Un periodo che vide il crudele inasprimento
del dominio maschile sull'altro sesso


DAL MEDIOEVO CON DOLORE


di ELENA BELLOMO

"Questo sesso (quello femminile) ha avvelenato il nostro progenitore, che era anche suo marito e suo padre, ha strangolato Giovanni Battista, portato alla morte il coraggioso Sansone. In un certo qual modo, ha ucciso anche il Salvatore, perché se non fosse stato necessario per il suo peccato, nostro Signore non avrebbe avuto bisogno di morire. Maledetto sia questo sesso in cui non vi è né timore, né bontà, né amicizia e di cui bisogna diffidare più quando è amato di quando è odiato."

Con questa condanna senza alcun appello lo scrittore medievale Goffredo di Vendôme descriveva l'intero genere femminile, definendolo come il peggior nemico dell'uomo ed il principale responsabile di ogni sua caduta passata, presente e futura. 
Purtroppo la voce di Goffredo non rappresenta un'isolata invettiva all'interno del panorama letterario medievale, ma per molti versi ne incarna la norma. Difficile è dunque delineare l'immagine della donna nel Medioevo attraverso scritti redatti per la maggior parte da uomini, spesso chierici affetti dalla più incurabile misoginia. A loro ragione essi potevano vantare generazioni e generazioni di illustri predecessori, che all'interno della tradizione classica e patristica avevano descritto i diabolici allettamenti dell'essere femminile e ne avevano stigmatizzato l'insanabile propensione per il peccato e la promiscuità. 

Da questo punto di vista le donne di ogni epoca altro non erano che l'incarnazione della loro progenitrice, Eva, colei che aveva ceduto alle lusinghe del Demonio (vedi foto) causando la perdizione dell'intero genere umano. Proprio da lei esse hanno ereditato la capacità di ammaliare gli uomini facendo perdere loro ritegno e ragione. Le loro arti sono l'astuzia e la dissimulazione, le loro azioni sono dettate dai più sfrenati istinti.
Spesso la vera essenza di queste creature si cela dietro un aspetto gradevole e mite, ma se gli uomini "potessero vedere ciò che è sotto la pelle, la vista delle donne darebbe loro la nausea... Mentre non sopportiamo di toccare uno sputo o un escremento nemmeno con la punta delle dita, come possiamo desiderare di abbracciare questo sacco di escrementi?" rincarava la dose il santissimo abate di Cluny, Oddone, del quale c'è da chiedersi, come di molti altri, se non avesse mai avuto una madre e che tipo di genitrice ella fosse stata per suscitare simili reazioni. La donna è dunque simbolo di perdizione, sinonimo di meretrice, incostante e volubile come il vento, ardente e fatua come una fiamma che si consuma celermente.

Per i chierici la donna incarna tutti i pericoli della carnalità e della materia. Proprio la sua natura, essenzialmente mondana grazie alla predisposizione al concepimento ed alla generazione dei figli è la causa della condanna della donna, irrevocabilmente votata a divenire simbolo di una realtà che in nome della santità deve essere rifiutata, che deve rimanere chiusa al di fuori dei chiostri, di abbazie e monasteri ed essere combattuta con l'astinenza e la preghiera. 

Spesse volte le parole di questi uomini ripercorrono senza grande originalità una serie di luoghi letterari ormai affermati da secoli, spesso paiono dettate da ben più terrene contese per il possesso di feudi e di ricche proprietà contestate ai religiosi stessi loro proprio da donne, legittime eredi di tali beni. Tuttavia, l'indignato clamore di queste voci può ritenersi indicativo di un atteggiamento di fondo che gli uomini, chierici o meno, ebbero nei confronti delle donne che vivevano loro accanto e nei confronti delle quali erano soprattutto convinti di poter vantare una superiorità non solo fisica, ma anche morale. 

