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PAPA PIO X
Il 19 luglio del 1903, cessava di vivere in età di novantatre anni, LEONE XIII
Il conclave, cui parteciparono sessanta dei sessantadue cardinali, si riunì il 31 luglio del 1903. Fra i cardinali che aveva maggior probabilità di essere eletto era il sessantenne MARIANO RAMPOLLA del Tindaro, siciliano di Polizzi, di famiglia borbonica, nemico accanito di Francesco Crispi e ispiratore della politica francofila della Santa Sede.
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RAMPOLLA, infatti, al primo scrutinio ebbe la metà dei voti; ma la mattina del 2 agosto il cardinale GIOVANNI PUZYNA, vescovo di Cracovia, in nome dell'imperatore FRANCESCO GIUSEPPE, pronunciò il veto contro Rampolla, che si alzò a protestare vivamente contro la violenza che si voleva esercitare sul Conclave.
Ma la protesta fu inutile: il 4 agosto, con cinquanta voti, fu eletto Papa il patriarca di Venezia GIUSEPPE SARTO che prese il nome di PIO X.
Giuseppe Melchiorre Sarto nasce a Riese (Treviso) il 2 giugno 1835
Nel 1858 è ordinato sacerdote a Castelfranco il 18 settembre ed è cappellano di Tombolo.
Nel 1867 E' parroco a Salzano
Nel 1875 E' nominato canonico del capitolo di Treviso
Nel 1884 E' vescovo di Mantova
Nel 1893 E' nominato cardinale a patriarca di Venezia
Dieci anni dopo, nel 1903 eletto Papa.
Pio X mostrò subito di essere il contrapposto del suo predecessore, umile cioè, schietto, buono, alieno dalla politica e tutto inteso "a ristorare ogni cosa in Cristo", come disse nella sua prima enciclica del 4 ottobre 1903, la "motu propri" resa poi nota il 18 dicembre. Diciannove punti che riguardano l'"Ordinamento fondamentale dell'azione popolare cristiana".
Sono le stesse enunciazioni di Leone XIII; e si propone di riportare ordine e concordia nel movimento dei cattolici lacerato da contrasti interni. Soprattutto dopo il XIX congresso cattolico del 10-13 novembre, che si era svolto a Bologna; dove il nuovo presidente GROSOLI invano ha cercato di mediare i contrasti tra gli intransigenti e i democratici cristiani, quest'ultimi inclini ad avviare una partecipazione attiva alla vita politica italiana; Grosoli riuscirà a farsi attribuire la facoltà di sciogliere i comitati locali non attivi sul piano sociale, ma non bastò per porre termine ai dissidi dentro l'Opera dei Congressi.
Il 28 luglio del 1904, Pio X, vista l'impossibilità di conciliare le due fazioni, con una lettera a tutti i vescovi, sciolse l'Opera, e tutte le organizzazioni regionali, diocesane e locali furono poste alle dirette dipendenze dei vescovi.Fin dal primo atto del suo pontificato (l'enciclica ricordata sopra) Pio X volle dichiarare la natura esclusivamente religiosa del suo programma, sintetizzato nella frase "instaurare omnia in Cristo", programma cui il papa tenne fede, anche se non sempre poté ignorare i gravi problemi politici che travagliavano l'Italia e l'Europa, lasciati in sospeso dai suoi predecessori (Pio IX e Leone XIII). Li affrontò ma senza inasprire la già delicata situazione.
Egli concentrò la sua attenzione particolarmente all'interno della Chiesa, dove si rivelavano fermenti innovatori che minacciavano la purezza della dottrina cattolica. (vedi MURRI e TONIOLO). La sua lotta più intransigente si svolse contro il movimento modernista, che investiva direttamente la filosofia, la teologia, l'esegesi biblica, con vasti riflessi anche politici e sociologici; movimento che egli condannò dapprima con il decreto "Lamentabili", del 1907, e che colpì a brevissima distanza con l'enciclica
"Pascendi dominici gregis" (dell' 8 settembre 1907)
vedi, più avanti "SUGLI ERRORI DEL MODERNISMO"
La repressione, in campo dottrinale, fu severissima; ma fu anche positivamente affiancata da una serie di riforme destinate a rendere più moderna e più viva l'organizzazione della Chiesa.
Al fine di evitare ogni compromesso tra religione e politica, decretò decaduto ogni diritto di veto da parte di qualsiasi Stato nei confronti delle elezioni del pontefice e intervenne drasticamente contro quei cattolici che si esponevano al rischio di trascinare la religione sul terreno delle lotte politiche e sociali. Oltre che cercare di razionalizzare la fede e dar credito alla democrazia.
(era il periodo di Murri che affiancato da Don Luigi Sturzo, prima -insieme- fondarono nel 1900 il Partito della Democrazia Cristiana, poi il secondo - caduto in disgrazia il primo- andrà a fondare il Partito Popolare, nel 1919, quando ormai Pio X era morto da circa cinque anni).
Nel 1904 come già detto sopra, sciolse l'Opera dei Congressi, espressione del laicato cattolico italiano, per prevenire deviazioni politiche e religiose; nel 1909 condannò il giornale cattolico francese Sillon che in nome del Cristianesimo raccoglieva attorno a Marc Sangnier le tendenze democratiche più esasperate; nel 1914 colpiva il movimento dell'"Action francaise" per le sue intrusioni tra motivi religiosi e nazionalistici.
E tuttavia, mentre frenava con intransigenza deviazioni ed errori, si preoccupava di preparare il laicato cattolico a intervenire nella lotta sociale e politica e mitigava il rigore del non expedit (il decreto che proibiva ai cattolici di partecipare alla vita politica nazionale) preparando così il terreno alla formazione del Partito Popolare Italiano.
Non meno ferme e recise furono le sue proteste contro il governo Francese, il Portogallo e la Spagna per la loro politica ritenuta anticlericale. Il primo nel 1905 varò la legge che sanciva la separazione dello Stato dalla Chiesa.
La sua opera però non fu mai di natura politica ma solo o prevalentemente di natura religiosa preoccupandosi soprattutto di mantenere la purezza della dottrina e di riparare alla crescente cristianizzazione del mondo.Morì il 20 agosto del 1914, agli inizi della Prima Guerra Mondiale.
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Enciclica
"Pascendi dominici gregis" SUGLI ERRORI DEL MODERNISMO
(dell' 8 settembre 1907) -
versione integrale
PASCENDI DOMINICI
GREGIS
LETTERA ENCICLICA AI VENERABILI FRATELLI
PATRIARCHI PRIMATI ARCIVESCOVI VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE PACE E COMUNIONE.
"Sugli errori del
Modernismo"
(Nota dell'autore di Sroriologia: per "Modernismo" si intende quella corrente di pensiero religioso (nato in quel clima di rivendicazioni delle masse socialiste, oltre che di liberalismo cattolico) che postulava un minore attaccamento alla tradizione e al principio dell'obbedienza, a una maggiore partecipazione del laicato alla vita della Chiesa, credeva esso nella conciliabilità della scienza con la fede, voleva aprire alcuni spiragli di libertà di coscienza, dare credito alla democrazia. La reazione di Pio X fu immediata e perfino violenta, riaffermando in maniera inequivocabile il diritto esclusivo della gerarchia di stabilire le verità della fede e il dovere dei fedeli di obbedire.... "E chi non intende sottomersi esca dalla Chiesa".
Introduzione
VENERABILI FRATELLI SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE - L'officio divinamente
commessoCi di pascere il gregge del Signore ha, fra i primi doveri imposti
da Cristo, quello di custodire con ogni vigilanza il deposito della fede
trasmessa ai santi, ripudiando le profane novità di parole e le opposizioni
di una scienza di falso nome. La quale provvidenza del Supremo Pastore non
vi fu tempo che non fosse necessaria alla Chiesa cattolica: stanteché
per opera del nemico dell'uman genere, mai non mancarono "uomini di
perverso parlare (Act. X, 30), cianciatori di vanità e seduttori
(Tit. I, 10), erranti e consiglieri agli altri di errore (II Tim. III, 13)".
Pur nondimeno gli è da confessare che in questi ultimi tempi, è
cresciuto oltre misura il numero dei nemici della croce di Cristo; che,
con arti affatto nuove e piene di astuzia, si affaticano di render vana
la virtù avvivatrice della Chiesa e scrollare dai fondamenti, se
venga lor fatto, lo stesso regno di Gesù Cristo. Per la qual cosa
non Ci è oggimai più lecito di tacere, seppur non vogliamo
aver vista di mancare al dovere Nostro gravissimo, e che Ci sia apposta
a trascuratezza di esso la benignità finora usata nella speranza
di più sani consigli.
Ed a rompere senza più gl'indugi Ci spinge anzitutto il fatto, che
i fautori dell'errore già non sono ormai da ricercarsi fra i nemici
dichiarati; ma, ciò che dà somma pena e timore, si celano
nel seno stesso della Chiesa, tanto più perniciosi quanto meno sono
in vista. Alludiamo, o Venerabili Fratelli, a molti del laicato cattolico
e, ciò ch'è più deplorevole, a non pochi dello stesso
ceto sacerdotale, i quali, sotto finta di amore per la Chiesa, scevri d'ogni
solido presidio di filosofico e teologico sapere, tutti anzi penetrati delle
velenose dottrine dei nemici della Chiesa, si dànno, senza ritegno
di sorta, per riformatori della Chiesa medesima; e, fatta audacemente schiera,
si gittano su quanto vi ha di più santo nell'opera di Cristo, non
risparmiando la persona stessa del Redentore divino, che, con ardimento
sacrilego, rimpiccioliscono fino alla condizione di un puro e semplice uomo.
Pericolo delle dottrine moderniste
Fanno le meraviglie costoro perché Noi li annoveriamo fra i nemici
della Chiesa; ma non potrà stupirsene chiunque, poste da parte le
intenzioni di cui Dio solo è giudice, si faccia ad esaminare le loro
dottrine e la loro maniera di parlare e di operare. Per verità non
si allontana dal vero chi li ritenga fra i nemici della Chiesa i più
dannosi. Imperocché, come già abbiam detto, i lor consigli
di distruzione non li agitano costoro al di fuori della Chiesa, ma dentro
di essa; ond'è che il pericolo si appiatta quasi nelle vene stesse
e nelle viscere di lei, con rovina tanto più certa, quanto essi la
conoscono più addentro. Di più, non pongono già la
scure ai rami od ai germogli; ma alla radice medesima, cioè alla
fede ed alle fibre di lei più profonde. Intaccata poi questa radice
della immortalità, continuano a far correre il veleno per tutto l'albero
in guisa, che niuna parte risparmiano della cattolica verità, niuna
che non cerchino di contaminare. Inoltre, nell'adoperare le loro mille arti
per nuocere, niuno li supera di accortezza e di astuzia: giacché
la fanno promiscuamente da razionalisti e da cattolici, e ciò con
sì fina simulazione da trarre agevolmente in inganno ogni incauto;
e poiché sono temerari quanto altri mai, non vi è conseguenza
da cui rifuggano e che non ispaccino con animo franco ed imperterrito. Si
aggiunga di più, e ciò è acconcissimo a confonderle
menti, il menar che essi fanno una vita operosissima, un'assidua e forte
applicazione ad ogni fatta di studi, e, il più sovente, la fama di
una condotta austera. Finalmente, e questo spegne quasi ogni speranza di
guarigione, dalle stesse loro dottrine sono formati al disprezzo di ogni
autorità e di ogni freno; e, adagiatisi in una falsa coscienza, si
persuadono che sia amore di verità ciò che è infatti
superbia ed ostinazione.
Sì, sperammo a dir vero di riuscire quando che fosse a richiamar
costoro a più savi divisamenti; al qual fine li trattammo dapprima
come figli con soavità, passammo poi ad un far severo, e finalmente,
benché a malincuore, usammo pure i pubblici castighi. Ma voi sapete,
o Venerabili Fratelli, come tutto riuscì indarno: sembrarono abbassai
la fronte per un istante, ma la rialzarono subito con maggiore alterigia.
E potremmo forse tuttora dissimulare se non si trattasse che sol di loro:
ma trattasi invece della sicurezza del nome cattolico. Fa dunque mestieri
di uscir da un silenzio, che ormai sarebbe colpa, per far conoscere alla
Chiesa tutta chi sieno infatti costoro che così mal si camuffano.
E poiché è artificio astutissimo dei modernisti (ché
con siffatto nome son chiamati costoro a ragione comunemente) presentare
le loro dottrine non già coordinate e raccolte quasi in un tutto,
ma sparse invece e disgiunte l'una dall'altra, allo scopo di passare essi
per dubbiosi e come incerti, mentre di fatto sono fermi e determinati; gioverà
innanzi tutto raccogliere qui le dottrine stesse in un sol quadro, per passar
poi a ricercar le fonti di tanto traviamento ed a prescrivere le misure
per impedirne i danni.
I sette aspetti del modernista
E alfin di procedere con ordine in una materia di troppo astrusa, è
da notare anzi tutto che ogni modernista sostiene e quasi compendia in sé
molteplici personaggi: quelli cioè di filosofo, di credente, di teologo,
di storico, di critico, di apologista, di riformatore: e queste parti sono
tutte bene da distinguersi una ad una, da chi voglia conoscere a dovere
il lor sistema e penetrare i principî e le conseguenze delle loro
dottrine.
Prendendo adunque le mosse dal filosofo, tutto il fondamento della filosofia
religiosa è riposto dai modernisti nella dottrina, che chiamano dell'agnosticismo.
