costumanze del luogo. I consoli dovevano prestare il giuramento di fedeltà all'imperatore, e i vassalli da lui ricevevano l'investitura secondo le debite forme; quelli che non l'avessero chiesta nel tempo della guerra e della tregua non avrebbero perso il feudo.


L'imperatore perdonava i danni e le ingiurie ricevute dalla Lega e dai suoi membri; concedeva alle città di fortificarsi, di mantenere le alleanze e di contrarne delle nuove; annullava i trattati stipulati per timore, restituiva i beni sottratti ai membri della Lega, perdonava ad Obizzo Malaspina e prometteva che non gli sarebbe in futuro recata alcuna molestia.

I membri della Lega, nel giuramento di fedeltà, da rinnovarsi ogni dieci anni, dovevano aggiungere di mantenere i diritti e i possessi imperiali in Lombardia e di aiutarlo a ricuperare quelli che aveva perduti; inoltre si obbligavano, quando l'imperatore passava per le terre lombarde, recandosi a Roma, di fornir viveri a lui e al suo seguito (il fodio) e di mantenere in efficienza i ponti e le vie, e si impegnavano infine di perdonare le offese agli alleati imperiali e di restituire loro senza compenso le proprietà sottratte.
L'imperatore dichiarava formalmente di far pace con le città di Vercelli, Novara, Milano, Lodi, Bergamo, Brescia, Mantova, Verona Vicenza, Padova, Treviso, Bologna, Faenza, Modena, Reggio, Parma e Piacenza; ma la negava ad Imola, a Rocca San Casciano, a Bobbio, a Pieve di Gravedona, a Feltre, a Belluno e a Ceneda. A Ferrara concedeva due mesi di tempo per accedere al trattato ("Ferrariae autem gratiam nostram reddimus et praescriptam concessionem facimus seu permissionem, si infra duos menses post reditum Lombardorum a Curia nostra de pace praescripta cum eis concordes fuerint").

La pace di Costanza ebbe la ratifica il 25 giugno del 1183. La giurarono e ne sottoscrissero il trattato il gran ciambellano RODOLFO, quindici principi dell'impero e i comuni di Pavia, Cremona, Como, Tortona, Asti, Alba, Genova e Alessandria alleati dell'imperatore; in nome della Lega giurarono e sottoscrissero sessantrè deputati, indi uno di ciascuna città ricevette l'investitura del consolato.

In questo modo, a Costanza, furono decisamente ridimensionate le pretese imperiali sostenute da Barbarossa a Roncaglia.

"Il trattato di Costanza, - scrive l'Emiliani-Giudici - che per tanto tempo poi formò il codice del diritto pubblico italiano, e venne da giureconsulti annesso alla raccolta delle leggi romane; annientava l'editto di Roncaglia. Venti anni di guerre e la rotta di Legnano avevano persuaso Federico Barbarossa che quel dottore bolognese mentì allorquando gli diceva, lusingandolo: "l'imperatore tedesco essere il signore del mondo".

I Lombardi conseguirono tutto ciò che avevano lungamente e invano domandato; Federico non poté mantenere nulla del "molto" che aveva voluto imporre, e se, come un suo confratello diceva dei propri casi, trecento quarantaquattro anni dopo, poté salvare il solo onore, ne renda grazie allo spirito dei tempi, nei quali le costumanze feudali, che avevano rafforzata la società nuova in modo diverso dalla vecchia, non comportavano un sistema di un vero governo popolare; ne renda grazie soprattutto all'idea immortale dell'"imperio romano", la quale, come aveva salvate le reliquie della civiltà in mezzo alla continue devastazioni barbariche, era uno stimolo al risorgere dell'Italia e insieme era un impedimento al ricostituirsi a vera nazione".

"Per questi due motivi sorge il dubbio che gli Italiani con religione, leggi, istituzioni, lingua e costumi così tanto diversi dagli antichi, non avrebbero mai potuto concepire una forma di governo senza la suprema potestà imperiale, o almeno avessero avuto un concetto più giusto della riverenza dovuta a quella; con la memorabile vittoria di Legnano si sarebbero potuti per sempre emanciparsi dal dominio straniero.

La credevano usurpazione, ma poi dopo Legano, si piegarono ancora sperando che "il santo uccello - come il divino poeta chiama l'aquila romana- andrebbe in fine a posarsi nell'antico nido", vale a dire che l'impero, fino allora rimasto in Alemagna e "barbaro", sarebbe ritornato in Italia e per essere nuovamente "civile".

