F) CAPITOLI :

XXXI. - La bella Irene - XXXII. - Gasparo - XXXIII. - La Scoperta
XXXIV. - L'Assalto - XXXV. - Un acquisto prezioso
XXXVI. - Il miglioramento umano

XXXI

LA BELLA IRENE


Sul peristilio del castello ove giungevano i nostri quattro viaggiatori scorgevasi una giovine donna, il cui aspetto indicava la matrona romana forse un po' più delicata del tipo antico.
Ai suoi vent'anni, al vederla si avrebbe potuto aggiungere un lustro di più perché al suo sorriso angelico corrugavansi alquanto le bellissime guancie. Neri gli occhi e la capigliatura il suo portamento era incantevole e maestoso.
Avvertite le donne, con un inchino graziosamente le salutò, mentre Orazio le diceva: "Irene, ti presento Silvia e Clelia, la sposa e la figlia del nostro celebre scultore Manlio", e allora con un bacio cordiale Irene accolse le ospiti.
Il piccolo John incantato di trovare tanta bellezza e tanta grandezza ove aveva supposto di non trovar altro che solitudine e deserto fu più sorpreso ancora quando, seguendo la compagnia nell'interno del castello, s'accorse che in uno splendido salotto stava preparata una ancor più splendida mensa riccamente e copiosamente imbandita di ogni specie di vivande.
"Tu m'aspettavi dunque stasera?" disse amorosamente Orazio ad Irene.
"Oh sì! me lo diceva il cuore, che non avresti passata un'altra notte fuori", e un nuovo amplesso dei due amanti chiudeva il breve colloquio.

Clelia, la bella Clelia fu ben lungi dall'esserne gelosa. Ella era già troppo affezionata a quei due esseri e in quella vece il suo pensiero ed il suo cuore corsero ad Attilio. Credo non affermare cosa che il lettore non abbia indovinato aggiungendo che la buona Silvia mandò un sospiro pel suo povero Manlio.
John coll'appetito di dodici anni, stimolato da una passeggiata ben lunga per un povero "tar" (Tar marinaro in inglese), all'aspetto della mensa imbandita non ebbe pruriti d'amore, ma di sincerissima fame.
Una nuova scena di lì a poco colpì la madre e la figlia, e più di queste John, che ancora se ne stava a bocca aperta. Avendo Orazio dato di piglio a quel suo magico corno, comparvero come per incanto, l'uno dopo l'altro, quindici nuovi ospiti e tutti poco più, poco meno, vestiti alla foggia d'Orazio, ed armati.
L'ora già tarda, e la sala poco illuminata fecero più solenne sulle prime quella comparsa, ma venendo accesi i lumi le aperte, maschie e gentili fisonomie dei nuovi arrivati, guadagnarono loro l'ammirazione e la fiducia universali. Orazio allora "a tavola" gridò, facendo sedere Silvia alla sua destra, alla sinistra Clelia e dopo lei Irene. I compagni d'Orazio, sedute che furono le donne ed il loro capo, per cui mostravano gran rispetto, presero posto a tavola, mentre John
s'era già collocato allato a Silvia.
Un bicchiere di wermuth brindato "alla libertà di Roma" iniziò il pranzo, che continuò poscia con molta alacrità per parte di tutti i commensali.
Terminato il pranzo, le donne si ritirarono nelle stanze d'Irene e mentre una serva di lei, conformandosi agli ordini ricevuti, preparava i letti per le nuove arrivate, esse con Irene contraccambiarono quattro paroline, siccome è uso del bel sesso, sulla reciproca loro storia.
Di Silvia e Clelia noi già lo sappiamo e ne resta a sapere ciò che la bella castellana raccontasse sul conto suo alle nuove amiche e il suo racconto fu il seguente:
"Sono figlia del principe T... che credo voi conosciate in Roma, famoso per le sue ricchezze, splendidamente educata da mio padre, a me non mancò nessuna specie d'istruzione, ma cosa singolare!, invece di propendere a studi che sembrerebbero più adatti al nostro sesso come la musica, il ballo ed altri femminili passatempi ed occupazioni, mi sentiva attratta verso gli studi seri e d'indole più grave che alle donne forse non si convenga. Quando venni allo studio della nostra Roma me ne appassionai in un modo strano, ed in quella stupenda storia della Repubblica sì piena di grandi fatti, di leggende e d'eroismo la mia giovine fantasia s'esaltava al punto da divenirne pazza.
Paragonando poi quei tempi eroici con gli obbrobrii dell'impero e della decadenza e in ispecie colla più moderna storia dei preti, così avviluppata in un caos di umiliazioni, di prostituzioni, di miserie, sentii tutto il peso d'una mortificazione inesprimibile. Studiando concepii un immenso disprezzo, un odio profondo per il Clericume, istrumento principale dell'abbassamento e del servilismo del nostro popolo.
Con indole tale e tali sentimenti, vi persuaderete facilmente che le occupazioni e i divertimenti principeschi della mia casa, gli sterminati omaggi dell'aristocrazia Romana serva del prete e dello straniero, non potevano avere le mie predilezioni. Non tra le cortigianesche passeggiate, le feste, i balli e le dissipazioni vane, ma tra le splendide ed immense ruine di cui è seminata la nostra Metropoli, io trovavo le mie delizie, e cavalcando o a piedi, quasi ogni giorno, passavo alcune ore tra quei superbi avanzi della grandezza Romana. Giunta all'età di quindici anni, più dell'ago, dei ricami e delle mode, mi erano famigliari i capi d'opera dei maestri dell'arti belle, le macerie del Foro e quelle sparse nella deserta campagna intorno a Roma.
