M) CAPITOLI :

LXIII. - Il Racconto - LXIV. - Seguito del racconto di Marzio (1
LXV. - " (2 - LXVI. - " (3 - LXVII. - " (4
LXVIII. Predicazione del solitario

LXIII

IL RACCONTO


Noi lasceremo i nostri amici occupati a consolare l'afflitta Irene per la perdita del fratello che sinceramente amava.
Ultimo rampollo dello splendido suo casato, il principe ne troncava colla sua morte la prosapia; e questa idea, sono certo, non mancava di martellare il cervello della nostra bella matrona la quale, sebbene non repugnasse da un'alleanza plebea, come abbiam veduto, ci teneva al titolo onorevole della famiglia paterna.
Alla immensa fortuna che la morte del fratello lasciava in sua balia non pensò punto, essendo troppo generosa di carattere da anteporre l'interesse alla vita del suo caro. Poi i beni di casa T... sul territorio Romano, erano stati confiscati da quelle perle di servi di Dio, i cui beni non sono di questo mondo.
Ritornati dal funerale, Attilio e Muzio si erano consultati col solitario sul modo di comunicare alla sorella l'avvenimento fatale ed egli chiamato Orazio e la sposa nella propria stanza aveva data loro la ingrata e dolorosa notizia.
Gasparo, di tutti il più addolorato, dopo Irene, avea col racquisto del luogotenente trovato refrigerio al suo dolore e si sentiva mosso dalla smania di udire le avventure di lui che credeva perduto per sempre.
Ecco dunque i due ex-banditi riuniti a stretto colloquio nell'Albergo Vittoria nella stanza di Gasparo. Dopo un mondo d'interrogazioni e di risposte, per lo più a monosillabi, non essendo l'oratoria Io studio prediletto dei briganti, gente più manesca che ciarlona, il luogotenente così cominciò:
"Dopo che voi mi diceste, mio caro capitano, che eravate annoiato della vita brigantesca e disposto di ritornare privato, dal che vi sconsigliai se ben ricordate, io continuai le solite scorrerie senza però mai allontanarmi dai saggi vostri precetti. Spogliare i potenti e sollevare i miseri. I nostri compagni, formati alla vostra scuola, pochi motivi mi diedero di reprimerli; quando qualcheduno però mancava io lo castigavo senza misericordia e così si visse colla grazia di Dio per vari anni.
L'affetto per la donna fu sempre lo scoglio del brigante e ben lo sapete voi vecchio corsaro".
Gasparo, a quegli accenti agrodolci affilava colle dita i suoi mustacchi color di neve ricordando senza dubbio più d'un'avventura galante nella carriera sua pericolosa mentre l'altro ripigliava: "Voi ricordate Nanna, quella fanciulla per cui tante persecuzioni ebbi da' suoi parenti. Non vi fate a credere che quell'adorabile creatura mi tradisse. No! l'anima sua, era, e fu pura come quella d'un angiolo! E perdonate se mi asciugo una lagrima pensando alla donna che tanto amai". Ed il ruvido capo dei masnadieri si metteva il fazzoletto agli occhi.
"Essa è adunque morta" esclamò Gasparo con affetto.
"Morta! Morta!" ripigliava il compagno e i due amici stettero un pezzo in silenzio.
Alla fine Marzio continuò: "Un giorno la mia Nanna, un po' indisposta s'era fermata a passare la notte in casa Marcello presso la povera Camilla impazzita, come avrai saputo, grazie all'infame cardinale S. Io quel dì mi dovetti allontanare colla banda per un'operazione importante. Nella notte la casa fu assaltata e portato via il mio bene in Roma.
Puoi immaginare la mia disperazione, puoi immaginare quante ricerche facessi per conoscere il nascondiglio della Nanna. Finalmente dai nostri amici di Roma seppi trovarsi la fanciulla nel convento di San Francesco, ove l'avean condannata a servire le suore e a non vedere mai più la luce.
La mia donna, al servizio delle suore! destinata a servire quella turba di giovani donne ingannate e di rantolose vecchie volpi! Ve la darò io, dissi tra me, una serva di quella tempra e, per Dio!, questa volta il diavolo si porta via il vostro convento e quante vecchie pettegole racchiude.
La notte, che tenne dietro al giorno in cui conobbi la dimora della Nanna entrai in Roma solo: solo, perché mi sembrava vergognosa codardia farmi accompagnare in una impresa ove si trattava di me solo.
Presi meco un fascio grandissimo di frasche secche, comprato in piazza Navona, lo depositai in un'osteria, ed aspettai che si facesse tardi.
Verso le undici, prima che si chiudesse l'osteria, presi il mio fascio e via verso S. Francesco. Chi può impedire a un povero diavolo di portarsi un fascio di legna a casa? Poi, la nostra Roma ha questo di buono, poche persone passeggian le vie durante la notte per paura dei ladri che il liberale governo dei preti lascia liberi quanto vogliono purché non si mescolino in politica.
Giunto al portone di San Francesco, posai il mio fascio, preparai pronto ad accenderlo un mazzo di zolfanelli, calcai le frasche contro il portone e gettai lo sguardo alle due estremità della strada per attendere il momento opportuno.