Secondo questa, la ragione umana è ristretta interamente entro il
campo dei fenomeni, che è quanto dire di quel che apparisce e nel
modo in che apparisce: non diritto, non facoltà naturale le concedono
di passare più oltre. Per lo che non è dato a lei d'innalzarsi
a Dio, né di conoscerne l'esistenza, sia pure per intromessa delle
cose visibili. E da ciò si deduce che Dio, riguardo alla scienza,
non può affatto esserne oggetto diretto; riguardo alla storia non
deve mai riputarsi come soggetto istorico.
Poste cotali premesse, ognuno scorge di leggieri quali sieno le sorti della
teologia naturale, dei motivi di credibilità, dell'esterna rivelazione.
Tutto questo i modernisti tolgon via di mezzo, e ne fanno assegno all'intellettualismo,
ridicolo sistema, come essi affermano, e tramontato già da gran tempo.
Né in ciò ispira loro alcun ritegno il sapere che si enormi
errori furono già formalmente condannati dalla Chiesa. Giacché
infatti il Concilio Vaticano così ebbe definito: "Se qualcuno
dirà, che Dio uno e vero, Creatore e Signor nostro, per mezzo delle
cose create, non possa conoscersi con certezza col lume naturale dell'umana
ragione, sia anatema"(De Revel., can. I); e similmente: "Se alcuno
dirà non essere possibile, o non convenire che, mediante divina rivelazione,
sin l'uomo ammaestrato di Dio e del culto che Gli si deve, sia anatema"
(Ibid., can. II); e finalmente: "Se alcuno dirà che la rivelazione
divina non possa essere fatta credibile da esterni segni e che perciò
gli uomini non debbano esser mossi alla fede se non da interna esperienza
o privata ispirazione, sia anatema" (De Fide, can. III).
Di qual guisa poi i modernisti dall'agnosticismo, che è puro stato
d'ignoranza, passino all'ateismo scientifico e storico, che invece è
stato di positiva negazione; e con qual diritto perciò di logica,
dal non sapere se Iddio sia intervenuto o no nella storia dell'uman genere
si trascorra a spiegar tutto nella storia medesima ponendo Dio interamente
da parte come se in realtà non fosse intervenuto, lo assegni chi
può. Ma tanto è; per costoro è fisso e determinato
che la scienza e la storia debbano esser atee; entro l'àmbito di
esse non vi è luogo se non per fenomeni, sbanditone in tutto Iddio
e quanto sa di divino. Dalla quale dottrina assurdissima vedrem bentosto
che cosa siasi costretti di ammettere intorno alla persona augusta di Gesù
Cristo, intorno ai misteri della Sua vita e della Sua morte, intorno alla
Sua risurrezione ed ascensione al Cielo.
Vero è che l'agnosticismo non costituisce nella dottrina dei modernisti
se non la parte negativa; la positiva sta tutta nell'immanenza vitale. Dall'una
all'altra ecco con qual discorso procedono. La Religione, sia essa naturale
o sopra natura, alla guisa di ogni altro fatto qualsiasi, uopo è
che ammetta una spiegazione. Or, tolta di mezzo la naturale teologia, chiuso
il cammino alla rivelazione per il rifiuto dei motivi di credibilità,
negata anzi qualsivoglia esterna rivelazione, chiaro è che siffatta
spiegazione indarno si cerca fuori dell'uomo. Resta dunque che si cerchi
nell'uomo stesso; e poiché la religione non è altro infatti
che una forma della vita, la spiegazione di essa dovrà ritrovarsi
appunto nella vita dell'uomo. Di qui il principio dell'immanenza religiosa.
Di più, la prima mossa, per così dire, di ogni fenomeno vitale,
quale si è detta essere altresì la religione, è sempre
da ascrivere ad un qualche bisogno; i primordi poi, parlando più
specialmente della vita, sono da assegnare ad un movimento del cuore, o
vogliam dire ad un sentimento. Per queste ragioni, essendo Dio l'oggetto
della religione, dobbiamo conchiudere che la fede, inizio e fondamento di
ogni religione, deve riporsi in un sentimento che nasca dal bisogno della
divinità. Il quale bisogno, non sentendosi dall'uomo se non indeterminate
ed acconce circostanze, non può di per sé appartenere al campo
della coscienza: ma giace da principio al di sotto della coscienza medesima
o, come dicono con vocabolo tolto ad imprestito dalla moderna filosofia,
nella subcoscienza, ove la sua radice rimane occulta ed incomprensibile.
Che se si chieda in qual modo da questo bisogno della divinità, che
l'uomo provi in se stesso, si faccia poi trapasso alla religione, i modernisti
rispondono così. La scienza e la storia, essi dicono, sono chiuse
come fra due termini: l'uno esterno, ed è il mondo visibile; l'altro
interno, ed è la coscienza.
Toccato che abbiano o l'uno o l'altro di questi termini, non hanno come
passare più oltre; al di là si trovano essi a faccia dell'inconoscibile.
Dinanzi a questo inconoscibile, o sia esso fuori dell'uomo oltre ogni cosa
visibile, o si celi entro l'uomo nelle latebre della subcoscienza, il bisogno
del divino, senza verun atto della mente, secondo che vuole il fideismo,
fa scattare nell'animo già inclinato a religione un certo particolar
sentimento; il quale, sia come oggetto sia come causa interna, ha implicata
in sé la realtà del divino e congiunge in certa guisa l'uomo
con Dio. A questo sentimento appunto si dà dai modernisti il nome
di fede, e lo ritengono quale inizio di religione.
Ma non è qui tutto il filosofare, o, a meglio dire, il delirare di
costoro. Imperocché in siffatto sentimento essi non riscontrano solamente
la fede: ma colla fede e nella fede stessa quale da loro è intesa,
sostengono che vi si trovi altresì la Rivelazione. E che infatti
può pretendersi di vantaggio per una rivelazione? O non è
forse rivelazione, o almeno principio di rivelazione, quel sentimento religioso
che si manifesta d'un tratto nella coscienza? Non è rivelazione l'apparire,
benché in confuso, che Dio fa agli animi in quello stesso sentimento
religioso? Aggiungono anzi di più che, essendo Iddio in pari tempo
e l'oggetto e la causa della fede, la detta rivelazione è al tempo
stesso di Dio e da Dio: ha cioè insieme Iddio e come rivelante e
come rivelato. Di qui, Venerabili Fratelli, quell'assurdissimo effato dei
modernisti che ogni religione, secondo il vario aspetto sotto cui si riguardi,
debba dirsi egualmente naturale e soprannaturale. Di qui lo scambiar che
fanno, come di pari significato, coscienza e rivelazione. Di qui la legge,
per cui la coscienza religiosa si dà come regola universale, da porsi
in tutto a pari della rivelazione, ed alla quale tutti hanno obbligo di
sottostare, non esclusa la stessa autorità suprema della Chiesa,
sia che ella insegni, sia che legiferi in materia di culto o di disciplina.
Se non che in tutto questo procedimento dal quale, a detta dei modernisti,
saltan fuori la fede e la rivelazione, egli è mestieri tener d'occhio
un punto, che è di capitale importanza per le conseguenze storico
critiche, che essi ne derivano. Quell'inconoscibile, di cui parlano, non
si presenta già alla fede come nudo in sé ed isolato; ma si
bene congiunto strettamente a un qualche fenomeno, che, quantunque appartenga
al campo della scienza e della storia, pure in certa guisa ne trapassa i
confini. Tal fenomeno potrà essere un fatto qualsiasi della natura,
che in sé racchiude alcun che di misterioso: potrà essere
altresì un uomo, il cui carattere, i cui gesti, le cui parole mal
si compongano colle leggi ordinarie della storia. Or bene la fede, attirata
dall'inconoscibile racchiuso nel fenomeno, s'impadronisce di tutto intero
il fenomeno stesso e lo penetra in certo qual modo della sua vita. Da ciò
due cose conseguitano. La prima, una tal trasfigurazione del fenomeno, per
una, diremmo, quasi elevazione sulle condizioni sue proprie, che lo renda
acconcio, come materia, alla forma del divino che la fede v'introdurrà.
La seconda, un certo sfiguramento, nato da ciò che avendo la fede
tolto il fenomeno ai suoi aggiunti di tempo e di luogo, facilmente gli attribuisce
quello che nella realtà delle cose non ha di fatto: il che soprattutto
avviene quando si tratti di fenomeni di antica data, e tanto più
se sono remoti.
Da questi due capi i modernisti traggono per loro due canoni; i quali, uniti
a un terzo già dedotto dall'agnosticismo, formano quasi la base della
critica storica. Illustriamo il fatto con un esempio, preso dalla persona
dl Gesù Cristo. Nella persona di Cristo, dicono, la scienza e la
storia non trovan nulla al di là dell'uomo. Dunque, in vigore del
primo canone dato dall'agnosticismo, dalla storia dl essa deve cancellarsi
tutto quanto sa di divino. Più oltre, in conformità del. secondo
canone, la persona di Cristo è stata trasfigurata dalla fede: dunque
fa d'uopo spogliarla di tutto ciò che la innalza sopra le condizioni
storiche. Per ultimo, la stessa è stata sfigurata dalla fede, secondo
insegna il terzo canone: dunque non da rimuoversi da lei i discorsi, i fatti,
tutto quello insomma che non risponde al suo carattere, alla sua condizione
ed educazione, al luogo ed al tempo in cui visse. Strano per fermo parrà
a noi questo modo di ragionare; ma qui sta la critica dei modernisti.
Adunque il sentimento religioso, che per vitale immanenza si sprigiona dai
nascondigli della subcoscienza, è il germe di tutta la religione,
ed è insieme la ragione di quanto fu o sarà per essere in
qualsivoglia religione. Rude dapprima e quasi informe, a poco a poco, sotto
l'influsso del misterioso principio che gli diede origine, esso e venuto
perfezionandosi, a seconda dei progressi della vita umana. di cui, come
si disse, e una forma. Ecco pertanto la nascita di qualsiasi religione,
sia pure soprannaturale: esse altro non sono che semplici esplicazioni dell'anzidetto
sentimento. Né credasi già che diversa sia la sorte della
religione cattolica; anzi in tutto pari alle altre: imperocché non
altrimenti essa è nata, che per processo di vitale immanenza nella
coscienza di Cristo, uomo di elettissima natura, quale mai altro simile
si vide né mai si troverà.
Nell'udir tali cose Noi trasecoliamo di fronte ad affermazioni cotanto audaci
e sacrileghe! Eppure, Venerabili Fratelli, non sono esse un parlar temerario
solamente d'increduli. Sono uomini cattolici, sono anzi sacerdoti non pochi
che così la discorrono pubblicamente; e con siffatti delirii si dànno
vanto di riformare la Chiesa! Qui, non trattasi più del vecchio errore,
che alla natura umana concedeva quasi un diritto all'ordine soprannaturale.
Si va assai più lungi; sino cioè ad afferrare che la religione
nostra santissima, nell'uomo Cristo del pari che in noi, è frutto
interamente spontaneo della natura. Del quale asserto non sappiamo qual
sia mezzo più acconcio per sopprimere ogni ordine soprannaturale.
Perciò con somma ragione il Concilio Vaticano pronunziò: "Se
alcuno dirà, non poter l'uomo essere elevato da Dio a una conoscenza
e perfezione che superi la natura, ma potere e dovere di per sé stesso,
con un perpetuo progresso, giungere finalmente al possesso di ogni vero
e di ogni bene, sia anatema" (De Revel., can. III).
Fin qui però, o Venerabili Fratelli, non abbiam visto farsi punto
luogo all'azione dell'intelletto. Eppure, secondo le dottrine dei modernisti,
ha essa ancora la sua parte nell'atto di fede. E giova osservare in che
modo. In quel sentimento, dicono, di cui sovente si è parlato, appunto
perché egli è sentimento e non cognizione, Dio si presenta
bensì all'uomo, ma in maniera così confusa che nulla o a malapena
si distingue dal soggetto credente. Fa dunque d'uopo che sopra quel sentimento
si getti un qualche raggio di luce, sì che Dio ne venga fuori per
intero e pongasi in contrapposto col soggetto. Ora, è questo il compito
dell'intelletto; di cui è proprio il pensare ed analizzare, e per
mezzo del quale l'uomo prima traduce in rappresentazioni mentali i fenomeni
di vita che sorgono in lui, e poi li significa con verbali espressioni.
Di qui il detto volgare dei modernisti, che l'uomo religioso deve pensare
la sua fede. L'intelletto adunque, sopravvenendo al sentimento, su di esso
si ripiega e vi fa intorno un lavorio somigliante a quello di un pittore
che illumina e ravviva il disegno di un quadro svanito per la vecchiaia.
Il paragone è di uno dei maestri del modernismo. Doppio poi è
l'operar della mente in siffatto negozio; dapprima, con un atto nativo e
spontaneo, esprimendo la sua nozione con una proposizione semplice e volgare;
indi, con riflessione e più intima penetrazione, o, come dicano,
lavorando il suo pensiero, rende ciò che ha pensato con proposizioni
secondarie, derivate bensì dalla prima, ma più affinate e
distinte. Le quali proposizioni, ove poi ottengano la sanzione del magistero
supremo della Chiesa, costituiranno appunto il dogma.
Con ciò, nella dottrina dei modernisti, ci troviamo giunti ad uno
dei capi di maggior rilievo, all'origine cioè e alla natura stessa
del dogma. Imperocché l'origine del dogma la ripongon essi in quelle
primitive formole semplici; le quali, sotto un certo aspetto, devono ritenersi
come essenziali alla fede, giacché la rivelazione, perché
sia veramente tale, richiede la chiara apparizione di Dio nella coscienza.