Però non poteva essere nel loro il pensiero di rendere perpetua quella lega che era una temporanea alleanza, di farne, cioè, il nucleo della nazione futura invitando i perplessi e forzando i renitenti ad aggregarsi, onde poi spazzare da tutta la penisola gli usurpatori stranieri, e purgare la vetusta metropoli del mondo della strana pestilenza destinata dall'ira di Dio a rendere lunga e forse perpetua la servitù nostra.

"Aggiungasi che il concetto di una costituzione federativa - come saggiamente ragionano alcuni liberi scrittori è una delle idee più astratte che siano nella scienza politica, e quindi difficile e quasi moralmente impossibile far germogliare e svilupparsi nei cervelli di popoli uscenti da una lunga notte di barbarie.
"Una vera democrazia richiede che vengano mantenute intatte le libertà proprie di ciascuna città o provincia, e nel medesimo tempo ciascuna e tutte ne devono rinunciare una parte quanta è necessaria a costituire il potere fondamentale dello stato che le armonizzi tutte e impedisca le usurpazioni di una a detrimento dell'altra, e conservi vivo ed inviolato il legame politico che le congiunge.

"Gli italiani dunque non combattevano per l'indipendenza - e non c'è uno scrittore di questo periodo che ne riporti la minima traccia - volevano intere, intangibili, efficaci, quelle libertà ch'essi godevano di fatto, e con la pace di Costanza le ottennero di diritto.

"Le quali libertà, distaccate da ogni impedimento straniero, crescendo con lo straordinario progresso, fecero di ogni comune un centro di civiltà propria, e gli dettero tale sentimento d'autonomia che - tornati vani gli sforzi che poi fece Federico II ad unificare tutta l'Italia attuando l'idea nazionale della potestà imperiale ricondotta all'antica sua sede - le sorti dei popoli italici presero un cammino particolare, che né quattro secoli di governo municipale né tre altri di servaggio straniero hanno potuto arrestare"
.
"Il trattato di Costanza - citiamo ancora una volta il Bettolini -assimilava "di diritto e di fatto i Comuni ai grandi vassalli della corona. Questo era appunto il fine che le città si erano proposte di conseguire collegandosi fra loro. Tutti i compromessi, i giuramenti delle città confederate, desiderano una sola cosa: il riconoscimento dello "status quo ante bellum".
Federico si era rifiutato non solamente di attribuire alle città il potere e la giurisdizione dei grandi vassalli della corona, ma anche di riconoscere il loro carattere di Comuni; Federico avrebbe voluto farne una specie di municipi romani. Da ciò la lotta che terminò con il trionfo delle città. Ma non tutte le classi della cittadinanza vi parteciparono: rimase esclusa la classe degli artigiani, la quale per lo sviluppo dei commerci e dei traffici, stava allora sorgendo a nuova potenza, e non riusciva a rassegnarsi all'avvilimento imposto dagli ordini privilegiati. Ond'essa, facendo suo pro delle discordie nate in seno a quelli, dalla dipendenza verso di loro si affrancò.

Alla fine del secolo XII, l'emancipazione degli artigiani era già un fatto compiuto. È facile comprendere come i fatti stessi che avevano dato origine ai Comuni, conseguissero ora agli artigiani il loro affrancamento. Posti essi sotto il patronato dei signori feudali, quando costoro furono spogliati dei loro privilegi e proscritti, gli artigiani, che erano a loro servizio, affrancandosi, vuoi per usurpazione favorita dalle circostanze, vuoi per concessione volontaria degli stessi patroni.


Conseguita la civile indipendenza, era naturale che chiedessero di far parte della pubblica amministrazione. E perché la domanda fosse più sicuramente accolta, essi la avvalorarono collegandosi fra loro. E' così che riuscirono a nascere le corporazioni dei mestieri, le quali ebbero tanta parte sui futuri destini d'Italia. L'avere combattuto contro il Barbarossa in difesa della città; il contribuire con il lavoro alla grandezza e alla prosperità della stessa, erano titoli che gli artigiani accampavano a suffragio della loro domanda di essere messi a far parte dell'amministrazione pubblica.

Sventuratamente questi titoli, per quanto tanto legittimi, non ottennero la dovuta considerazione dagli ordini privilegiati; di conseguenza gli artigiani si trovarono obbligati a ricorrere alla forza per farli valere. Le discordie esistenti in seno agli ordini dominanti agevolarono la via per rendere esaudite le accampate pretese e oltrepassarne perfino la leale misura.