Era evidente, che bruciando il portone restava la inferriata, la quale mi avrebbe lasciato con tanto di naso e nulla di compiuto. Bisognava fare del chiasso, far accorrere gente di dentro e di fuori. Pertanto dopo aver accomodato ogni cosa traversai la piazzetta e mi nascosi nel vano di una porta saldo ed immobile quale una cariatide aspettando che gente venisse, foss'anco una pattuglia di birri, per me faceva lo stesso. Né ebbi ad aspettar molto, che dopo dieci minuti mi giunse all'orecchio precisamente il suono de' passi misurati d'una pattuglia.
Allora, colla velocità che tu sai".
E qui Gasparo interrompendo: "Corpo di Dio! se la conosco, esclamò. Ricordo ancora quel tal Monsignore che, sulla strada di Civitavecchia, avendoci scorti retrocedeva fuggendo a gran galoppo verso Roma ed in men ch'io nol dico tu eri al muso de' cavalli e fermavi la carrozza".
"E che presa fu quella, comandante mio! ci fu da scialacquare per molto tempo colla povertà cristiana di quel discendente degli apostoli! Ma torniamo al racconto. Quando fui certo che la pattuglia veniva innanzi, corsi al fascio, lo accesi e rapido tornai al mio nascondiglio.
"In pochi minuti, una fiamma d'inferno divampava dinanzi al portone del convento e lo stesso portone poco dopo infiammandosi mostrava uno spiraglio di fuoco simile al cratere di un vulcano.
E i birri? Dovunque la più trista canaglia del mondo in nessuna parte arrivano alle tristizie di quei di Roma, i birri dico, codardi per natura e lenti per la vita infingarda che menano invece di correre sul sito a smorzare il fuoco si misero a squarciagola a far schiamazzo per svegliare il vicinato ed al fuoco non si appressarono se non quando buon numero di vicini, d'ogni parte accorrenti, giungeva sulla scena d'azione.
Tocca ora a me, pensai, e mi precipitai nel vortice di quel tramestio.
Le monache potevan stare allegre che un bel liberatore ce lo avevano alla porta e potevano star allegri anche i birri, che avevano acquistato in me un famoso compagno.
Le cose meglio non potevano riuscire. Al clamore di quei di fuori, le monache non tardano a destarsi. Spalancando l'inferriata, giungono anche esse alla riscossa con secchie piene d'acqua e buglioli e catini e quanti recipienti davan loro alla mano le poverette! Dopo aver fatto mostra di smorzar anch'io dalla parte di fuori sempre fisso però il mio occhio di lince verso il di dentro, vedendo la partita ben impegnata mi slanciai nell'interno al soccorso delle suore ed una salva di acclamazioni accompagnò l'atto mio salvatore.
Appena dentro, girai lo sguardo sulla turba delle femmine ivi riunite ed alla più vecchia che mi sembrò essere la badessa: "favorisca" dissi, e in pari tempo la presi per il braccio sinistro, in modo da farle comprendere che il favore di seguirmi lo avrei ottenuto un po' anche colla forza delle mie braccia. Incontrai più resistenza da quel vecchio cataletto ch'io non avrei creduto. Si contorse, s'impuntò, e non volle muoversi che trascinata resistendo con tutte le sue forze, ma inutilmente: poi si mise a gridare onde fui obbligato a levarla nelle braccia e turarle la bocca con un fazzoletto.
Cosi mi allontanai dalla folla e giunto davanti alla porta di una cella che trovai aperta mi misi dentro col mio fardello. Il lume era acceso, il letto caldo, deposi la vecchia sul letto e chiusi la porta a chiave.
Era la vecchia attonita ma non impaurita. Non ricordo d'aver veduto mai un demonio di tanto coraggio. "Ov'è Nanna?" le chiesi, mentre mi guardava trasognata, con un certo piglio da scuoterla per benino.
Nessuna risposta. "Ov'è Nanna?" tornai a dire un po' più alto di prima. Nessuna risposta. Ah! vi farò trovar io la lingua, brutta strega, esclamai infuriato, tirando fuori dalla cintura questo palmo di lama e facendolo luccicare ai suoi occhi. Eppure niente!".
"Sangue della madonna! interruppe Gasparo, sono tutte così le badesse, tutte energumene. Quando alla difesa di Roma nel 1849 la mia compagnia doveva passare nel Convento del Sacro Cuore per occupare le mura di S. Pancrazio ci fecero stare delle ore alla porta senza volerci aprire e la badessa cui era stato presentato l'ordine scritto del Governo lo fece risolutamente in pezzi e solo, quando si cominciava a buttar giù il portone colle mannaie si persuase ad accordarci l'ingresso ( Storico).
"E così fece questa ripigliava Marzio. Io non burlavo, lo puoi ben credere. Volevo la mia Nanna e cento vite di vecchie non mi avrebbero certamente impedito di portar l'impresa a buon fine. Attortigliati i suoi grigi capelli alla mia sinistra col pugnale nella destra cominciai a tastarle il collo non già colla punta del ferro per timore mi vi scivolasse ma con uno spillo della sua cuffia. Allora m'accorsi che fino al martirio non voleva arrivare la santa donna giacché cominciò a sciogliere la lingua, gridandomi lamentevolmente un: per amor di Dio!