Il dogma stesso poi, secondo che paiono dire, è costituito propriamente
dalle formole secondarie. A conoscere però bene la natura del dogma,
è uopo ricercare anzi qual relazione passi fra le formole religiose
ed il sentimento religioso. Nel che non troverà punto difficoltà,
chi tenga fermo, che il fine di cotali formole altro non è, se non
di dar modo al credente di rendersi ragione della propria fede. Per la qual
cosa stanno esse formole come di mezzo fra il credente e la fede di lui;
per rapporto alla fede, sono espressioni inadeguate del suo oggetto e sono
dai modernisti chiamate simboli; per rapporto al credente, si riducono a
meri istrumenti. Non è lecito pertanto in niun modo sostenere che
esse esprimano una verità assoluta: essendoché, come simboli,
sono semplici immagini di verità, e perciò da doversi adattare
al sentimento religioso in ordine all'uomo; come istrumenti, sono veicoli
di verità, e perciò da acconciarsi a lor volta all'uomo in
ordine al sentimento religioso. E poiché questo sentimento, siccome
quello che ha per obbietto l'assoluto, porge infiniti aspetti, dei quali
oggi l'uno domani l'altro può apparire; e similmente colui che crede
può passare per altre ed altre condizioni, ne segue che le formole
altresì che noi chiamiamo dogmi devono sottostare ad uguali vicende
ed essere perciò variabili. Così si ha aperto il varco alla
intima evoluzione dei dogmi. Infinito cumulo di sofismi che abbatte e distrugge
ogni religione!
E questa, non pur possibile, ma necessaria evoluzione e mutazione dei dogmi
non solo i modernisti l'affermano arditamente ma è conseguenza legittima
delle loro sentenze. Infatti fra i capisaldi della loro dottrina vi è
ancor questo, tratto dal principio dell'immanenza vitale: che le formole
cioè religiose, perché tali siano in verità e non mere
speculazioni dell'intelletto, è mestieri che sieno vitali e che vivano
della stessa vita del sentimento religioso. Il che non è da intendersi
quasiché tali formole, specie se puramente immaginative, sieno costruite
a bella posta pel sentimento religioso; giacché poco monta della
loro origine, come altresì del loro numero e della loro qualità;
ma cosi, che le stesse, fatte se occorre all'uopo delle modificazioni, vengano
vitalmente assimilate dal sentimento religioso. E per dirla in altri termini,
fa di mestieri che la formola primitiva sia accettata e sancita dal cuore,
e che il susseguente lavorio per la formazione delle formole secondarie
sia fatto sotto la direzione del cuore. Di qui procede che siffatte formole,
perché sieno vitali, devono essere e mantenersi adatte tanto alla
fede quanto al credente. Laonde, se per una ragione qualsiasi cotale adattamento
venga meno, perdono elle il primitiva significato e vogliono essere cambiate.
Or tale essendo il valore e la sorte mutevole delle formole dogmatiche,
non reca stupore che i modernisti le abbiano tanto in dileggio; mentre al
contrario non fanno che ricordare ed esaltare il sentimento religioso e
la vita religiosa. Perciò pure criticano con somma audacia la Chiesa,
accusandola di camminare fuor di strada, né saper distinguere fra
il senso materiale delle formole e il loro significato religioso e morale,
e attaccandosi con ostinazione, ma vanamente, a formole vuote di senso,
lasciar che la religione precipiti a rovina.
Oh! Veramente ciechi e conduttori di ciechi, che, gonfi del superbo nome
di scienza, vaneggiano fino al segno di pervertire l'eterno concetto di
verità e il genuino sentimento religioso: "spacciando un nuovo
sistema, col quale, tratti da una sfrontata e sfrenata smania di novità,
non cercano la verità ove certamente si trova; e disprezzate le sante
ed apostoliche tradizioni, si attaccano a dottrine vuote, futili, incerte,
riprovate dalla Chiesa, e con esse, uomini stoltissimi, si credono di puntellare
e sostenere la stessa verità" (Gregorio XVI, Lett. Enc."Singulari
Nos", 25 giugno 1834).
E fin qua, o Venerabili Fratelli, del modernista considerato come filosofo.
Or, se facendoci oltre a considerarlo nella sua qualità di credente,
vogliam conoscere in che modo, nel modernismo, il credente si differenzi
dal filosofo, convien osservare che quantunque il filosofo riconosca per
oggetto della fede la realtà divina, pure questa realtà non
altrove l'incontra che nell'animo del credente, come oggetto di sentimento
e di affermazione: che esista poi essa o no in sé medesima fuori
di quel sentimento e di quell'affermazione, a lui punto non cale. Per contrario
il credente ha come certo ed indubitato che la realtà divina esiste
di fatto in se stessa, né punto dipende da chi crede. Che se poi
cerchiamo, qual fondamento abbia cotale asserzione del credente, i modernisti
rispondono: l'esperienza individuale. Ma nel dir ciò, se costoro
si dilungano dai razionalisti, cadono nell'opinione dei protestante dei
pseudomistici. Così infatti essi discorrono. Nel sentimento religioso,
si deve riconoscere quasi una certa intuizione del cuore; la quale mette
l'uomo in contatto immediato colla realtà stessa di Dio, e tale gl'infonde
una persuasione dell'esistenza di Lui e della Sua azione sì dentro,
sì fuori dell'uomo, da sorpassar di gran lunga ogni convincimento
scientifico. Asseriscono pertanto una vera esperienza, e tale da vincere
qualsivoglia esperienza razionale; la quale se da taluno, come dai razionalisti,
e negata, ciò dicono intervenire perché non vogliono porsi
costoro nelle morali condizioni, che son richieste per ottenerla. Or questa
esperienza, poi che l'abbia alcuno conseguita, è quella che lo costituisce
propriamente e veramente credente.
Quanto siamo qui lontani dagli insegnamenti cattolici! Simili vaneggiamenti
li abbiamo già uditi condannare dal Concilio Vaticano. Vedremo più
oltre come, con siffatte teorie, congiunte agli altri errori già
mentovati, si spalanchi la via all'ateismo. Qui giova subito notare che,
posta questa dottrina dell'esperienza unitamente all'altra del simbolismo,
ogni religione, sia pure quella degl'idolatri, deve ritenersi siccome vera.
Perché infatti non sarà possibile che tali esperienze s'incontrino
in ogni religione? E che si siano di fatto incontrate non pochi lo pretendono.
E con qual diritto modernisti negheranno la verità ad una esperienza
affermata da un islamita? con qual diritto rivendicheranno esperienze vere
pei soli cattolici? Ed infatti i modernisti non negano, concedono anzi,
altri velatamente altri apertissimamente, che tutte le religioni son vere.
E che non possano sentire altrimenti, è cosa manifesta. Imperocché
per qual capo, secondo i loro placiti, potrebbe mai ad una religione, qual
che si voglia, attribuirsi la falsità? Senza dubbio per uno di questi
due: o per la falsità del sentimento religioso, o per la falsità
della formola pronunziata dalla mente. Ora il sentimento religioso, benché
possa essere più o meno perfetto, è sempre uno: la formola
poi intellettuale, perché sia vera, basta che risponda al sentimento
religioso ed al credente, checché ne sia della forza d'ingegno in
costui. Tutt'al più, nel conflitto fra diverse religioni, i modernisti
potranno sostenere che la cattolica ha più di verità perché
più vivente, e merita con più ragione il titolo di cristiana,
perché risponde più pienamente alle origini del cristianesimo.
Che dalle premesse date scaturiscano siffatte conseguenze, non può
per fermo sembrare assurdo. Assurdissimo è invece che cattolici e
sacerdoti, i quali, come preferiamo credere, aborrono da tali enormità,
si portino in fatto quasi le ammettessero. Giacché tali sono le lodi
che tributano ai maestri di siffatti errori, tali gli onori che rendono
loro pubblicamente, da dar agevolmente a supporre che essi non onorano già
le persone, forse non prive di un qualche merito, ma piuttosto gli errori
che quelle professano apertamente e cercano a tutt'uomo propagare.
Ma, oltre al detto, questa dottrina dell'esperienza è per un altro
verso contrarissima alla cattolica verità. Imperocché viene
essa estesa ed applicata alla tradizione quale finora fu intesa dalla Chiesa,
e la distrugge. Ed infatti dai modernisti è la tradizione così
concepita che sia una comunicazione dell'esperienza originale fatta agli
altri, mercè la predicazione, per mezzo della formola intellettuale.
A questa formola perciò, oltre al valore rappresentativo, attribuiscono
una tal quale efficacia di suggestione, che si esplica tanto in colui che
crede, per risvegliare il sentimento religioso a caso intorpidito e rinnovar
l'esperienza già avuta una volta, quanto in coloro che ancor non
credono, per suscitare in essi la prima volta il sentimento religioso e
produrvi l'esperienza. Di questa guisa l'esperienza religiosa si viene a
propagare fra i popoli; né solo nei presenti per via della predicazione,
ma anche fra i venturi sì per mezzo dei libri e sì per la
trasmissione orale dagli uni agli altri. Avviene poi che una simile comunicazione
dell'esperienza si abbarbichi talora e viva, talora isterilisca subito e
muoia. Il vivere è pei modernisti prova di verità; giacché
verità e vita sono per essi una medesima cosa. Dal che è dato
inferir di nuovo, che tutte le religioni, quante mai ne esistono, sono egualmente
vere, poiché se nol fossero non vivrebbero. E tutto questo si spaccia
per dare un concetto più elevato e più ampio della religione!
Condotte fin qui le cose, o Venerabili Fratelli, abbiamo abbastanza in mano
per conoscere qual ordine stabiliscano i modernisti fra la fede e la scienza;
con qual nome di scienza intendono essi ancor la storia. E in primo luogo
si deve tenere che l'oggetto dell'una è affatto estraneo all'oggetto
dell'altra e da questo separato. Imperocché la fede si occupa unicamente
di cosa, che la scienza professa essere a sé inconoscibile. Quindi
diverso il campo ad entrambe assegnato: la scienza è tutta nella
realtà dei fenomeni, ove non entra affatto la fede: questa al contrario
si occupa della realtà divina che alla scienza è del tutto
sconosciuta. Dal che si viene a conchiudere che tra la fede e la scienza
non vi può essere mai dissidio: giacché, se ciascuna tiene
il suo campo, non potranno mai incontrarsi, né perciò contraddirsi.
Che se a ciò si opponga, nel mondo visibile esservi cose che pure
appartengono alla fede, come la vita umana di Cristo; i modernisti rispondono
negando. Perché quantunque tali cose sieno nel novero dei fenomeni,
pure, in quanto sono vissute dalla fede e, nel modo già indicato,
sono state da essa trasfigurate e sfigurate, furono tolte dal mondo sensibile
e trasferite ad essere materia del divino. Quindi, qualora più oltre
si ricercasse se Cristo abbia fatto veri miracoli e vere profezie, severamente
sia risorto ed asceso al Cielo; la scienza agnostica lo negherà,
la fede lo affermerà; né perciò vi sarà lotta
fra le due. Imperocché lo negherà il filosofo qual filosofo
parlando a filosofie considerando unicamente Cristo nella sua realtà
storica; l'affermerà il credente come credente parlando a credenti
e considerando la vita di Cristo quale è vissuta dalla fede e nella
fede.
S'ingannerebbe però a partito chi, date queste teorie, si credesse
autorizzato a credere, essere la fede e la scienza indipendenti l'una dall'altra.
Si, della scienza ciò è fuori di dubbio; ma è ben altro
della fede; la quale, non per uno ma per tre capi, deve andar soggetta alla
scienza. Imperocché da riflettersi in primo luogo che in ogni fatto
religioso, toltane la realtà divina e l'esperienza che di essa ha
chi crede, tutto il rimanente ed in specialità le formole religiose,
non escono dal campo dei fenomeni: e cadono quindi sotto il dominio della
scienza. Esca pure il credente dal mondo, se gli vien fatto; finché
però resterà nel mondo, non potrà mai sottrarsi, lo
voglia o no, alle leggi, all'osservazione, ai giudizi della scienza e della
storia. Di più, benché sia detto che Dio è oggetto
della sola fede, ciò nondimeno deve solo intendersi della realtà
divina, non già della idea di Dio. L'idea di Dio è pur essa
sottoposta alla scienza; la quale, mentre spazia nell'ordine logico, si
solleva fino all'assoluto ed all'ideale. È dunque diritto della filosofia
o della scienza sindacare l'idea di Dio, dirigerla nella sua evoluzione,
correggerla qualora vi si immischi qualche elemento estraneo: quindi il
ripetere che fanno i modernisti che l'evoluzione religiosa deve essere coordinata
colla evoluzione morale ed intellettuale; ossia, come insegna uno dei loro
maestri, deve essere subordinata. Per ultimo è pur da osservare che
l'uomo non soffre in sé dualismo: per la qual cosa il credente prova
in se stesso un intimo bisogno di armonizzare siffattamente la fede colla
scienza che non si opponga al concetto generale che scientificamente si
ha dell'universo. Così dunque si evince essere la scienza affatto
libera dalla libera fede; la fede invece, tuttoché si decanti estranea
alla scienza, essere a questa sottoposta.
Le quali cose tutte, Venerabili Fratelli, sono diametralmente contrarie
a ciò che insegnava il Nostro Antecessore Pio IX: "Essere dovere
della filosofia, in materia di religione, non dominare ma servire, non prescrivere
ciò che si debba credere, ma abbracciarlo con ragionevole ossequio,
né scrutar l'altezza dei misteri di Dio, ma piamente ed umilmente
venerarla" (Breve al Vescovo di Breslavia, 15 giugno 1857).
