"Non
violenza e codardia si accompagnano male. Posso immaginare un uomo armato
fino ai denti che sia, in cuor suo, un codardo. Il possesso di armi implica
un elemento di paura, se non di vigliaccheria. La vera non-violenza è
invece impossibile ove non si possegga un indomito coraggio".
"La non-violenza non deve mai essere usata a mo' di scudo per la
codardia. Essa è un'arma per il valoroso.
Non scorgo né eroismo né sacrificio nel distruggere vite
o proprietà, per offesa o per difesa".
"La
prova del nove della non-violenza è che, in un conflitto non-violento,
non vi sono strascichi di rancore e, alla fine, i nemici si tramutano
in amici. Di ciò ho fatto esperienza in Sudafrica con il generale
Smuts. Questi fu, dapprima, il mio più accanito avversario. Oggi
è il mio amico più affettuoso.Questo è, in sostanza,
il principio della non-collaborazione non-violenta. Ne consegue che esso
deve affondare le sue radici nell'amore. Il suo scopo non dev'essere quello
di punire o di infliggere ferite all'avversario. Pur non collaborando
con lui, dobbiamo fargli sentire che in noi egli ha un amico, e dobbiamo
tentare di toccargli il cuore rendendogli servigi umanitari ogni volta
che ci è possibile".
"La
verità (satya) implica amore, e la fermezza (agraha) genera - e
quindi ne è sinonimo - la forza. Perciò ho preso a chiamare
satyagraha il movimento per l'indipendenza dell'India. Vale a dire: una
forza che nasce dalla verità, dall'amore, dalla non-violenza".
"Ahimsa
è attributo dell'anima e, quindi, deve esser praticato da chiunque,
in ogni faccenda della vita. Se non vien messo in pratica in ogni settore,
non ha alcun valore pratico.
L'ahimsa non è quella cosa rozza che si è voluto far apparire.
Non nuocere ad alcun essere vivente fa, senza dubbio, parte dell'ahimsa.
Però ne è solo un'espressione secondaria. Al principio dell'ahimsa
nuoce qualsiasi pensiero malvagio, nuoce l'indebita fretta, nuocciono
le menzogne, l'odio, il malaugurio, l'invidia. Questo principio viene
altresì violato quando si tiene per sé ciò di cui
il mondo ha bisogno".
"In
un'epoca come questa, in cui la forza bruta detta legge, è quasi
impossibile, per chiunque, credere che qualcuno possa rifiutare la legge
della supremazia della forza bruta. Perciò ricevo lettere anonime
in cui mi si consiglia di non interferire nella campagna della non-collaborazione,
anche qualora da essa nascessero atti di violenza. Altri vengono da me
e, presumendo che io, segretamente, stia tramando violenza, mi chiedono
quando verrà il felice momento in cui le ostilità violente
saranno apertamente dichiarate. Gli inglesi - mi assicurano costoro -
non cederanno mai se non alla violenza, aperta o clandestina.
Altri ancora - mi si informa - credono ch'io sia il più gran mascalzone
vivente in India, poiché non rivelo mai le mie vere intenzioni,
mentre essi non hanno alcun dubbio ch'io, dentro di me, creda nella violenza
al pari di quasi tutti gli altri".
"Siccome la dottrina della spada è così radicata nella
maggior parte degli uomini, siccome il successo della non-collaborazione
dipende soprattutto dalla rinuncia a ogni violenza dal principio alla
fine, e siccome le mie tesi al riguardo determinano la condotta di un
gran numero di persone, desidero precisare questi concetti nel modo più
chiaro possibile.
Credo fermamente che, laddove non ci sia da scegliere che tra codardia
e violenza, si debba consigliare la violenza. Perciò, quando il
mio figlio maggiore mi chiese come si sarebbe dovuto comportare qualora
fosse stato presente allorché io, nel 1908, venni aggredito e ridotto
quasi in fin di vita (scappar via e lasciare che mi ammazzassero, oppure
seguire il suo istinto e usar la propria forza fisica per difendermi),
io gli risposi che sarebbe stato suo dovere difendermi, anche a costo
di usare violenza".
"Però credo fermamente che la non-violenza sia mille volte
superiore alla violenza, che il perdono sia più virile del castigo.
«Il perdono nobilita il soldato». Ma l'astensione dal castigo
equivale al perdono soltanto allorché si ha il potere di punire;
non ha senso, invece, quando proviene da una creatura impotente. Un topo
non perdona il gatto nel momento in cui non può far altro che lasciarsi
sbranare. Io, perciò, apprezzo il sentimento di quanti reclamano
l'esemplare punizione del generale Dyer e dei suoi pari. Lo farebbero
a pezzi, se potessero. Ma non credo che l'India sia impotente. Non considero
me stesso una creatura impotente. Solo, intendo usare la mia forza e la
forza dell'India per uno scopo migliore".
"Non mi si fraintenda. La forza non deriva dalla capacità
fisica. Proviene da un'indomita volontà. Uno zulu medio è
in grado di sopraffare, in qualsiasi momento, un inglese medio, in un
combattimento a corpo a corpo. Però fugge di fronte a un ragazzino
inglese, poiché teme la sua rivoltella o quelli che l'userebbero
per lui. Teme la morte e perde coraggio nonostante la prestanza fisica.
Noi in India potremmo anche renderci conto da un momento all'altro che
centomila inglesi non debbono spaventare trecento milioni di esseri umani.
In questo caso, certo, il perdono significherà il sicuro riconoscimento
della nostra forza. Assieme al perdono illuminato verrà senz'altro
a noi, come un'onda, una gran forza, e allora non sarà più
possibile a un generale Dyer o a un Frank Johnson recare affronto all'India
remissiva. Importa poco che, per il momento, io non riesca a inculcare
il mio principio. Ci sentiamo troppo umiliati, adesso, per non nutrire
rabbia e desiderio di vendetta. Ma non posso astenermi dal dire che l'India
ha tutto da guadagnare rinunciando al suo diritto di punire. Abbiamo un
lavoro migliore da svolgere, una missione più alta da compiere
per il mondo intero".
"Non sono un visionario. Mi reputo un idealista pratico. La religione
della non-violenza non è intesa soltanto per i rishi [saggi indù]
e per i santi. È intesa anche per la gente comune. La non-violenza
è la legge della nostra specie, come la violenza è la legge
dei bruti. Lo spirito giace in letargo, nel bruto, ed egli non conosce
altra legge che quella della possanza fisica. La dignità umana
richiede che si obbedisca a una legge più alta: alla forza dello
spirito.
Mi son quindi azzardato a proporre all'India l'antica legge del sacrificio-di-sé.
Poiché il satyagraha e le sue diramazioni - la non-collaborazione
e la resistenza civile - non sono altro che nuovi nomi per la legge della
sofferenza. Quei rishi che scoprirono la legge della non-violenza nel
bel mezzo della violenza eran dei geni più grandi di Newton. Ed
eran guerrieri più grandi di Wellington. Benché esperti
nell'uso delle armi, essi ne compresero l'inutilità e insegnarono
a un mondo affranto che la sua salvezza non poteva venire dalla violenza,
bensì dalla non-violenza".
"Non-violenza, nella sua condizione dinamica, significa cosciente
sofferenza. Non significa mite sottomissione alla volontà dei malvagi,
ma comporta l'impegno di tutta l'anima a opporsi alla volontà del
tiranno. Operando in nome di questa legge interiore, risulta impossibile
per un singolo individuo sfidare tutto il potere di un ingiusto impero
per salvare il proprio onore, la propria religione, la propria anima e
adoperarsi per la caduta di quell'impero o per la sua rigenerazione.