Soleva fare le mie escursioni lontane a cavallo accompagnata da un vecchio e fido domestico di casa. Una sera, di ritorno da una di quelle passeggiate, mentre traversavamo Transtevere alcuni soldati stranieri ubbriachi, i quali avevano attaccato rissa in una osteria uscirono colle sciabole perseguitandosi. Il mio cavallo si spaventò, prese il morso coi denti e di carriera precipitandosi per la via mi trasportava colla celerità del baleno rovesciando quanto gli si parava davanti, non potendo io rallentarne il corso per quanti sforzi facessi.
Era forte in sella e coloro che senza pericolo mi vedevano correre ammiravano, ma finalmente il corsiero continuando la sua furia la lena venne a mancarmi ed ero lì lì per lasciarmi cadere. Certo cadendo, mi sarei fatta in pezzi sul selciato, o contro qualche ostacolo della via, quando un giovane coraggioso lanciatosi dal marciapiedi come un lampo attraversa la via, getta la sua mano sinistra alle briglie e mi cinge robustamente colla destra mentre già mi abbandonavo sfinita.
Allo strappo violento della mano del mio salvatore il cavallo fa un mezzo giro a sinistra, inciampa e va a fracassarsi il cranio contro il muro di una casa. Io era salva, ma svenuta e quando ripresi i sensi mi trovai nel mio letto, in casa mia, attorniata dalle mie donne. E chi era stato il mio salvatore? a chi chiederlo? Feci chiamare il domestico che mi accompagnava ma tutto quanto egli mi seppe dire era: che seguendomi da lontano giunse sul luogo della catastrofe quando io era già trasportata in una casa vicina da dove, palesando il mio nome
mi fece trasferire subito nel mio palazzo. Altro non seppe dirmi del mio salvatore se non che egli era un giovine e che s'era ritirato dopo avermi consegnata alle donne di quella casa.
Però la mia ardente immaginazione aveva indovinato o distinto anche in mezzo a tale pericolo i lineamenti atletici di quell'agile e robusto giovine.
I suoi occhi avevan lampeggiato un solo istante nei miei ma quel lampo si era indelebilmente trasfuso ed impresso nel mio cuore. Io non potei più dimenticare quella sua fisionomia che ricordava gli eroi Romani scolpiti nell'anima mia. Oh! lo riconoscerò ben io se lo rivedo, dicea tra me, fosse egli romano! se è romano dev'essere della schiatta de' quiriti, del mio popolo ideale! del mio culto!
Una sera (voi conoscete l'uso in Roma di visitare il Colosseo al chiarore della luna), una sera, dico, accompagnata dallo stesso domestico io usciva da quel gigante delle ruine per tornare a casa. Ad una certa distanza essendosi diradata la folla, nel girare il canto della via che dal Tarpeo (Rocca donde i Romani precipitavano i rei) mette al Campidoglio (Palazzo di governo degli antichi) ed all'ombra di quell'immenso edificio, un colpo di bastone rovesciò il mio domestico e due malandrini afferrandomi per le braccia cominciarono a trascinarmi violentemente verso l'arco di Severo (Arco di Severo imperatore: Magnifica ruina che s'incontra entrando nel campo Vaccino) che fu edificato da Settimio Severo ). In quel punto le svelte forme dell'uomo che io aveva scolpito in cuore si delinearono nel chiaroscuro delle ruine: una lotta corpo a corpo s'impegnò tra i tre, ed in meno ch'io nol dico, i due assassini erano rovesciati nella polve. Vedendo il domestico rialzarsi e venire a noi, lo sconosciuto mi prese la mano, la baciò ed allontanossi frettolosamente.
Io era rimasta così attonita da tanti e sì subitanei avvenimenti che non ebbi la presenza di spirito di articolare una sola parola.
Mio padre, amorevolissimo, (io non aveva conosciuta mia madre) soleva
nella stagione estiva andare ai bagni di mare in Porto d'Anzo forse più per compiacermi che per desiderio proprio, sapendo che io amava il mare e soprattutto amava di allontanarmi dalla società aristocratica della Metropoli per la quale non avevo la più lieve simpatia.
Fuori di Porto d'Anzo, a poca distanza verso il settentrione e non lontana dal mare, vi era una villa proprietà di mio padre da noi abitata nelle nostre escursioni estive.
Io amava la vista del mare, quivi vivea più volentieri che a Roma, ma vi era un vuoto nella mia esistenza, una smania nell'anima mia che mi turbava, che mi rendeva inquieta e malinconica. Io sentivo di amare perdutamente lo sconosciuto mio liberatore.
Sovente passava delle ore al balcone del mio appartamento, gettando lo sguardo in tutte le direzioni e su tutti i passanti, cercando le sembianze dell'uomo de' miei pensieri. Se scorgeva un palischermo, una navicella sul mare, puntava il mio binocolo su quel punto, non per altra brama che di scoprire fra la ciurma o tra i passeggeri l'idolo del mio cuore.
Una sera era già tardi ed io seduta al balcone della mia stanza in balìa ai mesti miei pensieri, quasi involontariamente stava contemplando l'astro della notte che spuntava sul lontano orizzonte delle pianure Pontine. Il tonfo d'un corpo che pareva piombare dall'alto del muro della villa mi trasse dalle mie contemplazioni: il cuore cominciò a battermi, non di paura però, e mentre l'astro notturno alzavasi ed aumentava il chiarore mi sembrò discernere tra le
piante qualche cosa che s'avvicinasse. Poi mi parve distinguere una persona. Quando l'ombra o la persona uscì dal folto delle piante e si trovò all'aperto, un raggio di luna, che quasi orizzontale la illuminava, mi fece palesi le fattezze di colui che io aveva cercato invano per tanto tempo.