"Anche dell'emancipazione politica degli artigiani, Milano fu la prima a dare l'esempio. Qui, l'anno 1198 erano nate aspre contese fra nobili e cittadini. Benchè politicamente uniti in un solo consorzio, gli ordini dominanti non avevano rinunciato alle loro tradizioni, né mutati i loro costumi. I nobili avevano conservato la loro superbia gentilizia, e i borghesi il loro orgoglio pecuniario: in conseguenza di ciò, in seno alla grande associazione che aveva creato il Comune, erano sorte associazioni speciali dei diversi ordini le quali dopo la pace di Costanza, presero un carattere sempre più spiccato. Fra le nuove associazioni acquistò presto grande importanza quella dei mercanti, i cui capi detti "consules mercatorum sive negotiatorum", presero parte frequentemente agli affari dello Stato.

Approfittando dunque gli artigiani milanesi di queste divisioni nate in seno ai dominanti, e seguendo il loro esempio loro, l'anno 1198 si costituirono in una grande associazione, che chiamarono "Credenza di Sant'Ambrogio", in antitesi alla "Credenza dei Consoli". Nel tempo stesso, i nobili minori (gli antichi valvassori e valvassini) stanchi di vivere sotto la dipendenza dei Capitani, seguirono l'esempio degli artigiani formarono pure loro una società propria a cui posero il nome di "Motta", in ricordo della vittoria riportata dai loro antenati nel 1036 sui vassalli maggiori".

Così Milano ebbe tre Consigli, uno di 400, l'altro di 300, il terzo di 100 membri. E siccome la sovranità risiedeva nella riunione di tutti e tre i Consigli, reciprocamente gelosi e rivali, è facile pensare a quali concitazioni fosse esposto il Comune, soprattutto nell'epoca delle elezioni dei magistrati.
E dato che senza questi il consorzio civile si sarebbe avviato verso la dissoluzione, per parare questo supremo pericolo, si ricorse ad un espediente, suggerito da una istituzione dell'antica repubblica di Roma. La quale, nei casi, in cui, o per le interne discordie o per i pericoli esterni la cosa pubblica fosse stata minacciata da rovina, per salvarla, aveva fatto ricorso alla creazione di un dittatore.

"Milano seguì l'esempio dell'antica Roma affidando nei momenti di pericolo della patria ad un dittatore la somma delle cose. Il nuovo magistrato assoluto, che doveva durare in ufficio non più di un anno, ed essere non locale di nascita, fu chiamato "Podestà". Onde questo nome, che prima era stato sinonimo d'oppressione e straniera servitù, andò ora a significare un fattore di pace e di concordia fra i cittadini".

"La prima volta in cui la magistratura podestarile comparve a Milano nella nuova condizione, fu nel 1186, Quell'anno, i consigli milanesi si accordarono di affidare ad UBERTO VISCONTI, piacentino, il potere assoluto, affinché lo usasse nel senso di calmare le fazioni, e rendere possibile nel successivo anno l'elezione dei magistrati consolari. Ma già prima di allora, la magistratura podestarile, rivestita di piena "balìa" (magistratura straordinaria con amplissimi poteri) era comparsa altrove; e il suo rapido diffondersi nelle città italiane dimostra la omogeneità delle condizioni politico-sociali in cui queste, dopo il trattato di Costanza, vennero a trovarsi".

In alcune città la "balìa" gettò subito così profonde radici, da diventare una magistratura permanente, anziché transitoria. Così avvenne, ad esempio, a Firenze. Questa città, sorta a Comune subito dopo la distruzione di Fiesole (1125), nel volgere di pochi decenni, diede alle istituzioni democratiche un forte sviluppo, e usandole, fu tale l'accrescimento da essere capace di risorgere sugli elementi dispotici, al punto da poter dare rifugio a Firenze al palio delle libertà italiane, quando queste dappertutto andavano in rovina.

Infatti, già, al chiudersi del secolo XII, oltre ai consoli della città, ed ai rappresentanti delle più cospicue corporazioni (arti maggiori), quali erano i mercanti, banchieri, giudici, notari e trafficanti di panni, anche i capi o priori delle "arti minori" erano chiamati a discutere i più alti interessi della città. Sembrerà contraddire a tutto questo il fatto accennato prima della stabilità conseguita a Firenze della magistratura podestarile. Infatti, già nel 1207 la troviamo nella città sull'Arno, diventata stabile. Le discordie civili condussero a questo; ma mentre altrove portarono a rovina il popolo, a Firenze, come già nell'antica Roma, servirono invece al popolo come educazione civile e come scuola di libertà.