Dunque, non chiedo all'India di praticare la non-violenza perché
è debole. Voglio ch'essa la pratichi essendo ben conscia della
sua propria forza, del suo proprio potere. Nessun addestramento alle armi
è necessario per dispiegare questa forza. Si può credere
di averne bisogno perché si pensa di essere soltanto un corpo inerte.
Voglio che l'India si renda conto di avere un'anima che non può
perire, ma che è capace di elevarsi trionfalmente al di sopra di
ogni debolezza fisica e di sfidare il mondo intero".
"Qual è il significato di Rama, semplice essere umano, che,
aiutato da un'orda di scimmie, si oppone alla forza insolente di Ravana
dalle dieci teste, il quale si crede al sicuro perché circondato
da acque impetuose, nell'isola di Sri Lanka? Non sta forse a significare
la vittoria della forza spirituale sulla possanza fisica? Però,
essendo un uomo pratico, non aspetterò che l'India scopra da sé
l'efficacia dell'arma spirituale nella lotta politica. L'India si ritiene
impotente e si paralizza di fronte alle mitragliatrici, ai carri armati
e agli aeroplani degli inglesi. E fa derivare la non-collaborazione dalla
sua debolezza. Tuttavia essa servirà allo stesso scopo, cioé
a liberarla dall'oppressione inglese, dal peso di questa ingiustizia,
se un numero sufficiente di persone la metteranno in pratica.
Io distinguo questo movimento di non-collaborazione dal movimento indipendentista
irlandese, il sinn Fein, poiché il nostro non è conciliabile
in alcun modo con la violenza. Tuttavia invito anche gli adepti della
scuola della violenza a provare invece con la pacifica non-collaborazione,
o resistenza passiva".
"Se fallisse, non sarebbe a causa della sua intrinseca debolezza.
Potrebbe fallire per una scarsità di adesioni. Allora il pericolo
sarebbe davvero grave. Gli uomini d'animo nobile - che non posson tollerare
più a lungo l'umiliazione della loro patria - vorranno dare sfogo
alla rabbia. Si voteranno alla violenza. Per quel che ne so io, periranno
però senza liberare se stessi e il Paese dall'oppressione. Se l'India
adottasse la dottrina della spada, potrebbe conseguire una vittoria momentanea.
Allora, però, cesserebbe di essere l'orgoglio del mio cuore. Io
sono sposato all'India poiché a essa debbo tutto di me. Credo,
assolutamente, che essa abbia una missione nel mondo. Non deve imitare
ciecamente l'Europa. Se l'India accettasse la dottrina della spada, io
verrei messo allora a dura prova. Spero di non venir trovato in difetto.
La mia fede in essa, questa fede vivente trascenderà il mio stesso
amore per l'India. La mia vita è votata a servire l'India mediante
la religione della non-violenza che, secondo me, sta alla radice dell'induismo".
"Frattanto sollecito coloro che non si fidano di me a non disturbare
il pacifico andamento della lotta appena cominciata, incitando alla violenza
perché convinti che io desideri la violenza. Detesto i sotterfugi,
l'insincerità. Si dia modo a questa gente di metter alla prova
la noncollaborazione non-violenta, e ci si accorgerà che io non
ho e non ho mai avuto riserve mentali di sorta.
La forza della non-violenza è di gran lunga più meravigliosa
e arcana delle forze materiali della natura, come l'elettricità.
La forza generata dalla non-violenza è infinitamente maggiore della
forza di tutte le armi inventate dall'ingegno umano2.
"Sebbene la non-collaborazione sia una delle principali armi nell'arsenale
del satyagraha, non va però dimenticato che non è, dopotutto,
altro che un mezzo per assicurarsi la collaborazione dell'avversario,
in armonia con la verità e la giustizia.
Troncare ogni rapporto con le potenze avversarie non sarà mai,
quindi, consono ai fini del satyagraha, il quale mira invece a trasformare
o purificare quei rapporti".
"La
disobbedienza civile rientra fra i diritti di qualsiasi cittadino. Nessuno
può rinunciarvi senza cessare di essere uomo. Alla disobbedienza
civile non tiene mai dietro l'anarchia. La disobbedienza criminale può
invece condurvi. Ogni Stato reprime con la forza la violenza criminale.
Perirebbe, se così non facesse. Ma reprimere la disobbedienza civile
equivale a cercar di incarcerare le coscienze".
"Non
credo nelle scorciatoie violente al successo. Per quanto io ammiri i nobili
motivi e simpatizzi con essi, sono incondizionatamente avverso ai metodi
violenti, anche se al servizio della causa più giusta. L'esperienza
mi ha convinto che un bene permanente non potrà mai esser frutto
di non-verità e di violenza.
La non-violenza implica la volontaria sottomissione alle pene previste
per la non-collaborazione con il male".
"Chiudo
questo mio scritto suggerendo alcune norme e direttive da mettersi subito
in pratica.
1. Non si devono accettare volontari impreparati per le grandi dimostrazioni.
Pertanto solo i più esperti dovrano porsi alla testa dei cortei.
2. I volontari dovranno avere con sé un opuscolo con le istruzioni
generali.
3. Nell'imminenza di una dimostrazione, si dovranno passare in rassegna
i volontari e impartire loro speciali istruzioni.
4. Nelle stazioni, i volontari non dovranno concentrarsi tutti in un solo
punto, presso il comitato di ricevimento, ma dovranno essere scaglionati
qua e là tra la folla.
5. Alle stazioni non dovranno accedere grandi folle. Non farebbero che
intralciare il traffico. C'è altrettanto onore nell'entrare in
stazione, quanto nel restarne fuori.
6. Primo compito dei volontari sarà far sì che i bagagli
degli altri passeggeri non vengano calpestati.
7. I dimostranti non entreranno in stazione molto prima dell'ora d'arrivo
prevista.
8. Si dovrà lasciare un varco per consentire ai passeggeri di raggiungere
il treno.
9. Un secondo corridoio dovrà restare aperto al centro della dimostrazione,
per il passaggio delle personalità.
10. Non si formino catene. È umiliante.
11. I dimostranti non si muovano finché le personalità non
abbiano raggiunto le loro carrozze, o finché non abbiano ricevuto
un segnale convenuto da un volontario autorizzato.
12. Gli slogan nazionali debbono essere prestabiliti e non vanno lanciati
comunque, in qualsiasi momento o tutto il tempo, bensì solo all'arrivo
del treno, allorché le personalità salgono in carrozza,
e poi, durante il corteo, a giusti intervalli".
Non si obietti che, in tal modo, la dimostrazione diverrebbe meccanica
e tutt'altro che spontanea. La spontaneità dipenderà da
quanto saranno nutrite le grida, dalla reazione a esse e dall'atteggiamento
generale dei dimostranti, non già dal gran numero di slogan scomposti
né dall'intensità delle grida. È l'addestramento
di cui i partecipanti danno prova a caratterizzare le dimostrazioni. Un
maomettano che in silenzio prega nella sua moschea non è meno «dimostrativo»
di un indù che, al tempio, produce gran clamore con la voce, con
il gong o con entrambi.
13. Lungo il percorso la folla deve allinearsi e non seguire le carrozze.
Se del corteo fanno parte pedoni, essi debbono prender posto in silenzio
e ordinatamente, e non partecipare o astenersi a loro piacimento.
14. La folla non dovrà far ressa sulle personalità, ma scostarsi
da esse.
15. Chi si trova ai margini della cerchia non dovrà premere in
avanti né opporre resistenza a una pressione in senso contrario.
