BIOGRAFIE (terza parte)
VITTORIO EMANUELE III - LA FINE DI UN REGNO

DOCUMENTI

il distintivo

la vecchia bandiera separatista della Sicilia
e la bandiera americana
Addirittura era già stata stampata in America una rivista in Italiano per la Sicilia,
con un nome abbastanza singolare "Nuovo Mondo".

Il nuovo "Colombo" era Poletti, lui a "comandare" in Sicilia!

 

Che ci sia stata una per lo meno iniziale simpatia degli anglo-americani verso le posizioni separatiste, ce lo confermano due esponenti comunisti, Franco Grasso e Giuseppe Montalbano, che accusarono il colonnello Poletti di proteggere sfacciatamente il movimento separatista (cfr. Orazio Barrese e Giacinta D'Agostino, in La guerra dei sette anni, ed Rubettino, Messina 1997, pagg. 28 e 29).
Che gli Alleati incoraggiassero i siciliani verso l'indipendenza è un fatto innegabile. Del resto CALOGERO VIZZINI e VITO GUARRASI avevano permesso lo sbarco in Sicilia. (vedi a fondo pagina chi erano)
Alti ufficiali americani baciavano fervorosamente la bandiera della Trinacria tra la folla di Palermo che li considerava finalmente dei "liberatori". A guidare gli "Indipendentisti" FINOCCHIARO APRILE.
Concedevano agli indipendentisti protezione e larghi mezzi.
Del resto: "Ogni siciliano notava che la Carta Atlantica stabiliva che Gran Bretagna e Stati Uniti non desideravano mutamenti territoriali che non fossero d'accordo i desideri, liberamente espressi, delle popolazioni interessate. Dunque, i mutamenti territoriali erano permessi, previsti, possibili, anzi natutali. Chiederli non era un sacrilego. Ottenerli, un diritto. E ognuno concludeva: dunque con un plebiscito si finiva sotto il controllo degli Alleati". (Cfr. Luca Cosmerio, Quel che si pensa in Sicilia (ed Saes, Catania 1947, pagg. 2 e 3).
Sappiamo però che i principi stabiliti dalla Carta Atlantica erano anche propaganda: si pensi al cinismo con cui gli Alleati lasciarono poi tutta l'Europa orientale nelle mani sovietiche contro la volontà dei popoli interessati (Polacchi, Cechi, Ungheresi, Rumeni, ecc.) Ma mettiamoci anche i Siciliani, che pure loro s'ispirarono al principi della Carta Atlantica, e nemmeno prendevano in considerazione di essere venduti a Badoglio, "il peggiore dei loro nemici". Del resto si sentivano protetti dagli anglo-americani che erano sbarcati sull'Isola. I primi fin dall'inizio Ottocento (Guerre Napoleoniche) già puntavano sulle risorse siciliane ed erano andati molto vicini all'indipendenza dell'isola, ma poi alla restaurazione si adeguarono alla geopolitica della coalizione, soprattutto austriaca.
I secondi invece non dispiaceva affatto utilizzare l'isola come una preziosa base militare strategica dell'aviazione e della marina nel Mediterraneo.

Ma poi, con Stalin che faceva la voce grossa (temendo un'ingerenza nel vicino Adriatico e quindi nei Balcani) questi appoggi all'indipendentismo, sia gli Inglesi che gli Americani ufficialmente attraverso la stampa e la "Voce dell'America", li smentirono (loro volevano solo tranquillità nelle retrovie del fronte, inoltre volevano dimostrare a Stalin il disinteresse per la Sicilia - c'era ben dell'altro ancora in gioco). Giunsero perfino a far emettere un comunicato dall'Amgot, affermando che "qualsiasi movimento separatista se causava intralci nella collaborazione dell'Italia in guerra, avrebbe approvato qualsiasi provvedimento del governo italiano per stroncarlo; perfino l'arresto e la fucilazione dei sobillatori".
Insomma della questione indipendentista siciliana, se ne lavarono le mani come Pilato.