Un grido di sorpresa e di gioia m'uscì incontanente dal petto e, lo confesso, tutto il mio pudore di donna bastò appena per trattenermi dal corrergli incontro e gettarmi nelle sue braccia. Il mio carattere solitario e sdegnoso de' costumi della Capitale mi aveva mantenuta in una innocenza eccezionale ed io, prole di principi appartenente alla più corrotta delle corti del mondo, era rimasta una semplice ed ingenua figlia della natura.
"Irene! - mi disse una voce che mi scese nel più profondo dell'anima. - Irene! potrei avere la fortuna di dirvi due parole là o qua giù, come a voi piace?
Scendere mi sembrò più conveniente che introdurlo nelle mie stanze, e scesi! Ei mi prese quasi timidamente la mano, poi mi condusse verso il bosco e là ci sedemmo sopra un banco campestre l'uno accanto all'altro, all'ombra delle piante. Egli avrebbe potuto condurmi seco fino agli estremi confini della terra: io mi sarei lasciata guidare dove a lui meglio piaceva.
Stemmo un pezzo silenziosi; finalmente rompendo il silenzio egli mi disse: "Irene! voi perdonate il mio ardimento, non è vero? "
Io non risposi, ma senza resistenza lasciai che traesse a sé la mia mano che
egli baciava fervidamente.
"Voi saprete - continuava egli - ch'io sono un plebeo. Irene, un orfano! i miei genitori perivano entrambi alla difesa di Roma contro gli stranieri: su questa terra altro non mi rimane che il braccio ed un animo consacrato all'Italia ed a voi.
Predisposta com'era ad amarlo fin da quando egli non era per me che una creazione della fantasia che dava una forma al mio liberatore, potete immaginarvi se in quel momento, in cui l'essere fantastico della mia immaginazione, e del mio affetto aveva presa forma viva, che ne udiva la maschia ma affettuosa e soave voce io mi trovassi veramente beata.
Sentivo di esser sua ed egli avrebbe potuto disporre di me come d'una schiava; tale era il fascino che esercitava sopra la mia volontà.

"Irene! - egli continuava - è d'uopo ascoltiate ancora, che sappiate che io non solamente sono un povero orfano, ma sono proscritto, condannato a morte, obbligato a vìvere nelle foreste, perseguitato dagli sgherri del Governo, inseguito come le belve.
Un presentimento, un intuito della generosa indole vostra, non lo dico per vantarmene, credetelo, diceva al mio cuore che voi mi amavate e che quell'amore vi faceva infelice. Per questo sono venuto, o Irene!... e sono venuto... a dirvi... che voi non potete esser mia!"
Dopo un istante di pausa, rinfrancatasi la voce, ch'era andata grado grado abbassando ei proseguiva: "Voi dovete dimenticarmi, Irene, io sono già pago del poco che ho potuto fare per voi. Me ne sento superbo, quindi a me non dovete gratitudine e se mai fossi tanto fortunato da spendere questa povera vita per voi, oh!, credo che allora il mio sogno sarebbe compiuto! Perdonatemi!... Irene!..."
Così dicendo, egli si alzava, con voce sicura mi diceva addio e lasciando andare la mia mano che aveva tenuta nella sua, si allontanava...
Io era rimasta tutto quel tempo assorta in tanta estasi da dimenticare me stessa, il mondo intero! Non udiva, non sentiva più nulla! ma la parola Addio quasi scintilla elettrica m'infiammò, corsi a lui, e "fermati!", dissi, prendendolo per il braccio e riconducendolo al sedile. "Tu sei mio! tu devi essere mio, gridai, ed io tua!... per tutta la vita! Sì! io voglio essere tua in eterno!" e mi abbandonai così dicendo nelle braccia di lui.
Dopo pochi giorni di preparativi io seguiva Orazio in questa foresta e qui dimoro da più anni. Non dirò, per essere esatta nella mia storia, che sono perfettamente felice. No! provo un'afflizione, l'unica, quella di aver forse accelerata la morte del mio vecchio ed amoroso genitore". Qui una lacrima rigava la guancia bellissima della regina della foresta.
Silvia, quantunque stanca, non aveva potuto a meno di prestare attenzione all'interessante istoria dell'amabile ospite, Clelia non ne aveva perduta una parola. Quante volte durante la narrazione non era essa stata sul punto di esclamare: il mio Attilio anch'esso è bello, valoroso, degno d'essere amato di un simile amore! Sì! il mio Attilio!, mio! essa ripeteva a sé stessa, intanto che Irene guidava alla loro stanza le due nuove amiche.
XXXII
GASPARO
La storia del Papato è storia di briganti.
Dai condottieri del medio evo che quel governo debole e demoralizzatore assoldava per mantenere l'Italia in uno stato normale di dissidenze e di guerre intestine per dominarla ai briganti che ai nostri giorni mantiene per impedirne la ricostituzione, io lo ripeto!, quella storia è una storia di brigantaggio.
Chi ha visitato Civitavecchia nel 1849, avrà senza dubbio inteso parlare di Gasparo, famosissimo capo-brigante, parente del cardinale A.... Molti stranieri giungevano espressamente in quella città per vedere quell'uomo straordinario.
Gasparo alla testa della sua masnada avea sfidato la potenza del governo pontificio: sostenuti molti scontri e coi gendarmi e colle truppe e il più delle volte le truppe ed i gendarmi erano stati da Gasparo messi in fuga.
