C) CAPITOLI :

XIII. - La bella straniera - XIV. - Siccio - XV. - Il palazzo Corsini
XVI. - La Triade - XVII. - La Giustizia - XVIII. - L'Esilio

XIII

LA BELLA STRANIERA


Noi già dicemmo che Roma è la terra classica delle belle arti. Là sono ammonticchiate le ruine del mondo antico coi loro templi, colonne, obelischi, statue, avanzi dell'arte Greca e Romana, capolavori dei Prassiteli, dei Fidia, dei Raffaelli, dei Michelangeli! Là sorgono ad ogni passo fontane, ove nuotano colossi marini, ruine le cui macerie vedute da lontano sembrano montagne all'attonito viaggiatore, colonne di venti secoli lanciate nelle nubi, ove sul bronzo sono scolpite le mille battaglie del popolo gigante; infine meraviglie d'ogni specie che il ricco straniero visita con ammirazione e copia per portare
nelle sue terre, ai suoi amici, un simulacro della maggiore delle grandezze umane.

I preti hanno tentato deturpare quell'opera stupenda di venticinque secoli con delle mitre e delle Vie Crucis (Si può vedere una Via Crucis nel Colosseo e pieno di mitre, l'augusto tempio di Michelangelo) ma non ci riuscirono. Il bello, il grande, il sublime ancor più sublime comparisce in mezzo alle loro miserie!
Giulia - la bellissima figlia d'Albione - abitava Roma da più anni.
Progenie di popolo libero, disprezzava tutto quanto apparteneva alla famiglia dei chiercuti. Ma Roma! La Roma del genio e delle leggende, la patria dei Fabi e dei Cincinnati, l'emporio delle meraviglie umane, era per Giulia un incantesimo. Conosceva ogni cosa bella di Roma.
Aveva impiegato ogni giorno, ogni minuto a visitarla. Esimia cultrice delle belle arti sapeva apprezzare i capolavori e il suo compito quotidiano era copiarli.
Fra i grandi maestri essa s'era fatta un idolo del Buonarroti e seguiva la sua scuola mista d'ogni studio artistico e gentile.
Davanti alla stupenda colossale figura del Mosè (Il Mosè di Michelangelo Buonarroti nella chiesa di S. Pietro in Vincoli) passava ore intere in contemplazione. La impronta di grandezza su quella fronte e l'atteggiamento maestoso le sembravano inimitabili e sovrumani.
In Roma ella avea scelto il suo domicilio, in Roma avea trovato il pascolo necessario al sommo suo genio, all'immenso amor suo del bello.
In Roma avea deciso di vivere e morire, perché non avrebbe potuto strapparsi per un giorno solo a tutti quegli oggetti della sua idolatria.
Giovane, ricca, nata e cresciuta nella bella e lieta Inghilterra, come poteva Giulia separarsene per sempre e per sempre abbandonare amici e congiunti che tanto l'amavano? Che volete! Essa aveva trovato il suo Eden tra le macerie e sotto la toga cenciosa del nostro mendico aveva scoperto colla sua immaginazione esaltata il tipo della fiera razza degli antichi Quiriti.
Nello studio di Manlio ov'ella si recava sovente, s'era incontrata con Muzio, il quale posava davanti alla creta del maestro.
Che importava a Giulia la bassa condizione di lui! Non v'era forse su quella fronte l'impronta che cerchereste per eleggervi un capo, un protettore, un amico? In quel portamento v'era tutta la maestà ch'essa tanto ammirava nel suo idolo di marmo.
Infine, mendico o non mendico, Giulia amò Muzio dal primo istante in cui lo vide. Era povero? E che importava a Giulia? Se la povertà è un marchio d'infamia per il volgo del tanto per cento, così non è per il genio. Ma infine i ricchi sono essi la miglior pasta dell'umana famiglia? Dalla stessa storia del nostro povero Muzio sembrerebbe di no.

E Muzio amava Giulia? Muzio avrebbe dato l'universo per essa, ma giammai egli avrebbe ardito di manifestarle l'affetto suo.
Una sera due soldati stranieri avvinazzati assalirono la nostra gentile inglese nella Lungara quando soletta tornavasene dallo studio di Manlio ed a forza volevano trascinarla con loro. Quello fu il più bel momento della vita di Muzio che aveva seguito da lontano la bella straniera; egli ferì ed atterrò l'uno: l'altro si diede alla fuga. Da quella sera il suo pugnale gli era diventato sacro e Giulia da quella sera non fu più insultata per la via.
Il giorno stesso nel quale le donne di Manlio avevano stabilito di recarsi al palazzo Corsini, Giulia ascendeva il Gianicolo per fare una visita allo studio di lui. Da un giovine allievo sapeva la dolorosa storia del maestro, seppe della gita delle donne ma non potè sapere quale fosse il vero motivo della disgrazia.
Mentre stava meditabonda e perplessa sullo strano caso, capitava Attilio e da lui uditi i particolari della faccenda non dubitò un momento che l'intrigo disonesto non fosse opera del porporato.
"Bene!" disse ad Attilio la giovane straniera, "da quanto odo le donne uscirono per chiedere in grazia la liberazione di Manlio. Non c'è un istante da perdere. Io ho accesso al palazzo Corsini, spero prima di notte potervi informare d'ogni cosa".