Eppure anche in campo religioso un nuovo modello, che dall'XI secolo avrebbe avuto modo di affermarsi, incarnava la possibilità dell'esistenza di un esempio positivo per tutte le donne. Si tratta di quello della Vergine. È proprio all'inizio del nuovo millennio che la devozione mariana si fa infatti sempre più sentita e comincia a permeare gli scritti religiosi fino a giungere alle accorate lodi di un oratore come san Bernardo. Maria rappresenta dunque l'antitesi di Eva. Ella è la speranza ed il rifugio del peccatore, in lei le qualità femminili e soprattutto materne si sublimano al punto di raggiungere l'immacolata perfezione. In realtà, come già il modello di Eva nei suoi eccessi non rispecchiava in alcun modo la donna reale, così anche quello della Vergine si discosta dalla realtà per divenire una creazione puramente ideale.
In Maria ogni brandello di materialità è allontanato. Ella è sì madre, ma soprattutto vergine. Pura e coraggiosa, incarna il rifiuto di ogni compromesso con la materia. Proprio per questo i chierici l'accettano e ne magnificano le doti. Maria non è donna reale. Santa nella perseveranza del suo sacrificio, madre affettuosa e sposa devota, ella è madre della Cristianità perché non ha conosciuto la volgarità del concepimento umano. Su di lei l'esistenza terrena non ha lasciato alcun segno, semplice temporaneo passaggio destinato a condurla alla gloria del Paradiso. 

Questo è il modello che la Chiesa presenta alle donne. Se esse vogliono raggiungere la salvezza, devono lottare duramente contro la propria natura corrotta ed essere costanti nel rifiuto del mondo. L'unica strada loro proposta è dunque l'abbandono del secolo e "scegliere una posterità eterna piuttosto che i legami di un matrimonio mortale". Se esse sono state date spose dai propri genitori, dopo aver assolto con riluttanza, se non con ripugnanza, i propri doveri, dovranno comunque tendere sempre alla vita monastica. Rimaste vedove, saranno finalmente libere di aderirvi. 

Ne è un esempio santa Radegonda, sposa riluttante del re merovingio Clotario, che altro non attendeva se non di poter entrare in un santo cenobio ed aveva solo orrore del proprio matrimonio. Poco importa che in realtà Radegonda non avesse mai avuto intenzione di farsi monaca e vi fosse stata costretta dopo la morte del consorte. La sua storia diveniva comunque uno splendido esempio per le giovani ed alcuni agiografi non avrebbero esitato ad affermare che anzi, grazie al suo fermo rifiuto, l'unione con il sovrano non era mai stata consumata. 

In realtà nella seconda metà del XII secolo pochissime sono le donne che assurgono alla gloria degli altari e questo è forse il dato più indicativo della percezione negativa che la Chiesa avrebbe continuato ad avere ancora per secoli della femminilità. Alla maggior parte delle donne la via della santità era dunque preclusa dal matrimonio. Se esse appartenevano ai ceti più alti, la loro unione poteva costituire un prezioso tassello nella creazione della grandezza di un casato. 

Un matrimonio vantaggioso poteva garantire potenti alleati e ricchi sostenitori, poteva dare un titolo a chi non lo aveva, poteva rimpinguare le casse di casate tanto antiche quanto decadute. Proprio in vista di questo evento le fanciulle vivevano custodite presso il focolare domestico. Il tempo del fidanzamento e dell'unione per le nobili era estremamente precoce. I canoni della Chiesa volevano che solo a sette anni si potesse stringere un patto matrimoniale da celebrarsi poi al dodicesimo compleanno della sposa. Tuttavia non era infrequente che l'unione venisse già consacrata all'età prescritta per il fidanzamento. È ovvio come in tali casi il libero arbitrio della sposa e la sua consapevole accettazione del matrimonio non fossero minimamente considerati. Spesso le giovani fidanzate venivano accolte nella casa del futuro marito e forse così era per loro più semplice abituarsi a tale cambiamento di vita. 

Ben più traumatica doveva essere la separazione di quelle fanciulle che già cresciute abbandonavano la famiglia d'origine per sposare uno sconosciuto. Molto spesso il loro promesso non era un coetaneo, ma un uomo, che poteva essere stato anche già sposato diverse volte, che poteva essere dieci o addirittura trenta o più anni maggiore di loro. Nessuna testimonianza ci descrive direttamente le ansie di queste giovani spose davanti ad una nuova vita da trascorrere accanto ad un estraneo. Ben difficile doveva essere inoltre l'intimità con questi, una familiarità che improvvisamente contraddiceva i rigidi precetti di castità appresi in famiglia. 