DALLA PACE DI COSTANZA ALLA MORTE DEL BARBAROSSA

Dopo la pace di Costanza Federico Barbarossa sembrò essere diventato un altro uomo; l'impetuoso guerriero si era mutato in abile politico; l'orgoglioso imperatore aveva preso le vesti di pacifico sovrano, che cercava di conquistare l'animo dei suoi sudditi con la generosità anziché con le armi.
Nel giorno delle Pentecoste del 1184, iniziarono a Costanza (dove era stata conclusa la pace) grandi festeggiamenti che durarono molte settimane; furono così grandi che entrarono nelle leggenda tedesca, ricordate nelle ballate dei Minnhesanger popolari.

Della sua nuova intelligente politica Federico diede prova quando, nel settembre del 1184, comparve per la sesta volta in Italia; ma questa volta come amico, senza esercito, e fu accolto dai Lombardi con un caldo benvenuto.

Fu largo infatti di privilegi appena giunto nella marca veronese, e con la stessa Milano, la sua implacabile nemica di una volta, si mostrò generoso, concedendole di riedificare Crema, cedendole per un piccolo compenso di trecento marchi annui tutte le regalie che lui aveva in quella diocesi e stipulò con la metropoli lombarda un'alleanza offensiva e difensiva.

Ma se Barbarossa aveva cambiato politica non aveva però rinunciato ai suoi sogni di grandezza. Federico pensava sempre al regno di Sicilia. La sua conquista lo avrebbe reso padrone dell'Italia intera e di una parte non indifferente delle coste settentrionali dell'Africa ed avrebbe potuto essere il primo passo verso una conquista più grande.
Un vasto impero formato dalla Germania, dalla Borgogna, dall'Italia, dai domini bizantini, dalle isole mediterranee, dal regno latino di Terrasanta; insomma qualcosa come la ricostruzione dell'antico impero romano: ecco il sogno meraviglioso del Barbarossa.

Ma la conquista del regno siciliano non era una facile impresa. Se sotto Guglielmo I il tedesco poteva essere aiutato dalle ribellioni dei baroni e dalle interne discordie, ora invece si trovava di fronte ad un sovrano attivo, intelligente, che con il suo governo illuminato aveva saputo accattivarsi la stima dei sudditi lo avevano soprannominato "il Buono"; capace di smorzare le rivalità, accrescere la potenza del reame. Inoltre Guglielmo II godeva l'amicizia dei comuni lombardi di cui era stato alleato e quella del Papato che nella lotta contro gl'imperatori germanici aveva avuto nei sovrani normanni un validissimo aiuto.

La tregua stipulata a Venezia tra l'impero il Papato e il Regno di Sicilia era tuttora valido.
Non era quindi il caso di pensare ad una spedizione, che avrebbe riacceso sicuramente la guerra in tutta la penisola. Però quel che le armi non avrebbero potuto fargli ottenere poteva esser conseguito pacificamente e la sorte favoriva meravigliosamente l'ambizione del Barbarossa.
Così invece di usare la forza iniziò ad usare i sentimenti.

Guglielmo, sposato a Giovanna, figlia del re d' Inghilterra, era senza figli e poiché il conte Tancredi di Lecce, quale figlio naturale del primogenito di Ruggero I, non aveva diritto alla successione, erede presuntiva al trono siciliano era Costanza, figlia postuma di Ruggero II.

Federico chiese in sposa COSTANZA (30enne) per il proprio figlio ed erede Enrico VI (18enne) e nonostante l'opposizione dei baroni siciliani, avversi a quel matrimonio che avrebbe data la corona di Sicilia a un tedesco, dopo aver guadagnato alla sua causa il potente GUALTIERI arcivescovo di Palermo, l'imperatore riuscì a ottenere questo fidanzamento, combinato poi il 29 ottobre 1184 ad Augusta.

Il Barbarossa si trovava allora in Italia. Altro scopo principale di questa sua nuova "passeggiata amichevole" nella penisola era quello di risolvere con il Pontefice alcune importanti questioni.

L'imperatore e il papa s' incontrarono a Verona nei primi di novembre del 1184. Sebbene LUCIO III si rifiutasse di concedere ad alcuni vescovi scismatici la grazia chiestagli dal sovrano e si mostrasse intransigente circa la questione dei beni matildini, l'imperatore si mostrò arrendevole con il papa confermando il bando contro gli eretici Catari ed aderendo alla proposta di una nuova crociata in Terrasanta. Sperava il Barbarossa, in cambio delle sue cortesie, che Lucio III non si sarebbe opposto al suo disegno di far concedere la corona imperiale al figlio Enrico. Però le sue speranze andarono deluse, il Pontefice dichiarò che prima di compiere un passo del genere avrebbe convocato un concilio a Lione; ma aggiunse pure che "l'esistenza contemporanea di due imperatori era incompatibile con la vera natura dell'Impero".