I modernisti invertono del tutto le parti. Ond'è che ad essi può
applicarsi ciò che l'altro Nostro Predecessore Gregorio IX scriveva
di taluni teologi del suo tempo: "Alcuni fra voi, gonfi come otri dello
spirito di vanità, si sforzano con novità profana di valicare
i termini segnati dai Padri; piegando alla dottrina filosofica dei razionali
l'intelligenza delle pagine Celesti, non per profitto degli uditori ma per
far pompa di scienza... Questi sedotti da dottrine diverse e peregrine,
tramutano in coda il capo e costringono la regina a servire all'ancella"
(Lettera ai maestri di Teologia di Parigi, 7 luglio 1223).
Il che parrà più manifesto dalla condotta stessa dei modernisti,
interamente conforme a quel che insegnano. Negli scritti e nei discorsi
sembrano essi non rare volte sostenere ora una dottrina ora un'altra, talché
si è facilmente indotti a giudicarli vaghi ed incerti. Ma tutto ciò
è fatto avvisatamente; per l'opinione cioè che sostengono
della mutua separazione della fede e della scienza. Quindi avviene che nei
loro libri si incontrano cose che ben direbbe un cattolico; ma, al voltar
della pagina, si trovano altre che si stimerebbero dettate da un razionalista.
Di qui, scrivendo storia, non fanno pur menzione della divinità di
Cristo; predicando invece nelle chiese, l'affermano con risolutezza. Di
qui parimente, nella storia non fanno nessun conto né di Padri né
di Concilî; ma se catechizzano il popolo, li citano con rispetto.
Di qui, distinguono l'esegesi teologica e pastorale dall'esegesi scientifica
e storica. Similmente dal principio che la scienza non ha dipendenza alcuna
dalla fede, quando trattano di filosofia, di storia, di critica, non avendo
orrore di premere le orme di Lutero (Prop. 29, condannata da Leone X, Bolla.
"Exsurge Domine", 15 maggio 1520: "Ci si è aperta
la strada per isnervare l'autorità dei Concilî e contraddire
liberamente alle loro deliberazioni, e giudicare i lor decreti e confessare
arditamente tutto ciò che ci sembra vero, sia approvato o condannato
da qualunque Concilio"), fanno pompa di un certo disprezzo delle dottrine
cattoliche, dei santi Padri, dei sinodi ecumenici, del magistero ecclesiastico:
e se vengono di ciò ripresi, gridano alla manomissione della libertà.
Da ultimo, posto l'aforisma che la fede deve soggettarsi alla scienza, criticano
di continuo e all'aperto la Chiesa, perché con somma ostinatezza
rifiuta di sottoporre ed accomodare i suoi dogmi alle opinioni della filosofia:
ed essi, da parte loro, messa fra i ciarpami la vecchia teologia, si adoperano
di porne in voga una nuova, tutta ligia ai deliramenti dei filosofi.
* * *
Con che, Venerabili
Fratelli, Ci si dà finalmente il passo per osservare i modernisti
sull'arena teologica. Difficile compito: ma con poco potremo trarCi d'impaccio.
Il fine da ottenere è la conciliazione della fede colla scienza,
restando però sempre incolume il primato della scienza sulla fede.
In questo affare il teologo modernista si giova degli stessissimi principî
che vedemmo usati dalla filosofia, adattandoli al credente; ciò sono
i principî dell'immanenza e del simbolismo. Ed ecco con quanta speditezza
compie egli il suo lavoro. Ha detto il filosofo: "Il principio della
fede è immanente"; il credente ha soggiunto: "Questo principio
è Dio";il teologo dunque conclude: "Dio è immanente
nell'uomo". Di qui l'essere dell'immanenza teologica. Parimente: il
filosofo ha ritenuto come certo che le "rappresentazioni dell'oggetto
della fede sono semplicemente simboliche"; il credente ha affermato
che "l'oggetto della fede è Dio in se stesso"; il teologo
adunque pronunzia: "Le rappresentazioni della realtà divina
sono simboliche". Di qui il simbolismo teologico. Errori per verità
enormi; i quali quanto sieno perniciosi, si vedrà luminosamente nell'osservarne
le conseguenze.
Infatti, per dir subito del simbolismo, i simboli essendo tali in relazione
all'oggetto, ed in relazione al credente non essendo che istrumenti, fa
mestieri innanzi tutto, così insegnano i modernisti, che il credente
non si attacchi troppo alla formola, ma se ne giovi solo allo scopo di unirsi
all'assoluta verità, di cui la formola rivela insieme e nasconde,
si sforza cioè di esprimere ma senza mai riuscirvi. Vogliono in secondo
luogo che il credente usi di tali formole tanto quanto gli sono utili, poiché
sono date per giovamento e non per averne intralcio; salvo, s'intende, il
rispetto che, per riguardi sociali, si deve alle formole giudicate acconce
dal pubblico magistero ad esprimere la coscienza comune, finché però
lo stesso magistero non stabilisca altrimenti. Quanto poi all'immanenza,
non è agevole determinare ciò che per essa intendano i modernisti;
giacché diverse sono fra essi le opinioni. Altri la pongono in ciò,
che Dio operante sia intimamente presente nell'uomo, più che non
sia l'uomo a sé stesso; il che, sanamente inteso, non può
riprendersi. Altri pretendono che l'azione divina sia una coll'azione della
natura, come di causa prima con quella di causa seconda; e ciò distruggerebbe
l'ordine soprannaturale. Altri per ultimo la spiegano in modo da dar sospetto
di un senso panteistico; il che, a dir vero, è più coerente
col rimanente delle loro dottrine.
A questo postulato dell'immanenza un altro poi se ne aggiunge, che si può
intitolare dalla permanenza divina: e l'una dall'altra si fa differire quasi
a quel modo stesso, che l'esperienza privata differisce dall'esperienza
trasmessa per tradizione. Un esempio illustrerà il concetto: e sia
l'esempio della Chiesa e dei Sacramenti. La Chiesa, dicono, e i Sacramenti
non si devon credere come istituiti da Cristo stesso. Vieta ciò l'agnosticismo,
che in Cristo non riconosce nulla più che un uomo, la cui coscienza
religiosa, come quella di ogni altro uomo, si è formata a poco a
poco; lo vieta la legge dell'immanenza, che non ammette, per dirlo con una
loro parola, esterne applicazioni; lo vieta pure la legge dell'evoluzione,
che per lo svolgersi dei germi richiede tempo ed una certa serie di circostanze;
lo vieta finalmente la storia, che mostra tale di fatto essere stato il
corso delle cose. Però è da tenersi che Chiesa e Sacramenti
furono istituiti mediatamente da Cristo. Ma in qual modo? eccolo. Le coscienze
tutte cristiane, essi dicono, furono virtualmente inchiuse nella coscienza
di Gesù Cristo, come la pianta nel seme. Or poiché i germi
vivono la vita del seme, così deve affermarsi che tutti i cristiani
vivono la vita di Cristo. Ma la vita di Cristo, secondo la fede, è
divina; dunque anche quella dei cristiani. Se pertanto questa vita, nel
corso dei secoli, diede origine alla Chiesa e ai Sacramenti, con ogni diritto
si potrà dire che tale origine è da Cristo ed è divina.
Nello stesso modo provano esser divine le Scritture e divini i dogmi. E
con ciò la teologia moderna può dirsi compiuta.
Esigua cosa a dir vero, ma più che abbondante per chi professa doversi
sempre ed in tutto rispettare le conclusioni della scienza. L'applicazione
poi di queste teorie agli altri punti che verremo esponendo potrà
ognuno farla di per sé stesso.
Abbiam parlato finora della origine e della natura della fede. Ma molti
essendo i germi di questa, e principali fra essi la Chiesa, il dogma, il
culto, i Libri sacri, di questi eziandio è da conoscere ciò
che insegnano i modernisti. E per farci dal dogma, l'origine e la natura
di esso quale sia, si è già indicato più sopra. Nasce
il dogma dal bisogno che prova il credente di lavorare sul suo pensiero
religioso, sì da rendere la sua e l'altrui coscienza sempre più
chiara. Tale lavorio consiste tutto nell'indagare ed esporre la formola
primitiva, non già in se stessa e razionalmente, ma rispetto alle
circostanze o, come più astrusamente dicono, vitalmente. Di qui si
ha che intorno alla medesima si vadano formando delle formole secondarie,
che poi sintetizzate e riunite in un'unica costruzione dottrinale, quando
questa sia suggellata dal pubblico magistero come rispondente alla coscienza
comune, si chiamerà dogma. Dal dogma son da distinguersi accuratamente
le speculazioni teologiche; le quali però, benché non vivano
della vita del dogma, pur tuttavia non sono inutili sì per armonizzare
la religione colla scienza e togliere fra loro ogni contrasto, sì
per lumeggiare esternamente e difendere la religione stessa; e chi sa che
forse non giovino altresì per preparar la materia di un dogma futuro.
Del culto poi non vi sarebbe gran che da dire, se sotto questo nome non
venissero eziandio i Sacramenti, intorno ai quali sono gravissimi gli errori
dei modernisti. Il culto vogliono che risulti da un doppio bisogno; giacché,
torniamo ad osservarlo, nel loro sistema tutto va attribuito ad intimi bisogni.
L'uno è quello di dare alla religione alcunché di sensibile;
l'altro è il bisogno di propagarla, il che non potrebbe avvenire
senza una qualche forma sensibile e senza atti santificanti, che diconsi
Sacramenti. Quanto poi ai Sacramenti, essi pei modernisti si riducono a
meri simboli o segni, non però privi di efficacia; efficacia che
essi cercano di spiegare coll'esempio di certe cotali parole che volgarmente
diconsi aver fatto fortuna, per avere acquistata la forza di diffondere
talune idee potenti e che colpiscono grandemente gli animi. Come quelle
parole sono ordinate alle dette idee, così i Sacramenti al sentimento
religioso: nulla di vantaggio. Parlerebbero certamente più chiaro
ove affermassero che i Sacramenti sono istituiti unicamente per nutrir la
fede. Ma ciò è condannato dal Concilio di Trento (Sess. VII,
de Sacramentis in genere, can. 5): "Se alcuno dirà che questi
Sacramenti sono istituiti solo per nutrir In fede, sia anatema".
Della natura ancora e dell'origine dei Libri sacri già si è
toccato. Secondo il pensare dei modernisti, si può ben definirli
una raccolta di esperienze: non di quelle, che comunemente si hanno da ognuno,
ma delle straordinarie e più insigni che siensi avute in una qualche
religione. E così essi appunto insegnano a riguardo dei nostri libri
del Vecchio e del Nuovo Testamento. A lor comodo però, notano assai
scaltramente che, sebbene l'esperienza sia del presente, può tuttavolta
prender materia dal passato ed eziandio dal futuro, in quanto che il credente
o per la memoria rivive il passato a maniera del presente, o vive già
per anticipazione l'avvenire. Ciò giova a dar modo di computare fra
i Libri santi anche gli storici e gli apocalittici. Così adunque
in questi libri parla bensì Iddio per mezzo del credente; ma, come
vuole la teologia modernistica, solo per immanenza e permanenza vitale.
Vorrà sapersi, in che consista dopo ciò l'ispirazione? Rispondono
che non si distingue, se non forse per una certa maggiore veemenza, dal
bisogno che sente il credente di manifestare a voce e per scritto la propria
fede. È alcun che di simile a quello che si avvera nella ispirazione
poetica; per cui un cotale diceva: È Dio in noi, da Lui agitati noi
c'infiammiamo. È questo appunto il modo onde Dio deve dirsi origine
della ispirazione dei Libri sacri.
Affermano inoltre i modernisti che nulla vi è in questi libri che
non sia ispirato. Nel che potrebbe taluno crederli più ortodossi
di certi altri moderni che restringono alquanto la ispirazione, come, a
mo' di esempio, nelle così dette citazioni tacite. Ma queste non
sono che lustre e parole. Imperciocché se, secondo l'agnosticismo,
riteniamo la Bibbia come un lavoro umano fatto da uomini per servigio di
uomini, salvo pure al teologo di chiamarla divina per immanenza, come mai
l'ispirazione potrebbe in essa restringersi? Sì, i modernisti affermano
un'ispirazione totale: ma, nel senso cattolico, non ne ammettono in fatto
veruna.
Più larga materia ci offre ciò che la scuola dei modernisti
fantastica a riguardo della Chiesa. È qui da presupporre che la Chiesa
secondo essi è frutto di due bisogni: uno nel credente, specie se
abbia avuta qualche esperienza originale e singolare, di comunicare ad altri
la propria fede; l'altro nella collettività, dopo che la fede si
è fatta comune a molti, di aggrupparsi in società e di conservare,
accrescere e propagare il bene comune. Che cosa è dunque la Chiesa?
un parto della coscienza collettiva, ossia collettività di coscienze
individuali; le quali, in forza della permanenza vitale, pendono tutte da
un primo credente, cioè pei cattolici da Cristo. Ora ogni società
ha bisogno di un'autorità che la regga: il cui compito sia dirigere
gli associati al fine comune, e conservare saggiamente gli elementi di coesione,
i quali in una società religiosa sono la dottrina ed il culto. Perciò
nella Chiesa cattolica una triplice autorità: disciplinare, dogmatica,
culturale. La natura poi di questa autorità dovrà desumersi
dalla sua origine; e dalla natura si dovranno a loro volta dedurre i diritti
e i doveri.