Così parlando, e senza meglio chiarire i suoi disegni, accomiatossi.
Il nostro Attilio stanco dai disagi e dalle fatiche della notte, disperato di non trovare in casa la sua Clelia, sedette per interrogare con più agio il giovane Spartaco su cosa per lui di tanto interesse.
XIV
SICCIO

Tornando ancora al 1849 ed alla scena fatale in cui il nostro povero Muzio all'età di due anni fu derubato del suo patrimonio a beneficio della Compagnia di S. Vincenzo di Paola, ricordiamo ancora che un servo di casa, Siccio, aveva introdotto quel furfante di Don Ignazio con tale piglio che abbiamo creduto necessario doverlo notare.
Siccio era il più antico dei famigliari di casa Pompeo; in quella casa era nato, era stato beneficato in varie circostanze da' suoi buoni padroni ed amava l'orfano Muzio con affetto di padre.

Buon uomo ma non molto astuto diffidò tuttavia delle mene del paolotto e della sua complice, ma in Roma, al curatore delle anime, al medico spirituale, al confessore della padrona di casa, chi ardirebbe fare uno sfregio?
Ai preti importa troppo la confessione, e per ciò sanno circondarla di particolare prestigio. La confessione! quell'arma terribile del pretismo, elemento primo delle sue seduzioni, veicolo per cui esso giunge al conoscimento d'ogni cosa, spionaggio infernale ch'egli esercita massime sul sesso debole per il quale egli può signoreggiare ancora, benché disprezzato e maledetto, la maggior parte del sesso più forte!
Il povero Siccio, per l'amore che portava al bambino ed alla casa, fu il primo congedato quando la caterva dei paolotti penetrò nel Santuario domestico per impadronirsi d'ogni cosa.
"E il ragazzo?" dimandava Suor Flavia ad Ignazio. "Il ragazzo - rispondeva costui- Non abbiamo noi l'orfanotrofio? Egli là sarà al sicuro dagli sviamenti di questo secolo perverso e dall'eretiche dottrine che oggi dominano il mondo. Poi là noi lo terremo sempre d'occhio, Suora!".
E lì nuovo ricambio d'uno di quegli sguardi, cui si preferirebbe una pugnalata.
Fu ventura per Muzio che la ricchezza della preda avesse abbarbagliato i ladri a tal che, dopo quella conversazione del prete colla strega sul conto suo, non ne fecero più caso ed egli rimase in un canto dimenticato come uno straccio, piangendo dalla fame e dal freddo.
Siccio, l'onesto Siccio, non lo dimenticò. Pratico della casa profittò della confusione dei depredatori, e col pretesto di andare per la roba sua menò seco Muzio in una stanza recondita di Roma ove egli aveva preso dimora.
Gioverà sapere che il padre di Muzio era stato antiquario, e che nelle sue peregrinazioni fra i monumenti e le ruine aveva l'abitudine di condur seco Siccio. Egli dunque nelle escursioni col suo padrone erasi fatto pratico alquanto delie meraviglie di Roma e ciò gli valse per professare il ciceronismo nel presente suo stato di bisogno poiché, col carico del giovine, egli non avrebbe potuto più oltre stare a padrone.
Come Cicerone (Ciceroni si chiamano in Roma coloro che conducono gli stranieri a visitare i monumenti, l'opere dell'arte e le ruine e ne fanno spiegazioni più o men bene) egli poteva vivere miseramente sì, ma indipendente ed il profitto della sua industria serviva al mantenimento proprio e del suo protetto ch'egli amava ogni giorno di più vedendolo crescere vispo, robusto e bello come un Adone. Egli non tornava mai a casa senza portare al suo caro qualche cosa che sapeva gradirgli, e certo egli si sarebbe privato del bisognevole, piuttosto che lasciarne mancante il suo giovane amico.
Così durò vari anni, ma Siccio diventava vecchio, alcuni malanni dell'età lo impedivano sovente di recarsi alle consuete occupazioni, e pur troppo, dal ciceronismo alla mendicità v'è un passo solo.
Accattare era doloroso per l'anima onesta di Siccio, ma bisognava pur mangiare e bisognava mantenere il suo protetto.
All'età di quindici anni Muzio era un tipo di perfezione, Gli artisti di Roma che lo videro s'invaghirono delle sue forme e lo richiesero di stare a modello per loro.
Ciò sollevò alquanto la miseria dei nostri poveri congiunti, ma Muzio che aveva imparato la sua storia e conosciuta la propria condizione da Siccio, ripensando alla trama scellerata con cui egli era stato ridotto alla presente poverissima condizione, sdegnava di posare davanti a persone che spesso non conosceva. Avendo sovente seguito Siccio nelle sue escursioni ciceronesche, poteva ei pure condurre un forestiere al campo Vaccino o nel tempio di S. Pietro, e preferiva questa professione. Né Muzio repugnava anche dai lavori manuali, anzi spesso era occupato negli studi degli scultori a muovere massi di marmo; e quando ve n'erano degli enormemente grossi che a mala pena tre uomini potevano levare, Muzio a 18 anni li maneggiava quasi scherzando.
Ma intanto niuno lo aveva mai veduto stendere la mano, ragione per cui gli altri mendichi lo chiamavano con sarcasmo: il signor mendico.
Un giorno una donna velata, entrò nella stanzuccia di Siccio e pose sulla tavola una borsa piena di monete d'oro, dicendo con voce austera al vecchio: "Questo denaro servirà a migliorare la condizione vostra e quella di Muzio. Voi non mi conoscete ma quand'anche giungeste a conoscermi non dite mai al vostro compagno da che parte vi sia venuta questa piccola fortuna" e senza aspettare risposta, disparve.
XV