16. Se vi sono donne in mezzo alla folla, esse vanno protette.
17. Non si dovranno portare tra la folla bambini piccoli.
18. Alle riunioni, i volontari si disperdano tra la folla. Imparino a
far segnali con bandierine o mediante fischietti al fine di comunicarsi
istruzioni, qualora a voce non sia possibile.
19. Non spetta al pubblico mantenere l'ordine. Basta, per questo, che
sia fermo e in silenzio.
20. Soprattutto, ciascuno deve obbedire alle istruzioni dei volontari
senza fare domande.
"Il mio amico Shaukat Ali sembra dare la massima importanza alla
violenza e ritenere che uccidere il proprio nemico sia il dharma dell'uomo.
Quindi, egli segue la legge della non-violenza con il cuore gonfio di
odio. Secondo lui, la noncollaborazione è un'arma dei deboli, inferiore,
quindi, alla resistenza attiva. Ciononostante, si è unito a me
perché ha capito che, a parte la non-collaborazione o resistenza
passiva, non v'è alcun altro metodo efficace per tener alto l'onore
della sua fede".
"Faccio appello a quanti non hanno fede in me, affinché seguano
il mio amico Shaukal Ali. Non occorre che credano nella purezza delle
mie motivazioni, ma devono chiaramente rendersi conto che violenza e non-collaborazione
non possono andar insieme. Il maggior ostacolo al lancio di una grande
campagna di resistenza passiva è proprio il timore che da essa
si scatenino violenze. Coloro che hanno pronte le armi debbono metterle
da parte fintanto che è in corso la non collaborazione.
A mio avviso, il giorno in cui la forza bruta dettasse legge in India,
ogni distinzione fra Est e Ovest, fra antico e moderno, verrebbe a scomparire.
Quello sarà il giorno del giudizio, per me. Io sono fiero di considerare
l'India mia patria, poiché ritengo che essa sia in grado di dimostrare
al mondo la supremazia della forza d'animo. Qualora l'India accettasse
la supremazia della forza bruta, non sarei più felice di chiamarla
mia patria. Sono convinto che il mio dharma non riconosce limiti fra le
varie sfere del dovere, né confini geografici. Prego Dio affinché
io possa essere in grado di provare che il mio dharma non si dà
alcun pensiero della mia persona né è limitato a un campo
particolare".
"Il satyagraha è una forza che può venir impiegata
sia da individui sia da comunità. Può usarsi sia negli affari
politici sia in quelli domestici. La sua applicabilità universale
ne dimostra la permanenza e l'invincibilità. Può esser usato
da uomini, donne e bambini. Non corrisponde affatto al vero dire che è
una forza che possono usare solo i deboli in quanto non potrebbero rispondere
alla violenza con la violenza".
"In
questa età di grandi prodigi nessuno dirà che una cosa o
un'idea non vale niente perché è nuova. Dirlo è impossibile,
in quanto non sarebbe consono allo spirito dell'epoca. Oggi si vedono
cose di cui un tempo non ci si sognava neppure, l'impossibile sta diventando
sempre più possibile. Restiamo stupefatti, di continuo, di fronte
alle attuali invenzioni e scoperte nel campo della violenza. Ma io sostengo
che scoperte ancor più meravigliose, un tempo impensate e in apparenza
impossibili, saranno effettuate nel
campo della non-violenza".
" La non-violenza è la più grande forza a disposizione
del genere umano. È più potente della più micidiale
arma che l'ingegno umano possa inventare.
Dobbiamo fare della verità e della non-violenza non materia di
pratica individuale bensì di gruppi, di comunità, di Nazioni.
Questo è comunque il mio sogno.
Vivrò e morirò per tentare di realizzarlo.
La fede mi aiuta a scoprire ogni giorno nuove verità"
(Gandhi)
Il
30 gennaio del 1948, all'età di settantanove anni, Gandhi fu ucciso
a colpi di pistola da un fanatico indù, tra la folla che gremiva
un parco pubblico a Nuova Delhi, mentre si accingeva a recitare le preghiera
della sera.
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GANDHY
Mohandas Karamchand - Filosofo e politico indiano (Porbandar [Kathiawar],
1869 - Delhi, 1948). Studiò in India, poi a Londra laureandosi
in giurisprudenza. Esercitò quindi in patria l'avvocatura ma nel
1899, recatosi nel Sudafrica, ebbe modo di constatare le miserevoli condizioni
di vita degli Indiani colà emigrati. Dominato allora dalla sua
profonda fede religiosa - maturatasi attraverso la conoscenza dei libri
sacri indiani e della stessa Bibbia, per cui era stato creatore d'una
dottrina sincretistica fondata sull'induismo - volle dedicarsi esclusivamente
all'elevazione materiale e morale dei suoi compatrioti con una intensa
opera di propaganda mediante l'assistenza, la parola, gli scritti e il
quotidiano Indian opinion. Con gli Inglesi fu leale sperando appoggi alla
sua causa ma quando, nel 1906, fu imposto un nuovo esoso balzello di tre
sterline sugli immigrati privi di contratto di lavoro, ideò il
satyagraha (in indiano: forza della verità) tradotto in Europa
« resistenza passiva » o meglio « la non violenza »
) in realtà è una « non-obbedienza senza violenza
»).
Fu una lotta durissima ma l'inflessibile volontà di non obbedire
agli ordini imposti con la violenza, pur sottostando fino alle estreme
sanzioni, ebbe i suoi frutti perchè nel 1914 l'imposta fu abolita
e in vent'anni crollarono tutte le leggi sudafricane lesive della dignità
degli Indiani. Nel 1915 Gandhi ritorna in India e partecipa alla 1a guerra
mondiale come infermiere. Nel 1919 è presidente del Congresso nazionale
indiano e diviene l'assertore dell'indipendenza dell'India. Applica in
patria il satyagraha ma in seguito a delle agitazioni, nel 1920 passa
alla non-cooperazione con l'astensione dai pubblici uffici e degli studenti
dalle scuole governative e con il rifiuto di acquisti di manufatti di
produzione non indiana.
Ma la disobbedienza civile, attuata con l'astensione dal pagamento delle
tasse, provoca
nuovi disordini, e Gandhi nel marzo 1922 è arrestato. Processato,
si dichiara colpevole e viene condannato a 6 anni di carcere. Il 4 febbraio
1924 viene liberato e il resto della pena condonata. Il suo ascendente
sulle masse indiane ormai non ha più limiti; la purezza, l'onestà
religiosa e civile della sua vita gli fanno conferire il titolo di Mahatma
(= magnanimo). Nel 1928 riprende la vita politica; nel gennaio del 1932
è nuovamente arrestato e liberato nel maggio del 1933 ma intanto
un suo digiuno di 145 ore riesce a ottenere dagli Inglesi riforme elettorali
a favore degli « intoccabili ».
Nello stesso anno 1933 viene ancora arrestato ma liberato dopo soli 22
giorni essendosi rifiutato di toccare cibo. Nel 1934 si ritira dalla vita
politica attiva ma nel 1940 il Congresso gli affida i pieni poteri per
la campagna di disobbedienza civile; nel dicembre del 1941 gli succede
Nehru. Entrato in guerra il Giappone, Gandhi non intralcia lo sforzo bellico
inglese, tuttavia l'ultimatum inviato dal Congresso agli Inglesi per il
loro ritiro dall'India provoca un nuovo arresto di Gandhi.