"Il Pontefice - come scrive il Prutz - temeva che conferendo, mentre ancora viveva Federico, il diadema imperiale ad Enrico VI, sul capo del quale si dovevano poi trovare riunite le corone di Germania, Borgogna e Sicilia, si sarebbe prestato a contribuire, a pro della famiglia Hohenstaufen, alla costituzione di un impero mondiale ed ereditario, al quale in ultimo avrebbe dovuta in silenzio sottomettersi pure la Chiesa romana".

Al rifiuto del Pontefice, il Barbarossa si allontanò da Verona, e nonostante irritato e sdegnato, non ruppe i rapporti con la Curia sperando che il papa, infine, avrebbe mutato contegno; ma questa speranza cadde quando, nella stessa Verona il 25 novembre del 1185 LUCIO moriva.

Salì il giorno stesso al trono pontificale l'arcivescovo di Milano UBERTO CRIVELLI, noto avversario di Federico, che prese il nome di URBANO III. Un uomo inflessibile ed energico, che non aveva nessuna simpatia per l'imperatore e non era certo l'uomo disposto a fargli delle concessioni.
Una politica che fece ben presto riaprire la disputa tra la chiesa e l'impero, che tornarono entrambe sulle strade delle controversie che erano sembrate a Venezia finite.

A quel punto il Barbarossa capì che la sua politica conciliatrice non avrebbe vinta l'opposizione dell'intransigenza della Curia romana e fece seguire il matrimonio del figlio con la principessa normanna. Narra una tradizione popolare, seguita da Dante, che Guglielmo I il "Malo", prestando fede ad una profezia secondo la quale Costanza avrebbe causato la rovina del reame siciliano, avesse fatto chiudere la principessa nel monastero del Salvatore e che era quasi cinquantenne quando Guglielmo il Buono la fece uscire dal convento per darla ad Enrico. Ma questa è una leggenda: COSTANZA d'ALTAVILLA infatti era nata dopo la morte di Ruggero II e all'epoca del suo matrimonio non aveva che 31 anni, lo sposo 21.

Le nozze, a dispetto di Urbano III, ebbero luogo in Milano, il 27 gennaio del 1186 nella basilica di Sant'Ambrogio, splendidamente addobbata per l'occasione. Dopo il matrimonio, FEDERICO fu coronato re di Borgogna per mano dell'arcivescovo Ainardo di Vienne. COSTANZA fu coronata regina di Germania ed ENRICO VI ricevette la corona d'Italia dal patriarca d'Aquileia.

Il Pontefice volle vendicarsi sospendendo dagli uffici divini il patriarca, consacrando arcivescovo di Treviri il Fohnar, appartenente alla fazione antimperiale, e infine cercò di muovere a nuove ribellioni le città lombarde.

Ma gli riuscì più che a ribellare, ad insubordinare la sola Cremona, non contenta delle concessioni fatte dall'imperatore ai Milanesi.
Di fronte a tali atti d'ostilità della Curia romana il Barbarossa non poteva rimanere a guardare. Da un canto punì Cremona, invadendole il territorio, distruggendole Soncino e Castel Manfredo, costringendola a chiedere sottomissione, che per l'intercessione del vescovo Sicardo fu concessa; dall'altro ordinò al figlio Enrico VI di spingersi con un esercito fino a Roma. Enrico non solo eseguì gli ordini del padre, ma fece anche di più, mettendo a sacco i luoghi soggetti alla chiesa.
Sdegnato -ma aveva fatto di tutto per arrivarci- dalla condotta dell'imperatore, URBANO III ricorse al solito vecchio mezzo ma sempre valido: quello di lanciare contro di lui l'anatema della scomunica, ma la morte lo colse prima che potesse attuare il suo proposito.


Cessò di vivere a Ferrara il 20 ottobre del 1187, diciotto giorni dopo che il sultano Saladino - sconfitti i Cristiani ad Hittin e conquistate Tiberiade, Nazareth, Accona e Ascalona- si era impadronito di Gerusalemme.

L'annuncio della caduta del Santo Sepolcro nelle mani degli infedeli produsse grandissima commozione in tutta l'Europa. Sovrani, baroni e popoli arsero improvvisamente del desiderio di liberare la Città Santa, e il nuovo Pontefice Alberto de Morra, papa GREGORIO VIII (eletto a Ferrara il 21 ottobre), bramoso di giovare alla nobile causa per cui si era reso famoso Urbano II, iniziò subito trattative di pace con re Enrico e si recò a Pisa per riconciliarla con Genova e spingere le due repubbliche marinare alla nuova crociata.

Ma, trovandosi a Pisa, il 17 dicembre del 1187, cinquantatre giorni dopo la sua esaltazione, lo colse la morte.