IL PALAZZO CORSINI

"M'è proprio cascato il cacio sui maccheroni" diceva tra sé, stropicciandosi le mani, il dissoluto prelato alla vista delle tre donne, "e la provvidenza (badate provvidenza di quell'infame!) mi serve meglio stavolta che tutti i birbanti che mi attorniano".

Così pensando ei gettava occhiate di coccodrillo sulla bellissima fanciulla, che così ardentemente egli aveva desiderato contaminare,
"Venga la supplica" ei disse: come se da quella egli dovesse conoscere con chi aveva a che fare e di che si trattava, mentre alla prima occhiata aveva riconosciuto le sue interlocutrici.
"Venga dunque la supplica", tornò a dire il mezzano, vedendo le donne silenziose e sbigottite. Aurelia, che la pretendeva da più delle compagne, si fece innanzi e gliela porse.
Con apparente attenzione il Cardinale parve intento alla lettura, quindi ripiegato il foglio sclamò: "Ah siete voi signora!" e il furfante si dirigeva ad Aurelia, come se le altre due non le avesse conosciute, "siete voi la moglie di quel Manlio che si permette tener nascosti in casa i nemici dello Stato e di sua Santità?".
Queste parole furono profferite con tale aria di severità e di comando che ti pareva udire un magistrato che desse delle ammonizioni ad un delinquente che non abbia scusa.
"Non è essa la moglie di Manlio, - s'affrettò a dire Silvia, - sono io! Essa venne solo per accompagnarci e testimoniare all'E. V. ch'ella sin da fanciulla conosce la nostra famiglia e può giurare non esserci noi frammischiati mai in cose politiche. Donna Aurelia può dirlo - continuava incalorendosi la povera Silvia, - ella può dire se mio marito non è un uomo d'una onestà a tutta prova".
"D'un'onestà a tutta prova - ripeteva fingendosi corrucciato il malandrino. - E se siete onesti, perché albergate eretici e nemici dello Stato? e l'onesto Manlio, perché fugge violentemente di prigione adoperando mezzi imperdonabilmente colpevoli?".
Un momento di silenzio seguì quelle parole e Clelia la quale più d'ogni altro conservava il suo sangue freddo pensò subito: "Fuggito! dunque non è più nelle unghie di questi demonii!" ed un lampo di contentezza sfavillò sulla bella fronte della fanciulla che mormorò: "Fuggito!".
"Sì fuggito - ripeteva il chercuto indovinando l'effetto prodotto da quella parola sull'animo di Clelia, - però badate, niuno può fuggire dalla spada della giustizia! e Manlio cadrà sotto la doppia colpa d'essere stato il ricettatore dei nemici di S. Santità e di avere con criminosa violenza forzato l'inviolabilità delle carceri pontificie".
Alla povera Silvia le altosonanti parole del porporato fecero l'effetto della folgore. Impallidì, stese le braccia verso la sua Clelia, quindi sentendosi stringere il cuore cadde svenuta.
Procopio, agguerrito a questi colpi di scena, non si scosse, anzi ne profittò, chiamò i domestici, ordinò che le donne fossero condotte in altra stanza e si cercasse con ogni cura di richiamare in sé la svenuta.