La mia Nanna o vi mando all'inferno con tutti i diavoli! rispos'io. Per amore di Dio lasciatemi, ripeteva lei ed io lasciai andare quel capo protervo.
Dopo aver respirato fortemente per assicurarsi che viveva ancora, passatasi la mano sulla fronte. "Chiedete voi conto d'una giovane della campagna Romana, di buona famiglia, che fu collocata or son quindici giorni in questo Convento?". Credo sia dessa, risposi. "Allora io vi condurrò da lei, ma a patto che non facciate scandali in questa casa del Signore".
Altro oggetto non ho fuorché portar via la mia donna le risposi.
Essendosi al quanto ricomposta e discesa dal letto mi disse:
"andiamo". La seguitai per un pezzo e giunti ad un'entrata oscura c'innoltrammo in un corridoio, scendemmo varie scale ed al chiarore di un candela che avevo portato meco scoprimmo una porta di ferro sbarrata da un catenaccio. Povera Nanna! dicevo tra me stesso, che delitto avrà mai commesso quella sciagurata fanciulla da essere fitta in questa bolgia d'inferno?
Giunti alla porta ferrata la vecchia mise fuori una chiave, la introdusse nel catenaccio, aprì e mi fece segno di tirare la porta essendo troppo pesante per lei. Io feci quanto mi venne richiesto senza però perder di vista la mia guida la cui compagnia m'era troppo necessaria. Così aprendo la porta misi prima la vecchia dentro ed io dietro. Appena entrato una giovine donna scapigliata mi saltò al collo e vi s'avvinghiò disperatamente... Oh! Marzio, essa esclamò e le
lagrime della mia Nanna innondavano il mio volto.
Sono troppo corsaro da non prendere le mie precauzioni in tempo d'urgenza. Fuori di me dalla contentezza per la redenzione della mia fanciulla non mancavo però di adocchiare la megera che senza il mio occhio fulminante non avrebbe mancato di svignarsela.
Passata la prima espansione d'affetto, tenendo la mia cara per mano, richiusi la porta e chiesi a Nanna se esisteva un altro uscio in quella prigione. Essa rispose di no, ma la badessa che avea intesa la mia domanda: "c'è - disse - un altro uscio e per questo vi converrà uscire per non incontrare la comitiva delle suore che saranno in questo momento sulle mie traccie".
Qui una nuova scena ed una nuova fanciulla venne ad interrompere il discorso della badessa. Io avevo veduto veramente muoversi qualche cosa nell'angolo più oscuro del carcere, ma preoccupato com'ero, non v'aveva badato. Quando a un tratto una fanciulla dell'età in circa della mia Nanna si avvicinò a me, con voce commossa: "Oh! voi non mi lascerete sola in questo carcere, caro signore, io seguirò la mia Nanna sino alla morte".
E la Nanna a me: "Sì, Marzio! per carità non lasciamo questa infelice amica mia in questo inferno. Essa era destinata da quella vecchia maga a mia compagna per farmi la spia ed all'opposto è stata per me un angiolo di consolazione. Era incaricata di farmi parlare, sapere di voi, de' vostri compagni, d'ogni cosa e poi rivelare tutto alla badessa".
E così vanno le cose, pensavo fra me stesso in questi laboratori d'ipocrisia e di menzogna!
"Era incaricata di spiarmi, di minacciarmi, di tormentarmi, in caso io rifiutassi di palesare i vostri nascondigli, le vostre riunioni abituali, i vostri disegni ed invece essa mi disse tutto, mi consolò, mi protesse ed assicurò che morrebbe piuttosto che farmi del male.
Essa poi ieri mi salvò puranco dalle disoneste brame di un infame prelato che introdottosi in questo carcere colla connivenza senza dubbio di questa vecchia strega venne a promettermi mari e monti se condiscendevo alle sue voglie malvagie. Mi salvò precipitandosi nel carcere e strillando come un'ossessa.
"Invano le promisero la libertà se giungeva a sedurmi per conto della badessa e del prelato, non ne hanno potuto cavar nulla. Di giorno ci destinavano ai più vili uffizi del chiostro, richiudendoci di notte in questa spelonca".
"Il pianto innondava ancora il bel volto della mia diletta a queste ultime parole... ed io vi assicuro Capitano che mi corse per istinto la mano sul ferro e divenni sitibondo del sangue della megera. Non so ma mi trattenni. Ero furibondo, e avrei stritolato le ossa di quella schifosa creatura come una foglia d'autunno e noi feci, e fu bene, perché senz'essa avrei avuto immense difficoltà a rivedere la luce del cielo.
"Ov'è la seconda porta di cui avete parlato?, dissi alla vecchia, e dove conduce?
"Conduce fuori del convento, e ve la mostrerò se scostate il letto di ferro che giace in quel canto". Scostai il letto ben pesante e nulla vidi.
"Provate a levare i mattoni che si vedono con materiale non secco".
Dato mano ad una spranga di ferro del letto cominciai a smuovere il pavimento, staccare i mattoni e metterli da parte. Alla fine un anello conficcato nel legno mi diede indizio di una porta orizzontale da sollevarsi e con mio stupore scopersi una nuova scalinata che conduceva a basso.