Passarono poche settimane, e il 12 febbraio 1944, il generale Alexander, acconsentiva a trasferire la Sicilia sotto la giurisdizione amministrativa italiana (Governo Badoglio), pur confermando i poteri della Commissione Alleata di Controllo (che dall'isola si trasferì subito dopo a Roma in Via Veneto).
Finocchiaro Aprile, scrivendo ad Alexander, definì la sua decisione "sciagurata". Forte che poche settimane prima (il 30 novembre) Charles Poletti indetta una riunione a Catania all'Hotel Bristol, ben sette dei nove prefetti dell'isola avevano sconsigliato alle autorità d'occupazione la restituzione della Sicilia all'Italia (i soli due favorevoli furono il prefetto di Ragusa, Cartia, e quello di Caltanissetta, Cammarata (Cfr. Sandro Attanasio, Gli anni della rabbia, pag. 104).
Amaramente Finocchiaro Aprile pochi giorni dopo al Teatro Massimo di Palermo pronunciò un aggressivo discorso, accusando di tradimento gli Alleati "Non ci aspettavamo di essere consegnati al governo Badoglio, il peggiore dei nostri nemici" ... "e se ci si vuole spingere alla lotta, noi accetteremo il combattimento a oltranza". (Citato nelle Memorie del duca di Càrcaci, pag. 62 e 63).

Inizia la lunga battaglia degli indipendentisti, che poi (
il 7 marzo del 1946) con il nuovo stato italiano ne porterà alla sbarra oltre 2000 (promotori, organizzatori, affiliati e capi - famosa la banda di Avila e di Giuliano), sotto l'imputazione di "insurrezione armata contro i poteri dello stato, distruzione di opere e mezzi dello stato, cospirazione politica mediante associazione, banda armata, istigazione, omicidi e tentati omicidi aggravati, associazione per delinquere, rapina, sequesto di persona, estorsione, occultamento di cadavere.
Insomma ancora una volta gli indipendentisti siciliani furono marchiati come "briganti", con una parola però più moderna: "banditi".
In effetti - dopo che l'amministrazione americana a Palermo, distaccata da quella inglese a Catania, aveva dato ai siciliani una specie di autogestione, priva di burocrazia e ricca di iniziative commerciali e industriali (il business fu astronomico) che avevano ravvivato la vita dell'isola - il ritorno dell'amministrazione italiana (per di più sotto l'odiato Badoglio) suscitava sgomento (fra l'altro con l'Italia continentale in bilico fra monarchia e repubblica, frantumata dalla litigiosità dei partiti, e pateticamente debole, visto che stava vivendo dell'elemosina dei vincitori.