"Oh! voi non uscirete di qui senza avermi pagato un prezioso tributo", pensò tra sé il lussurioso Cardinale tornandosi a stropicciare le mani. Chiamò a sé il Gianni, il quale non s'era allontanato di molto, prevedendo che il suo padrone poteva abbisognare dell'opera sua.
"Ebbene, vedete un po' signor Gianni" (e Gianni sapeva ciò che richiedeva da lui il porporato quando chiamavalo signore).
"Vedete, - dicevagli con aria giuliva, - se la provvidenza non ci favorisce meglio che noi sappiate far voi colla vostra abilità!"
"Io l'ho sempre detto che l'E. V. è nata sotto una buona stella, è destinata ad esser felice" rispondeva l'eunuco inchinandosi e strisciando come un rettile.
"Dunque, ora che la Provvidenza (e dalli colla Provvidenza malmenata da quella bocca sacrilega) ci ha favorito tocca a te il resto. Bada che quelle donne sieno trattate con ogni riguardo. Esse furono or ora condotte negli appartamenti posteriori del palazzo, di là, col pretesto di chiamarle ad interrogatorio presso Monsignor Ignazio (il lettore conosce già il buon soggetto), fate che sieno divise. Quando poi sieno tornate in calma e sciolte da ogni sospetto io avrà bisogno di trattenermi da solo a sola colla Clelia. Siamo intesi, eh!".
E dopo essersi passata la mano sul mento con compiacenza, il Cardinale accennando col dito faceva segno a Gianni di andare. Quindi, senza far parola, con un profondo inchino si allontanava l'eunuco accompagnato dallo sguardo semi-austero semi-sorridente del suo padrone. Non appena uscito il Gianni, un domestico annunciò la signorina inglese.
"Ma avanti! avanti!" diceva il Prelato e tra sé: "Ma proprio dal cielo mi cade la manna quest'oggi". E passava e ripassava la mano sul liscio mento dove fra le macchie di cui avevanlo chiazzato la lussuria e la depravazione, si scorgeva la pallida e giallognola cute del camaleonte.
"Avanti, signorina!" tornò a gridare il Cardinale quando l'uscio s'aperse e fece alcuni passi per prender la mano dell'altiera e bellissima artista.
"Che fortuna è la mia di possedervi un istante sotto questo tetto, in questa stanza istessa che fu abbellita una volta dalla vostra presenza e mi sembra deserta da che la vostra preziosa persona l'ha abbandonata".
"Quanta galanteria sfoggia questa serpe" pensò fra sé la nostra Giulia, mentre che ascoltava il grandiloquente sermone del cicisbeo, e sedutasi, con poche cerimonie, rispondeva "Gentile e graziosa è l'E. V. e io le ne sono grata. Una volta io veniva qui più spesso per copiare i capi d'opera di cui va adorno questo palazzo, ma già da alcun tempo ho terminate le mie copie ed oggimai qui non saprei quello che dovrei venirci a fare".

"Non ci sapreste più che fare?! oh! questa poi è una dichiarazione poco galante da parte vostra, signora Giulia! qui come ovunque voi avrete un culto, bellissima fanciulla!".

Biascicando queste e simili frasi melate, Don Procopio cercava di avvicinare frattanto la sua poltrona a quella di lei ma ella ritirava la propria d'altrettanto dimodoché le due poltrone avevano l'aria di onde agitate che si perseguono sempre, e non si raggiungono mai.
Stanco di perseguitare la giovine straniera a corso di poltrona, il prelato si alzò e risolutamente mosse verso di lei.
"Ma sedete, od io parto!" esclamò Giulia alzandosi e mettendo la poltrona tra lei e l'indecente Cardinale mentre gli figgeva due occhi in volto che lo atterrarono. Il prete si lasciava andare sulla seggiola come colpito dal fulmine e Giulia sedutasi pure cominciò:
"La mia visita non è senza grave motivo, già lo sapete che per vedervi non ci verrei. Io son qui a chiedervi notizie d'una famiglia che m'interessa: della famiglia dello scultore Manlio".
"Fu qui è vero, ma se n'è andata" rispose Procopio, rinvenuto dal primo stupore.
"È molto tempo che se n'è andata?" chiese Giulia, con accento da cui trapelava la sua incredulità.
"Sono pochi momenti che le donne lasciarono queste stanze" fu la risposta di Don Procopio.
"Saranno dunque a quest'ora fuori del palazzo", ripigliava la straniera. Ed il prete: "lo saranno", rispose colla certezza di mentire.
Giulia con un gesto d'incredulità troncava il dialogo e maestosamente ripigliava la sua via, appena salutando con un cenno del capo l'eminente canaglia.
Ha pure i suoi vizi i suoi difetti la razza britannica. E cosa v'è di perfetto nell'umana famiglia? Ma se v'è popolo ch'io mi compiaccia a paragonare ai nostri antichi padri di Roma, è certamente l'inglese.
Egoista e conquistatore come quelli, la sua storia rigurgita di delitti; delitti commessi nel suo seno e nel seno delle altre nazioni.
Molti sono i popoli che egli ravvolse e ravvolge nelle sue spire di ferro per contentare l'insaziabile sua sete d'oro e di predominio. Pur non si può negare che egli non abbia immensamente contribuito al progresso umano e gettato la base di quella dignità individuale che presenta l'uomo diritto, inflessibile, maestoso, davanti alle esigenze dispotiche che padroneggiano l'uman genere. A forza di costanza e di coraggio egli ha saputo conciliare l'ordine governativo colle libertà adeguate ad un popolo padrone di sé stesso.