Qui bisogna ordinare la marcia, pensai tra me, e spinger la vecchia in capo fila. Ingiunsi alle mie giovani compagne di seguire in retroguardia e dando il lume alla badessa senza cerimonia le dissi: Avanti!
Questa è la scala di contrabbando, pensavo io e quanti di quei poveri neri e luridi scorpioni, a sottane saranno venuti a sfamare le loro libidini in questi ginecei! E le povere famiglie che credevano d'inviare le loro figliuole in questi asili di purezza per educarle!
Ma pensavo pure: oggi non hanno più bisogno di entrare furtivamente nei sotterranei, oggi quegli scellerati hanno più facile l'ingresso e la sfacciataggine per giungere fino alle loro vittime".
LXIV
SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO (1)
"Les cloîtres, les cachots--ne sont point son ouvrage;
Dieu fit la liberté--l'homme a fait l'esclavage. (Chénier)

"Marciava avanti la vecchia badessa col lume, io seguivo a poca distanza e le giovani chiudevano la marcia.
Scendemmo forse cinquanta gradini, entrammo in un corridoio non molto stretto che dopo pochi passi ci mise in una spaziosissima stanza, dico spaziosissima perché coll'aiuto del lumicino appena se ne potevano scorgere le pareti.
Avevamo fatto circa una diecina di passi in cotesta stanza quando mi sembrò di udire alla mia destra dei lamenti. Mi fermai, per meglio ascoltare quando al termine della mia attenzione di un momento e mentre mi accingevo a muovermi e guardare avanti anche alla mia guida mi trovai nelle tenebre.
Corpo di Dio! dissi tra me e me e mi slanciai innanzi con tale salto che certo non potrebbe di più la tigre quando dal suo nascondiglio della foresta si slancia sulla preda. Ma le tenebre furono la mia preda. Invano volteggiai a mulinello per un pezzo colle braccia tese quanto potevo colla speranza d'incontrare quel demonio in gonna. Mi avventai contro la parete, la costeggiai strisciando a rischio di scorticarmi le mani e non trovai uscio.
Finalmente, dopo aver tentennato alquanto e quasi alla disperazione, mi appoggiai fortemente al muro e lo sentii cedere alla mia spinta. Ripresi speranza, ripassai la mano su quella parte di muro ed a mia sorpresa trovai che era legno, di che non m'ero accorto prima nella mia indagine precipitosa.
Forzai di nuovo e sentii girare come una porta sui gangheri e nello stesso tempo un'aura, un puzzo cadaverico mi giunsero dalla parte esterna e mi colpirono quasi in modo da togliermi il fiato. Voltai la testa verso le stanze per sfuggire a quell'aria appestata. Il lamento che avevo udito prima mi ripercosse l'udito e quasi calmò il mio sussulto.
Pensai alle compagne e ad alcuni zolfanelli che tenevo in tasca ma che avevo scordato nell'esaltazione della mia mente. Accesi un zolfanello contemplai ciò che avevo creduto una porta e invece trovai essere una ruota (Ruota. I lettori conosceranno senza dubbio quella cassa cilindrica, in cui si depongono le creature abbandonate, dalla parte di fuori degli orfanotrofi, e poi si girano dentro) e miracolo! ben grato a Dio! a piedi e nel fondo della ruota il mio cero che la vecchia perversa avea lasciato cadere nella fuga.
Riacceso il lume mi trovai accanto le mie povere compagne tremanti come foglie. Coraggio, dissi loro, e mi precipitai nel compartimento attiguo dove mi seguirono una dopo l'altra, colla speranza di poter raggiungere la badessa ch'io non dubitai più essere fuggita da quella parte. Sollecitai il passo ma a poca distanza, Dio mi perdoni!, che orrore! Alle pareti del carname che io percorreva una massa di creature umane incatenate per il collo, alla cintola e per ambe le
braccia penzolavano, la maggior parte cadaveri più o meno imputriditi. Un solo era vivo ed era questo un giovane che conservava gli avanzi di bellissime forme. Era divenuto un fantasma e spalancava verso me due occhi nerissimi che sembravano voler saltare dalle loro orbite. Aveva cessato di lamentarsi quando conobbe che io l'avevo scorto e che mi avanzavo verso di lui.
Per quanto fosse urgente il pericolo io non volli lasciare quel sofferente senza tentare ogni mezzo per liberarlo. Mi avvicinai e lo baciai sulla fronte.
Oh! sì! io mi sento attratto verso qualunque creatura che soffre. E questa sarà certo la corrispondenza gentile d'amorosi sensi a cui l'Onnipotente informa le anime che non furono infette dal soffio avvelenatore del prete. Mi chiamino pure brigante!
Mi avvicinai all'infelice e baciai quella fronte grondante sudore ed ardente come un tizzone. Ma che fare! le radici delle sue catene erano impiombate nel muro e quei massi erano enormi. Mi ravvolsi tra il carname a cercare ferri che mi servissero a scavare nel muro o a rompere le catene. Orrore! dovunque istromenti di tortura! Dovunque, rotelle, eculei, letti di ferro, stirature, tanaglie, corde da laccio, graticole ed altre simili mortificazioni del corpo come le chiamano i preti e che solo questa genia d'inferno poteva inventare per sventura dell'umana famiglia.