Due giorni dopo, il 19 dicembre, gli fu dato come successore il romano Paolino Scolari che prese il nome di CLEMENTE III. La sua qualità di cittadino di Roma gli permise di conciliare il Papato con il Senato, tra i quali, dopo le nozze di Costanza ed Enrico, erano risorte le ostilità.

 

Nel febbraio del 1188 il nuovo Pontefice entrava, festosamente accolto, in Roma e circa tre mesi dopo avveniva la pacificazione.
"Da quarantaquattro anni da quando - scrive il Comani - esisteva il Senato romano, i Pontefici erano stati incessantemente vittime di questa rivoluzione civica: vedemmo Innocenzo II e Celestino II finir tristemente la vita; Lucio II morire di una sassata; Eugenio, Alessandro, Lucio III, Urbano III, Gregorio VIII passar la vita erranti ed esuli. Adesso finalmente Clemente III riconduceva il Papato a Roma, ma concludeva una pace con la città, come una potenza autonoma che lui ufficialmente per tale riconosceva.

Questo era il frutto delle vittorie lombarde ed anche dell'energica resistenza opposta dai Romani contro l'imperatore e contro il papa. L'affermazione della democrazia romana è un avvenimento rilevante di questa periodo; ed infatti, quantunque mancassero quelle buone fortune e quei solidi ordinamenti che avevano avute e conseguite le città della Lombardia e della Toscana, tuttavia i Romani di allora diedero prova di dignità, di fermezza e di circospetta accortezza.
"Nel complesso, Roma si pose con il papa in quei medesimi obblighi che le città lombarde avevano stabilito tra loro e l'imperatore, ossia si tornò ai trattati conclusi ai tempi di Eugenio III e di Alessandro III.


Quello strumento che compilò e giurò il Senato nell'anno quarantaquattresimo della sua istituzione, l'ultimo giorno di maggio del 1188, ci fu per buona fortuna conservato.
Negli articoli di quella pace decretata con autorità e un energico linguaggio del sacro Senato, il papa fu riconosciuto come principe supremo; e CLEMENTE III in Campidoglio, investì la sua dignità al Senato, che dovette prestargli giuramento di fedeltà.

Si riservò il Pontefice il diritto di coniare moneta, ma la terza parte di essa fu assegnata al Senato: tornarono al papa, tutti i redditi che in antico erano stati di proprietà pontificia; il Senato si riservò solo il Ponte Lucano, di cui aveva bisogno per le sue guerre con Tivoli. Per la restituzione di tutto ciò che competeva giuridicamente alla Santa Sede, fu stabilito di stipulare in seguito altre scritture.

Inoltre c'era dell'altro: il Papa risarciva i Romani dei danni sofferti nella guerra; si assumeva l'obbligo di fare i soliti donativi di danaro ai senatori, agli ufficiali del Senato, ai Giudici ed ai notai; prometteva pagare cento libbre all'anno per restaurare le mura della città; si stabiliva che la milizia romana poteva essere usata dal papa per la difesa dei suoi patrimoni, ma pagando lui le spese.

Non vi era alcun articolo che definiva se la repubblica aveva il diritto di far guerra e pace con i suoi nemici senza l'intervento del papa; ma questo era sottinteso perché Roma era libera, e il Santo Padre nella sua città si trovava in condizioni eguali a quelle di altri vescovi nelle città libere, sebbene con gran riverenza gli fossero tributati titoli e onori di podestà temporale.

Una formale convenzione fu inoltre conclusa nei rapporti delle città di Tuscolo e di Tivoli, che adesso erano divenute pontificie; infatti, l'astio dei Romani contro le due città era il motivo essenziale del loro patto con il papa.
Al prezzo del suo ritorno pacifico a Roma, CLEMENTE III sacrificò (non onestamente) Tuscolo che si era fino allora messa sotto la protezione della Chiesa. Non soltanto diede la libertà ai Romani di muovere guerra contro quella città, ma promise di aiutarli con i suoi vassalli; anzi s'impegnò a scomunicare i Tusculani se entro il primo di gennaio 1188 non si arrendevano ai Romani, loro carnefici.
La sventurata città doveva smembrarsi, e i suoi beni e il suo popolo li avrebbe conservati e presi sotto tutela il papa.

"Uno speciale trattato con i capitani, stabilì le loro relazioni con il comune romano. Del tenore dei suoi articoli non abbiamo precisa notizia, ma senza dubbio le grandi famiglie della nobiltà furono costrette a riverire il Senato, a far parte del Comune in qualità di "cives", ed a contribuire così a formare l'istituto municipale.