L'isola sua divenne il santuario e l'asilo inviolabile di tutte le sventure, il despota, come il proscritto dal despota, vivono insieme su quella terra ospitale, colla sola condizione di essere uomini.
Egli ha proclamato l'emancipazione dei negri oggi felicemente conseguita dalla lotta gigantesca della sua stessa razza sul nuovo continente; a lui infine deve l'Italia in parte la propria ricostituzione, grazie alla maschia sua voce di non intervento da lui fatta risuonare nello stretto di Messina nel 1860.
Alla Francia come all'Inghilterra molto deve l'Italia. Alla Francia molto deve l'umanità per la propaganda de' principi filosofici, per l'affermazione dei diritti dell'uomo. Alla Francia si deve l'annientamento della schiavitù barbaresca nel Mediterraneo. La Francia seppe mettersi alla testa della civiltà umana ma non lo è più.
Oggi strisciando davanti al simulacro d'una grandezza fittizia essa distrugge l'opera grandiosa del suo passato.
Un giorno la Francia proclamava e propagava la libertà nel mondo, oggi è dessa che cerca distruggerla dovunque.
La Dea ragione, quel parto straordinario dell'intelligenza emancipata, essa oggi la rinnega ed i suoi soldati fanno il gendarme al Sacerdote dell'oscurantismo.
Speriamo per il bene dell'umanità veder presto le due grandi Nazioni rimettersi insieme all'avanguardia dell'umano progresso.
XVI
LA TRIADE

Nella meschina stanzaccia di Siccio quella stessa sera stavan raccolti tre individui che avrebbero fatto l'ammirazione di colui "che nuovo Olimpo alzò in Roma a' Celesti" e di qualunque dei grandi Maestri del bello.
Eppure non è egli mero caso il nascer bello? e non ho conosciuto io molta gente con cuore d'angiolo e pur deformi di corpo? Che volete? è così; l'uomo per irresistibile istinto è portato al bello, forse più dell'uomo la donna.
Le belle forme della persona ispirano istintivamente maggiore fiducia. Piace d'aver il padre bello, la madre ed i figli, d'aver un capo le cui fattezze sieno quelle dell'Achille, non del Tersite (Buffone deforme nel campo dei Greci all'assedio di Troia).
La bellezza del capitano, suscita più entusiasmo nei militi, più timor nei nemici. Infine, comunque sia, è una gran fortuna il nascer belli, ed in questo, come in tante altre cose, non si capisce perché l'Onnipotente sia stato prodigo con gli uni, avaro con gli altri, si direbbe quasi capriccioso.
Quante mortificazioni un povero diavolo deve soffrire se ha la disgrazia di essere deforme! Che smorfie! che sogghigni da ogni parte!
Non beato dal sorriso delle belle (e meno ancora delle brutte, le quali, o mancano dell'istinto di compassione o temono, mostrandosi generose, d'essere sospettate richiedere per se stesse il ricambio affermando la propria deformità) gli si fa sentire la pietà a traverso un'umiliante protezione e quando non s'aggiunge qualche satira o beffa di begli spiriti è una fortuna per il poveretto.
L'oro solo mitiga alquanto le deformità del corpo.
Intanto con aria di trionfo, e contento di sé, passeggia da dominatore nella folla, colui che senza merito proprio ebbe dalla natura forme prestanti e forse bello spirito.
Sarà calcolo, sarà sorte, sarà capriccio di chi poteva far meglio?
Giulia, che Attilio e Muzio avevano aspettata per aver notizie della famiglia di Manlio cominciò: "Sì! esse sono in casa Corsini; quell'indecente Procopio lo ha negato ma voi sapete in quella tana di vizi quanto sia facile di coprire ogni cosa coll'oro".
Attilio si alzò, fece un moto d'impazienza come volesse partire, passò la mano sulla fronte, poi come pentito di quella manifestazione tornò a sedere.
Giulia che lesse nell'atto d'impazienza del giovane qual vulcano bolliva in quell'anima ripigliò:
"Attilio! vi bisogna più che mai conservare il vostro sangue freddo. Vi sarà necessario per liberare la vostra fidanzata dagli artigli di quell'avvoltoio. Ora è troppo presto. Voi dovete aspettare almeno sin dopo le dieci per tentarlo".
"Sicuro - aggiunse Muzio - e frattanto io andrò ad avvisare Silvio che si trovi pronto coi compagni nelle vicinanze del palazzo. Non ti muovere sinché io non sia di ritorno".
Noi sappiamo quanto il povero Muzio amasse la bella straniera, pure un'ombra di sospetto, di gelosia, non annuvolò la sua fronte al lasciarla così sola in compagnia dell'avvenente suo amico. E Giulia, sola col più bel giovine di Roma e sì giovane e bellissima lei stessa, non correva pericoli? No! l'amore di Giulia per il suo Muzio, era di pura e forte tempra, amore che non s'altera, che non muore, che non cambia per cambiar d'età o di fortuna. E poi Muzio era infelice e questa qualità assai più caro lo rendea alla generosa.