LXV
SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO (2)
« E Nanna e Maria (tale era il nome della compagna di Nanna) s'erano anch'esse
avvicinate allo sventurato giovane - e si « affannavano - ma invano - a sottrarlo
dall' orribile supplizio. - Per fortuna di tutti - la mia Nanna - mi scosse coll' esclamare - Oh ! « una chiave ! » e veramente con molta perspicacia - volgendo
lo sguardo sul muro un po' scalcinato accanto al giovane - vi avea scoperto la
chiave in un buco.
Provata la chiave nei chiavistelli della catena - andava bene - e mentre le arrugginite serrature cedevano alla mia mano d' acciaio - ad ogni crocchiare del
ferro - il mio cuore si dilatava - e mi parea sentirmi alleggerito di un peso.
Ero all'ultimo catenaccio - anche questo avea ceduto - e liberavo le membra intirizzite del giovane - quando Nanna mi afferrò per il braccio - e timorosa indicommi nella direzione della ruota una luce.
Abbandonai il liberato compagno - e fui tosto presso alla ruota. - Appena giunto
- mi compariva innanzi un angiolo custode « cioè uno dei birri - il quale s'inoltrava « girando la ruota - colla sua brava lanterna sorda nella mano sinistra ed una pistola nella destra.
Fatto piccin piccino - e rannicchiato - io lo contemplai in tutta la maestosa sua corpulenza - e nella sua apparizione fantastica - e quando gli occhi suoi si fissarono spaventati sulla mia fisonomia - ben poco piacevole in quel momento - avevo già attanagliata la sua destra colla « mia sinistra - la mia daga avea trovato la sede della vita nelle sue viscere - ed « il corpaccio del birro rotolava cadavere sul « terreno.
« Voi sapete, Capitano - che io sono nemico del sangue e che solo per difesa personale l'ho versato. - Ma là non e' era da burlare - sapevo i nemici non meno di cinque - e io ero solo .... ma che « dico? al capitombolo dello sgherro mi avvidi di non esserlo più - Il mio liberato - rifatto agile dall' urgenza , era già sul caduto - lo spogliava delle armi se ne armava lui stesso. Le mie valenti compagne da una vecchia graticola di tortura - avevano staccato due spranghe
s' erano schierate in serrafila per ajutarmi.
La situazione era cambiata - il morto, per adagio che lo avessi spacciato, non avea mancato di dar fuori un grugnito straziante - e ciò avea insospettito i compagni - e veramente io udii battere in ritirata il nemico - perché i passi che noi distinguevamo perfettamente - rimanendo in silenzio assoluto - si sentivano allontanarsi. - Lo ripeto, non c'era da burlare, nè da far consigli di guerra - per pigliare una decisione.
Dalla parte ove eravamo entrati, cercar di uscire - sarebbe stata pazzia. - E che altra via ci restava? - Sapevamo tutti che le nostre romane catacombe , hanno sempre vari usci - la via di scampo non poteva trovarsi che lì - ed anche sta volta non m'ingannai.
Un' occhiata significativa al mio nuovo compagno - mi confermò nelle mie congetture - e senza aprir bocca - toccando colla sinistra il cuore - egli mi fe' capire ch'io potevo far assegnamento su lui in un viaggio per quel regno delle tenebre e della morte.
Non v'era tempo da perdere: l'alba dovea essere vicina - e molte misure dovevano concertarsi nel convento per assicurare la nostra cattura. Gente armata dovunque - allo sbocco di ogni uscita del sotterraneo - era il meno che si poteva aspettare di trovare tardando. L' acquisto di Tito fu per noi tutti prezioso - egli non solo era pratico del sotterraneo - ma a certa distanza - alquanto a sinistra - egli raccolse parecchie torcie a vento - e le distribuì alla comitiva. - La precauzione del mio compagno fu ben utile - poichè il mio piccolo cero era sul finire e la lanterna del birro - non aveva olio sufficiente per continuare un lungo viaggio sotterra.
A destra del punto ov' egli aveva trovato le torcie - Tito mi mostrò un chiarore - e mi disse : « quell'apertura mette nel giardino del convento - e passata che sia, siamo fuori di pericolo. »
« Camminammo - camminammo - certo ben due ore - per un sotterraneo tagliato a scalpello nel tufo - di cui - come sapete Capitano - il sottosuolo romano è composto - e ne abbiamo visitate insieme di quelle catacombe ben molte nella nostra misteriosa ed illustre terra. - « Catacombe terribili per chi non le conosce - poichè ramificandosi per molti versi - esse diventano un vero labirinto per chi non ne ha il filo.
Giovani e svelte - le due donne eran sempre sulle nostre calcagna. - Io chiedevo loro sovente: siete stanche - volete il braccio ? - ma loro : Oh ! no! - Andate pure che vi seguiremo sino alla morte -
« Ecco la luce » - esclamò finalmente Tito : e veramente davanti a noi comparve come un bagliore che si perdeva nella lontananza.