Fu errore volgare dell'età passata che l'autorità sia venuta
alla Chiesa dal di fuori, cioè immediatamente da Dio: e perciò
era giustamente ritenuta autocratica. Ma queste sono teorie oggimai passate
di moda. Come la Chiesa è emanata dalla collettività delle
coscienze, cosi l'autorità emana vitalmente dalla stessa Chiesa.
Pertanto l'autorità del pari che la Chiesa nasce dalla coscienza
religiosa, e perciò alla medesima resta soggetta: e se venga meno
a siffatta soggezione, si volge in tirannide. Nei tempi che corrono il sentimento
di libertà è giunto al suo pieno sviluppo. Nello stato civile
la pubblica coscienza ha voluto un regime popolare. Ma la coscienza dell'uomo,
come la vita, è una sola. Se dunque l'autorità della Chiesa
non vuol suscitare e mantenere una guerra intestina nelle coscienze umane,
uopo è che si pieghi anch'essa a forme democratiche; tanto più
che, a negarvisi, lo sfacelo sarebbe imminente. È da pazzo il credere
che possa aversi un regresso nel sentimento di libertà quale domina
al presente. Stretto e rinchiuso con violenza strariperà più
potente, distruggendo insieme la religione e la Chiesa. Fin qui il ragionare
dei modernisti: e la conseguenza è, che sono tutti intesi a trovar
modi per conciliare l'autorità della Chiesa colla libertà
dei credenti.
Se non che non solamente fra le sue stesse pareti trova la Chiesa con chi
doversi comporre amichevolmente, ma eziandio fuori. Non è sola essa
ad occupare il mondo: l'occupano insieme altre società, colle quali
non può aver uso e commercio. Convien dunque determinare quali sieno
i diritti e i doveri della Chiesa verso le società civili; e ben
s'intende che tale determinazione deve esser desunta dalla natura della
Chiesa stessa, quale i modernisti l'hanno descritta. Le regole perciò
da usarsi son quelle stesse che sopra si adoperarono per la scienza e la
fede. Ivi parlavasi di oggetti, qui di fini. Come adunque, per ragione dell'oggetto,
si dissero la fede e la scienza vicendevolmente estranee, così lo
Stato e la Chiesa sono l'uno all'altra estranei pel fine a cui tendono,
temporale per lo Stato, spirituale pella Chiesa. Fu d'altre età il
sottomettere il temporale allo spirituale; il parlarsi di questioni miste,
nelle quali la Chiesa interveniva quasi signora e regina, perché
la Chiesa sl stimava istituita immediatamente da Dio, come autore dell'ordine
soprannaturale. Ma la filosofia e la storia non più ammettono cotali
credenze.
Adunque lo Stato deve separarsi dalla Chiesa e per egual ragione il cattolico
dal cittadino. Di qui è, che il cattolico, perché insieme
cittadino, ha diritto e dovere, non curandosi dell'autorità della
Chiesa, dei suoi desiderî, consigli e comandi, sprezzate altresì
le sue riprensioni, di far quello che giudicherà espediente al bene
della patria. Voler imporre al cittadino una linea di condotta sotto qualsiasi
pretesto è un vero abuso di potere ecclesiastico da respingersi con
ogni sforzo. Le teorie, o Venerabili Fratelli, onde promanano tutti questi
errori, son quelle appunto che il Nostro Predecessore Pio VI già
condannò solennemente nella Costituzione Apostolica "Auctorem
Fidei" (Prop. 2). "La proposizione che stabilisce che la potestà
è stata da Dio data alla Chiesa, perché fosse comunicata ai
Pastori, che sono ministri di lei per la salute delle anime; così
intesa, che la potestà del ministero e regime ecclesiastico si derivi
nei Pastori dalla Comunità dei fedeli: eretica". Prop. 3. "Inoltre
quella che stabilisce il Romano Pontefice esser capo ministeriale; così
spiegata che il Romano Pontefice, non da Cristo nella persona del Beato
Pietro, ma dalla Chiesa abbia avuta la potestà del ministero, di
cui come successore di Pietro, vero Vicario di Cristo e capo di tutta la
Chiesa, gode nella Chiesa universa: eretica").
Ma non basta alla scuola dei modernisti che lo Stato sia separato dalla
Chiesa. Come la fede, quanto agli elementi fenomenici, deve sottostare alla
scienza, così nelle cose temporali la Chiesa ha da soggettarsi allo
Stato. Questo forse non l'asseriscono essi peranco apertamente; ma per forza
di raziocinio sono costretti ad ammetterlo. Imperocché, concesso
che lo Stato abbia assoluta padronanza in tutto ciò che è
temporale, se avvenga che il credente, non pago della religione dello spirito,
esca in atti esteriori, quali per mo' di esempio, l'amministrarsi o il ricevere
dei Sacramenti, bisognerà che questi cadano sotto il dominio dello
Stato. E che sarà dopo ciò dell'autorità ecclesiastica?
Siccome questa non si spiegasse non per atti esterni, sarà in tutto
e per tutto assoggettata al potere civile. È questa ineluttabile
conseguenza che trascina molti fra i protestanti liberali a sbarazzarsi
di ogni culto esterno, anzi d'ogni esterna società religiosa, i quali
invece si adoprano di porre in voga una religione che chiamano individuale.
Che se i modernisti, a luce di sole, non si spingono ancora tant'oltre,
insistono intanto perché la Chiesa si pieghi spontaneamente ove essi
la voglion trarre e si acconci alle forme civili. Tutto ciò per l'autorità
disciplinare.
Più gravi assai e perniciose sono le loro affermazioni a riguardo
dell'autorità dottrinale e dogmatica. Circa il magistero ecclesiastico
così essi la pensano: la società religiosa non può
veramente essere una senza unità di coscienza nei suoi membri e senza
unita di formola. Ma questa duplice unità richiede, per così
dire, una mente comune, a cui spetti trovare e determinare la formola, che
meglio risponda alla coscienza comune: alla qual mente fa d'uopo inoltre
attribuire un'autorità bastevole, perché possa imporre alla
comunanza la formola stabilita. Or nell'unione è quasi fusione della
mente designatrice della formola e dell'autorità che la impone, ritrovano
i modernisti il concetto del magistero ecclesiastico. Poiché dunque
in fin dei conti il magistero non nasce che dalle coscienze individuali
ed a bene delle stesse coscienze ha imposto un pubblico ufficio; ne consegue
di necessità che debba dipendere dalle medesime coscienze e debba
quindi avviarsi a forme democratiche. Il proibire pertanto alle coscienze
degli individui che facciano pubblicamente sentire i loro bisogni; non soffrire
chela critica spinga il dogma verso necessarie evoluzioni, non è
già uso di potestà, data per pubblico bene, ma abuso.
Similmentene l'uso stesso della potestà fa di mestieri serbare modo
e misura. Sa di tirannide condannare un libro all'insaputa dell'autore,
senza ammettere spiegazioni di sorta né discussione. Adunque qui
pure è da ricercarsi una via di mezzo che salvi insieme i diritti
dell'autorità e della libertà. Nel frattempo il cattolico
si regolerà in guisa che non lasci pubblicamente di protestarsi rispettosissimo
dell'autorità, continuando però sempre ad operare a suo talento.
In generale vogliono ammonita la Chiesa che, poiché il fine della
potestà ecclesiastica è tutto spirituale, disdice ogni esterno
apparato di magnificenza con che essa si circonda agli occhi delle moltitudini.
Nel che non riflettono che se la religione è essenzialmente spirituale
non c tuttavia ristretta al solo spirito; e che l'onore tributato all'autorità
ridonda su Gesù Cristo che ne fu istitutore.
Per compiere tutta questa materia della fede e dei diversi suoi germi, rimane
da ultimo, Venerabili Fratelli, che ascoltiamo le teorie dei modernisti
circa lo sviluppo dei medesimi. È lor principio generale che in una
religione vivente tutto debba essere mutevole e mutarsi di fatto. Di qui
fanno passo a quella che è delle principali fra le loro dottrine,
vogliam dire all'evoluzione. Dogma dunque, Chiesa, culto, Libri sacri, anzi
la fede stessa, se non devon esser cose morte, fa mestieri che sottostiano
alle leggi dell'evoluzione. Siffatto principio non si udrà con istupore
da chi rammenti quanto i modernisti son venuti affermando intorno a ciascuno
di questi oggetti. Posta pertanto la legge dell'evoluzione, i modernisti
stessi ci descrivono in qual maniera l'evoluzione si effettui.
E cominciamo dalla fede. La forma primitiva, essi dicono, della fede fu
rudimentaria e comune indistintamente a tutti gli uomini; giacché
nasceva dalla natura e dalla vita umana. Il progresso si ebbe per sviluppo
vitale; che è quanto dire non per aggiunta di nuove forme apportate
dal di fuori, ma per una crescente penetrazione nella coscienza del sentimento
religioso. Doppio indi fu il modo di progredire nella fede: prima negativamente,
col depurarsi da ogni elemento estraneo, come ad esempio dal sentimento
di famiglia o di nazionalità; quindi positivamente, mercè
il perfezionarsi intellettuale e morale dell'uomo, per cui l'idea divina
sl ampliò ed illustrò e il sentimento religioso divenne più
squisito. Del progresso della fede non altre cause assegnar si possono che
quelle stesse onde già si spiegò la sua origine. Alle quali
però fa d'uopo aggiungere quei genii religiosi, che noi chiamiamo
profeti e dei quali Cristo fu il sommo; sì perché nella vita
o nelle parole ebbero un certo che di misterioso, che la fede attribuiva
alla divinità, e sì perché toccaron loro esperienze
nuove ed originali in piena armonia coi bisogni del loro tempo. Il progresso
del dogma nasce principalmente dal bisogno di superare gli ostacoli della
fede, di vincere gli avversari, di ribattere le difficoltà, senza
dire dello sforzo continuo di viemeglio penetrare gli arcani della fede.
Così, per tacer di altri esempi, è avvenuto di Cristo; in
cui, quel più o meno divino, che la fede in esso ammetteva, si venne
gradatamente amplificando in modo, che finalmente fu ritenuto per Dio. Lo
stimolo precipuo di evoluzione del culto sarà il bisogno di adattarsi
agli usi ed alle tradizioni dei popoli; come altresì di usufruire
della virtù che certi atti hanno ricevuto dall'usanza. La Chiesa
finalmente trova la sua ragione di evolversi nel bisogno di accomodarsi
alle condizioni storiche e di accordarsi colle forme di civil governo pubblicamente
adottate. Così i modernisti di ciascun capo in particolare. E qui,
innanzi di farCi oltre, bramiamo che ben si avverta di nuovo a questa loro
dottrina dei bisogni; giacché essa, oltreché di quanto finora
abbiam visto, è quasi base e fondamento di quel vantato metodo che
chiamano storico.
Or, restando tuttavia nella teoria della evoluzione, vuole di più
osservarsi che quantunque i bisogni servano di stimolo per la evoluzione,
essa nondimeno, regolata unicamente da siffatti stimoli, valicherebbe facilmente
i termini della tradizione, e strappata così dal primitivo principio
vitale, meglio che a progresso menerebbe a rovina. Quindi studiando più
a fondo il pensiero dei modernisti, deve dirsi che l'evoluzione è
come il risultato di due forze che si combattono, delle quali una è
progressiva, l'altra conservatrice. La forza conservatrice sta nella Chiesa
e consiste nella tradizione. L'esercizio di lei è proprio dell'autorità
religiosa; e ciò, sia per diritto, giacché sta nella natura
di qualsiasi autorità il tenersi fermo il più possibile alla
tradizione; sia per fatto, perché sollevata al disopra delle contingenze
della vita, poco o nulla sente gli stimoli che spingono a progresso. Per
contrario la forza che, rispondendo ai bisogni, trascina a progredire, cova
e lavora nelle coscienze individuali, in quelle soprattutto che sono, come
dicono, più a contatto della vita.
Osservate qui di passaggio, o Venerabili Fratelli, lo spuntar fuori di quella
dottrina rovinosissima che introduce il laicato nella Chiesa come fattore
di progresso. Da una specie di compromesso fra le due forze di conservazione
e di progressione, fra l'autorità cioè e le coscienze individuali,
nascono le trasformazioni e i progressi. Le coscienze individuali, o talune
di esse, fan pressione sulla coscienza collettiva; e questa a sua volta
sull'autorità, e la costringe a capitolare ed a restare ai patti.
Ciò ammesso, ben si comprendono le meraviglie che fanno i modernisti,
se avvenga che siano biasimati o puniti. Ciò che loro sia scrive
a colpa, essi l'hanno per sacrosanto dovere. Niuno meglio di essi conosce
i bisogni delle coscienze perché si trovano con queste a più
stretto contatto che non si trovi la potestà ecclesiastica. Incarnano
quasi in sé quei bisogni tutti: e quindi il dovere per loro di parlare
apertamente e di scrivere. Li biasimi pure l'autorità, la coscienza
del dovere li sostiene, e sanno per intima esperienza di non meritare riprensioni
ma encomii. Pur troppo essi sanno che i progressi non si hanno senza combattimenti,
né combattimenti senza vittime: e bene, saranno essi le vittime,
come già i profeti e Cristo. Né perché siano trattati
male, odiano l'autorità: concedono che ella adempia il suo dovere.
Solo rimpiangono di non essere ascoltati, perché in tal guisa il
progredire degli animi si ritarda: ma verrà senza meno il tempo di
rompere gl'indugi, giacché le leggi dell'evoluzione si possono raffrenare,
ma non possono affatto spezzarsi.
E così continuano il lor cammino, continuano benché ripresi
e condannati, celando un'incredibile audacia col velo di un'apparente umiltà.