All'illibatezza di ogni giovane sposa corrispondevano infatti l'onore della sua casata ed il suo valore nella politica familiare. Cosa può dunque fare una giovane maritata a forza e costretta a convivere con un uomo che le è indifferente, se non odioso?
È questo il caso di Cristina di Markyate, figlia di un ricco commerciante di Huntingdon, andata sposa a forza ad un giovane di nobile famiglia. Questa unione aveva riempito i forzieri del novello sposo grazie alla cospicua dote di Cristina ed avrebbe assicurato ai discendenti del mercante il tanto sospirato titolo nobiliare. Eppure Cristina non sapeva rassegnarsi alla decisione dei genitori e già alla notizia del fidanzamento aveva svelato loro di aver in realtà fatto voto di castità. Il giorno delle nozze il padre l'aveva forzata a dare il proprio consenso, ma il matrimonio non era poi stato consumato a causa della riluttanza della sposa. Se il marito sembrava ben poco disposto ad usare la forza, genitori e suoceri le provarono proprio tutte dalle percosse ai filtri, dal vino alle lusinghe.
Eppure Cristina non recedette dai suoi propositi. A spalleggiarla vi erano gli eremiti e gli anacoreti del contado che approvano il suo proposito di vita. Suo padre intanto era diventato lo zimbello della comunità. Cosa avrebbe dunque dovuto fare Cristina? Il consiglio degli ecclesiastici era quello di fuggire ed ella lo avrebbe messo in pratica fino a che non avrebbe trovato rifugio in un eremo dove poter condurre una vita morigerata e santa. 

La liberalità che la Chiesa sembra dimostrare con la difesa di Cristina non deve però trarci in inganno. Questa tolleranza è dovuta semplicemente al fatto che la giovane desiderava recedere dal matrimonio solo per essere sposa di Cristo e vivere in castità. Se avesse voluto invece scegliere da sé il proprio sposo, si sarebbe gridato allo scandalo ed ella sarebbe stata bollata come meretrice. In realtà il divorzio non è per nulla sconosciuto alla società medievale. La consanguineità, la sterilità o l'infedeltà erano i motivi più frequentemente addotti per liberarsi di una moglie indesiderata, ma per le donne era difficile avanzare simili rimostranze contro il consorte. 

Emblematico rimane il caso di Eleonora d'Aquitania che per il proprio divorzio da re Luigi VII di Francia venne addirittura accusata di rapporti incestuosi con lo zio Raimondo, incontrato in Oriente durante la seconda crociata. Ma questo non è il solo scandalo della vita dell'affascinante regina. Le sue colpe sono innumerevoli: una volontà incrollabile, una vivace intelligenza, una determinazione virile la rendono il perfetto modello della "pericolosità" delle donne. Se poi a queste si unisce "l'indomabile propensione alla lussuria, propria del suo sesso", si comprende come questa regina, protettrice delle arti e sapiente amministratrice dei propri beni, fosse ritenuta davvero l'incarnazione del demonio.

Spesso è questa l'immagine che gli uomini del Medioevo ci hanno trasmesso delle donne quando esse erano divenute loro antagoniste in politica o in guerra. Non era infatti raro che, favorite dalla propria posizione sociale, donne dell'aristocrazia, svincolatesi ormai dalla tutela della famiglia e spesso vedove, amministrassero con intraprendenza i propri possedimenti e difendessero con accanimento i loro diritti.
Ciò accadde ad esempio nel giovane regno di Gerusalemme dove la regina Melisenda arrivò a fare la guerra al figlio, il re Baldovino III, che ormai maggiorenne si era liberato della sua reggenza. Altrettanto intraprendente sarebbe stata la moglie dell'altro suo figlio, anch'egli re di Gerusalemme, Amalrico. Pur non essendo stata regina, Agnese di Courtenay avrebbe per lungo tempo tenuto nelle proprie mani le redini del regno grazie alla grave malattia del nuovo re, suo figlio Baldovino IV, che ancora bambino aveva contratto la lebbra. Sua rivale sarebbe stata la seconda moglie di Amalrico, la principessa bizantina Maria Comnena. Dopo di loro sarebbero state le principesse Sibilla e Isabella ad essere parimenti coinvolte nelle vicende del regno che si avviava verso la tragica perdita di Gerusalemme, conquistata da Saladino. In un complesso mosaico che vedeva vicende ed affetti privati confondersi con gli intrighi politici e la lotta per il potere, tutta la storia del regno gerosolimitano durante la seconda metà del XII secolo appare segnata dall'influenza che queste donne seppero avere su di essa.