« Da quell'uscio noi giungeremo nel bosco di Castel Guido - da dove mi trassero per condurmi a Roma in un seminario - semenzaio d'immoralità e di turpitudini. »
Seminario ! ove si seminan preti - e donde escono i giovani negromanti - per l'edificazione di questa nostra povera Italia! - Ed il Parlamento li ha conservati questi vivai di malizia e di corruzione ! - Parlamento nazionale ! Rappresentanti del popolo !... Maledizione ai falsarii !
LXVI
SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO (3)
Giunti all'uscita del sotterraneo, Tito cominciò a spostare alcuni rami di lentischio che ne ostruivano l' entrata - ed uscì il primo - girando lo sguardo per ogni verso - Salvi ! - egli finalmente esclamò - Salvi ! sin qui non giunsero i nostri persecutori. - Uscito colle compagne - non potei ristarmi dall'ammirare come un orificio sì angusto ed impercettibile, quando sia ricoperto da' rami potesse dare adito a quella spaziosa ed immensa catacomba.
Castel Guido - io dissi a Tito- ma non lontano dobbiamo avere la tenuta del nostro poeta pastore? - Si ! rispose egli: a poche miglia - e vi guiderò diritto a quella volta - ove potremo trovare un po' di riposo - ed un'eccellente ricotta per soddisfare la fame.
Il sole di Marzo era altissimo sull'orizzonte - quando lasciammo il sotterraneo e nella splendida foresta ove ci trovammo internati, le piante secolari - che ricordavano forse le immortali legioni - poco accesso davano ai cocenti raggi del figlio primogenito di Dio. I sentieri solcati dalla bufala eran quindi magnificamente ombreggiati e ben piacevole sarebbe stato il passeggiarli meno stanchi ed affamati.
Alla fine sull'orlo del bosco apparve ai desiosi nostri occhi la casipola mentovata - e per fortuna - sulla soglia scoprimmo il nostro amico che sembrava aspettare qualcheduno.
« Accidenti ! gridò il poeta - quando fummo giunti vicino a lui - non aspettavo quest'oggi voi, Marzio ! - e ci stringemmo le destre come vecchie conoscenze.
Aspettavo - bírri - come al solito - continuò l'amico - giacchè si vociferò che alcuni delle vostre bande si aggiravano in questi dintorni - e con voce bassa - trascinandomi alquanto da parte: - Anzi qui a poca distanza v'è Emilio, soggiunse, con due compagni. »
« In luogo di cacciatori ti giunse adunque la selvaggina, o Lelio, - ma poche parole - dacci da mangiare e da bere - che noi si muore dalla fame. -

"Entrate, qui nulla manca - eccovi prosciutto - ricotta, pane ed una foglietta (Specie di misura romana) proprio d' Orvieto. Mangiate - bevete eh' io vi guarderò le spalle da quei malandrini di Roma. - Accidenti a quanti sono !
Divorammo il frugale ma abbondante e sano pasto e quel primo bisogno soddisfatto - io richiesi da Tito - il racconto delle sue avventure - il che egli fece in poche parole. - Io - disse -. sono di Castel di Guido e di onesta famiglia. - Mio padre massajo dell' immensa tenuta del Cardinale M. - per consiglio dell'Eminentissimo - mi mandò a Roma nel seminario - all' età di quindici anni - per abbracciare la carriera ecclesiastica.
« Eran due anni che contra all'indole mia - mi trovavo a dover fare quel maledetto mestiere - ed era qualche tempo che il reverendo Petraccio direttore del seminario - mi mostrava simpatia - ed a dispetto de' miei compagni - gelosi della mia buona fortuna il reverendo alcune volte mi conduceva seco al passeggio. - Le passeggiate con Petraccio, sempre nojose - lo sembravan meno - quando con lui si entrava nel convento di S. Francesco a visitare le monache.
Badessa e monache - forse invaghite delle mie forme ( ed era veramente bello il nostro Tito ) mi accarezzavano sempre e mi colmavano di gentilezze. - Vi lascio pensare : che tracce di fuoco lasciassero nell' anima mia quelle visite a tante belle creature. - La badessa - onnipotente sull' animo del direttore - ottenne e senza molta difficoltà ( almeno io credo) eh' io potessi essere impiegato al servizio divino del convento - facendo da secondo ad un vecchio rettore che officiava per le monache. -
Non tardai ad accorgermi dello scopo cui mirava la santa matrona - ed eccitato come ero per la mia frequenza tra tante donne - non fu difficile il farmi peccare. Vari mesi durò quella tresca - e sotto un pretesto o sotto l' altro - stavo pochissimo in seminario - e coll'appoggio del Direttore potevo fare quanto mi piacea. - Il Direttore alla sua volta era retto dispoticamente dalla badessa - che lo lasciava liberissimo gallo nel pollajo.

« D' indole - tutt' altro che da seminario - sin da giovinetto ero stato appassionatissimo per la caccia - e per qualunque avventura - che richiedesse ardimento. - Così nelle mie escursioni per i dintorni di Castel di Guido - avevo scoperta l' entrata del sotterraneo che noi abbiamo lasciato - e moltissime volte - colle mie torce a vento - ne avevo esplorate le parti più recondite. -
Io stesso aveva trovato le comunicazioni col convento e me ne servivo per introdurmivi - a tutte le ore e devo confessarlo a detrimento del pudore delle giovani suore - dalle quali ero adorato. - Lunga sarebbe la storia delle gelosie della badessa, che furba com'era s'era accorta della mia predilezione per le più giovani e molte volte l' avevo trovata in una irritazione tale da mettermi paura. Infinite furon le scelleraggini da me vedute commettersi in quella casa di prostituzione - durante la gravidanza ed il parto delle infelici sedotte - ed il carcame delle creature distrutte - appena nate - è cosa da far inorridire ogni anima gentile ! - Dico il vero : io mi ero proposto di allontanarmi da quel luogo maledetto per non tornarvi mai più !