Piegano fintamente il capo: ma la mano e la mente proseguono con più
ardimento il loro lavoro. E così essi operano scientemente e volentemente;
sì perché è loro regola che l'autorità debba
essere spinta, non rovesciata; si perché hanno bisogno di non uscire
dalla cerchia della Chiesa per poter cangiare a poco a poco la coscienza
collettiva; il che quando dicono, non si accorgono di confessare che la
coscienza collettiva dissente da loro, e che quindi con nessun diritto essi
si dànno interpreti della medesima.
Per detto adunque e per fatto dei modernisti nulla, o Venerabili Fratelli,
vi deve essere di stabile, nulla di immutabile nella Chiesa. Nella qual
sentenza non mancarono ad essi dei precursori, quelli cioè dei quali
il Nostro Predecessore Pio IX già scriveva: "Questi nemici della
divina rivelazione, che estollono con altissime lodi l'umano progresso,
vorrebbero, con temerario e sacrilego ardimento, introdurlo nella cattolica
religione, quasi che la stessa religione fosse opera non di Dio ma degli
uomini o un qualche ritrovato filosofico che con mezzi umani possa essere
perfezionato" (Enc. "Qui pluribus", 9 nov. 1846).
Circa la rivelazione specialmente e circa il dogma, la dottrina dei modernisti
non ha filo di novità; ma è quella stessa che nel Sillabo
di Pio IX ritroviamo condannata, così espressa: "La divina rivelazione
è imperfetta e perciò soggetta a continuo ed indefinito progresso,
che risponda a quello dell'umana ragione" (Sillabo, Prop. V); più
solennemente poi la troviamo riprovata dal Concilio Vaticano in questi termini:
"Né la dottrina della fede, che Dio rivelò, è
proposta agli umani ingegni da perfezionare come un ritrovato filosofico,
ma come un deposito consegnato alla Sposa di Cristo, da custodirsi fedelmente
e da dichiararsi infallibilmente. Quindi dei sacri dogmi altresì
deve sempre ritenersi quel senso che una volta dichiarò la Santa
Madre Chiesa, né mai deve allontanarsi da quel senso sotto pretesto
e nome di più alta intelligenza" (Const. Dei Filius, cap. IV).
Col che senza dubbio l'esplicazione nelle nostre cognizioni, anche circa
la fede, tanto è lungi che venga impedita, che anzi ne è aiutata
e promossa. Laonde lo stesso Concilio prosegue dicendo: "Cresca dunque
e molto e con slancio progredisca l'intelligenza, la scienza, la sapienza
così dei singoli come di tutti, così di un sol uomo come di
tutta la Chiesa coll'avanzare delle età e dei secoli; ma solo nel
suo genere, cioè nello stesso dogma, nello stesso senso e nella stessa
sentenza" (Loc. cit.).
Ma ormai, dopo aver osservato nei seguaci del modernismo il filosofo, il
credente, il teologo, resta che osserviamo parimente lo storico, il critico,
l'apologista.
Taluni dei modernisti, che si dànno a scrivere storia, paiono oltremodo
solleciti di non passar per filosofi; che anzi professano di essere affatto
ignari di filosofia. È ciò un tratto di finissima astuzia:
affinché nessuno creda che essi sieno infetti di pregiudizi filosofici
e non sieno perciò, come dicono, affatto obbiettivi. Ma il vero è,
che la loro storia o critica non parla che con la lingua della filosofia;
e le conseguenze che traggono, vengono di giusto raziocinio dai loro principî
filosofici. Il che, a chi bene riflette, si fa subito manifesto. I primi
tre canoni di questi tali storici o critici sono quegli stessi principî,
che sopra riportammo dai filosofi: cioè l'agnosticismo, il teorema
della trasfigurazione delle cose per la fede, e l'altro che Ci parve poter
chiamare dello sfiguramento. Osserviamo le conseguenze che da ciascuno di
questi si traggono.
Dall'agnosticismo si ha che la storia, non meno che la scienza, si occupa
solo dei fenomeni. Dunque, tanto Dio quanto un intervento qualsiasi divino
nelle cose umane deve rimandarsi alla fede come di esclusiva sua pertinenza.
Per lo che se trattasi di cosa in cui s'incontri un duplice elemento, divino
ed umano come Cristo, la Chiesa, i Sacramenti e simili, dovrà dividersi
e sceverarsi in modo che ciò che è umano si dia alla storia,
ciò che è divino alla fede. Quindi quella distinzione comune
fra i modernisti, fra un Cristo storico ed un Cristo della fede, una Chiesa
della storia ed una Chiesa della fede, fra Sacramenti della storia e Sacramenti
della fede e via dicendo. Dipoi questo stesso elemento umano, che vediamolo
storico prendersi per sé quale essa si porge nei monumenti, deve
ritenersi sollevato dalla fede per trasfigurazione al di là delle
condizioni storiche. Conviene perciò separarne di nuovo tutte le
aggiunte fattevi: cosi, trattandosi di Gesù Cristo, tutto quello
che passa la condizione dell'uomo sia naturale, quale si dà dalla
psicologia, sia risultante dal luogo e dal tempo in che visse. Di più,
per terzo principio filosofico, pur quelle cose che non escono dalla cerchia
della storia, le vagliano quasi e ne escludono, rimandandolo parimenti alla
fede, tutto ciò che, secondo quanto dicono, non entra nella logica
dei fatti o non era adatto alle persone. Di tal modo, vogliono che Cristo
non abbia dette le cose che non sembrano essere alla portata del volgo.
Quindi dalla storia reale di Lui cancellano e rimettono alla fede tutte
le allegorie che incontransi nei suoi discorsi.
Si vuol forse sapere con quali regole si compia questa cernita? Con quella
del carattere dell'uomo, della condizione che ebbe nella società,
della educazione, delle circostanze di ciascun fatto: a dir breve con una
norma, se bene intendiamo, che si risolve per ultimo in mero soggettivismo.
Si studiano cioé di prendere essi e quasi rivestire la persona di
Gesù Cristo; ed a Lui ascrivono senza più quanto in simili
circostanze avrebbero fatto essi stessi. Così dunque, per conchiudere,
a priori, come suol dirsi, e coi principî di una filosofia, che essi
ammettono ma ci asseriscono d'ignorare, nella storia che chiamano reale
affermano Cristo non essere Dio né aver fatto nulla di divino; come
uomo poi aver Lui fatto e detto quel tanto, che essi, riferendosi al tempo
in cui Egli visse, Gli consentono di aver operato e parlato.
Come poi la storia riceve dalla filosofia le sue conclusioni, così
la critica le ha a sua volta dalla storia. Essendoché il critico
seguendo gli indizi dati dallo storico, di tutti i documenti ne fa due parti.
Tutto ciò che rimane, dopo il triplice taglio or ora descritto, lo
assegna alla storia reale; il restante lo confina alla storia della fede,
ossia alla storia interna. Giacché queste due storie distinguono
diligentemente i modernisti; e, ciò che e ben da notarsi, alla storia
della fede contrappongono la storia reale in quanto è reale. Perciò,
come già si è detto, un doppio Cristo; l'uno reale, l'altro
che veramente non mai esisté ma appartiene alla fede; l'uno che visse
in determinato luogo e tempo, l'altro che solo s'incontra nelle pie meditazioni
della fede; tale, per mo' d'esempio, è il Cristo descrittoci nell'Evangelio
giovanneo, il qual Vangelo, affermano, non è che una meditazione.
Ma qui non si arresta il dominio della filosofia nella storia. Fatta, come
dicemmo, la divisione dei documenti in due parti, si presenta di nuovo il
filosofo col suo principio dell'immanenza vitale, e prescrive che tutto
quanto è nella storia della Chiesa debba spiegarsi per vitale emanazione.
E poiché la causa o condizione di qualsiasi emanazione vitale deve
ripetersi da un bisogno, si avrà che ogni avvenimento si dovrà
concepire dopo il bisogno, e dovrà istoricamente ritenersi posteriore
a questo. Che fa allora lo storico? Datosi a studiar di nuovo i documenti,
tanto nei Libri sacri quanto ricevuti altronde, va tessendo un catalogo
dei singoli bisogni che man mano si presentarono nella Chiesa sia per riguardo
al dogma, sia per riguardo al culto od altre materie: e quel catalogo trasmette
poscia al critico. E questi mette indi mano ai documenti destinati alla
storia della fede e li distribuisce in guisa di età in età,
che rispondano al datogli elenco; rammentando sempre il precetto che il
fatto è preceduto dal bisogno e la narrazione dal fatto. Potrà
ben darsi talora che talune parti della Sacra Scrittura, come le Epistole,
sieno esse stesse il fatto creato dal bisogno. Checché sia però,
deve aversi per regola che l'età di un documento qualsiasi non può
determinarsi se non dall'età in cui ciascun bisogno si è manifestato
nella Chiesa.
Di più è da distinguere fra l'inizio di un fatto e la sua
esplicazione; poiché ciò che può nascere in un giorno,
non cresce se non col tempo. E questa è la ragione perché
il critico debba novamente spartire in due i documenti già disposti
per età, sceverando quelli che riguardano le origini di un fatto
da quelli che appartengono al suo svolgimento, e questi eziandio ordini
secondo il succedersi dei tempi.
Ciò fatto, entra di nuovo in iscena il filosofo, ed impone allo storico
di compiere i suoi studi a seconda dei precetti e delle leggi dell'evoluzione.
E lo storico torna a scrutare i documenti, ricerca sottilmente le circostanze
e condizioni nelle quali, col succedersi dei tempi, la Chiesa si è
trovata, i bisogni così interni che esterni che l'hanno spinta a
progresso, gli ostacoli che incontrò: a dir breve, tutto ciò
che giovi a determinare il modo onde furono mantenute le leggi della evoluzione.
Compiuto un tal lavoro, egli finalmente tesse nelle sue linee principali
la storia dello sviluppo dei fatti. Segue il critico, che a questo tema
storico adatta il restante dei documenti. Si dà mano a stendere la
narrazione: la storia è compiuta.
Or qui chiediamo, a chi dovrà attribuirsi una simile storia? allo
storico forse od al critico? Per fermo né all'uno all'altro, sì
bene al filosofo. Tutto il lavoro di essa è un lavoro di apriorismo,
e di apriorismo riboccante di eresie. Fanno certamente pietà questi
uomini, dei quali l'Apostolo ripeterebbe: "Svanirono nei pensamenti...
imperocché vantandosi di essere sapienti, son divenuti stolti"
(Rom., I, 21, 22); ma muovono in pari tempo a sdegno, quando poi accusano
la Chiesa di manipolare i documenti in guisa da farli servire ai propri
vantaggi. Addebitano cioè alla Chiesa ciò che dalla propria
coscienza sentono apertamente rimproverarsi.
Dall'avere così disgregati i documenti e seminatili lungo le età,
segue naturalmente che i Libri sacri non possano di fatto attribuirsi agli
autori, dei quali portano il nome. E questo è il motivo perché
i modernisti non esitano punto nell'affermare che quei libri, e specialmente
il Pentateuco ed i tre primi Vangeli, da una breve narrazione primitiva,
son venuti man mano crescendo per aggiunte o interpolazioni, sia a maniera
di interpretazioni o teologiche o allegoriche, sia a modo di transizioni
che unissero fra sé le parti. A dir più breve e più
chiaro vogliono che debba ammettersi la evoluzione vitale dei Libri sacri,
nata dalla evoluzione della fede e ad essa corrispondente. Aggiungono di
più, che le tracce di cotale evoluzione sono tanto manifeste, da
potersene quasi scrivere una storia. La scrivono anzi questa storia, e con
tanta sicurezza che si sarebbe tentati a creder aver essi visto coi propri
occhi i singoli scrittori che di secolo in secolo stesero la mano all'ampliazione
delle sante Scritture. A conferma di che, chiamano in aiuto la critica che
dicono testuale; e si adoprano di persuadere che questo o quel fatto, questo
o quel discorso non si trovi al suo posto e recano altre ragioni del medesimo
stampo. Direbbesi per verità che si sieno prestabiliti certi quasi-tipi
di narrazioni o parlate, che servano di criterio certissimo per giudicare
ciò che stia al suo posto e ciò che sia fuor di luogo.
Con siffatto metodo stimi chi può come costoro debbano essere capaci
di giudicare. Eppure, chi li ascolti ad oracolare dei loro studi sulle Scritture,
pei quali han potuto scoprirvi si gran numero di incongruenze, è
spinto a credere che niun uomo prima di loro abbia sfogliato quei libri,
né che li abbia ricercati per ogni verso una quasi infinita schiera
di Dottori, per ingegno, per scienza, per santità di vita più
di loro. I quali Dottori sapientissimi, tanto fu lungi che trovasser nulla
da riprendere nei Libri santi, che anzi quanto più ringraziavano
Iddio, che si fosse così degnato di parlare cogli uomini. Ma purtroppo
i Dottori nostri non attesero allo studio delle Scritture con quei mezzi,
onde son forniti i modernisti! Cioè non ebbero a maestra e condottiera
una filosofia che trae principio dalla negazione di Dio, né fecero
a se stessi norma di giudicare. Crediamo adunque che sia ormai posto in
luce il metodo storico dei modernisti. Precede il filosofo; segue lo storico;
tengon dietro per ordine la critica interna e la testuale.