Non potendo il governo avere quel valoroso bandito colla forza, si provò a pigliarlo coll'astuzia.
Come abbiamo detto, Gasparo era parente di uno dei cardinali più autorevoli della Corte, e siccome entrambi erano nativi di S.... ove avevano parenti comuni, così questi furono intermediari fra il governo ed il brigante, portando al bandito le splendide offerte del porporato congiunto.
Gasparo fidatosi delle promesse fattegli, licenziò la banda. Arrestato e condotto in catene nelle prigioni di Civitavecchia, vi si trovava nel 49, cioè al tempo della Repubblica ed allora noi potemmo vederlo.
Il principe C...., fratello della nostra Irene, avea per i racconti de' pastori avuto sentore d'una bella abitatrice della foresta; dai connotati e dalle circostanze aveva dedotto che essa non poteva essere che la propria sorella.
D'accordo col cardinale A..... egli divisò di trarla a qualunque costo da quella che egli chiamava una prigione, ed era un nascondiglio.
Appoggiato dal governo, ed autorizzato a marciare alla testa del reggimento di cui aveva il comando, il principe non era sicuro per mancanza di pratica dei luoghi chiusi da foltissimi boschi di poter riuscire, laonde chiese al cardinale A.... se gli volesse dare come guida il suo vecchio parente, prigioniero in Civitavecchia.
"Ottima scelta! - rispose il cardinale, - Gasparo vi condurrà nei più reconditi siti della foresta più facilmente che a traverso le vie di Roma. Egli è tal uomo che prendendo un pugno di fieno e odorandolo, anche a mezzanotte, vi saprà dire precisamente ove si trova in qualunque parte di quei deserti. Badate che è vecchio ora ma per coraggio lo credo ancora buono ad affrontare il demonio".
Quando Gasparo nelle carceri di Civitavecchia seppe che dovevano condurlo in Roma si tenne per ispacciato e tra sé stesso diceva:
"Meglio così, bisogna pur finrla una volta! sono già stanco della vita. Un solo dispiacere porto meco nella tomba, aggiungeva picchiandosi la fronte il vecchio Gasparo, - di non potermi vendicare del tradimento di questi cani in sottana".
Due compagnie di gendarmi, una a piedi, l'altra a cavallo, condussero l'antico principe dei briganti in Roma. Il governo avrebbe bensì desiderato ch'ei viaggiasse la notte ma di notte v'era pericolo di fuga o di rapimento perché i vecchi compagni di Gasparo non erano ancor morti. Bisognò dunque acconciarsi a tradurlo di giorno: e di giorno la popolazione correva sullo stradale affollata per contemplare il famoso bandito. Il passaggio del Papa non avrebbe attratta tanta gente.
Condotto in Roma alla presenza del Cardinale A. e del principe C. con molte promesse ed oro, lo impegnarono a coadiuvarli nella proposta distruzione dei briganti libertini (Libertini, nome che i preti danno ai liberali) e nel ricupero della principessa.
Gasparo assentì non volendo perdere sì bella occasione di prendere il largo e vendicarsi di chi lo aveva sì scelleratamente tradito.
XXXIII
LA SCOPERTA

Eran vari giorni che Clelia, Silvia e John abitavano il Castello di Lucullo ospiti d'Orazio e d'Irene e non si accorgevano di starvi male.
Fra i compagni d'Orazio ve n'erano di ricchi, di nascosto dal governo ricevevano sussidi dalle famiglie di Roma e quindi potevano provvedere la loro nuova dimora di quanto abbisognava; l'abbondante caccia della foresta forniva ogni specie di selvaggina e la galanteria dei nostri giovani romani, specialmente verso la perla di Transtevere, non era poca e, mi perdoni il bel sesso per cui vecchio come sono conservo una vera adorazione, benché afflitta dall'assenza dell'amante che ella ama con tutta l'anima, la donna un po' di galanteria l'accetta sempre volentieri, s'intende bene senza far torto al lontano suo prediletto.
Clelia sarebbe stata felicissima d'avere seco il suo Attilio, anche a patto di star tutta la vita nella foresta; Silvia, la buona Silvia talora sospirava incerta del destino del suo Manlio, e John? Oh! John poi era l'essere più felice di questa terra. Orazio lo aveva armato di una delle carabine prese ai briganti che assaltarono la carrozza di Giulia e di più lo teneva come compagno inseparabile in tutte le sue escursioni di caccia.
Un giorno Orazio e John si trovavano nella foresta cacciando un cervo. John doveva fare la battuta ed allontanossi seguendo le istruzioni del suo compagno. Orazio rimase alla posta. Le disposizioni d'Orazio furono efficaci, poiché dopo circa mezz'ora un grande cervo venne a pascere sulla sua posta. Col primo tiro lo colpì, ma l'animale non cadde; allora Orazio lasciò andare il secondo colpo e la belva diede un lamento e stramazzò.
Aveva appena Orazio scaricato i due tiri della sua carabina quando un movimento dei cespugli lo fe' accorto che qualche cosa s'avanzava verso lui dalla parte più folta del bosco. Non poteva essere John, egli era troppo lontano ancora. Un sospetto balenò alla mente d'Orazio ed un brivido involontario lo percorse nel sentire le due canne della carabina vuote.
Non s'era ingannato: appena aveva posto il calcio dell'arme a terra per ricaricarla, un ceffo molto più somigliante a quello d'una tigre che d'un uomo sbucò dalla macchia a pochi passi di distanza.