La situazione dell'Oltremare latino, nel cui clima insalubre le femmine sopravvivevano in numero maggiore rispetto ai maschi è certamente particolare, ma casi simili sono rintracciabili anche in Europa, come la stessa Eleonora d'Aquitania ci ha dimostrato. Eppure non solo il matrimonio poteva segnare per una donna l'inizio di una brillante carriera politica. La nobile nascita prevedeva anche l'acquisizione di un posto di spicco all'interno delle istituzioni monastiche, il che significava per le badesse di monasteri ricchi e potenti, come ad esempio quello di Santa Giulia di Brescia, la possibilità di gestire un ampio patrimonio ed i rapporti con l'aristocrazia locale. 

Non sempre, dunque, l'abbandono del secolo consisteva in una vera e propria estraniazione dalla realtà, ma poteva invece rappresentare la conquista di nuovi privilegi e prerogative. Fama di santità e perizia di buone governanti avrebbero quindi reso queste figure insostituibili punti di riferimento per le comunità femminili che avevano amministrato ed anche per tutta la comunità locale. Il potere delle donne poteva dunque discendere dalla loro ricchezza o santità, ma anche dalla loro bellezza e dalle passioni che esse erano in grado di generare negli uomini.
Secondo il modello della letteratura cortese la donna infatti assurge a centro della vita dell'uomo. Ella diventa l'unica fonte dei suoi desideri e ne detta ogni azione, mettendo continuamente alla prova l'autenticità della passione del suo amante. Questa donna è sempre una dama di nobile lignaggio già sposata. Proprio per questo ella non è completamente libera e deve eludere la sorveglianza del marito e della famiglia. Malgrado questo empasse è proprio lei a dettare le regole del gioco, a stabilire quali prove deva superare il suo pretendente per poter essere infine appagato. In realtà il rituale cortese differisce continuamente il piacere finale, il vero appagamento sembra essere nell'attesa che l'amata si conceda e non nel suo concedersi.

Ancora una volta, però, le donne dei romanzi cortesi non sono personaggi dotati di una reale consistenza. Sono donne immaginate dagli uomini e non concepite nella loro realtà. Esse sono create per valorizzare i personaggi maschili, che sono i veri protagonisti della storia, ed il modello pedagogico che viene proposto attraverso le loro vicende è puramente volto a disciplinare una rude società maschile, assemblandola al principio della cortesia. Deboli eppure potenti, demonizzate, ma altrettanto spesso venerate e portate ad esempio, le immagini della donna medievale ci appaiono dunque quanto mai contraddittorie. 

Fino ad ora ci siamo però occupati solo delle donne appartenenti al ceto feudale. E quelle che invece erano cresciute tra il popolo, alle quali era precluso un futuro da castellana o da badessa? Dovevano ritenersi più fortunate o ancor meno dotate di libertà? Le loro voci ci giungono dal passato ancora più fievoli rispetto a quello delle loro nobili compagne, perché di esse ben pochi cronisti e letterati si sono voluti occupare. Anch'esse erano educate per divenire un giorno mogli e nella semplicità del lavoro domestico o artigianale, svolto comunque in casa, e nell'educazione dei figli trovavano la loro unica realizzazione. Per loro le occasioni di indipendenza erano sostanzialmente nulle a meno che decidessero di prendere i voti.

Non avevano infatti sostanze necessarie a gestire da sole la propria vita e se anche ne erano in possesso era ben difficile che esse riuscissero ad imporsi ad una società che le voleva docili compagne e non intraprendenti amministratrici di se stesse. Se per le donne nobili la vedovanza poteva significare l'acquisizione dell'indipendenza, per le popolane la situazione era ben differente. Prive della protezione familiare la loro vita era tutt'altro che semplice e rischiava di portarle sulla strada o a mendicare. L'impoverimento portava infatti a contrarre debiti e spesso l'unico modo di ripagarli era quello di cominciare a prostituirsi. L'indebitamento così aumentava facendo diventare le donne vere e proprie schiave dei loro protettori.