E poiché la prima causa questo ha di proprio che comunica la sua
virtù alle seconde, è evidente che siffatta critica non è
una critica qualsiasi, ma una critica agnostica, immanentista, evoluzionista;
e perciò chi la professa o ne fa uso, professa gli errori in essa
racchiusi e si pone in contraddizione colla dottrina cattolica. Per la quale
cosa non può finirsi di stupire come una critica di tal genere possa
oggidì aver tanta voga presso cattolici. Di ciò può
assegnarsi una doppia causa: la prima è l'alleanza onde gli storici
ed i critici di questa specie sono legati fra loro senza riguardi a diversità
di nazioni o di credenze; la seconda è l'audacia indicibile, con
cui ogni stranezza che uno di loro proferisca, dagli altri è levata
al cielo e decantata qual progresso della scienza; con cui, se taluno voglia
da se stesso verificare il nuovo ritrovato, serratisi insieme lo assalgono,
se talun lo neghi lo trattano da ignorante, se lo accolga e lo difenda lo
ricoprono di encomî. Così non pochi restano ingannati che forse,
se meglio vedessero le cose, ne sarebbero inorriditi. Da questo prepotente
imporsi dei fuorviati, da questo incauto assentimento di animi leggeri nasce
poi un quasi corrompimento di atmosfera che tutto penetra e diffonde per
tutto il contagio. Ma passiamo all'apologista.
Costui, nei modernisti, dipende ancor esso doppiamente dal filosofo. Prima
indirettamente, pigliando per sua materia la storia scritta, come vedemmo,
dietro le norme del filosofo: poi direttamente accettando dal filosofo i
principî e i giudizî. Quindi quel comune precetto della scuola
del modernismo che la nuova apologia debba dirimere le controversie religiose
per via di ricerche storiche e psicologiche. Ond'è che gli apologisti
dan capo al loro lavoro coll'ammonire i razionalisti che essi difendono
la religione non coi Libri sacri né colle storie volgarmente usate
nella Chiesa e scritte alla vecchia moda; ma colla storia reale composta
a seconda dei moderni precetti e con metodo moderno. E ciò dicono,
non quasi argomentando ad hominem, ma perché difatti credono che
solo in tale storia si trovi la verità. Non si curano poi, nello
scrivere, di insistere sulla propria sincerità: sono essi già
noti presso i razionalisti, sono già lodati siccome militanti sotto
una stessa bandiera; della quale lode, che ad un cattolico dovrebbe fare
ribrezzo, essi si compiacciono o se ne fanno scudo contro le riprensioni
della Chiesa.
Ma vediamo in pratica come uno di costoro compia la sua apologia. Il fine
che si propone è di condurre l'uomo che ancora non crede a provare
in sé quella esperienza della cattolica religione che, secondo i
modernisti, è base della fede. Due vie perciò gli si aprono,
l'una oggettiva, l'altra soggettiva. La prima muove dall'agnosticismo; e
tende a dimostrare come nella religione e specialmente nella cattolica vi
sia tale virtù vitale, da costringere ogni savio psicologo e storico
ad ammettere che nella storia di essa si nasconda alcun che di incognito.
A tale scopo fa d'uopo provare che la religione cattolica qual è
al presente, è la stessissima che Gesù Cristo fondò,
ossia il progressivo sviluppo del germe recato da Gesù Cristo. Pertanto
dovrà dapprima determinarsi quale esso sia questo germe. Pretendono
di esprimerlo colla seguente formola: Cristo annunciò la venuta del
regno di Dio, il quale regno dovrebbe aver fra breve il suo compimento,
ed Egli ne sarebbe il Messia, cioè l'esecutore stabilito da Dio e
l'ordinatore. Dopo ciò converrà dimostrare come questo germe,
sempre immanente nella religione cattolica, di mano in mano e di pari passo
con la storia, siasi sviluppato e sia venuto adattandosi alle successive
circostanze, da queste vitalmente assimilandosi quanto gli si affacesse
di forme dottrinali, culturali, ecclesiastiche; superando nel tempo stesso
gli ostacoli, sbaragliando i nemici, e sopravvivendo ad ogni sorta di contraddizioni
o dl lotte.
Dopo che tutto questo, cioè gl'impedimenti, i nemici, le persecuzioni,
i combattimenti, come pure la vitalità e fecondità della Chiesa,
siansi mostrati tali che, quantunque nella storia della stessa Chiesa si
scorgano serbate le leggi della evoluzione, pure queste non bastano a pienamente
spiegarla: l'incognito sarà dl fronte e si presenterà da sé
stesso. Fin qui i modernisti. I quali, però, in tutto questo discorrere,
non pongon mente a una cosa; e cioè, che quella determinazione del
germe primitivo è tutto frutto dell'apriorismo del filosofo agnostico
ed evoluzionista, e che il germe stesso è così gratuitamente
da loro definito pel buon giuoco della loro causa.
Mentre però i nuovi apologisti, cogli argomenti arrecati, si studiano
di affermare e persuadere la religione cattolica, non han riguardo a concedere
che in essa molte cose sono che spiacciono. Che anzi, con una mal velata
voluttà, van ripetendo pubblicamente che anche in materia dogmatica
ritrovano errori e contraddizioni; benché soggiungano, che tali errori
e contraddizioni non solo meritano scusa, ma, ciò che è più
strano, sono da legittimarsi e giustificarsi. Così pure, secondo
essi, nelle sacre Scritture corrono moltissimi sbagli in materia scientifica
e storica. Ma, dicono, non sono quelli, libri di scienza o di storia, sì
bene di religione e di morale, ove la scienza e la storia sono involucri
con cui si coprono le esperienze religiose e morali per meglio propagarsi
nel pubblico; il quale pubblico non intendendo altrimenti, una scienza od
una storia più perfetta sarebbegli stata non di vantaggio ma di nocumento.
Del resto, aggiungono, i Libri sacri, perché di lor natura religiosi,
sono essenzialmente viventi: or la vita ha pur essa la sua verità
e la sua logica; diversa certamente dalla verità e logica razionale,
anzi di tutt'altro ordine, verità cioè di comparazione e proporzione
sia coll'ambiente in cui si vive, sia col fine per cui si vive. Finalmente
a tanto estremo essi giungono ad affermare, senza attenuazione di sorta,
che tutto ciò che si spiega con la vita è vero e legittimo.
Noi, Venerabili Fratelli, pei quali la verità è una ed unica,
e che riteniamo i sacri Libri come quelli che "scritti sotto l'ispirazione
dello Spirito Santo, hanno per autore Iddio" (Conc. Vat., De Rev. c.
2), affermiamo ciò essere il medesimo che attribuire a Dio la menzogna
di utilità o officiosa; e colle parole di Sant'Agostino protestiamo
che: "Ammessa una volta in così altissima autorità qualche
bugia officiosa, nessuna particella di quei libri resterà che, sembrando
ad alcuno ardua per costume o incredibile per la fede, con la stessa perniciosissima
regola, non si riferisca a consiglio o vantaggio dell'autore menzognero"
(Epist. 28). Dal che seguirà quel che lo stesso santo Dottore aggiunge:
"In esse - cioè nelle Scritture - ciascuno crederà quel
che vuole, quel che non vuole non crederà".
Ma i modernisti apologeti non si dàn pensiero di tanto. Concedono
di più trovarsi talora nei Libri santi dei ragionamenti, per sostenere
una qualche dottrina, che non si appoggiano a verun ragionevole fondamento,
come son quelli che si basano sulle profezie. Vero è che anche questi
menan per buoni come artifizî di predicazione legittimati dalla vita.
Che più? Concedono, anzi sostengono, che Gesù Cristo stesso
errò manifestamente nell'assegnare il tempo della venuta del regno
di Dio: ma ciò, secondo essi, non può fare meraviglia, perché
Egli ancora era sottoposto alle leggi della vita! Che sarà dopo ciò
dei dogmi della Chiesa? Riboccano pur questi di aperte contraddizioni; ma,
oltreché sono ammesse dalla logica della vita, non si oppongono alla
verità simbolica; giacché si tratta in essi dell'infinito,
che ha infiniti rispetti. A far breve, talmente approvano e difendono siffatte
teorie, che non si peritano di dichiarare non potersi rendere all'infinito
omaggio più nobile, come affermando di esso cose contraddittorie!
Ed ammessa così la contraddizione, quale assurdo non si ammetterà?
Oltre agli argomenti oggettivi, il non credente può essere disposto
alla fede anche con soggettivi. In questo caso gli apologeti modernisti
si rifanno sulla dottrina della immanenza. Si adoprano cioè a convincer
l'uomo, che in lui stesso e negli intimi recessi della sua natura e della
sua vita si cela il desiderio e il bisogno di una religione, né di
una religione qualsiasi, ma tale quale è appunto la cattolica; giacché
questa, dicono, è postulata onninamente dal perfetto sviluppo della
vita. E qui di bel nuovo siam costretti a lamentarCi gravemente che non
mancano cattolici i quali, benché rigettino la dottrina dell'immanenza
come dottrina, pure se ne giovano per l'apologetica; e ciò fanno
con sì poca cautela, da sembrare ammettere nella natura umana non
pure una capacità od una convenienza per l'ordine soprannaturale,
ciò che gli apologisti cattolici, colle debite restrizioni, dimostraron
sempre, ma una stretta e vera esigenza.
A dir più giusto però, questa esigenza della religione cattolica
è sostenuta dai modernisti più moderati. Quelli fra costoro
che potremmo chiamare integralisti, pretendono che si debba indicare all'uomo,
che ancor non crede, latente in lui lo stesso germe che fu nella coscienza
di Cristo e da Cristo trasmesso agli uomini. Ed eccovi, o Venerabili Fratelli,
descritto per sommi capi il metodo apologetico dei modernisti, in tutto
conforme alle loro dottrine: metodo e dottrine infarciti di errori, atti
non ad edificare, ma a distruggere; non a far dei cattolici, ma a trascinare
i cattolici nella eresia, anzi alla distruzione totale d'ogni religione!
Restano per ultimo a dir poche cose del modernista in quanto la pretende
a riformatore. Già le cose esposte finora ci provano abbondantemente
da quale smania di innovazione siano rôsi cotesti uomini. E tale smania
ha per oggetto quanto vi è nel cattolicismo. Vogliono riformata la
filosofia specialmente nei Seminarî: sì che relegata la filosofia
scolastica alla storia della filosofia in combutta cogli altri sistemi passati
di uso, si insegni ai giovani la filosofia moderna, unica, vera e rispondente
ai nostri tempi. A riformare la teologia, vogliono che quella, che diciamo
teologia razionale, abbia per fondamento la moderna filosofia. Chiedono
inoltre che la teologia positiva si basi principalmente sulla storia dei
dogmi.
Anche la storia chiedono che si scriva e si insegni con metodi loro e precetti
nuovi. Dicono che i dogmi e la loro evoluzione debbano accordarsi colla
scienza e la storia. Pel catechismo esigono che nei libri catechistici si
inseriscano solo quei dogmi, che sieno stati riformati e che sieno a portata
dell'intelligenza del volgo. Circa il culto, gridano che si debbano diminuire
le devozioni esterne e proibire che si aumentino. Benché a dir vero,
altri più favorevoli al simbolismo, si mostrino in questa parte più
indulgenti.
Strepitano a gran voce perché il regime ecclesiastico debba essere
rinnovato per ogni verso, ma specialmente pel disciplinare e il dogmatico.
Perciò pretendono che dentro e fuori si debba accordare colla coscienza
moderna, che tutta è volta a democrazia; perché dicono doversi
nel governo dar la sua parte al clero inferiore e perfino al laicato, e
decentrare, Ci si passi la parola, l'autorità troppo riunita e ristretta
nel centro. Le Congregazioni romane si devono svecchiare: e, in capo a tutte,
quella del Santo Officio e dell'Indice.
Deve cambiarsi l'atteggiamento dell'autorità ecclesiastica nelle
questioni politiche e sociali, talché si tenga essa estranea dai
civili ordinamenti, ma pur vi si acconci per penetrarli del suo spirito.
In fatto di morale, danno voga al principio degli americanisti, che le virtù
attive debbano anteporsi alle passive, e di quelle promuovere l'esercizio,
con prevalenza su queste.
Chiedono che il clero ritorni all'antica umiltà e povertà;
ma lo vogliono di mente e di opere consenziente coi precetti del modernismo.
Finalmente non mancano coloro che, obbedendo volentierissimo ai cenni dei
loro maestri protestanti, desiderano soppresso nel sacerdozio lo stesso
sacro celibato. Che si lascia dunque d'intatto nella Chiesa, che non si
debba da costoro e secondo i lor principî riformare?
In tutta questa esposizione della dottrina dei modernisti vi saremo sembrati,
o Venerabili Fratelli, prolissi forse oltre il dovere. Ma è stato
ciò necessario, sì per non sentirCi accusare, come suole,
di ignorare le loro cose, e sì perché si veda che, quando
parlasi di modernismo, non parlasi di vaghe dottrine non unite da alcun
nesso, ma di un unico corpo e ben compatto, ove chi una cosa ammetta uopo
è che accetti tutto il rimanente. Perciò abbiam voluto altresì
far uso di una forma quasi didattica, né abbiamo ricusato il barbaro
linguaggio onde i modernisti fanno uso. Ora, se quasi di un solo sguardo
abbracciamo l'intero sistema, niuno si stupirà ove Noi lo definiamo,
affermando esser esso la sintesi di tutte le eresie. Certo, se taluno si
fosse proposto di concentrare quasi il succo ed il sangue di quanti errori
circa la fede furono sinora asseriti, non avrebbe mai potuto riuscire a
far meglio di quel che han fatto r modernisti. Questi anzi tanto più
oltre si spinsero che, come già osservammo, non pure il cattolicesimo
ma ogni qualsiasi religione hanno distrutta. Così si spiegano i plausi
dei razionalisti: perciò coloro, che fra i razionalisti parlano più
franco ed aperto, si rallegrano di non avere alleati più efficaci
dei modernisti.