Sui valorosi ancorché colti all'improvviso il timore non ha forza, e col pugnale alla mano il nostro Coclite s'avanzava impavido contro l'apparizione quando questa gli gridò: ferma!, con tanta autorità e sangue freddo che ne fu sorpreso il nostro prode Orazio e fermossi.
Armato da capo a piedi il nuovo venuto aveva un aspetto veramente straordinario. Un cappello puntato alla calabrese copriva il suo capo irsuto di folta capigliatura bianca come la neve. La barba bianca, sprizzata qua e là di qualche ciocca del primitivo colore ed irta come quella d'un cignale, copriva l'intero volto ad eccezione degli occhi. Eretta e posata su poderosa spalla gli anni non eran stati capaci di piegare quella testa maestosa e selvaggia. Sul largo suo petto teneva affibbiato un giustacuore di velluto stretto al cinto dall'indispensabile cartucciera. Di velluto oscuro era pure il resto del vestito e dal ginocchio in giù, uose calzava elegantemente affibbiate.
"Io non ti sono nemico Orazio - disse Gasparo (poiché era egli stesso) - anzi io vengo ad avvisarti di un pericolo che ti sovrasta e che potrebbe essere la tua e la rovina de' tuoi compagni".
"Che non mi sei nemico - rispose Orazio - lo prova il tuo contegno; tu avresti potuto uccidermi se lo fossi pria ch'io mi trovassi in istato di difesa, e so di più: che Gasparo sa servirsi assai bene della sua carabina".
"Sì, - rispose il bandito - vi fu un tempo in cui di rado mi occorreva di tirare un secondo colpo al cervo ed al cignale ed oggi stesso, benché gli occhi miei comincino a fallirmi io non starò indietro ad alcuno, quando si tratti di assalire un nemico. Ma sediamo, devo narrarti cose importanti".
Seduti sul fusto di una vecchia pianta rovesciata, Gasparo cominciò a favellare dei disegni della corte papale coadiuvata dal Principe C. Narrò che lui stesso era stato inviato dal Principe per scoprire ove potevano trovarsi i liberali ed infine che egli, Gasparo, bramoso di vendicarsi del governo dei preti offriva invece il suo concorso ad Orazio colla sola condizione di esser accolto nella banda liberale.
"Ma voi avete molti delitti, mio povero Gasparo, se è vero ciò che si racconta di voi e noi non potremmo accogliervi in nostra compagnia".
"Delitti! - rispose altiero il bandito. - Io non ho altro delitto che di aver purgato la società d'alcuni prepotenti e dei loro sgherri, il delitto d'aver soccorso gli oppressi ed i bisognosi. E credete voi che se io fossi un miserabile delinquente, il governo dei preti avrebbe di me tanta paura e che io sarei così generalmente amata dalle popolazioni?
"Il Governo mi teme perché sa che io non temo di lui come glielo provai in tanti incontri. Il governo mi teme perché sa d'avermi vigliaccamente ingannato e tradito e s'io ritorno alla testa de' miei coraggiosi compagni egli sa che gli farò pagar caro la sua malafede ed i suoi tradimenti. Sì, alcuna volta io mi son servito dell'avvocato Carabina per far giustizia ed ho la coscienza d'averlo sempre fatto conformemente ai dettati del diritto. Posson dire lo stesso i preti?".
Qui giungeva John, ed Orazio pensò bene di marciare colla preda ed il nuovo compagno verso il castello, per provvedere agli avvenimenti che si preparavano.
XXXIV
L'ASSALTO

Avendo il Principe riconosciuto per relazione di spie più fidate di Gasparo che i liberali trovavansi nel castello preparossi a dargli l'assalto dopo avere disposto la sua gente in modo da circondare il castello ed impedire da ogni parte l'uscita ai rinchiusi.
Ma simile a molti generali che sprecando e disseminando la loro gente per eccesso di precauzioni su troppi punti, con sentinelle, picchetti, distaccamenti, osservazioni, ecc. finiscono a rimanere con poche forze sotto mano e sono bene sovente sconfitti, il Principe più che al vincere, parve provvedere ad assicurarsi la vittoria.
Da' suoi esploratori egli avea avuto un'idea della situazione del castello, ma inesatta. Avea mandato anche Gasparo in esplorazione, ma questi non compariva onde impaziente egli dispose la sua gente, che ammontava a circa un migliaio d'uomini, in vari distaccamenti. Li inviò in diverse direzioni a fine di chiudere ermeticamente il nemico e quindi avanzare restringendo il cerchio per finalmente assaltare la posizione.
Successe per l'appunto ciò che doveva succedere con tante precauzioni e movimenti combinati. La parte verso Roma, da tramontana, ove il Principe stesso comandava, seguì veramente la sua marcia diretta verso il castello; ma gli altri distaccamenti un po' per incuria, naturale ai soldati del Papa, un po' per colpa dei pratici, anche loro poco vogliosi di venire a combattimenti, invece di seguire vie praticabili, s'intricavano nel folto del bosco ove, chiama di qua rispondi di là, vi volevano delle ore per intendersi, e si finiva qualche volta, dopo d'aver faticato molto, col tornare al punto di partenza.
Il Principe avendo tenuto seco circa dugento uomini dei più fidi, giunse verso le 4 pomeridiane alla vista del castello, ove s'accorse che v'erano già preparativi di difesa. Contando sulla bravura de' suoi e sulla cooperazione degli altri distaccamenti, egli da prode com'era veramente, la sciabola alla mano, fece spiegare la metà della sua gente a modo di tiratori, l'altra metà tenne in colonna ed ordinò alle trombe la carica.