Il Papa scelse dieci uomini per ogni contrada di ciascuna regione di Roma, e cinque di quelli su dieci giurarono la pace; tutto il Senato giurò di osservare i patti menzionati nel trattato. Se ne rileva che il Senato era composto di cinquantasei membri, alcuni dei quali componevano la giunta reggitrice dei consiliari.

"In tal modo la costituzione dell'anno 1188 segnò un rilevante progresso del comune romano; fu così spazzata via la podestà imperiale dell'età dei Carolingi, e analogamente la podestà patrizia del tempo dei Franchi. Ai diritti imperiali non si dava più retta. Veniva sciolto ogni vincolo di Roma con l'impero, dal momento che i Papi avevano acquisito libertà di elezione.

FEDERICO I nella sua investitura -quella del 1155 quando si fece incoronare con tutta la città in piena ribellione- aveva disprezzato i voti dei Romani, ma poi nel trattato di Anagni, rinunciando alla prefettura, aveva nel contempo rinunciato alla podestà imperiale.

La città dunque, era uscita dai lacci degli antichi legami; il papa non aveva più potere di governo né di legislazione, il suo stato temporale era ristretto al solo possedimento di regalie e di beni ecclesiastici, tuttavia non cessavano i concreti e speciali caratteristici rapporti feudali.

Quindi il Pontefice era ugualmente potente, perché continuava ad essere il maggior possidente di terre, perché aveva e poteva disporre dei suoi maggiori feudi, e perché su questi avendone l'antico diritto poteva chiamare in armi numerosi vassalli.

Mentre la sua autorità - su Roma- come principe territoriale, consisteva soltanto nell'investitura che egli concedeva ai magistrati della repubblica liberamente eletti dal Comune; nell'associazione dei suoi ordini giudiziari con quelli civici; nelle controversie di natura mista.

Pertanto la cessazione della potestà pontificia, che avvenne grazie alla sola forza del Comune romano, è uno dei fatti più gloriosi nella storia di Roma, ai tempi di mezzo: soltanto adesso la città riuscì nuovamente a pretendere la stima del mondo civile"(Comano).

Alla pace con il Comune romano seguì quella del Papato con l'impero; e i legati del Pontefice, presentatisi davanti all'Imperatore a Magonza, spinsero Federico a brandire le armi per la liberazione di Gerusalemme.

Ormai in Europa -dopo le umilianti vittorie di Saladino (1187) che ha espugnato prima S.G. d'Acri poi Gerusalemme- non si pensava che alla crociata: Genova e Pisa, messi in disparte gli odi, si misero ad allestire flotte; i Veneziani in lotta con gli Ungari per la città di Zara, stipulavano una tregua e richiamavano navi e i marinai che risiedevano nei porti stranieri; una poderosa flotta la stava preparava Guglielmo II di Sicilia; i re di Francia e d' Inghilterra, pacificatisi, si preparavano alla spedizione.

Affidata la reggenza al figlio ENRICO VI, l'11 maggio del 1189 Barbarossa con un esercito di circa novantamila combattenti partì per l'Oriente preceduto da un'armata tosco-romagnola, capitanata dagli arcivescovi di Pisa e di Ravenna, e dalla flotta siciliana comandata dal celebre Margaritone, "il re del mare", che poi costrinse Saladino a toglier l'assedio da Tiro.

L'esercito del Barbarossa prese la via dell'Ungheria; dopo aver attraversato il Bosforo, entrato nel territorio bizantino dovette aprirsi il passo con le armi, per l'alleanza che l'imperatore greco (rovesciando così le alleanze) ANGELO ISACCO aveva stretto con il Saladino.

Per le violenze e l'arroganza dei nuovi arrivati Bisanzio era stata costretta ripetutamente ad allearsi con i turchi perché si era accorta che la presenza latina le causava più danni che vantaggi. Isacco come aveva fatto prima Commeno, si convinse che invece di aiutarli i crociati era meglio ostacolarli.

Infatti, non li aveva apertamente incitati a combattere gli uomini di Barbarossa, ma di creare una serie di ostacoli lungo il percorso. E di ostacoli l'imperatore ne trovò molti. Del resto i paesi che i quasi centomila soldati attraversavano diventavano desolati come il passaggio di uno sciame di cavallette.

Queste notizie correndo più di loro, causarono la fuga degli abitanti lasciando i paesi lungo il percorso senza alcune risorse. E l'esercito affamato si stava già dirigendo verso Costantinopoli come "cavallette"
Forse Federico intuì il doppio gioco bizantino, e invece di inviare messaggeri a Costantinopoli, scrisse al figlio in Italia, di procurarsi subito una flotta e dirigersi verso la Grecia.