Nel XII secolo si tentò di porre rimedio a questa situazione puntando sulla redenzione delle prostitute che venivano accolte in apposite case o in convento. Addirittura papa Innocenzo III aveva affermato che era meritorio sposare una meretrice per toglierla dalla strada, ma non sappiamo quanti fossero poi disposti ad una simile opera di carità. Quand'anche non si fosse trattato di una prostituta, la donna sola rappresentava comunque una preda disponibile per gli uomini del contado. 

Lo stupro collettivo delle giovani vedove operato da bande di giovani, praticato quale rito di iniziazione, costituisce la più cruda dimostrazione della necessità di un protettore all'interno di una società prettamente maschile.
Ancora una volta l'eremo o il convento sembrano gli unici luoghi dove una donna possa veramente dominare la propria solitudine e proprio da qui proviene l'ultima voce che ascolteremo. Per la prima volta non si tratta di discorsi immaginati o riferiti da uomini, come è invece accaduto fino ad ora, ma si tratta dell'autentica testimonianza di donne del Medioevo.
Sono le voci di mistiche come Angela da Foligno o Caterina da Siena, Beatrice di Nazareth o Mergery Kempe. Sono tutte donne toccate da Dio nel più profondo dell'anima. Estasiate dal contatto diretto con Lui ne sono tuttavia duramente provate nella carne e nella mente. Il loro è un linguaggio nuovo come nuova è l'esperienza che vivono, in cui una mitezza tipicamente femminile si abbandona a furiosi slanci di passione venati di sensualità. Il loro è un incontro diretto con il Cristo uomo e con la sconvolgente verità della sua sofferenza, della sua Passione e Resurrezione. Un dramma indicibile che spesso le spinge a martoriarsi, a piangere e ad urlare al punto di terrorizzare gli astanti. 

Spesse volte sono bollate come eretiche, altre venerate già in vita come sante. Le loro visioni si intervallano a periodi di languore, quasi di depressione. Il loro è un prolisso discorso amoroso con la divinità che le avvince completamente, nutre la loro anima, ma spesso porta i loro corpi alla consunzione. Gli scritti di queste donne sono dunque intessuti di strabilianti metafore, di arditi paragoni che forse vanamente tentano di rendere attraverso il linguaggio la straordinarietà dell'esperienza mistica.
Sorprende i ben pensanti che Dio abbia realmente voluto dialogare a tu per tu con creature tanto infime quali le donne. Forse solo il loro temperamento appassionato, tanto spesso condannato, poteva abbandonarsi con una simile fiducia all'attesa del divino. 

Affermava infatti il francescano Lamprechy di Regensburg: "Quando una donna si occupa della vita santa, sarà più rapidamente accesa dal suo dolce cuore, dalla sua minore forza di volontà e dalla sua semplicità, al punto che la sua ricerca di Dio può meglio comprendere la saggezza del Cielo di quanto non possa farlo un uomo duro, poco adatto ad un simile scopo."
Il ragionamento di questo chierico è ancora in negativo, sono infatti apparenti difetti a consentire alla donna un più facile accostamento al divino, ma una volta tanto queste mancanze l'avvicinano a Dio anziché al Demonio. Si apre qui la strada che alla fine del Medioevo vedrà le donne comunque subalterne e spesso ancora guardate con sospetto, ma considerate anche in modo nuovo, come creature dotate di sensibilità e raziocinio, incamminate sulla lunga e difficile strada verso l'affermazione di se stesse.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Storia delle donne
, a cura di G. Duby e M. Perrot - Ed. Laterza, Bari 1990
Il Medioevo
, a cura di C. Klapisch-Zuber - Ed. Laterza, Bari, 1990.
Donne nello specchio del Medioevo
, di G. Duby e M. Perrot - Edizioni CDE, Milano

Ringrazio per l'articolo
concessomi gratuitamente
dal direttore di Storia in Network

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