Fu così che Badoglio riuscì ad avere mano libera anche sulla Sicilia. E il 19 ottobre del '44, a mandarci il suo nuovo esercito con le divise cachi regalate dagli angloamericane ritinte in verde, a fare una strage in una manifestazione che più che politica era di ribellione per la fame, visto che ancora una volta la Sicilia per oltre un anno fu dimenticata, lasciata in mano all'anarchia e nella disperazione della fame.
Ufficialmente i morti furono una trentina, e oltre 150 feriti, ma altre fonti affermano che furono molto di più, oltre 100 i primi e diverse centinaia i secondi.
Badoglio volle perfino formare il primo nucleo di combattenti, con uomini siciliani, che però rifiutarono di rispondere alla chiamata alle armi del Regno del Sud. Ne nacque una rivolta con interventi dell'esercito che in pratica mise contro anche qui italiani contro italiani. E questo infiammò gli appartenenti al movimento separatista (vedi in fondo il loro manifesto) che però si trasformarono (in base alla legge del Regno del Sud) in ribelli, cioè in "banditi".
Il 5 gennaio a Comiso era già stata proclamata una Repubblica Siciliana che nel corso del mese organizzò una propria forza armata, l'EVIS, l'Esercito volontario per l'indipendenza della Sicilia (ovviamente i reparti di questo esercito, furono chiamati dai badogliani: "bande" e "banditi").
E FINOCCHIARO APRILE, CHE FINE FECE?
Proprio per aver dato vita a questa organizzazione armata fu arrestato, e inviato al confino a Ponza. Tuttavia dopo la fine della guerra, con Badoglio silurato, l'anno successivo fu eletto all'Assemblea costituente. Poi il 14 febbraio 1947 durante il dibattito per la fiducia al nuovo governo, dai banchi parlamentari sferrò un violento attacco contro i democristiani accusandoli di essersi spartite in Sicilia le cariche pubbliche. Fece anche nome e cognomi. Fu costituita una Commissione d'indagine, che alla fine dei lavori scagionò completamente lui e gli altri accusati. (compromessi??? Non lo sappiamo)
Persa questa ultima battaglia, Finocchiaro Aprile sparì dalla scena politica. Non sparirono invece le "bande" separatiste che lui aveva creato in Sicilia.
La Sicilia ottenne poi da Roma il suo formale Statuto Speciale che però era molto simile a una indipendenza di fatto. In pratica l'idea del Finocchiaro fu fatta uscire dalla porta e fatta rientrare dalla finestra, anche se in un altro modo e con "certi personaggi".
Roma del resto - volente o dolente - doveva (!!!) sdebitarsi dell'apporto dato da "certi personaggi" allo sbarco degli anglo americani in Sicilia.
Da notare che alle successive elezioni svoltesi il 20 aprile 1947 (così nella Costituente) il movimento indipendentista siciliano (che in questo fine '43 aveva circa 500.000 aderenti) contava ancora 170.000 suffragi. Si affermò il Blocco del Popolo, costituito da PCI, PSI, Pd'A, con il 30,4 %, rispetto al 20,5% della DC. (per i democristiani scattò il "pericolo rosso")
Otto giorni dopo questo risultato, il 1° maggio ci fu la strage di Portella delle Ginestre. La "banda" del "bandito" Giuliano (ex colonnello dell'EVIS, l'Esercito volontario per l'indipendenza della Sicilia) attaccò una manifestazione di lavoratori (ovviamente di sinistra) riunitisi per festeggiare il 1° maggio.
L'episodio suscitò viva impressione. Ci furono diversi morti e feriti. La Cgil proclamò uno sciopero generale. La DC non partecipò alla protesta e la considerò un'ingerenza nella sfera della politica.
Il 23 giugno, il governo pose una taglia di 3 milioni su Giuliano e dichiarò che avrebbe stroncato ogni forma di "banditismo politico" in Sicilia.
Poi lui fu tradito, fu ucciso, e tutto finì lì (con tanti misteri).

Il manifesto dopo la repressione di Badoglio
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SULLA QUESTIONE
UNA PAGINA DI
di Orazio Ferrara

Amara e bellissima la Sicilia degli anni che vanno dal 1943 al 1946: vi aleggiava, palpabile, un insostenibile sogno, quello di essere Nazione finalmente padrona dei propri destini. Certo su quel sogno e sugli entusiasmi sinceri che coagulò si può non essere d'accordo, ritenerlo pura utopia e disquisire con filosofica sottigliezza, sull'esistenza o meno di una Nazione Siciliana, ma una cosa non si può negare che la stragrande maggioranza dei Siciliani sperò ardentemente che esso si realizzasse ed agì ed operò attivamente, almeno in un certo periodo, di conseguenza.

Ai soliti saccenti del suo partito sempre in ritardo nel capire le ragioni del Sud, Palmiro Togliatti fu costretto a ricordare, per evitare pericolosi abbagli, che il fenomeno separatista non poteva spiegarsi soltanto con le mene dei reazionari o dei servizi segreti stranieri, ma che esso era qualcosa di più grande.
Era uno stato d'animo generale di ribellione di tutto un popolo, il Siciliano, contro uno Stato centralista, visto come un nemico da abbattere.

La Sicilia ai Siciliani non fu, quindi, soltanto uno slogan, ma qualcosa di molto, ma molto più complesso. La mai sopita voglia d'indipendenza e di autonomia, malgrado secolari repressioni, risorgeva ora più forte che mai. I Siciliani riscoprivano vecchi simboli e vecchie bandiere. Le loro bandiere. Come quella a strisce gialle e rosse, orgogliosamente sventolata dinanzi al mondo intero per rivendicare la propria peculiare specificità. Con quei colori garrivano al vento oltre settecento anni di Storia Siciliana. Essa già sventolava al tempo dei Vespri, quando la collera popolare atterrò d'un colpo solo la tracotanza dell'occupante francese. Vecchia bandiera contrapposta alla nuova, quella tricolore, mai troppo amata.

