POLITICA
LA CATTEDRA DI "STORIA IN
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per
gentile concessione del direttore Franco Gianola
CIVILTA' DEL LIBERISMO
Oggi, tutti o quasi tutti si dicono liberali. Berlusconi (i suoi avvocati, gli attori e presentatori delle sue reti televisive, diventati ministri e autorità) e i politici dell'opposta parte politica, parlano sempre di liberalismo e liberismo, senza sapere di che si tratta e contraddicendoli nei fatti.
Il monopolista delle televisioni e della pubblicità si fa paladino della libertà d'impresa dei cosiddetti quattro milioni di liberi imprenditori, e li vuole difendere da un comunismo che è fallito dovunque e che in Italia è circoscritto all'ideologia dei sopravvissuti di Rifondazione.
Quanto al liberalismo, ne dà prove ormai quotidiane, sia cercando di metter fine alle inchieste di Mani pulite, che da anni lo minacciano molto da vicino, sia attaccando duramente un uomo come Bobbio che aveva accusato Forza Italia di avere dietro o davanti forze fasciste: brutto segno che conferma proprio la diagnosi bobbiana del fascismo psicologico e politico che si annida in chi non tollera critiche e confonde il "governare" col "comandare".
Bisogna tornare a scuola di liberalismo e di liberismo: non c'è maestro migliore di chi viene citato oggi troppe volte a sproposito, Luigi Einaudi. Riprendendo una sua vecchia polemica con Croce, e condannando ogni forma di comunismo, nel 1948 Einaudi scriveva sul "Corriere della Sera" un elogio della "libertà dell'uomo comune" accettando la tesi che la libertà politica debba essere accompagnata dalla libertà economica: "A che serve la libertà politica a chi dipende da altri per soddisfare i bisogni elementari della vita? Fa d'uopo dare all'uomo la sicurezza della vita materiale, dargli la libertà dal bisogno, perché egli sia veramente libero nella vita civile e politica... La libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica... Vi sono due estremi nei quali sembra difficile concepire l'esercizio effettivo, pratico, della libertà: all'un estremo tutta la ricchezza essendo posseduta da un solo colossale monopolista privato; ed all'altro estremo dalla collettività. I due estremi si chiamano comunemente monopolismo e collettivismo: ed ambedue sono fatali alla libertà".
Queste tesi erano l'enunciazione sintetica e giornalistica dei principi che Einaudi aveva dibattuto con Croce nella lunga discussione che era cominciata in pieno fascismo, nel 1928 e che era continuata fino al 1949. Era stato un dialogo tra sordi: Croce disprezzava i "sacri principi dell'89" e credeva nella libertà dello Spirito, che sopravvive anche nelle galere e sul patibolo: il sistema politico ed economico più opprimente non può impedire all'uomo di pensare, non può impedire la libertà del suo pensiero. In qualunque condizione si sia e in qualunque azione si faccia, la decisione e la responsabilità sono soltanto nostre: coacti, tamen volunt.
Così, l'uomo è libero anche davanti al tiranno che lo pone di fronte al dilemma: o ti sottometti, e salvi la vita a tuo figlio, o ti ribelli e io l'uccido. Sì, la scelta, anche questa scelta, è possibile, ma non è questa la condizione che la libertà invoca per sé stessa e per l'opera di civiltà, di umanamento che essa è chiamata a compiere.
Il problema delle condizioni della libertà era invece ben presente a Einaudi, estraneo all'idealismo filosofico ed erede della tradizione liberale personalistica: la scelta coatta era sentita da lui come offesa alla dignità dell'uomo, come sottomissione della libertà all'arbitrio e all'immoralità.
E' curioso che per tutti gli anni della discussione tra Croce ed Einaudi, nessuno dei due accennò mai ai differenti presupposti liberali cui essi si riferivano: la libertà dello Spirito, la libertà dell'individuo. In una cosa però concordavano. Nel 1928, su "La Riforma Sociale", Einaudi accettava la tesi di Croce, secondo il quale il liberismo è un concetto inferiore e subordinato a quello più ampio di liberalismo: il primo "Fu la traduzione empirica, applicata ai problemi concreti economici, di una concezione più vasta ed etica, che è quella del liberalismo".