Liberato, partecipa alle trattative che porteranno alla proclamazione
dell'India a Dominion. Nel febbraio del 1947 si avvera il sogno per cui
aveva lottato tutta la vita: la libertà dell'India. Le lotte sorte
subito dopo fra musulmani e indù lo ebbero come pacificatore, ma
elementi estremistici furono artefici di un complotto contro lo stesso
Gandhi che fu ucciso a revolverate da un fanatico indù ortodosso,
certo Godse.
Figura fra le più luminose dei nostri tempi, Gandhi ha consacrato
il suo nome alla storia per il suo ascetismo, la sua rettitudine, l'umanità
della sua lotta che scevra da lutti e sangue si duttilizzava nel «
ricatto eroico » dei digiuni: fu certo il più spontaneo interprete
dello spirito indiano. Delle sue opere ricordiamo: Indian Home Rule;
Universal Dawn; Young India, e l'autobiografia.
Il 30 gennaio 1948 un fanatico
hindu uccideva l'uomo che aveva liberato
l'India dal dominio dell'impero inglese
GANDHI, CONDOTTIERO
DI UNA GUERRA
CHE NON VIDE VIOLENZA
Le armi usate dal Mahatma e dai suoi seguaci furono il
dialogo serrato e logico e la disubbidienza civile
Un corpo minuto,
scarnificato dai digiuni, malamente avvolto in una pezza di stoffa bianca
che lascia vedere un paio di consunti sandali da monaco. La grossa testa
rapata, le orecchie fuor di misura e i rotondi occhialini di ferro completano
l'immagine, che appare un po' patetica e un po' buffa. Eppure questo omino
privo di forma eroica, armato soltanto di intelligenza e di fede totale
nell'amore universale e nella non-violenza, mette in ginocchio il grande
e potente impero inglese. Dopo decenni di paziente lavoro, sopportando
carcere e umiliazioni da un "nemico" che rifiuta di odiare, Mohandas Karamchand
Gandhi costringe Sua Maestà Britannica ad abbandonare l'India, da oltre
un secolo colonia sfruttata economicamente e violentata nella propria
millenaria raffinata cultura.
Nella giornata del l5 agosto l947 il Mahatma (il Santo, la Grande Anima,
come lo hanno soprannominato le folle adoranti che rappresentano quel
suo esercito forte di una totale mancanza di armi) assiste alla proclamazione
dell'indipendenza della patria. Ma questo grande momento Gandhi lo vive
con dolore, pregando e digiunando in casa di un amico, a Calcutta. Non
è nata la grande nazione indiana, liberale, tollerante, unita al di sopra
delle differenze religiose e di casta: dalle tormentate trattative politiche
che hanno preceduto il l5 agosto sono venuti fuori due Stati, Unione Indiana
e Pakistan, con la creazione dei quali è stata sancita la divisione fra
hindu e musulmani. Ma hindu e musulmani sono strettamente frammisti, specie
nel Punjab e nel Bengala, che sono entrati a far parte del territorio
pakistano. E scoppiano rancori, odii, uccisioni. La violenza imperversa,
il terrore provoca emigrazioni da una parte e dall'altra. Migliaia di
famiglie hindu debbono abbandonare i luoghi nei quali sono vissute da
generazioni per rifugiarsi nell'Unione Indiana, dove l'induismo è religione
maggioritaria.
UTOPIA? FORSE NO
Una terribile guerra civile, scaturita dall'ignoranza e dalla superstizione,
che costa, alla fine del l947, quasi un milione di morti e oltre sei milioni
di profughi. E questi ultimi sono degli sradicati dal cuore pieno di rabbia.
Pochi mesi dopo la proclamazione dell'indipendenza, il 30 gennaio l948,
mentre si avvia fra due ali di folla a una riunione di pubblica preghiera,
il Mahatma viene abbattuto da due colpi di pistola sparati da un hindu,
Nathuram Vinayak Godse. La vita lo lascia in pochi secondi. Ha soltanto
il tempo di invocare Dio. Forse quelle due esplosioni segnano la fine
di un'altra utopia. Forse no. Qualche anno prima Gandhi aveva scritto,
prevedendo la propria morte: "Dopo che me ne sarò andato nessuno saprà
rappresentarmi in modo completo. Ma un pezzetto di me sopravviverà in
molti di voi. Se ciascuno pone la causa per prima e se stesso per ultimo,
il vuoto sarà riempito in larga misura".
Della filosofia di Gandhi molto è rimasto e i "pezzetti" si sono moltiplicati.
La nostra storia contemporanea continua a essere tormentata dalla violenza,
ma ci sono milioni di uomini di buona volontà e di buon intelletto che
alla ferocia delle soluzioni belliche, alla prevaricazione politica, economica,
sociale, psicologica, oppongono la "resistenza passiva ragionata". E'
un esercito in continuo aumento in tutto il mondo, in questo villaggio
planetario ormai sempre più piccolo nel quale la brutalità, il terrore
atomico, l'inquinamento, lo schiavismo economico hanno la possibilità
di muoversi e di aggredire i popoli con devastante rapidità. Insegni il
caso di Chernobyl, l'esportazione del terrorismo dalla Libia, dall'Iran,
la diffusione della droga a volo d'aereo. Certamente la non-violenza non
paga a tempo breve, ma sui tempi lunghi ha dimostrato di saper trionfare
su eserciti e Stati perfettamente organizzati. Dopotutto l'impero romano
venne sconfitto da un pugno di uomini e donne che alla ferocia dei mezzi
coercitivi dello stato opposero l'accettazione del martirio di massa predicando
la mitezza, l'amore universale fino al momento di una morte straziante
imposta da una legge palesemente atroce.
ADOLESCENZA TORMENTATA
E se per un certo lasso di tempo il popolaccio si sollazzò di fronte allo
spettacolo di quegli esseri "vili" che morivano nelle arene dei circhi
e sulla croce senza combattere, senza uccidere per diffondere la loro
fede, in un secondo momento si rese conto che quella morte, deliberatamente
scelta, era altrettanto eroica - se non più eroica - della morte affrontata
in combattimento con l'arma in mano, capì la crudeltà e l'ingiustizia
della legge. E cominciarono a prender coscienza di questo anche molti
di coloro che erano tutori di questa legge o facevano parte della classe
dirigente.
Dell'importanza e dell'efficacia di questa filosofia di vita Gandhi ha
la prima dimostrazione nell'adolescenza, dal padre Kaba, proveniente da
una famiglia di droghieri (Gandhi significa appunto droghiere), uomo non
colto ma di grande esperienza, generoso e incorruttibile, il quale proprio
per queste qualità è spesso chiamato alle corti dei principi in veste
di consigliere. Fino al momento della grande lezione il piccolo Mohandas
Karamchand (che nasce il 2 ottobre del 1869 a Porbandar, nella penisola
del Kathiawar, nel nord-ovest dell'India) non differisce molto dagli altri
ragazzini di buona famiglia, induista osservante. A scuola non brilla
per risultati, anche se appare dotato di un'ottima intelligenza. Nulla
lascia presagire in lui l'asceta. A tredici anni quando, secondo l'uso,
si sposa con una ragazza della sua età, si trasforma in un essere divorato
dalla sensualità, obnubilato dalla gelosia e dalla volontà di possesso,
e con la moglie-bambina si comporta da despota.
Affascinato da un giovane amico che dimostra grande esperienza ed esibisce
una notevole forza fisica, si lascia convincere che la supremazia degli
inglesi, dei "padroni", sia dovuta al fatto che mangino carne. Subito
Mohandas si mette a divorare bistecche in quantità, incurante del precetto
severissimo della religione jaina (elementi di questa fede fanno parte
anche di quella hindu) che proibisce l'alimentazione carnea. Il rigore
che presiede all'educazione del ragazzo (anche la madre è profondamente
religiosa, votata a pratiche ascetiche, severa con sè e gli altri) non
pare avere molto effetto, tant'è vero che Mohandas commette qualche piccolo
furto ai danni del fratello per comperarsi le sigarette e assaporare il
piacere proibito del fumo.