Forse ai Siciliani bruciava ancora l'ottuso ed ingeneroso giudizio di un famoso generale italiano, che, nel '17, aveva definito la loro isola "covo pericoloso di renitenti e disertori". Ed invece erano stati loro ad essere traditi, fin dal giorno dopo l'entrata di Garibaldi a Palermo. Da allora considerati sempre e soltanto carne da macello, e guai a ribellarsi. Ecco perché ora all'estraneo scudo crociato sabaudo anteponevano il misterico simbolismo della Trinacria, l'enigmatico volto femminile con le tre gambe, che richiamavano i tre promontori della Sicilia classica. Quasi a voler ribadire che loro, rispetto agli altri, avevano radici e civiltà assai più antiche.

E i Siciliani si accorsero d'un tratto, con stupore, che quelle bandiere, quei simboli, quelle parole d'ordine li affratellavano, li facevano sentire veramente Nazione, facendo dimenticare feroci e secolari rivalità cittadine.
D'altronde il Movimento fu anche capace di dotarsi, al momento necessario, di un proprio braccio armato, l'EVIS (Esercito Volontario per l'Indipendenza Siciliana). Che la lotta politica si sia alla fine trasformata in lotta armata, vista la posta in palio (l'Indipendenza), era forse inevitabile.
Anche perché furono in molti, e non soltanto i separatisti più estremisti, a spingere in questa direzione. E così la Sicilia, per circa tre anni, divenne l'Irlanda italiana. Stesso stillicidio di morti, stesso odio irriducibile tra le parti contendenti.

A far sì che il bel sogno divenisse un così orrido incubo, contribuirono un po' tutti. Dagli irriducibili del separatismo, convinti di bruciare in questo modo i ponti alle spalle dei tiepidi della loro parte e degli autonomisti, e farli così confluire su posizioni più radicali; ai "proconsoli", inviati in Sicilia dal governo italiano, che vietarono scioccamente qualsiasi manifestazione, anche la più innocua di sicilianità, spingendo infine con una brutale repressione poliziesca alla ribellione generalizzata, a questa poi rispondendo con ulteriore repressione e così di seguito, in una spirale crescente di violenza verso la guerra civile.

Dal servizio segreto americano che, vincolato agli accordi di spartizione con i Russi, cercò di screditare e macchiare la causa separatista, foraggiando e gonfiando oltremodo quel velleitario movimento della Sicilia quale Quarantanovesima Stella degli Stati Uniti; ai servizi segreti britannici, che cercarono di perseguire il vecchio disegno inglese di creare nel Mediterraneo tutta una serie di isole indipendenti (Sicilia, Pantelleria e, forse, la Sardegna) da attrarre, tramite Malta, nella loro sfera d'influenza.

A riguardo di queste macchinose mene dei servizi segreti degli Alleati, si deve alle indubbie capacità di Finocchiaro Aprile, leader indiscusso di tutti i separatisti, se le stesse furono spesso, con strategie oculatamente differenziate, rese inoffensive o addirittura strumentalizzate ai fini del Movimento Separatista.
Altro che marionette manovrate dai servizi stranieri, come ha scritto qualche storico superficiale. Anche certa destra contribuì a far precipitare la situazione. Accecata da un becero nazionalismo ottocentesco, fu "magna pars", almeno nelle città, nelle provocazioni e nelle aggressioni dei separatisti, soprattutto giovani studenti, non sospettando minimamente di fornire i pretoriani e i mazzieri per i nuovi padroni del vapore, che incombevano all'orizzonte, i democristiani. Storia che per il Meridione si ripeterà, nei decenni a venire, purtroppo molte altre volte.

Non da meno fu una certa sinistra, che, seppure supportata da una vivace intellighenzia, non seppe far di meglio che rinchiudersi nel ghetto angusto delimitato dalle direttive del partito egemone, il partito comunista. Anzi non poche volte essa fu più realista del re, sollecitando una repressione ancora più dura. Anche questo sarà un cliché che si ripeterà più volte nella tormentata storia meridionale del dopoguerra.
E veniamo ai tanto strombazzati "oscuri" intrecci tra Separatismo, Banditismo e Mafia, che hanno fatto versare fiumi d'inchiostro a sproposito alla parte meno attenta della storiografia nostrana.