Lo stabilire la graduatoria dei fini della vita sociale non è compito dell'economista: "Croce ha su questo punto parole scultorie. Chi deve decidere non può accettare che beni siano soltanto quelli che soddisfano il libito individuale, e ricchezza solo l'accumulamento dei mezzi a tal fine; e, più esattamente, non può accettare addirittura, che questi siano beni e ricchezza, se tutti non si pieghino a strumenti di elevazione umana".
Da Adamo Smith a Marshall questa è sempre stata "la premessa e il fine delle fatiche degli economisti, non mai il procacciamento dei beni materiali".
Ancora su "La riforma sociale", nel 1931 Einaudi chiarì meglio il suo pensiero, "osservando essere compito della scienza economica unicamente la ricerca della soluzione economicamente più conveniente per raggiungere un dato fine. Ma il fatto non è posto dagli economisti e spesso non è un fine economico, ma politico morale religioso; ma la soluzione più conveniente non è sempre quella liberistica del lasciar fare e del lasciar passare, potendo invece essere, caso per caso, di sorveglianza o diretto esercizio statale o comunale o altro ancora... Di fronte ai problemi concreti, l'economista non può essere mai né liberista né interventista, né socialista ad ogni costo".
Aggiungeva poi Einaudi che, dalla frequenza dei casi nei quali gli economisti raccomandavano soluzioni liberiste, è sorto un significato "religioso" della massima liberistica. "Liberisti sarebbero in questa accezione coloro i quali accolgono la massima del lasciar fare e del lasciar passare quasi fosse un principio universale. Secondo costoro, l'azione libera dell'individuo coinciderebbe sempre con l'interesse collettivo". Ma lo stesso Adamo Smith, maestro di questa "religiosità", si è contraddetto troppe volte, fino a elencare "le ragioni di intervento dello stato per la consecuzione di fini preclusi all'azione individuale od a questo contrastanti", e spesso ha insistito sull'opposizione fra classi e classi, fra i singoli e la collettività.
Molti anni dopo, su "Argomenti" del dicembre 1941, in un saggio su "Liberismo e comunismo", Einaudi insisteva sul fatto che il liberismo non è il lasciar fare, ma è l'intervento dello stato che fissa i limiti entro i quali il privato può muoversi, cioè i limiti delle forze che potrebbero ostacolare la libera concorrenza, e precisava: "L'intervento dello stato limitato a rimuovere quegli ostacoli che impediscono il funzionamento della libera concorrenza non è perciò tanto limitato come pare. Esso si distingue in due grandi specie: rivolta la prima a rimuovere gli ostacoli creati dallo stato medesimo, e l'altra intesa a porre limiti a quelle forze, chiamiamole naturali, le quali per virtù propria ostacolerebbero l'operare pieno della libera concorrenza".
In questo secondo caso, la differenza tra l'interventista (o comunista) e il liberista "non sta nella 'quantità' dell'intervento, bensì nel 'tipo' di esso... Il legislatore liberista dice invece: io non ti dirò affatto, o uomo, quel che devi fare; ma fisserò i limiti entro i quali potrai a tuo rischio muoverti".
Il regime liberistico appare dunque non come l'assenza di leggi e regole, ma come un sistema di leggi, fatte osservare da magistrati indipendenti dal governo, per permettere agli uomini e alle imprese di lavorare nel rispetto degli altri: "essi debbono educarsi da sé e rendersi moralmente capaci di prendere decisioni sotto la propria responsabilità".
Einaudi sapeva benissimo che liberismo e liberalismo non sempre coincidono. Può accadere, scriveva, che il liberale sia anche liberista, come Cavour tra il 1850 e il 1860; ma può accadere che il liberismo doganale di Chevalier coincida con la dittatura monarchica di Napoleone III. Tuttavia non era mai accaduto che un paravento liberista venisse usato prima per puntellare un monopolio traballante, poi per rinforzarlo, evirando il concorrente pubblico, in una confusione tra interessi privati e potere politico che sarebbe impensabile in qualunque altro paese europeo e dell'America settentrionale, e che Einaudi non avrebbe potuto neppure immaginare.
GIAN LUIGI
FALABRINO
vice-presidente della Scuola di Giornalismo di Milano
"Storiologia" ringrazia per l'articolo
(concesso gratuitamente)
il direttore Gianola di Storia in Network
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