LO "SCELLERATO" CONFESSA
La crisi arriva d'un tratto. Mohandas Gandhi, che è dotato di intelligenza
critica, viene colto dal dubbio religioso e pensa di essere rimasto intrappolato
dall'orrendo mostro dell'ateismo. Il ragazzo è un soggetto ipersensibile,
un aspetto della sua personalità che riuscirà a tenere a freno in seguito
sviluppando le tecniche di autocontrollo, e reagisce pensando al suicidio.
Ma la ragione prevale sulla sfera emotiva. Si libera dal terribile peso
che gli è crollato addosso scrivendo al padre una lunga lettera-confessione
che narra tutte le sue "scelleratezze". E attende la punizione. Quando
si presenta a testa china di fronte all'austero e rigoroso patriarca,
sente il "giudice" singhiozzare. In quell'uomo non c'è la temuta ira ma
soltanto dolore per la sofferenza del figlio. Un tenero abbraccio, il
perdono. Scriverà Gandhi nella sua autobiografia: "Quella fu per me la
prima lezione di ahimsâ".
Ahimsâ significa non-violenza, amore verso gli altri, capacità di comprensione.
Qualche anno più tardi il giovane farà di questo concetto la base della
sua intensa religiosità, del suo impegno civile. Una religiosità, la sua,
che proprio in nome dell'ahimsâ respinge quanto di violento si trova in
alcuni culti. Fin da fanciullo rifiuta il dogma dell'intoccabilità stabilito
nei confronti dei paria. E lo rifiuta nella pratica "toccando" il raccoglitore
di spazzatura, il miserabile Uka (che, come tutti i suoi colleghi, appartiene
alla non-casta dei paria) ogni qualvolta questi viene per casa a svolgere
il suo compito. Lo fa provocatoriamente, in presenza della madre che pratica
i precetti religiosi hindu e jaina in modo acritico. Dal padre impara
anche la tolleranza e il rispetto per le diverse religioni: nelle riunioni
familiari vi sono spesso ospiti musulmani, parsi, jaina e di altre sette.
"Non rifiuto di credere all'adorazione degli idoli. L'idolo non eccita
in me nessun sentimento di venerazione. Ma credo che la venerazione degli
idoli faccia parte della natura umana. Aspiriamo al simbolismo", scrive
il Mahatma nella autobiografia.
MOMENTO DI FRIVOLEZZA
E ancora: "L'errore non può pretendere alcuna immunità anche se è sostenuto
dalle. sacre scritture del mondo". Tolleranza ma nello stesso tempo rigorosa
coerenza con il suo credo razional-religioso che s'incentra sulle ahimsâ.
E' per questo che, pur rimanendo affascinato dalla dottrina di Cristo
quando gli capita di leggere il Vangelo, non si accosta al cristianesimo:
non può accettare l'aggressivo proselitismo e le critiche violente all'hinduismo
dei missionari che predicano nei pressi della scuola che Mohandas frequenta
ancora ragazzo. Quando viene mandato a Londra per conseguire la laurea
in giurisprudenza - è ormai tradizione che le famiglie indiane di buona
levatura mandino i figli a completare gli studi in Europa - Gandhi attraversa
un altro momento di crisi. Le sue idee sono solide ma subiscono l'impatto
con la cultura occidentale, quella inglese in particolar modo.
In un primo momento il diciannovenne Mohandas resta affascinato dalla
vita londinese e si rende conto della propria "pochezza" mondana. Dando
battaglia alla timidezza frequenta un corso di dizione per ripulire il
suo pessimo inglese, frequenta una scuola di francese, una di violino
e una di ballo.
Si trasforma in un dandy vero e proprio: in alcune foto lo si vede con
un altissimo colletto inamidato, che letteralmente gli imprigiona il collo,
oppure fasciato da un perfetto frac. Nessuno può immaginare che in quel
guscio di artificiosità sia in fase di lenta crescita l'uomo che domerà
il leone d'Inghilterra con l'ahimsâ. Il giovanotto però non ha smesso
di coltivare la sua passione per la lettura dei testi filosofico-religiosi.
E proprio in questo settore lo aspetta il destino di Mahatma. Lo trova
fra le pagine di una delle venerate scritture hindu, il "Canto del beato",
tradotto in inglese - suprema ironia - dallo studioso sir Edwin Arnold.
La suggestione maggiore viene da un brano illuminante. "Quando l'uomo
volge la sua attenzione agli oggetti dei sensi, si attacca a essi; da
questo attaccamento nasce in lui l'amore, dall'amore l'ira, dall'ira il
turbamento del senno, dal turbamento del senno l'agitazione della memoria,
dall'agitazione della memoria l'annientamento della luce dello spirito
e per l'annientamento di questa luce egli perisce".
INCONTRO CON LA VIOLENZA
Dopo le meditazioni tormentose suscitate da queste letture, Gandhi entra
nuovamente in crisi e, a conclusione di una complessa introspezione, recupera
la propria identità culturale e conquista la maturità. Come conseguenza
abbandona la comoda pensione nella quale vive e affitta una povera stanzuccia
dove si cucina dei pasti miseri a base di verdure, in ossequio al precetto
jaina e al giuramento fatto alla madre di attenersi a questa sacra norma.
Dopo tre anni di vita quasi monastica e di studio intenso ottiene la laurea
e rientra in patria nel l89l. Qui esercita la professione a Bombay ma
i proventi sono scarsi e decide di tornare a Rajkot, la sua città.
Qualche tempo dopo, il primo scontro con quella violenza che gli è insopportabile.
Quando prende contatto con un funzionario inglese per difendere il fratello
da un'accusa ingiusta, viene trattato in modo sprezzante e poi, quando
insiste per approfondire la questione in termini sereni, viene messo alla
porta con incredibile e ingiustificata brutalità. Per il giovane avvocato
è un trauma violento, una profonda delusione. Non riesce a capacitarsi
della ragione di un simile comportamento nei suoi confronti; è una persona
civile, educata all'europea. Quando decide di trascinare l'arrogante inglese
in tribunale, viene dissuaso da un amico: episodi del genere in India
sono di ordinaria amministrazione, gli viene spiegato, accadono ogni giorno,
vengono dall'arroganza del potere, dal razzismo. L'amarezza è grande,
terribile la visione dell'India in catene che prima non gli era mai apparsa
in tutta la sua tragica chiarezza. Quasi per sfuggire all'insopportabile
realtà, Gandhi accetta di andare in Africa, a Durban, per trattare una
questione legale su incarico di un'azienda commerciale del Kathiawar.
Nell'Unione Sudafricana si scontra con una realtà ancora più avvilente.
A Durban e nel Natal vi sono migliaia di lavoratori indiani che i coloni
bianchi, fin dal 1860, hanno importato con contratti a termine per lavoratori
agricoli.
SEGREGAZIONE RAZZIALE
Il "potere bianco" (rappresentato da 50.000 coloni contro 400.000 indigeni
e oltre 5.000 indiani) viene esercitato con pugno di ferro per contenere
il predominio numerico della popolazione di colore. Regna l'apartheid
più rigido in ogni luogo. Gandhi stesso prova sulla propria pelle la violenza
della segregazione razziale. Mentre viaggia da Durban a Pretoria in un
vagone di prima classe viene "sorpreso" dal controllore che lo costringe
a scendere perché, anche se munito di regolare biglietto, lui, uomo di
colore, non può occupare un luogo riservato ai bianchi. A Johannesburg
gli alberghi rifiutano di dargli ospitalità. A Pretoria viene scaraventato
giù da un marciapiede, anche questo riservato ai bianchi. Sono ferite
profonde che vive anche come umiliazione del suo popolo. Ma questa volta
non si arrende fatalisticamente alla realtà come gli è accaduto di fare
in India.