Ma ero destinato a pagare il fio della mia complicità a tanta abominazione. - La megera - la matrona di tante dissolutezze - sembrò aver indovinata la mia risoluzione di fuga - e non mi diede tempo di eseguirla.
Un giorno : -- scendete Tito nel sotterraneo - mi disse - e portatemi alcune delle torce a vento, che mi furon richieste per una processione notturna. - Ebbi un presentimento di sciagura - ma ardimentoso come sempre - non volli dare ascolto a quella voce del mio cuore. - Poi mi era balenata alla mente l'idea di profittare dell'occasione, per allontanarmi per sempre da quella cloaca. -
Non avevo ancora terminato di scendere la scala della catacomba - che mi sentii agguantato da quattro robusti uomini - e trascinato verso il carcame che voi avete veduto - e donde miracolosamente fui tratto da voi.
Eran birri , e furono inutili le mie suppliche, le mie promesse e la mia disperazione. - Io doveva essere tra le vittime dell'impudicizia e dell'infamia. Ma voi mi salvaste, uomo coraggioso ! - e Tito così terminando baciava la mano del suo liberatore.
LXVII
SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO (4)
Terminato il racconto del povero Tito io avea voglia di udire qualche cosa della storia di Maria - ma rifocillati di buoni cibi - e scaldati dall'Orvieto - la fatica (che non era stata poca) della notte e d' una parte del giorno - fece si - che i miei occhi e quelli de' miei compagni - accennassero a volontà diversa da quella di udire delle storie. - Anzi di li a non molto, tutti come per mutuo consenso - cominciammo a russare - al posto stesso ove eravamo seduti.
Io non so quanto tempo rimanemmo in quella posizione - so però che un fischio acuto - risuonò nell'abituro e ci fece balzare tutti in piedi.
Ci stropicciavamo gli occhi - quando entrò il poeta pastore e disse : Non vi allarmate; non c'è pericolo, ho risposto ad un fischio di mio figlio Vezio - che aveva mandato in sentinella sulla sommità della « rovina Petilia - da dove si può distinguere chiunque si avvicini alla tenuta. - Ora, « chi viene - è gente nostra - proprio delle « tue bande. » - E Marzio - come non fosse in presenza del suo Capitano - ma nella Campagna Romana - si lisciava con la dostra i nerissimi mustacchi.
« Eran proprio dei nostri intrepidi compagni - terrore della birraglia pretesca. - Vi lascio pensare, Comandante - qual gioja reciproca c' inondasse nel ritrovarci. - Molte furon le carezze che mi prodigarono quegli uomini che il volgo crede induriti ad ogni misfatto e che sono in sostanza la parte eletta del popolo insofferente di prepotenze ed ingiustizie. -
Quella parte del popolo - che se invece «della degradante educazione del prete ricevesse una vera educazione morale - patriotica ed umanitaria - darebbe all'Italia degli eroi - ed al mondo gli stessi esempi di virtù e di coraggio che davano gli antichi padri nostri.
E qui tocca a me di ripetere per la centesima volta, che solo i preti furon capaci di ridurre il più grande dei popoli della terra alla condizione del più umile del più degradato di tutti i popoli !

Salvata sì portentosamente la mia Nanna - e reduce tra i miei coraggiosi compagni - io avea ragione d'esser contento della mia sorte. - Ma ripeterò il vostro adagio favorito Capitano: - «La felicità sulla terra esiste nell'immaginazione della gente ma non è cosa reale» - avete ragione! - troppo presto provai la veracità delle vostre parole.
Vi ricordate quel prete scellerato della Basilica di S. Paolo - che fingeva d'essere sviscerato amico vostro - ed a cui noi fummo così larghi di simpatie e di favori? - Ebbene ! il mostro s'era innamorato della mia Nanna - e mai mi perdonò l'affetto con cui mi ricambiava quell'angelica creatura.
Don Pantano - con quell'astuzia infernale che distingue la sua setta malefica - era riuscito a guadagnarsi gli animi nella famiglia di Nanna - e ad inviperirli. - I quattro fratelli di lei - come ella mi disse poi aiutati da altra gente mascherata - e consigliati dal prete volpone - avevano essi eseguito il primo ratto della mia fanciulla in casa Marcello. - Questa volta dovendo necessariamente allontanarmi co' miei - ed essendo la mia diletta in delicata condizione ed affranta dalle fatiche sofferte io mi decisi di lasciarla in casa del nostro poeta - insieme alla Maria con cui era divenuta si può dire sorella d'affetto cementato dalle sventure e dai pericoli passati in comune.