Nella Sicilia di quegli anni qualunque movimento politico di massa doveva, volente o nolente, fare i conti con il banditismo endemico e con l'onnipresente Mafia. Con il banditismo, fin quando la lotta fu circoscritta alle città ed ai grossi centri, all'inizio fu facile; ma quando con la morte di Antonio Canepa, il carismatico Comandante in Capo dell'EVIS, ucciso il 17 giugno 1945 in circostanze misteriose (ferito, lo si lasciò per ore senza soccorsi, facendolo morire dissanguato), fu giocoforza per i combattenti separatisti darsi alla macchia e salire sulle montagne, si presentò subito il problema della difficile convivenza con le bande che infestavano quei luoghi. A questo momento si fa risalire la nuova strategia dell'EVIS, guidato ora da Concetto Gallo, di guadagnare tali bande alla causa indipendentista. Come d'altronde aveva già fatto Garibaldi nel 1860.

Nell'agosto del 1945, con l'accordo detto di Ponte Sagana, le bande della Sicilia occidentale capeggiate da Salvatore Giuliano, nominato per l'occasione colonnello dell'EVIS, iniziavano la guerriglia contro le forze governative in nome della Sicilia libera. Guerriglia, che seppur spietata, fu abbastanza leale almeno fino al momento in cui Giuliano fiancheggiò l'EVIS. Poi, qualche tempo dopo la cattura di Concetto Gallo, avvenuta nella battaglia di Piano della Fiera (il canto del cigno del braccio armato separatista), Giuliano riprese la sua libertà d'azione, facendosi però irretire nelle trame della Mafia, con cui si accordò segretamente nel maggio del 1946. Accordo che doveva portarlo alla tragica e fatale giornata di Portella della Ginestra, dove bruciò d'un colpo l'enorme ammirazione popolare, che lo aveva sempre accompagnato.

Con le bande della Sicilia orientale fu tutt'altro discorso. Le più forti di esse, le temute bande Avila e Rizzo, pur fiancheggiando per un certo periodo l'EVIS, restarono bande dedite prevalentemente al saccheggio, guidate inoltre da capi sanguinari. La loro primitiva tattica di guerriglia non prevedeva di far prigionieri. Questa aberrante logica portò all'eccidio di Feudo Nobile, dove furono fucilati otto carabinieri, che si erano arresi.

L'inutile e controproducente strage portò alla rottura con l'EVIS. Più complessi i rapporti tra Mafia e Separatismo. Qualunque movimento politico, che abbia operato, operi ed opererà in Sicilia, ha rischiato, rischia e rischierà sempre di avere qualche suo ganglio vitale avviluppato dai sottili, intriganti e lunghi fili, che la Mafia tesse incessantemente per godere delle necessarie coperture. E quella politica è sempre stata ritenuta di vitale importanza, per cui vale la pena, se ne è necessario, uccidere.

Nel 1943 quello che vedono tutti è che la Mafia è in egual misura antifascista ed anticomunista ad un tempo. Essa teme come la peste i regimi totalitari, perché gli stessi implicano sempre un controllo di tipo "militare" del territorio, cosa che inevitabilmente la soffoca. Inoltre, in quei giorni, l'organizzazione mafiosa gode di una sorta di rispettabilità istituzionalizzata per il concreto aiuto prestato, tramite gli stretti collegamenti con i confratelli siculo-americani, allo sbarco delle truppe alleate. Famosa la bandiera di riconoscimento adottata: un quadrato giallo-oro con al centro una L nera. Dove la L stava per Lucky (il boss Lucky Luciano) ed allo stesso tempo per "fortuna" (in americano "lucky"). Le vaste e spontanee adesioni, di cui godé il movimento separatista fin dal primo momento, colsero alla sprovvista i vari capi-mafia. Al massimo le loro simpatie potevano andare, come andavano, al movimento fantoccio filo-americano della "Sicilia 49ª Stella" degli Stati Uniti.
Illuminante a questo riguardo la lettera aperta in tal senso di Salvatore Giuliano al Presidente Truman nel '47, quando, dopo il patto d'intenti dell'anno precedente, piú forte era l'influenza della mafia su Giuliano.
Lascia quindi perplessi la formale adesione, nei momenti iniziali, all'ideologia ed al movimento separatista del capo dei capi, don CALOGERO VIZZINI (DON CALO') , malgrado la ferma opposizione di parte dei dirigenti indipendentisti. Eppure don Calogero non poteva ignorare, per i suoi stretti contatti con New York, che gli Americani avrebbero boicottato a tutti i costi la causa del separatismo. Anche la plateale pubblica adesione non rientrava nello stile comportamentale di don Calogero, per il passato sempre accuratamente defilato, come d'altronde si confà ad un vero capo-mafia.
(fino alla sua morte, fu considerato la figura piu rilevante, il capo effettivo della mafia siciliana).
Nemmeno l'ipotesi dell'entrata nel Movimento per cercare di condizionarlo e screditarlo non regge; questo compito sarebbe stato affidato ad altri e sotto copertura.