A sette giorni dal suo arrivo a Pretoria organizza una riunione della
comunità indiana, composta quasi esclusivamente da negozianti e uomini
d'affari. E superando il suo cronico timore di parlare in pubblico fa
un discorso che in sintesi dice così: "Cari amici, se volete uscire da
questa situazione umiliante, se volete evitare di essere trattati con
disprezzo, è necessario che eliminiate certi difetti, come il modo di
trattare le transazioni commerciali in maniera poco corretta, la scarsa
pulizia personale, i pregiudizi religiosi e di casta. Ed è importante
che impariate l'inglese: per questo sono a vostra disposizione, le lezioni
ve le darò io". Detto questo Gandhi va a trattare con la direzione delle
ferrovie e con un'abile perorazione strappa la promessa: quando saranno
decorosamente vestiti e scrupolosamente puliti, i suoi compatrioti potranno
viaggiare in seconda e prima classe. L'episodio segna la nascita del leader.
Ma Gandhi non sa ancora di esserlo. Anzi, non ha nessuna intenzione di
intraprendere una simile "carriera". E infatti, a dodici mesi dall'arrivo
nel Natal, conclusa la sua missione legale, si accinge a ripartire per
l'India.
BATTAGLIA IN AFRICA
Durante la rituale festicciola d'addio esplode la notizia che muterà il
corso della vita di questo giovane avvocato così timido, ma estremamente
deciso e di appassionata eloquenza quando si tratta di battersi contro
la violenza e la prevaricazione dell'uomo sull'uomo. Qualcuno gli mette
sotto gli occhi una pagina del "Natal Mercury" dove si legge che il governo
ha soppresso tutti i diritti civili della "coloured people". Gandhi rinvia
la partenza di un mese: non può abbandonare a loro stessi questi uomini
incapaci di difendersi, quasi tutti analfabeti o semi analfabeti. Giorno
dopo giorno, lotta dopo lotta, il momento delI'imbarco per l'India si
allontanerà di vent'anni. Vent'anni durante i quali, con assoluta fermezza,
il leader ormai carismatico perseguirà l'obiettivo dell'uguaglianza sociale
e politica. Nel 1894 fonda il "Natal Indian Congress", nel quale raccoglie
la comunità indiana per dar forza e unitarietà alle azioni di difesa dalla
violazione dei diritti. La battaglia di Gandhi è così serrata da polarizzare
sulla sua persona un odio feroce: al punto che un giorno un gruppo di
bianchi tenta di linciarlo. Lo salva a malapena l'intervento della moglie
di un alto funzionario inglese, che fa scudo con il proprio corpo a quello
del leader. Il quale rifiuterà di denunciare gli aggressori, sempre più
convinto che l'ahimsâ, sia pur a lungo termine, può sconfiggere la violenza.
E' sulla base di questa sua drammatica e lunga esperienza che Gandhi sviluppa
il concetto della satyâgraha (forza della verità).
"Il principio così chiamato", scrive Gandhi, "sorse prima di avere un
nome. In India usavano l'espressione inglese passive resistance, ma il
termine era troppo restrittivo. Appariva come l'arma dei deboli, non escludeva
con sufficiente chiarezza i concetti di odio e violenza. Era chiaro che
gli indiani dovevano coniare una parola nuova per indicare questa cosa
nuova. Il seguace della satyâgraha, precisa il Mahatma, disobbedisce alla
legge che ritiene ingiusta ma accetta la pena prevista per la violazione.
In questo modo collabora con il legislatore mettendo alla prova la sua
legge. Poiché lo scopo di questo principio, della satyâgraha, è che lo
stesso legislatore, applicando la legge in tutto il suo rigore e fino
alle estreme conseguenze, si convinca della sua insostenibilità".
PACIFICA RIBELLIONE
Gandhi espone questa sua filosofia - che alcuni, in seguito, preferiranno
considerare una tattica, in una grande riunione organizzata il 1° settembre
1906 all'Old Empire Theatre di Johannesburg. Pochi giorni prima il governo
del Transvaal ha approvato una legge, l'Asiatics Law Amendment Ordinance,
nella quale s'impone a tutti gli asiatici residenti nel territorio di
avere una carta di identità e di dare le impronte digitali all'autorità
di polizia. Da questo provvedimento e da altri simili gli indiani si sentono
profondamente umiliati e considerati alla stregua di criminali. Nel comizio
di Johannesburg Gandhi propone di rispondere a questo progetto con la
satyâgraha.
L'adesione è pressoché totale. La maggioranza degli indiani rifiuta di
sottoporsi alle disposizioni. E quando vengono multati non pagano, al
processo ammettono di aver deliberatamente violato la legge, e si lasciano
condurre nell'"albergo di Sua Maestà" - come Gandhi definisce scherzosamente
la prigione inglese - senza opporre resistenza. Finisce in galera anche
lui per aver disobbedito all'ordine di lasciare il Paese nel giro di poche
ore. Al processo chiede per sè una pena maggiore di quella dei compagni,
ma gli vengono comminati soltanto due mesi. Il generale Smuts, capo del
governo sudafricano, non è molto tranquillo, anche se la grande rivolta
sembra domata e le carceri del Transvaal sono piene di indiani che si
comportano con stupefacente mitezza.
Questa situazione, della quale si parla con particolare interesse in Europa
e in mezzo mondo - anche nel vecchio continente si vivono in quel periodo
anni di inquietudine sociale, gli operai contestano duramente lo sfruttamento
intensivo al quale vengono sottoposti nelle fabbriche - sembra rappresentare
la quiete prima della tempesta. Smuts preferisce risolverla prima che
la bomba esploda. Tratta con Gandhi e i due protagonisti giungono a un
compromesso: il governo casserà l'ordinanza e i satyâgrahi (cioè coloro
che resistono all'autorità secondo il principio gandhiano) andranno a
farsi schedare spontaneamente.
L'ESERCITO INGLESE ATTACCA
Ma alla fine dell'operazione gli inglesi non ritirano l'ordinanza. Gli
indiani si sentono raggirati e attaccano Gandhi, accusandolo di essersi
fatto imbrogliare a causa della sua credulità e della sua ingenuità. Uno
di loro, in preda all'ira provocata dalla delusione cocente, lo picchia
brutalmente. Il leader rifiuta di denunciarlo: comprende lo stato d'animo
dell'aggressore e, giudicando l'aggressione come un fatto umano, rifiuta
di denunciarlo proprio in omaggio ai principi della satyâgraha. Naturalmente
la battaglia riprende e raggiunge il suo culmine nel Natal, dove si è
spostata. Nel 19l2 Gandhi proclama l'hartal, una giornata di astensione
dal lavoro nella quale sono compresi anche il digiuno e la preghiera,
e organizza una grande marcia di indiani dal Natal al Transvaal.