E per fermo, rifacciamoci alquanto, o Venerabili Fratelli, a quella esizialissima
dottrina dell'agnosticismo. Con essa, dalla parte dell'intelletto, è
chiusa all'uomo ogni via per arrivare a Dio, mentre si pretende di aprirla
più acconcia per parte di un certo sentimento e dell'azione. Ma chi
non iscorge quanto vanamente ciò si affermi? Il sentimento risponde
sempre all'azione di un oggetto, che sia proposto dall'intelletto o dal
senso. Togliete di mezzo l'intelletto; l'uomo, già portato a seguire
il senso, lo seguirà con più impeto. Di più, le fantasie,
quali che esse siano, di un sentimento religioso non possono vincere il
senso comune: ora questo insegna che ogni perturbazione od occupazione dell'animo
non è di aiuto ma d'impedimento alla ricerca del vero; del vero,
diciamo, quale è in se; giacché quell'altro vero soggettivo,
frutto del sentimento interno e dell'azione, se è acconcio per giocare
di parole, poco interessa l'uomo a cui soprattutto importa di conoscere
se siavi o no fuori di lui un Dio, nelle cui mani una volta dovrà
cadere. Ricorrono, a vero dire, i modernisti per aiuto all'esperienza. Ma
che può aggiungere questa al sentimento? Nulla: solo potrà
renderlo più intenso: dalla quale intensità sia proporzionatamente
resa più ferma la persuasione della verità dell'oggetto. Ma
queste due cose non faranno si che il sentimento lasci di essere sentimento,
né ne cangiano la natura sempre soggetta ad inganno, se l'intelletto
non lo scorga; anzi la confermano e la rinforzano, giacché il sentimento
quanto è più intenso tanto a miglior diritto è sentimento.
Trattandosi poi qui di sentimento religioso e di esperienza in esso contenuta,
sapete bene, o Venerabili Fratelli, di quanta prudenza sia mestieri in siffatta
materia e di quanta scienza che regoli la stessa prudenza. Lo sapete dalla
pratica delle anime, di talune, in ispecialità, in cui domina il
sentimento: lo sapete dalla consuetudine dei trattati di ascetica; i quali,
quantunque disprezzati da costoro, contengono più solidità
di dottrina e più sagacia di osservazione che non ne vantino i modernisti.
A Noi per fermo sembra cosa da stolto o almeno da persona al sommo imprudente,
ritener per vere, senza esame di sorta, queste intime esperienze quali dai
modernisti si spacciano. Perché allora, lo diciamo qui di passata,
perché, se queste esperienze hanno si grande forza e certezza, non
l'avrà uguale quella esperienza che molte migliaia di cattolici affermano
di avere, che i modernisti cioè battono un cammino sbagliato? Sola
questa esperienza sarebbe falsa e ingannevole? La massima parte degli uomini
ritiene fermamente e sempre riterrà che col solo sentimento e colla
sola esperienza senza guida e lume dell'intelletto, mai non si potrà
giungere alla conoscenza di Dio.
Dunque resta di nuovo o l'ateismo o l'irreligione assoluta. Né i
modernisti hanno nulla a sperar di meglio dalla loro dottrina del simbolismo.
Imperciocché se tutti gli elementi che dicono intellettuali non sono
che puri simboli di Dio, perché non sarà un simbolo il nome
stesso di Dio o di personalità divina? E se è cosi, si potrà
bene dubitare della stessa divina personalità, ed avremo aperta la
via al panteismo. E qua similmente, cioè al puro panteismo, mena
l'altra dottrina dell'immanenza divina. Giacché domandiamo: siffatta
immanenza distingue o no Iddio dall'uomo? Se lo distingue, in che differisce
adunque cotal dottrina dalla cattolica? o perché mai rigetta quella
della esterna rivelazione? Se poi non lo distingue, eccoci di bel nuovo
col panteismo. Ma difatto l'immanenza dei modernisti vuole ed ammette che
ogni fenomeno di coscienza nasca dall'uomo in quanto uomo.
Dunque di legittima conseguenza inferiamo che Dio e l'uomo sono la stessa
cosa; e perciò il panteismo. Finalmente pari è la conseguenza
che si trae dalla loro decantata distinzione fra la scienza e la fede. L'oggetto
della scienza lo pongono essi nella realtà del conoscibile; quel
lo della fede nella realtà dell'inconoscibile. Orbene l'inconoscibile
è tale per la totale mancanza di proporzione fra l'oggetto e la mente.
Ma questa mancanza di proporzione, secondo gli stessi modernisti, non potrà
mai esser tolta.
Dunque l'inconoscibile resterà sempre inconoscibile tanto pel credente
quanto pel filosofo. Dunque se si avrà una religione, questa sarà
della realtà dell'inconoscibile. La quale realtà perché
poi non possa essere l'anima uni versale del mondo, come l'ammettono taluni
razionalisti, noi nol vediamo. Ma basti sin qui per conoscere per quante
vie la dottrina del modernismo conduca all'ateismo e alla distruzione di
ogni religione. L'errore dei protestanti dié il primo passo in questo
sentiero; il secondo è del modernismo: a breve distanza dovrà
seguire l'ateismo.
A più intimamente conoscere il modernismo e a trovare più
acconci rimedi a sì grave malore, gioverà ora, o Venerabili
Fratelli, ricercare alquanto le cause, onde esso è nato ed è
venuto crescendo. Non ha dubbio che la prima causa ed immediata sta nell'aberrazione
dell'intelletto. Quali cause remote due Noi ne riconosciamo: la curiosità
e la superbia. La curiosità, se non saggiamente frenata, basta di
per sé sola a spiegare ogni fatta di errori. Per lo che il Nostro
Predecessore Gregorio XVI a buon diritto scriveva (Lett. Enc. "Singulari
Nos", 25 giugno 1834): "È grandemente da piangere nel vedere
fin dove si profondino i deliramenti dell'umana ragione, quando taluno corra
dietro alle novità, e, contro l'avviso dell'Apostolo, si adoperi
di saper più che saper non convenga, e confidando troppo in se stesso,
pensi dover cercare la verità fuori della Chiesa cattolica, in cui,
senza imbratto di pur lievissimo errore, essa si trova".
Ma ad accecare l'animo e trascinarlo nell'errore assai più di forza
ha in sé la superbia: la quale, trovandosi nella dottrina del modernismo
quasi in un suo domicilio, da essa trae alimento per ogni verso e riveste
tutte le forme. Per la superbia infatti costoro presumono audace mente di
se stessi e si ritengono e si spacciano come norma di tutti. Per la superbia
si gloriano vanissimamente quasi essi soli possiedano la sapienza, e dicono
gonfi e pettoruti: "Noi non siamo come il rimanente degli uomini";
e per non essere di fatto posti a paro degli altri, abbracciano e sognano
ogni sorta di novità, le più assurde. Per la superbia ricusano
ogni soggezione, e pretendono che l'autorità debba comporsi colla
libertà. Per la superbia, dimentichi di se stessi, pensano solo a
riformare gli altri, né rispettano in ciò qualsivoglia grado
fino alla potestà suprema.
No, per giungere al modernismo, non vi è sentiero più breve
e spedito della superbia. Se un laico cattolico, se un sacerdote dimentichi
il precetto della vita cristiana che c'impone di rinnegare noi stessi se
vogliamo seguire Gesù Cristo, né sradichi dal suo cuore la
mala pianta della superbia; sì costui è dispostissimo quanto
mai a professare gli errori del modernismo!
Per lo che, o Venerabili Fratelli, sia questo il primo vostro dovere di
resistenza a questi uomini superbi, occuparli negli uffici più umili
ed oscuri, affinché sieno tanto più depressi quanto più
essi s'inalberano, e, posti in basso, abbiano minor campo di nuocere. Inoltre,
sia da voi stessi, sia per mezzo dei rettori dei Seminari, cercate con somma
diligenza di conoscere i giovani che aspirano ad entrare nel clero; e se
alcuno ne troviate di carattere superbo, con ogni risolutezza respingetelo
dal sacerdozio. Si fosse cosi operato sempre, colla vigilanza e fortezza
che faceva di mestieri!
Che se dalle cause morali veniamo a quelle che spettano all'intelletto,
la prima da notarsi è l'ignoranza. I modernisti, quanti essi sono,
che vogliono apparire e farla da dottori nella Chiesa, esaltando a grandi
voci la filosofia moderna e schernendo la scolastica, se hanno abbracciata
la prima ingannati dai suoi orpelli, ne devono saper grado alla totale ignoranza
in che erano della seconda, e dal mancare perciò di mezzo per riconoscere
la confusione delle idee e ribattere i sofismi. Dal connubio poi della falsa
filosofia colla fede è sorto il loro sistema, riboccante di tanti
e si enormi errori.
Alla propagazione del quale portassero almeno un minor zelo ed ardore di
quel che fanno! Tanta invece è la loro alacrità, cosi indefesso
il lavoro, che da strazio il vedere consumate tante forze a danno della
Chiesa, le quali, rettamente usate, le sarebbero di vantaggio grandissimo.
A trarre poi in inganno gli animi una doppia tattica essi usano: prima si
sbarazzano degli ostacoli, poi cercano con somma cura i mezzi che loro giovino,
ed instancabili e pazientissimi li mettono in opera.
Degli ostacoli, tre sono i principali che più sentono opposti ai
loro conati: il metodo scolastico di ragionare, l'autorità dei Padri
con la tradizione, il magistero ecclesiastico. Contro tutto questo la loro
lotta è accanita. Deridono perciò continuamente e disprezzano
la filosofia e la teologia scolastica. Sia che ciò facciano per ignoranza,
sia che il facciano per timore o meglio per l'una cosa insieme e per l'altra;
certo si è che la smania di novità va sempre in essi congiunta
coll'odio della Scolastica; né vi ha indizio più manifesto
che taluno cominci a volgere al modernismo, che quando incominci ad aborrire
la Scolastica. Ricordino i modernisti e quanti li favoriscono la condanna
che Pio IX inflisse alla proposizione che diceva (Sillabo, Prop. 12): "Il
metodo ed i principî, con cui gli antichi Dottori scolastici trattarono
la teologia, più non si confanno ai bisogni dei nostri tempi ed ai
progressi della scienza". Sono poi astutissimi nello stravolgere la
natura e l'efficacia della Tradizione, alfin di privarla di ogni peso e
di ogni autorità. Ma starà sempre per i cattolici l'autorità
del secondo Sinodo Niceno, il quale condannò "coloro che osano...
secondo gli scellerati eretici, disprezzare le ecclesiastiche tradizioni
ed escogitare qualsiasi novità o architettare con malizia ed astuzia
di abbattere checché sia delle legittime tradizioni della Chiesa
cattolica". Starà sempre la professione del quarto Sinodo Costantinopolitano:
"Noi dunque professiamo di serbare e custodire le regole, che tanto
dai santi famosissimi Apostoli, quanto dagli uni versali e locali Concili
degli ortodossi o anche da qualunque deiloquo Padre e Maestro della Chiesa,
furono date alla santa cattolica ed apostolica Chiesa". Per lo che
i Romani Pontefici Pio IV e Pio IX nella professione di fede vollero aggiunto
anche questo: "Io ammetto fermissimamente ed abbraccio le apostoliche
ed ecclesiastiche tradizioni, e tutte le altre osservanze e costituzioni
del la medesima Chiesa".
Né altrimenti che della Tradizione giudicano i modernisti dei santissimi
Padri della Chiesa. Con estrema temerità li spacciano, come degnissimi
bensì di ogni venerazione, ma ignorantissimi di critica e di storia,
scusabili solo pei tempi in che vissero. Si studiano infine e si sforzano
di attenuare e svilire l'autorità dello stesso Magistero ecclesiastico,
sia pervertendo ne sacrilegamente l'origine, la natura, i diritti, sia ricantando
liberamente contro di essa le calunnie dei nemici. Del gregge dei modernisti
sembra detto ciò che con tanto dolore scriveva il Predecessore Nostro
(Motu proprio "Ut mysticam", 14 marzo 1891): "Per rendere
spregiata ed odiosa la mistica Sposa di Cristo, che è la luce vera,
i figli delle tenebre furon soliti di opprimerla pubblicamente di una pazza
calunnia, e, stravolto il significato e la forza delle cose e delle parole,
chiamarla amica di oscurità, mentitrice d'ignoranza, nemica della
luce e del progresso delle scienze".
Dopo ciò, Venerabili Fratelli, qual meraviglia se i cattolici, strenui
difensori della Chiesa, son fatti segno dai modernisti di somma malevolenza
e di livore? Non vi è specie d'ingiurie con cui non li la cerino:
l'accusa più usuale è quella di chiamarli ignoranti ed ostinati.
Che se la dottrina e l'efficacia di chi li confuta dà loro timore,
ne incidono i nervi colla congiura del silenzio. E questa maniera di fare
a riguardo dei cattolici è tanto più odiosa perché
nel medesimo tempo e senza modo né misura, con continue lodi esaltano
chi sta dalla loro; i libri di costoro riboccanti di novità accolgono
ed ammirano con grandi applausi; quanto più alcuno si mostra audace
nel distruggere l'antico, nel rigettare la tradizione e il magistero ecclesiastico,
tanto più gli dàn vanto di sapiente; e per ultimo, ciò
che fa inorridire ogni anima retta, se qualcuno sia condannato dalla Chiesa
non solo pubblicamente e profusamente lo encomiano, ma quasi lo venerano
come martire della verità.
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