XVII
LA GIUSTIZIA

Giustizia! santa parola, prostituita, derisa dai potenti della terra!
Cristo era inchiodato sulla croce per mano della giustizia, Galileo dalla giustizia posto alla tortura. E non sono la giustizia, l'ordine, le leggi, che governano questa babilonia che si chiama Europa civile?
L'Europa! ove chi fatica muore dalla fame e gli oziosi nuotano nell'abbondanza e nella lussuria, ove poche famiglie signoreggiano le Nazioni e le mantengono in un perpetuo stato di guerra colle altisonanti parole di patriottismo, lealtà, onore della bandiera, gloria militare, ove una metà del popolo è schiava e l'altra metà fa giustizia, bastonando gli schiavi quando hanno l'ardire di lamentarsi!...
Sovente un po' di "giustizia-pugnale" o "giustizia-carabina" rompono la monotonia delle giustizie legali, ed allora si grida all'assassinio. Orsini assassino è decapitato, e Bonaparte che assassinò nessuno a Parigi, a Roma, al Messico, è un magnanimo! e che so io!
Qui però si prepara giustizia, vera giustizia, sia essa fatta col pugnale o col cannone, mentre là in quella tana di iene sollazzano, banchettano i depredatori delle sostanze del povero, i depravatori di una nazione di venticinque milioni.
Là nel Palazzo Corsini stanno Procopio ed Ignazio che noi conosciamo e di cui conosciamo i delitti, e qui fuori, pronto a fare giustizia degli scellerati stanno Attilio, Muzio, Silvio e venti compagni dei nostri trecento.
Questi superbi figli di Roma hanno capito e sentono che per Io schiavo non v'è pericolo, non v'è impresa difficile quando si consideri la vita quale l'hanno resa i tiranni: un disprezzevole arnese. L'anima di questi prodi è tranquilla come alla vigilia d'una festa, il loro cuore batte, ma di speranza, ma di desiderio che venga presto l'ora di menar le mani e l'ora non è lontana! Essi passeggiano per la Longara aspettando le dieci, ma non passeggiano insieme perché il governo dei preti vieta le riunioni.