Ed allora? Per tentare di comprendere cosa effettivamente spinse don Calogero Vizzini ad un passo cosí grave è necessario andare al cuore di quel groviglio inestricabile di sentimenti e passioni che è la sicilianità. Fu l'appassionata e disinteressata adesione al separatismo di tanta parte della picciottería isolana a spaventare la Mafia. Per molti di quei picciotti l'affiliazione mafiosa era dovuta soltanto ad un malinteso senso di sicilianità, una sorta di sicilianità deviata. Ed ora quelle nuove parole d'ordine di una Sicilia grande, libera ed indipendente, che affascinavano gran parte di essi. Gente che fino ad allora non aveva mai avuto il senso dello Stato, considerato sempre alla stregua di un usurpatore, sentiva finalmente l'orgoglio di appartenere ad una comunità, quella Siciliana, per cui valeva la pena di vivere ed anche di morire. Se la Mafia era stata la mamma, adesso la Sicilia diventava la Mamma di tutte le mamme, cui tutto si poteva sacrificare. Ed era una passione cosí coinvolgente da trasformare un Giuliano da bandito a guerrigliero della libertà isolana, oppure di spingere delinquenti incalliti a cercare di chiudere in bellezza una vita sbagliata, come il caso della banda La Barbera, i cui componenti, al momento di essere condotti davanti al plotone d'esecuzione, grideranno ai loro carcerieri: "Faremo vedere come sanno morire i Siciliani" e poi, ancora, di fronte alle bocche dei fucili ormai puntati: "Viva la Sicilia, Viva il Separatismo, Viva Finocchiaro Aprile!".

Questo diffuso stato d'animo spaventò la Mafia, il terrore di perdere l'humus in cui affondava storicamente le sue radici. Ed ecco il perché del comportamento di don Calogero, il Padrino dei padrini, quasi a voler dire eccoci qua, ci siamo anche noi, senza di noi non sarebbe stato possibile tutto ciò, anzi prendiamo sotto la nostra protezione il separatismo.
Era un bluff per tenere legata ancora una volta la picciottería, ma il cuore dei capi-cosche stava da tutt'altra parte. Lo si vedrà chiaramente, qualche anno dopo, quando si delineerà la nuova area politica detentrice delle leve del potere in Sicilia. Ad essa la Mafia ha già regalato Portella della Ginestra, di lí a poco l'assassinio dell'ormai ingombrante Giuliano. Le collusioni con apparati deviati dello Stato cominciarono allora.
La Mafia non condizionò mai, né tantomeno tentò di controllare o strumentalizzare, il Movimento Separatista. Non per eccesso di bontà, ma per il fondato timore di trasferire al suo interno dirompenti contraddizioni, che avrebbero finito per minare alle fondamenta la stessa struttura mafiosa.
Si limitò ad aspettare che finisse la tempesta. È stata soltanto l'adesione di facciata di Calogero Vizzini a far congetturare ad alcuni storici chissà quali segreti accordi tra la Mafia ed il Separatismo. Niente di piú sbagliato.
La lotta armata, pur se non raggiunse il suo scopo, che era l'indipendenza della Nazione Siciliana, creò le premesse con cui la parte autonomista del Movimento costrinse il governo italiano a trattare paritariamente sulla questione Siciliana, spuntando alla fine uno statuto di ampia autonomia regionale, oltre all'amnistia per i combattenti dell'EVIS. Si deve all'accortezza politica di un De Gasperi, l'aver saputo cogliere al volo (forse anche per le simpatie filo-autonomiste dovute alla sua origine trentina) l'occasione per disinnescare quella vera e propria bomba ad orologeria rappresentata dall'ideologia separatista, che a lungo andare avrebbe finito con lo sfasciare l'Italia intera.