Orazio co' suoi giovani Romani, avrebbe potuto scansare il combattimento scendendo colla sua gente giù pe' sotterranei. Ma sdegnando una ritirata prima di misurarsi coi mercenari della Corte papale fu deciso di tener fermo. Perciò si costrussero prontamente della barricate a tutte le porte del Castello si aprirono feritoie, ed infine si tenne pronta ogni cosa per la difesa.
L'ordine dato da Orazio alla sua gente era di non tirare da lontano, aspettare il nemico a bruciapelo ed allora dovesse ciascuno col suo tiro abbattere il suo uomo.
E così si fece. Gli assalitori avanzavano con passo ardito verso il castello, e già la catena di tiratori era giunta a toccare quasi il peristilio dell'edilizio, quando una scarica generale di quei di dentro distese sul terreno tanti papalini quanti furono i tiri. Quell'improvvisa scarica scosse alquanto i primi arrivati. Vi furono alcuni che vedendo i compagni caduti volgevano indietro per fuggire ma il Principe, alla testa della sua colonna, veniva sui talloni dei tiratori e giunse infatti al castello poco dopo loro.
Orazio, da capitano avveduto, avea fatto preparare cariche quante armi si trovavano nel castello ed alle donne, aveva lasciata la cura di ricaricarle insieme ad alcuni domestici, a misura che si sparavano.
John avea sdegnato rimanere colle donne come volea lasciarlo il suo protettore, impugnò la sua brava carabina, si pose a fianco d'Orazio e lo seguì durante il combattimento come fosse la sua ombra.
Giunto il Principe al coperto della barricata del peristilio e vedendo la strage che s'era fatta della sua gente in poco tempo capì con che nemici avea da fare, vide dipinto sulla fisionomia dei suoi il timore.
Ma poiché la ritirata era morte sicura, dovendo percorrere di nuovo lo spazio avanzato sotto il fuoco micidiale di tali tiratori com'eran quei di dentro e pungendolo di più la vergogna di una ritirata che avrebbe somigliato a una fuga risolvette di tentare l'assalto della barricata.
Passò l'ordine ai migliori ufficiali che gli stavano vicini diede comando alle trombe di suonar la carica, saltò per il primo sull'orlo della barricata, superolla e si lanciò fra i pochi difensori di quella, menando sciabolate da disperato.
Uno dei difensori all'aspetto del Principe rimase immobile e come di sasso. Era Orazio! Egli aveva ravvisato sulla maschia fisionomia del nemico le care sembianze della sua Irene.
Orazio aveva una canna della sua carabina carica e poteva ammazzarlo ma non si mosse. John all'incontro senz'altre cerimonie spianò la sua arma al petto del nemico e lasciò andare il colpo ma il braccio robusto di Orazio deviò l'arma, che andò a ferire uno degli assalitori che varcava allora la barricata.
Pochi furono i seguaci del Principe che gli tenner dietro e quei pochi o sulla barricata o già dentro furono spacciati dai valorosi campioni della libertà di Roma.
Finalmente, una circostanza inaspettata liberò del tutto il castello dai suoi assalitori, che sparvero in tutte le direzioni come la nebbia al vento.
Dalla parte orientale del bosco mentre la truppa era tutta raccolta sotto le barricate e gli officiali la incoraggiavano a seguire il Principe s'udì un grido spaventoso d'una decina d'armati e si videro questi dieci leoni (che potevano esser cento, pensarono i soldati) precipitarsi sul fianco destro della truppa e sbaragliarla e disperderla come fosse stato un branco di pecore.
Da prima i soldati li avevan creduti dei loro e rimanevano in osservazione, quando però alla foggia del vestire ed alle busse che menavano riconobbero essere i liberali, colla paura che già avevan nelle ossa pel numero degli uccisi a gambe se la diedero e lasciarono il campo di battaglia interamente in potere dei coraggiosi che gli avevano assaliti.
Il Principe, rimasto solo, avendo notato l'atto generoso del suo nemico, pensò esser oramai inutile il combattere e rimise la sua spada ad Orazio. Questi la ricevè e vedendo che ormai non v'eran più nemici, condusse il suo prigioniero ad Irene.
XXXV
UN ACQUISTO PREZIOSO
Dobbiamo confessare essersi fatti degli immensi progressi in questo ultimo secolo. Non parlerò di quelli delle scienze fisiche e meccaniche, veramente portentosi, ma dei progressi morali specialmente.
L'emancipazione del popolo dal prete è un gran fatto non interamente avverato, ma che cammina a passi di gigante al suo compimento.Quando si pensa che la distruzione del pretismo è proprio opera degli stessi preti!
Chi può calcolare quale consolidamento avrebbe ottenuto il Papato se Pio IX continuava nel sistema di riforme iniziato e se identificava la causa sua con quella della Nazione italiana disposta di darsi al diavolo purché il diavolo la costituisse? Eppure la Provvidenza accecò quel vecchio tentenna per il bene di questo povero popolo, e lo lasciò sulla perversa e miserabile via de' suoi antecessori a patteggiare cioè collo straniero, vendendogli vilmente il sangue de' suoi concittadini.
La Nazione italiana vide alla luce del sole il ceffo deforme degli impostori, marciare col crocefisso in mano alla testa delle masnade straniere (Li ho veduti io, marciare alla testa degli Austriaci contro di noi) suscitando dovunque quel brigantaggio che devasta ancora le nostre province meridionali con ogni specie di orribili delitti per tentare la dissoluzione dell'unità nazionale sì felicemente costituita.
Un altro fatto che attesta grandemente il progresso umano della nostr'età è l'avvicinamento dell'aristocrazia al popolo.