E' la risposta a nuovi provvedimenti illiberali del governo, che ha anche
deciso di non considerare legali i matrimoni religiosi celebrati secondo
il rito hindu. Contro i dimostranti viene scatenato l'esercito, le carceri
si riempiono nuovamente di satyâgrahi, Gandhi viene condannato a quindici
mesi. Ma alla fine, sotto la pressione dell'opinione pubblica internazionale,
nel 1914 il governo decide di eliminare parte delle vecchie leggi discriminatorie,
di riconoscere ai nuovi immigrati la parità dei diritti e la validità
dei matrimoni religiosi. Anche il Mahatma viene liberato e nella grande
schiera dei propri ammiratori trova persino il generale Smuts, che diventerà
suo amico. Poco dopo, è il 1915, Gandhi rientra in patria. Una patria
nella quale serpeggiano già da tempo fermenti di ribellione. A questo
punto, perché lo sviluppo degli avvenimenti sia più chiaro, è necessario
un flash-back sulla storia dell'India. "Prima dell'avvento degli inglesi",
scrive lo storico Giorgio Borsa in un suo saggio, "non esisteva in India
la proprietà privata della terra. La collettività del villaggio godeva
del possesso stabile del suolo che coltivava; aveva invece la proprietà
dei suoi frutti, dedotta una parte, variante da un quarto alla metà, che
spettava al sovrano regnante sul territorio. L'unico rapporto fra questi
e il villaggio era rappresentato dai zamindari, attraverso i quali il
re riscuoteva le tasse.
LA CULTURA INDIANA
Per il resto il villaggio, oltreché mantenersi, si amministrava da sé
e spesso, anche, si difendeva da sé. "Insieme al villaggio autosufficiente
gli altri due cardini della società indiana tradizionale erano la casta
e la famiglia patriarcale. Il sistema castale ebbe probabilmente origine
dalla divisione tra vinti e vincitori all'epoca dell'invasione ariana
(1.500 a.C.: ndr.). Successivamente ricevette una sanzione religiosa.
Le quattro caste originarie e cioè: sacerdoti o brahamani, guerrieri,
commercianti, contadini e servi, oggi sono diventate più di duemila e
dividono la società hindu in altrettanti compartimenti stagni. La famiglia
patriarcale è l'unità morale ed economica di base... Regimi e imperi sono
sorti e sono crollati, ondate successive di invasori greci, persiani,
turchi, afgani, mongoli, si sono abbattute sull'India senza veramente
incidere sulle strutture della società indiana ma finendo con l'essere
da questa riassorbiti".
Soltanto l'inizio del dominio inglese riesce a sconvolgere questa solida
struttura la quale proprio per il fatto di essere così composita, ha dato
vita a una cultura estremamente complessa, ricca di sfumature, di fantasia,
che nel corso dei secoli, sull'onda della creatività orientale, ha raggiunto
livelli sempre più raffinati. Il processo di colonizzazione determinato
dalla Compagnia britannica delle Indie è brutale, I'India viene piegata
agli interessi commerciali dell'Inghilterra che in quel momento - siamo
alla metà del Settecento - è protagonista della rivoluzione industriale
e perciò alla ricerca di nuovi mercati, di nuovi fondi di materia prima,
di manodopera sottopagata, di risorse agricole. L'operazione dura fino
al 1813 e in questi anni viene posta la base dell'impero inglese con una
politica di conquiste territoriali, portate a termine dalla Compagnia
delle Indie che si è organizzata anche in struttura politico-militare.
Nel 1813 il governo del territorio indiano viene sottratto alla Compagnia
e avocato alla Corona. Comincia una nuova politica di acculturazione e
amministrazione. Vengono fatte molte riforme positive: si vieta l'uso
che impone alle vedove di farsi bruciare sulla pira dove viene cremato
il marito, la posizione della donna viene maggiormente garantita.
COLONIZZAZIONE BRUTALE
Inoltre pene severissime sono previste per i sacrifici umani in onore
della dea Khali, si costruiscono ferrovie, ospedali, scuole, linee telegrafiche.
Ma la nuova legislazione agraria, simile all'europea, dà il grande colpo
alla società indiana. Il contadino, il quale ha ora la proprietà della
terra e non più - come prima - quel possesso che gli garantiva la non
confiscabilità e l'impossibilità di venderla, si vede esposto al sequestro
nel momento in cui, a causa di uno scarso o mancato raccolto, non è in
grado di pagare le tasse (nella precedente organizzazione all'insolvente
toccava la prigione, la fustigazione, nei casi peggiori la tortura o la
schiavitù, ma la terra sulla quale si era stabilito era per legge intoccabile,
restava sempre a lui).
II fatale iter di questa riforma è il progressivo trasferimento dei fondi
dai contadini, costretti a vendere per varie ragioni, agli affaristi e
agli usurai della città. Entra in crisi anche l'artigianato, soprattutto
quello tessile, battuto dall'importazione dei prodotti che escono dalle
veloci macchine dell'industria britannica. Decine di milioni di indiani
passano dalla precedente sicurezza, sia pure di basso livello, alla fame,
alla totale incertezza e all'angoscia del mutamento imprevedibile. Paradossalmente
la ribellione a questo progressivo disfacimento matura proprio nel grande
numero di scuole che i britannici hanno organizzato nel Paese e dove,
oltre all'obbligatoria lingua inglese, vengono insegnati i concetti fondamentali
della filosofia politica illuminista e liberale, oltre alla storia europea
del XVIII e XIX secolo che esalta la nazionalità, l'autogoverno, I'autodecisione,
il supremo valore della libertà. Sotto l'involontaria spinta di questa
acculturazione gli indiani, soprattutto quelli educati all'europea, cominciano
lentamente a organizzarsi. E nel dicembre del 1885 nasce il Congresso
nazionale indiano che raccoglie tutte le forze dell'India, laiche o religiose
che siano, per parlare a nome dell'intera Nazione. Non è tuttavia un organismo
rivoluzionario, ma uno strumento di mediazione e come tale inutile ai
fini della riconquista della libertà, dell'identità nazionale.
GENERALE BUGIARDO
Quando Gandhi ritorna in India il Congresso ha concluso ben poco. Anzi,
è stato spesso ingannato dagli inglesi, che hanno fatto concessioni in
apparenza positive ma sostanzialmente illusorie, poiché agli indiani non
viene riconosciuta alcuna decisionalità politica. Nel 1917 - la Gran Bretagna
è coinvolta nella prima guerra mondiale - il governo inglese, ricorrendo
alla mediazione del segretario di Stato per l'India, sir Edwin Montagu,
prende l'impegno di favorire il graduale sviluppo delle istituzioni autonome,
allo scopo di realizzare progressivamente un governo responsabile di un'India
facente parte dell'impero britannico. Questa promessa è rivolta a ottenere
l'arruolamento degli indiani nell'esercito britannico, che in quel momento
sta affrontando in Europa le forze austrogermaniche. Gandhi stesso, che
vede nel progetto Montagu la possibilità di avviare un processo evolutivo
verso la totale indipendenza senza scontri, violenti o non violenti che
siano, fa una grande marcia a piedi nella campagna del suo Paese per esortare
i contadini a militare sotto le bandiere di Sua Maestà Britannica.
Nel 1919 il progetto Montagu vede la luce, ma risulta essere il classico
topolino partorito dalla montagna. L'India si ritrova con due Camere che
hanno diritto di critica e di elaborare iniziative, ma che dal punto di
vista politico non possono esercitare alcun controllo. Non solo: al governatore
inglese resta il pieno diritto di far uso dei poteri d'emergenza anche
se non ha ottenuto l'assenso delle Camere. Il Congresso indiano si spacca
in una minoranza liberale e in una maggioranza estremista. Ad aggravare
la situazione si aggiunge una decisione contraddittoria del governo inglese
che, con un successivo progetto di legge, il Rowlatt Bill, conferma le
speciali procedure giudiziarie per i delitti politici e le misure eccezionali
di difesa interna messe in atto durante la guerra in Europa. Gandhi, pur
fortemente offeso da questo voltafaccia degli inglesi, tenta di avviare
una trattativa con il vicerè ma tutto è inutile. Dà allora il via alla
campagna satyâgraha con un manifesto che compare il 20 febbraio 1919.