Preso dal panico, Isacco inviò a Barbarossa aiuti e un'ambasceria per riferire che acconsentiva ad approvvigionare l'esercito; poi gli andò perfino incontro con i viveri, e promise pure che appena arrivati sul Mar Nero, era disponibile a trasportarlo via mare in Asia Minore. Così fu impedendo all'esercito di nemmeno sfiorare la capitale.
ISACCO evitò così, con 14 anni d'anticipo quanto accadrà poi al suo successore: il feroce saccheggio di Costantinopoli, con le "cavallette" della Quarta Crociata.

Altri guai seri era che si combattevano fra di loro anche i latini. Molte le discordie interne: francesi, inglesi, tedeschi e italiani, si scannavano a vicenda per il possesso di alcuni territori conquistati. Il più ambiguo rapporto si creò tra il re di Francia (Filippo II) e il Re d'Inghilterra (Riccardo "Cuor di leone") fino a rompere il primo il sodalizio, abbandonando al suo destino il secondo per ritornare in Francia a combinare tanti guai e a seminare tante altre discordie. Altro guaio -morto Guglielmo di Sicilia prima della partenza, si scatenò la guerra di successione fra gli Altavilla, Enrico d'Inghilterra, Barbarossa e Tancredi (questi fatti ne parleremo nel prossimo capitolo).

Tuttavia messo piede nell'Asia Minore, Barbarossa espugnò Iconio e, vincendo gli ostacoli del nemico, l'arsura della sete, le fatiche delle marce e il tormento dei calori estivi, oltrepassato il Tauro, puntò verso la Siria.
Stava per congiungersi con i Cristiani in Siria quando all'esercito dei crociati tedeschi mancò improvvisamente il capo.
Era il 10 di giugno del 1190, poco dopo mezzogiorno; prendendo un bagno dopo il pasto nel fiume Salef, forse per un malore dovuto ad una congestione o una crisi cardiaca (aveva 68 anni) Barbarossa si accasciò in pochi centimetri d'acqua, e lentamente senza che nessuno si accorgesse del vero dramma, scivolò via lungo la corrente.

" L'acqua - scrisse Athir che era presente - arrivava appena all'anca; l'Imperatore scomparve all'improvviso e quando riemerse a sole poche decine di metri più a valle era già un cadavere che galleggiava".

Il suo già malridotto esercito senza validi condottieri capaci di essere all'altezza di una situazione così disperata, in una zona come abbiamo appena letto così ostile, rimase in balia degli eventi per qualche ora, poi nella confusione si disperse con una massiccia diserzione.

Finiva così in un dramma della fatalità dentro una pozzanghera d'acqua, la imponente spedizione di centomila uomini dell'imperatore tedesco che aveva le intenzioni di conquistare l'Asia, che aveva fatto parlare di sé tutta Europa, che aveva terrorizzato sei volte l'Italia, dominato in Germania, sfidato cinque papa, lottato contro le autonomie locali, assediato cento città, incenerito Milano.
Moriva affogato in un banalissimo rinfrescante pediluvio, l'uomo che voleva coronare la sua carriera con le gesta di Alessandro Magno.

Il corpo dell'imperatore fu diviso in tre parti: il cuore e le viscere furono sepolti a Tarso, il corpo disossato nel duomo di Antiochia, e forse ad Accona le sue ossa.

Così dopo trentotto anni di regno finiva il grande monarca germanico, quest'uomo dai tenaci propositi, dalle grandi virtù guerriere, che non si era mai tirato indietro di fronte agli ostacoli e per molto tempo era stato il tormento del Papato e dei Comuni lombardi. Dall'odio era stato alimentato il suo ambizioso sogno, era cresciuto attraverso gli scismi, fra le rovine della città italiane distrutte, fra i lamenti e le maledizioni di coloro che per opera sua erano rimasti senza famiglia e senza patria; l'uomo che era stato ridimensionato dall'eroismo italiano; messo in fuga a Susa, umiliato ad Alessandria, vergognosamente abbattuto a Legnano; ma che poi -più saggio e intelligente- era risorto in una nuova vita a Costanza:

L'uomo finiva ora in una pozzanghera di un fiume asiatico, dove come guerriero per la liberazione di Gerusalemme forse l'imperatore voleva redimere le sue colpe. E ci riuscì pure, perché dopo essere stato il nemico di molti, principi, papi e re, nemico delle libertà comunali, spariva dal mondo circondato dall'aureola del martirio.

Ma anche senza quest'aureola, FEDERICO BARBAROSSA resta uno dei più grandi personaggi che abbiano mai portato la corona imperiale.

FINE

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