L'autonomia concessa alla Regione Sicilia era sulla carta amplissima e come, amaramente, osservò qualche esponente separatista poteva essere piú che l'indipendenza, soltanto se si avesse avuto piú coraggio da parte degli eletti all'assemblea regionale nel rompere, pur restando unitari, i legami di una sudditanza acritica nei confronti dei poteri romani.

Poteva esserci un formidabile laboratorio politico per il riscatto delle genti del Sud.
Ma non fu cosí. Non vi fu alcun laboratorio politico, nessun riscatto e la sudditanza diventò sempre piú servile. E se qualche flebile tentativo si fece nel cercare nuove ed originali soluzioni, come il pur discutibile caso Milazzo, subito abortí a causa dei fulmini di scomunica del centralismo romano.
Si svuotava cosí nei fatti un'autonomia faticosamente conquistata. Cominciava allora l'ingabbiamento di tanti politici nel sistema perverso della politica e la sua ragnatela, che è stata poi in minima parte disvelata.
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CHI ERA CALOGERO VIZZINI (don Calò)
E VITO GUARRASI ?
Il primo svolse a livello tattico attività di preparazione dello sbarco degli alleati in Sicilia.
Dopo la sua morte (nel 1954) studiosi americani di mafia scrissero che in una riunione tenuta nel 1929 in un albergo di Atlantic City e organizzata da Frank Costello il capo dell'Anonima Omicidi, Vizzini era stato nominato capo della mafia siciliana.
Quando sbarcarono gli americani furono accolti a Villalba (il paese di Vizzini) dai ragazzini e da una colonna di paesani, che andava come in processione, guidata da don Calò. Tutti gridavano: "Viva l' America", "viva don Calò". Per investitura ufficiale degli americani Vizzini è stato il primo sindaco di Villalba dopo la liberazione.

Ebbe poi legami con il mondo politico democristiano, con gli agrari, con i separatisti, collaborava con il banditismo e con la polizia.
Al suo funerale vennero lette queste frasi commemorative: "Calogero Vizzini / con l' abilità di un genio / innalzò le sorti del distinto casato... operando sempre il bene e si fece un nome apprezzato / in Italia e fuori... Fu un galantuomo".
fonti: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1991/08/17/giu-le-mani-questa-tutta-roba.html
Il secondo era presente alla firma dell'Armistizio di Cassibile assieme al generale Giuseppe Castellano, in qualità di suo aiutante di campo (senza una apparente ragione, né ci fu in seguito una spiegazione (!!??).
Costui con alti ufficiali americani discusse la separazione della Sicilia dall'Italia e farla dichiarare indipendente. (per le ragioni dette sopra poi fallita).
Ma in seguito non c'è stato settore di qualche importanza della vita economica siciliana che non ha visto impegnato in prima persona Guarrasi.
Promotore della Società per il Finanziamento dello Sviluppo in Sicilia ( il primo esempio di società pubblica regionale). Azionista, presidente o consigliere di amministrazione di più di 25 differenti società pubbliche e private. Consigliere di Enrico Mattei per la costruzione di un metanodotto sottomarino che collegasse l'Africa alla Sicilia. Ed era anche un cugino di Enrico Cuccia (nato a Roma ma i genitori erano siciliani) figura di spicco per quasi mezzo secolo della scena economico-finanziaria italiana del dopoguerra; nel precedente mezzo secolo lo era stato il suocero BENEDUCE > > >
Entrambi conoscitori e manovratori dei meccanismi finanziari dell'intera Italia.
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