FUCILATE SULLA FOLLA
Chi aderisce all'azione s'impegna, quando le leggi contestate saranno
entrate in vigore, "a disobbedire a queste e a quante altre leggi venga
deciso di disubbidire da un apposito Comitato, astenendosi tuttavia da
ogni violenza contro persone o cose". Viene fissato un grande hartal per
il 30 marzo, che poi subisce un rinvio al 6 aprile. A Delhi la notizia
del rinvio non arriva in tempo e la manifestazione si svolge il 30. C'è
una folla enorme. Ma l'immenso corteo non è autorizzato per quel giorno
e la polizia inglese spara nel mucchio. Gandhi viene arrestato; questo
aggrava la situazione ed eccita gli animi. Nel Punjab il clima si fa rovente
e alcuni inglesi vengono uccisi. Il comandante della piazza vieta ogni
raduno, ma quando cinquemila persone si riuniscono in assemblea, il generale
Dyer ordina ai suoi soldati di aprire il fuoco senza preavviso. I feriti
sono un migliaio, i morti quasi quattrocento. Gandhi dà ordine di sospendere
la satyâgraha.
Questa non ha senso, afferma con coraggio, se vengono commesse violenze
da parte degli indiani. E le violenze prendono corpo anche fra hindu e
musulmani, fra hindu e indiani cristiani a causa delle posizioni diverse
nel quadro della lotta d'indipendenza e nel tentativo di conquistare una
posizione di maggior potere sugli altri. Il 1°febbraio del l922 Gandhi,
che ormai è il Mahatma, il capo carismatico e venerato del popolo indiano
in lotta per la libertà, lancia una nuova satyâgraha. Contemporaneamente
a questa decisione invia una lettera al viceré: il messaggio è definitivo
e chiaro, o l'autonomia entro il l5 febbraio o l'India la prenderà con
le proprie mani mettendosi fuori dalla giurisdizione dell'impero. Il 4
febbraio accade un episodio atroce. Una folla infuriata brucia vivi nella
città di Chauri-Chaura dieci poliziotti. Gandhi, d'accordo con il Congresso,
sospende nuovamente la satyâgraha e fa una pubblica dichiarazione sul
giornale "Young India". "Nessuna provocazione può giustificare la brutale
uccisione di uomini impotenti e alla mercé della folla quando l'India
proclama di essere non violenta e di voler ascendere al trono della libertà
attraverso la non violenza". Dopo questa dichiarazione Gandhi decide di
sottoporsi a cinque giorni di digiuno.
LA MARCIA DEL SALE
Qualche giorno dopo viene arrestato e condannato a due anni di carcere
per aver provocato disordini contro il governo di Sua Maestà. "In prigione
-dirà - sono felice come un uccellino". Poi riprende la lotta. Nel 1930
un'altra grande battaglia: la campagna di disobbedienza contro la tassa
sul sale, la più iniqua perché colpisce soprattutto le classi povere.
Seguito da una folla silenziosa ma decisa, il mattino del 12 marzo 1930
Gandhi raggiunge la riva del mare e lì, facendo evaporare pazientemente
un certo quantitativo d'acqua, fabbrica qualche grammo di sale.
Dalla folla si leva un ritmico applauso nel quale si confondono orgoglio,
gioia e commozione. Dopo questo episodio la campagna si allarga: boicottaggio
ai tessuti provenienti dall'estero, isolamento dei funzionari governativi
ai quali i commercianti rifiutano la merce. Gli inglesi reagiscono duramente.
Arrestano Gandhi e sua moglie. In carcere finiscono anche altre cinquantamila
persone. Una successiva decisione del governo britannico di tentare la
normalizzazione dei rapporti su una base più vicina agli interessi indiani
- un prezzo da pagare per non perdere questa ricca colonia - riporta in
libertà Gandhi. Poco dopo il Mahatma prende parte alla seconda conferenza
di Londra (la prima era fallita poiché mancava la presenza determinante
dei delegati del Congresso indiano) con la quale il governo inglese tenta
di gettare le fondamenta di una costruzione che garantisca i diritti dell'India
e nello stesso tempo protegga gli interessi britannici in loco.
E' I'agosto del 1931. Gandhi rappresenta il Congresso ma ne porta avanti
le istanze subordinandole al grande disegno unitario per il quale si è
sempre battuto. Nel corso della discussione, alla quale partecipano i
principi indiani e i rappresentanti delle varie comunità, compresa la
forte Lega musulmana, viene raggiunto un accordo che abbozza il quadro
costituzionale a grandi linee: una federazione unica, della quale fanno
parte l'India britannica e i principati indiani, controllata da un'assemblea
federale; le province dell'India britannica sono entità autonome, governate
democraticamente.
DIVISI DALLE RELIGIONI
Ma il problema diventa arduo quando si affronta la questione delle minoranze.
Musulmani e hindu sono su posizioni opposte. Nella Conferenza generale
musulmana del gennaio 1929 era stato fissato un punto fermo, irrinunciabile:
nessun consenso a una carta costituzionale che non avesse garantito il
33 per cento dei seggi in seno all'Assemblea legislativa centrale. Analoga
posizione hanno gli "intoccabili" che, come i musulmani, esigono l'elettorato
separato e una quota di seggi. Soprattutto quest'ultima richiesta provoca
la durissima reazione di Gandhi, che nell'assurda pretesa vede la conferma
ufficiale di una spaventosa ingiustizia sociale. "I sikh possono restare
tali in perpetuo, così pure i musulmani e gli europei. Ma possono gli
intoccabili restare in eterno intoccabili? Vorrei piuttosto vedere l'induismo
morire che l'intoccabilità sopravvivere. Perciò tengo a dichiarare qui,
con tutta solennità, che se dovessi essere l'unico a resistere lo farei
a costo della vita". E le ultime parole del Mahatma sono ancora segnate
dall'irriducibilità: "Siamo giunti al bivio dove le nostre vie divergono".
La conferenza viene aggiornata. Gandhi deve rientrare in India dove si
susseguono sommosse popolari e il terrorismo diventa sempre più diffuso.
VIA DIFFICILE ALLA LIBERTA'
La crisi economica mondiale, partita dal crollo di Wall Street nel l929,
si abbatte anche sul Paese che viene percorso dai rivoluzionari, figliati
dall'Unione sovietica, i quali incitano alla ribellione i contadini in
miseria. Una terza conferenza è altrettanto travagliata. Resta drammaticamente
aperta la questione dei musulmani e degli intoccabili. Nel 1932 Gandhi
inizia un digiuno: afferma che si lascerà morire di fame se non verrà
abolita dalla Costituzione la norma degli elettorati separati. Dopo quattro
giorni è quasi morente. La notizia turba tutta I'India e i rappresentanti
delle comunità minoritarie si radunano e unitariamente decidono di rinunciare
alle pretese di separazione. L'India avrà così la sua Costituzione. Non
priva di difetti anche notevoli, ma ripulita dalle iniquità odiate da
Gandhi. Certo la via della libertà sarà ancora lunga, ma questo è il primo
significativo successo. II Mahatma dovrà fare molti altri digiuni, ma
alla fine la vittoria sarà sua.
Questa pagina
è stata gentilmente messe a
disposizione di "Cronologia"
dal direttore Franco Gianola