Vi sono bensì ancora dei baroni, più o meno duri, più o meno forti e coperti di ferro, che affettano ancora l'alterigia e le prepotenze de' bei tempi del diritto della coscia (Antico diritto feudale sui matrimoni, un po' osceno a narrare). Ma questi sono pochi e la maggior parte dei nobili e i veramente nobili d'animo si avvicinano a noi, ed accomunano le loro alle aspirazioni nostre.
Di tal tempra era il fratello d'Irene. Egli avea bensì fatto l'ultimo tentativo da noi riferito per liberare la sorella che credeva in mano d'assassini, ma quando conobbe che erano tutt'altro gli uomini coi quali aveva combattuto, e Romani, egli sentì orgoglio di tanta bravura de' suoi concittadini. Poi egli doveva la vita a quel magnifico e valoroso soldato della libertà ch'era Orazio e venne a conoscer esser lui lo sposo legittimo di sua sorella, ch'egli teneramente amava.
Allora cambiò concetto. E tutte le suddette considerazioni militarono in favore della nostra Irene quando, riconosciuto il fratello, essa diede un grido di sorpresa e si precipitò ai suoi ginocchi stringendoli fortemente e dirottamente piangendo commossa nel rivederlo, anche perché la presenza di lui richiamavale il genitore perduto che il fratello maggiore rappresentava per l'aspetto e per l'autorità.
Il Principe sollevò Irene gentilmente ed ambi rimasero per più minuti abbracciati, spargendo lacrime di commozione. Orazio, commosso lui pure sino al fondo dell'anima, prese la spada del Principe, per la punta e presentandogli l'elsa gli disse: "Un valoroso non deve essere privo dell'arma". Il Principe l'accettò con gratitudine, e strinse affettuosamente la mano abbronzata del duce della foresta.
E Clelia non l'aveva essa riconosciuto il suo Attilio nel ruggito che avevan mandato agli assalitori? Oh sì! quando il grido di quei dieci fece risuonar le volte del castello e tanto spavento suscitò nell'anima dei papalini, Clelia abbandonò un'arma che aveva allora terminato di caricare e volò a un balcone da dove potè osservare la scena. Essa vide per un istante il volto che portava scolpito nel cuore ma bastò quell'istante per farla felice.
Ed era veramente il nostro Attilio con Muzio, Silvio e sette altri compagni che avevan così bravamente caricate e fugate le masnade del papa.
Silvio conosceva perfettamente il castello di Lucullo e spesso era stato ospite d'Orazio non solo, ma compagno, ed era lui il veicolo di comunicazione tra i liberali di dentro e quelli della campagna. Egli dunque, quando in Roma per parte dei capi liberali si prese la determinazione di pigliare il campo e riunirsi alla banda d'Orazio si pose alla lor testa per guidarli e come s'è veduto, giunse felicemente in tempo per dar l'ultimo colpo alle truppe papaline.
Lascio pensare qual fu la gioia nel castello all'arrivo dei nuovi amici che sì potentemente avean contribuito alla liberazione dei fratelli.
Quante interrogazioni! quanti abbracciamenti, quante richieste di parenti, di fatti, di speranze, di delusioni!
"Mio! mio!" ripeteva Clelia a sé stessa, mentre Attilio, per la prima volta, coglieva un bacio sulla fronte dell'adorata vergine. "Mio! a dispetto della trista caterva dei chercuti e del mondo!".
"Eh! signorina! l'odore della polvere ed il fragore della battaglia vi hanno esaltato alquanto la testolina. Ma ve la passiamo".
L'amore vero, sublime, eroico, l'amore che si portavano quelle due angeliche creature, non è egli la vita dell'anima, il fomite di quanto s'opera di grande, l'incivilitore dell'umana razza?
Un bell'acquisto l'avean fatto davvero i liberali nella persona del principe E. Trasformato dalle scene che noi abbiamo descritte, si trovò un altr'uomo intieramente, perché egli, generoso e prode per natura, sentiva nell'anima l'umiliazione della patria ed ardeva di vederla liberata da' suoi oppressori stranieri e chercuti. Educato fuori di Roma ed in condizioni diverse da quelle dei giovani che tenevan nelle mani la trama della rivoluzione Romana ad onta del suo carattere e de' suoi sentimenti v'era rimasto estraneo. Poi per condiscendere al desiderio del padre egli aveva accettato un posto nell'esercito pontificio e si comprende di leggeri che un tale impegno lo allontanava ancora più dai nostri amici.
Ora dai suoi occhi era caduta la benda e senza quell'impaccio egli potè arditamente contemplare tutta la grandezza dell'avvenire italiano. Una nazione sminuzzata in tante parti, e perciò esposta al disprezzo e al ludibrio del mondo vide costituita in un corpo solo, potente, rispettata, come lo fu nei bei tempi di Roma, come la sognarono i grandi italiani di tutte le età.
Appena intravveduta la vita nuova il principe si sentì attratto verso di lei, innamorato de' suoi nuovi compagni e così deciso a rifarsi del tempo perduto, che fece sacramento a sé stesso di vivere e morire per la causa santa del suo paese.
Ricco e potente come egli era e generoso, diventò nel futuro il più forte sostegno dei proscritti, i quali dal canto loro non ebbero che a rallegrarsi d'aver collocata la loro fiducia in quel nobile carattere.