Inquieto per altro sulla sorte della mia donna - e, conoscendo la malizia del suo persecutore - io mi aggirava colla banda d'Emilio intorno alla tenuta di Lelio come la lionessa, quando deposti i suoi piccini si allontana per cercare alimento ma circuendo sempre il nascondiglio del suo tesoro. Vi assicuro che ben difficile sarebbe stato ai primi rapitori il portar via la mia Nanna. - Nella mia custodia erami Tito di non poco giovamento il quale pratico di quelle contrade, non aveva voluto più abbandonarmi.
Ma ove non arriva la malvagità di un prete? - Il Pantano sapendo quanto ardua era l' impresa di portar via la sua preda - ideò di distruggerla - lo scellerato!.... Vicina al parto - l' infelice giovane - sola, colla Maria inesperta in tali faccende, seguì l'innocente consiglio di Lelio, di chiamare da Castel Guido la levatrice di quel paese sino allora tenuta per onesta. Onesta ! ... ma chi può fidare sull'onestà delle donne ove signoreggia il negromante ? Corruzione ! Prostituzione! ecco il codice dei sacerdoti della menzogna Chi non lo crede vada a passare alcuni mesi in quel covile di serpenti mitrati ove un dì nacquero i Cincinnati e gli Scipioni.
Quanti delitti - non si possono far commettere da una creatura assicurandola che essa compie la volontà di Dio ! ch'essa ode la parola di Dio !
Parola di Dio ! sacrilegio che solo un prete può pronunciare ! Eppure ogni festa metà almeno del mondo cattolico va ad udire la parola di Dio ! in seno alla sposa di Gesù Cristo - la Chiesa!
« Veleno ! Veleno ! si amministrò alla mia Nanna - Capitano mio ! - ed il veleno mi portò via donna! prole! ed ogni felicità sulla terra !
Fui arrestato sul freddo cadavere di lei inconscio della vita. Seppi poi, che s'impiegò al mio arresto tutto l'esercito di mercenari papalini che i nostri bravi si batterono disperatamente per liberarmi ma sopraffatti dal numero e quasi tutti feriti si ritirarono in buon ordine.
Istupidito - chiesi a più riprese la morte - Invano ! - il gran trionfo di quel prode esercito era più splendido se mi avevan vivo ed incatenato.
Dalla galera di Civitavecchia - fui inviato a Roma dopo pochi mesi - e liberato, col giuramento di assassinare il principe T...
« Giuramento!.. . avete capito - Comandante - Giuramento ! - quella viltà degradante della dignità umana - con cui il despotismo ed il prete credono di vincolare la gente !.... Giurare di servir fedelmente un impostore od un tiranno i... di obbedirgli.... ancorché si dovesse assassinare K il padre e la madre ! ...
« Ed io giurai - vi dico il vero - ma giurai - di far loro una guerra a morte per quanto dura questa vita d' inferno ove non abbiamo altra alternativa : che morire o ammazzare ! »
LXVIII
PREDICAZIONE DEL SOLITARIO
- Addio Venezia! non ultima gloria d'Italia! Il tuo popolo come il resto dei popoli della penisola, passato sotto le verghe dello straniero - ha perduto la gloriosa impronta di grandezza - che lo distingueva ai tempi di Venier e di Dandolo. Come i suoi fratelli - si è intisichito d' anima e di corpo - e come a loro non gli resta che la millanteria dei tempi passati.
Pare impossibile ! a qual punto le nazioni sono corrose dal despotismo e dal prete. - Guardate il fiero Yankee (Americano del Nord) bello, franco, eretto - che nulla trova di arduo nel mondo e grida sempre - Avanti ! nelle imprese più arrischiate.
Tale è l' inglese e tale è anche lo svizzero.
Paragonate quei liberi popoli coi discendenti di Leonida e di Bruto - e questi troverete curvi sotto l' abitudini del servilismo - e del continuo timore che fan pesare sovr' essi i due papi di Stamboul (Costantinopoli) e di Roma.
Io ho veduto greci in Costantinopoli inchiodati per un orecchio alla porta della loro bottega - e lo straniero passando sogghignare con disprezzo - chiamandoli truffatori e ladri - ed eran veramente ladri e truffatori - condannati al chiodo per falsificazioni e furti.
Il romano mendico sotto i colonnati dei suoi templi - ha forse qualche cosa di men disgustante del Romeo (Nome con cui sono conosciuti i Greci in Levante) di Stamboul - men depresso - ma è altrettanto vizioso e degenerato. -
E Venezia ! - come Roma - come le altre sorelle italiche è degenerata ! La mia comparsa in quella città predicando i principii santi di libertà e del vero - riuscì di poco frutto. - Grida sfrenate vi si udirono al mio passaggio - ma i fatti poco o nulla corrisposero alle grida. Invece di deputati che io raccomandai buoni furono inviati quasi tutti servili. I preti che io dipinsi quali erano, colle loro turpi malvagità - passeggiano insolenti - e riveriti come prima.
A Padova ebbi il caro spettacolo degli studenti di quella celebre università e l'animo mio fu ringiovanito dal loro fervido amore di patria e dell'umanità.
Vicenza - Treviso - Udine - Belluno - Feltre - Conegliano - mi accolsero calorosamente - e serberò tutta la vita grata memoria di quelle care popolazioni.

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