"Saranno riuniti all'opera!".
Nel palazzo la triade de' perversi col pretesto dell'interrogatorio aveva separate le donne e lasciata sola la Clelia. Questa, prevedendo inganni, traeva dalla capigliatura un pugnaletto che si usa portare dalle donne romane e dopo d'averlo considerato ed assaggiatane la punta, lo nascose alla cintura sotto le pieghe del vestito. Clelia era degna di coloro che anelavano alla sua liberazione.
Dopo le nove il prelato, adornata la persona nel modo ch'egli credeva più ricco ed attraente, si accinse all'assalto della fortezza (così chiamava lui le sue seduzioni infami). Aprì dolcemente la porta della stanza ove si trovava Clelia, biascicò un "Buona sera, signorina", a cui con voce piuttosto disdegnosa rispondeva la Clelia: "Buona sera".
"Mi scuserete se vi ho trattenuta per tanto tempo in questa stanza, ma - soggiungeva con voce melliflua il volpone, - volevo proprio io stesso venire a congedarvi ed annunziarvi che qualunque cosa sia successa a vostro padre sarà da me dimenticata. Volevo poi che sapeste, bellissima fanciulla - continuava a dire l'infame - ch'io non vi vedo per la prima volta e che da quando vi vidi io arsi per voi dell'amore il più puro".
Nel terminar questo astuto discorso, trascinando la serica sottana, il tentatore si avvicinava a Clelia. Ma questa, inarcando certe ciglia leonine, si mantenne tra un tavolino ed il prelato a cui sarebbe stato impossibile poterla raggiungere s'anco fosse stato agile e svelto al pari di lei.
Invano egli la supplicò, adoperando tutte le lusinghe di cui era capace. Sempre più fieramente le rispondeva la nostra eroina, laonde, furioso il prete che vedeva scorrere il tempo senza approdare a nulla tornò alla porta, fece un segno e comparivano in suo soccorso Don Ignazio e Gianni.
Accortasi del pericolo di dover lottare contro i tre, Clelia trasse risolutamente il pugnaletto e mentre furibonda e con voce commossa esclamava: "Piuttosto m'immergerò questo ferro nel cuore" il maledetto vecchio, ladro delle sostanze del povero Muzio, s'andava avvicinando in modo da poter lanciare la sua mano di falco sulla destra della fanciulla, che strinse come una tenaglia. L'eunuco alla sua volta dalla parte sinistra la raggiunse e tra i due tentarono di domarla, disarmandola del pugnale.
Non fu però facile impresa. Clelia si dibattè con tanto furore che il demonio di prete e l'eunuco avevan già le mani intrise di sangue quando si fece innanzi anche il corpulento e dissoluto ausiliario. I tre riuniti finirono a domare la povera fanciulla, disarmarla e condurla scapigliata in un'alcova attigua alla stanza, alcova senza dubbio destinata a tali oscene nequizie.

Chi ha letto la storia dei Preti ricorderà che un Farnese, figlio di Papa, turpemente violò un vescovo di Fano di cui s'era innamorato facendolo tenere dai suoi scherani. Che cosa ci sarebbe di strano adunque, se lo stesso spediente si usasse con una femmina? A tanto si preparavano questi servi di Dio contro la svenuta, sventurata fanciulla!
In quel mentre però un baccano d'inferno s'intese di fuori, un urto terribile sconficcò la porta e in mezzo alla stanza furono visti piombare due uomini il cui volto avrebbe fatto impallidire il demonio.
Eppure eran bei volti quelli! belle fattezze! ingigantite da quel sentimento sublime che crea gli eroi!
Attilio fuori di sé, corse all'amata fanciulla e forse i malandrini profittando di quell'errore avrebbero potuto svignarsela, che, lì era Muzio solo, freddo e solenne, girando lo sguardo tagliente sui tre atterriti. Dopo un momento entrava Silvio, all'arrivo del quale, Muzio, additandogli la porta, "Nessuno esca" disse.
Poi col pugnale alla mano ordinò, pena la vita, al prelato di coricarsi boccone. La stessa ingiunzione fece ai due complici; quando furono in quell'attitudine, tirò fuori una corda e cominciò a legare il più grasso colle mani di dietro. Chiese poscia ad Attilio altra fune e legò Gianni. Il Monsignore riservò per ultimo e mentre stringeva il legame tanto da stritolare le ossa degli scellerati, un maligno sorriso sfiorava la bella bocca del mendico.
Ahi! gridava il prete, mentre Muzio stringeva; e quegli: "Perverso! non gridavi ahi! nella notte in cui hai derubato un orfano delle sue sostanze e lo riducevi alla mendicità. Non mormoravi ahi! quando portavi le vergini infelici a questo infame stupratore!".
Non voglio nauseare chi legge con tutte le bassezze, le giustificazioni, i giuramenti, le preghiere di questi tre perversi, per aver salva la vita. Invano! troppo sanguinose eran le ingiurie ricevute dai nostri tre amici e troppo prezioso l'olocausto dei tre mostri alla libertà di Roma. Clelia, Camilla, Manlio, vittime loro, dovevano essere vendicate. Colle mani legate dietro alla schiena ed una corda al collo, uno dopo l'altro, i tre malfattori presto penzolarono fuori della finestra della stanza di un'altezza di due piani dal terreno, ed al far del giorno, nella folla che si riuniva a contemplare l'orrendo spettacolo, una voce s'udì risuonare dicendo:
"Così, devono finire coloro che in quindici secoli di menzogne, di corruzioni e d'inganni hanno ridotto la Metropoli del mondo una cloaca".
XVIII
L'ESILIO