XXXVI
IL MIGLIORAMENTO UMANO

Orazio dopo aver accolto e lodato i nuovi amici e fratelli pensò di provvedere alla sicurezza generale. Chiamò a sé Attilio ed il Principe, ormai consacrato corpo ed anima alla causa nazionale, e parlò loro così:
"Noi fummo felici nell'ultimo incontro, è vero; credo però esser questo sito ormai troppo noto ai nemici, e quindi per noi pericoloso. Il Governo farà di tutto, impiegherà ogni mezzo per snidarci e distruggerci: di questo non c'è dubbio. Esso è capace di mandare qui tutto il suo esercito e con la sua artiglieria rovesciare queste antiche mura. Io non consiglio una subita ritirata perché anche il Governo abbisogna di tempo per fare i suoi preparativi. Ma da qui innanzi, fa mestieri usare tutta la vigilanza possibile, per conoscere le mosse del nemico e non essere sorpresi".
"Voi, Principe, dovete tornare a Roma. La vostra presenza qui non è necessaria per ora, mentre là, potete esserci utile, credetemi, di un'utilità somma. Potete dire che vi abbiamo posto in libertà sotto il vincolo della vostra parola d'onore, di non combattere contro di noi. Dimettendovi dal servizio voi non potete temere di essere molestato".
Rispose il Principe. "Il vostro consiglio è savio ed io farò quanto voi dite. Comprendo che più utile vi potrò essere in Roma e vi dò la mia parola d'onore che sarò con voi per la vita e per la morte!".
Attilio fu della stessa opinione, quindi soggiunse che per le relazioni sulle mosse del nemico bisognava far capo a Regolo, e Regolo darebbe avviso di tutti i movimenti delle truppe papaline. Poi, avendo il Principe desiderato un mezzo sicuro per restare in relazione con loro, Attilio, su d'un pezzettino di carta tanto piccolo da potersi inghiottire al bisogno, scrisse a Regolo una linea di riconoscimento pel Principe.
Il resto della giornata fu impiegato a seppellire i morti, che non eran pochi, ed alla cura dei feriti, sì gli uni come gli altri quasi tutti papalini. I liberali ebbero tre feriti soli, e questi non gravemente perché nella pugna i valorosi pericolano meno e se si desse un colpo d'occhio alla statistica di tutte le battaglie, si vedrebbe sempre che i fuggenti hanno perduto un numero immensamente maggiore di uomini che i vittoriosi.
Nella notte il Principe partì per Roma e sapete con che guida? con Gasparo, il Cesare dei banditi di tutte le età, divenuto anche lui uno sviscerato liberale, siccome lo avea provato nell'ultimo combattimento facendo prodigi coll'infallibile sua carabina.
Io sono di natura tutt'altro che pessimista e quindi credente nel miglioramento umano sotto tutte le forme e se l'umanità non migliora con sensibile progresso la maggior colpa l'hanno i governi. Coi buoni trattamenti e le carezze si dominano, si addomesticano le belve e se ne migliora l'indole feroce.
Cosa volete sperare da un popolo ridotto alla miseria dalle vostre esazioni, dalle vostre imposte, dalle vostre tasse? Egli sa che queste tasse, imposte ed esazioni non sono, come voi dite, per la difesa dello Stato e per mantenere l'onore nazionale, ma per ingrassarvi ed ingrassare la sterminata caterva di parassiti, qualunque sia la loro denominazione, parassiti che sono pel popolo quel che gl'insetti per il corpo, i vermi pel cadavere, atti soltanto ad immiserirlo e divorarlo.
Chi negherà che le popolazioni dell'Italia meridionale non fossero migliori, perché meglio governate, nel 1860 che non lo sieno al giorno d'oggi?
Allora, appena si sospettava il brigantaggio e non v'eran prefetti, non gendarmi non birri. Oggi all'incontro con quell'immensità di satelliti, che minano le finanze dell'Italia esiste nella parte meridionale della penisola, l'anarchia, il brigantaggio e la miseria.
Povere popolazioni! Dopo tanti secoli di tirannide e dopo la brillante rivoluzione del 60, esse speravano un Governo riparatore, un'era di riposo, di progresso e di prosperità e non l'ottennero!
Sì! Gasparo si era battezzato alla vita dei liberi col sangue degli oppressori. Egli fu accolto dalla giovine brigata con indulgenza, con entusiasmo ed ebbe l'importante missione di guidare il Principe I.... fuori della foresta, fin sulla via di Roma.
Le previsioni d'Orazio sugli apparecchi del Governo papale si avverarono. Dopo il rovescio del castello di Lucullo i mitrati decisero in consiglio d'inviare a quella volta tutto il loro esercito con artiglieria e giacché, pensarono con ragione, i liberali, non staranno molto tempo ad aspettare la tempesta, bisogna mettere il disegno immediatamente in esecuzione.
E non soltanto i soldati papalini ma si divisò d'impiegare in quell'ardua impresa tutta la truppa straniera, che si trovava al servizio del Papa. Un generale straniero di gran fama fu chiamato a dirigere la grande campagna e tutto si preparò con alacrità per giungere in tempo che il famoso attacco cadesse nel santo giorno di Pasqua, generalmente propizio ai preti, poiché in quel giorno grasso essi satollano meravigliosamente la pancia, loro divinità principale, alla barba dei divotissimi fedeli.
Orazio ed i suoi compagni non dormivano frattanto. Informati da Roma di quanto vi accadeva e degli strepitosi preparativi che vi si facevano i quali, benché il governo cercasse di tenerne segreto lo scopo, erano senza dubbio al loro indirizzo, dapprima i nostri amici eseguirono una minuta esplorazione dei sotterranei conosciuti da Orazio e da taluno de' suoi, particolarmente dal vecchio Gasparo, già tornato dalla sua missione col Principe.

< all'indice dei capitoli ---- capitoli seguenti >