Era la mattina del quindici Febbraio, e la campagna di Roma era illuminata dai primi raggi del sole.
Quel solenne deserto ove un dì sorgevano città cospicue oggi è seminato di macerie e presenta all'attonito passeggiero un'immagine di desolazione e di morte. I miserabili abitatori che s'incontrano in quelle steppe riflettono sulle loro gialle e squallide fisonomie i patimenti e la malaria. Pianure immense ove una volta prosperavano numerose popolazioni sono oggi percorse da bufali selvaggi e da cignali. I giardini, le ville, gli orti, che alimentavano di legumi e di frutta i due milioni d'abitatori dell'immensa metropoli sono sostituiti da macchie e paludi pestilenziali.
Qua e là alcune croci di legno attestano al viandante gli omicidi frequenti a cui la miseria e l'ignoranza pretina trascinano i discendenti del gran popolo, oggi ridotti ad una masnada di fanatici e di briganti.
I vestigi delle vie consolari che solcavano per tutti i versi quelle pianure e che ricordano il passaggio delle immortali legioni, appena si scorgono tra i bronchi e le rovine che lo ricoprono. Siccome l'anima degli abitatori il prete padrone (Tutta la Campagna di Roma appartiene oggi a pochi Monsignori e prelati che l'abbandonano per immergersi nelle crepule della capitale) ha inaridito quel terreno fecondo.
In quella mattina, da una carrozza giunta al crocicchio di casa Marcello, scendevano quattro donne che noi conosciamo e s'incamminavano verso l'abitato. Con che gioia si abbracciassero padre, madre e figlia lo lascio pensare a voi, dopo tanti disagi e tanti pericoli. Giulia e Aurelia con gli occhi umidi di lagrime contemplavano silenziose tanto affetto, e maledicevano in cuor loro chi aveva cagionato sì fiero rammarico a questa onesta famiglia.
Camilla istupidita osservava l'insolito spettacolo e non era capace di formare parola. Se avesse potuto indovinare la fine atroce del suo tentatore, chi sa non fosse ritornata in sé, allora non comprendeva nulla.
Marcellino dopo aver egli pure girato lo sguardo curioso dall'uno all'altro, dal bellissimo volto di Giulia al non men bello di Clelia, si dirigeva verso la stalla per mugnere la vaccarella ed offrire un bicchiere di latte fresco alle simpatiche visitatrici.
Dopo mille domande e risposte e ragguagli, Manlio volto a Giulia diceva: "l'esilio dunque ci resta, non ci vedo altra via. Questo governo infernale finirà presto, non ne dubito, ma intanto dopo tutto quel ch'è accaduto bisogna sottrarci agli ultimi parossismi del prete sanguinario, oggi tutto astio e vendetta".

E Giulia, "io sono del vostro parere: sottrarvi alle persecuzioni di quegli scellerati e non perder tempo. Dio farà il resto e certo in breve potrete tornare nella vostra Roma ringiovanita e redenta".
Il modo di mettersi in salvo fu presto trovato dalla coraggiosa straniera. "Io - essa soggiunse - ho il mio yacht a Porto d'Anzo".
Il mio yacht! ma questa parola sarà inintelligibile a chi legge, se uomo e più ancora se donna italiana. Il mio yacht! Una signorina col suo yacht! Ma che razza d'arnese è questo yacht, che portano le fanciulle inglesi ed offrono agli amici?
Lo yacht non è un arnese ma una nave, su cui l'inglese ricco e coraggioso solca gli Oceani e passeggia il mondo tutto, come fosse la propria casa.
I francesi, gli spagnuoli, gli italiani non hanno yacht, benché essi presumano di essere nazioni marittime. La loro educazione è troppo molle. Ricchi, si danno alle lussurie delle metropoli e non avventurano l'effeminata loro esistenza sul mare tempestoso e perciò l'Italia, la Spagna, la Francia non contano i loro Rodney, i Jervis, i Nelson.
L'inglese, anche millionario, repugna dall'ozio, compra un yacht e si spinge sull'Oceano a cercare le tempeste. Egli non teme i calori della zona torrida, né i ghiacci del polo. Veleggia, corre, s'istruisce e diventa robusto di corpo e di mente. Con tali figli Albione signoreggia il mare da secoli. Co' suoi baluardi di legno essa rese inviolabile e sacra la sua terra d'asilo e si può sperare che coi nuovi baluardi di ferro essa saprà sfidare qualunque tentativo d'invasione straniera.
Dunque, "Ho il mio yacht a Porto d'Anzo, - diceva Giulia - noi andremo là; e spero di potervi imbarcare inosservati e veleggiare con voi verso il solitario".
 

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