LA CONTESSA CASTIGLIONE


la «divina plenipotenziaria»
che mirava molto in alto
"usata e buttata via"

da Cavour sull'ara della patria


La Contessa con uno dei suoi audaci e famosi vestiti e Napoleone III

IL MOMENTO STORICO


Siamo in pieno Risorgimento italiano, anno 1858, precisamente tra la prima e la seconda guerra per l'indipendenza. Sconfitto dagli Austriaci nel 1849, il Piemonte si sta preparando per la rivincita. L'arduo compito viene affidato a Cavour, primo ministro di Vittorio Emanuele II. Egli comprende che per riuscire nella difficile impresa il Piemonte deve procurarsi un alleato potente. Cavour punta allora sulla Francia e mette in atto ogni mezzo per farsela amica. (vedi i colloqui di Plombiers).

Oltre ai suoi validi diplomatici, pensa di sfruttare anche la bellezza e l'ambizione della contessa di Castiglione per penetrare fin nell'intimità di Napoleone III. Il tentativo del Primo Ministro riuscì però soltanto in parte, perché il contributo di questa «divina plenipotenziaria» (il nome che gli aveva dato) non corrispose del tutto alle aspettative di Cavour.

Gli riuscì meglio invece - e non gli mancò l'appoggio della contessa - quello di spingere la giovane figlia di Vittorio Emanuele II, Clotilde a sacrificarsi sposando Gerolamo il cugino dell'imperatore (brutto e volgare).
Riguardo a questo matrimonio "sacrificale" della giovanissima Principessina (che era un po' la "cocca" del Re), il Principe d'Assia così scrive a sua sorella, l'imperatrice zarina Maria di Russia:  "Povera vittima della politica, il Savoia sacrifica la sua graziosa figliola quindicenne a un uomo come il principe Napoleone, scostumato, disprezzato in Francia da tutte le persone oneste e da tutti deriso, solo per la speranza di poter conquistare con l'aiuto della Francia qualche chilometro quadrato di territorio".

(Lettera di Alessandro D'Assia all'imperatrice Maria di Russia, 30 gennaio 1859 - Docum. Castello di Walchen).

In realtà il Re suo padre si dibatteva tra il suo desiderio di agevolare l'alleanza, e il dolore di dover dare la figlia prediletta ad un uomo indubbiamente spregevole. (lui che sapeva cosa era l'amore con la bella Rosina). Cavour scrisse a Villamarina -marito della dama di compagnia della Principessa- "...essendo egli (il Re) di carattere straordinariamente debole, non osa insistere con sua figlia. Vuole che solo io faccia la parte del tiranno, riservando per sè quella di padre nobile, affettuoso. Ma non importa: se il re è debole, io sono duro come il macigno e per raggiungere il santo scopo che ci siamo preposti, incontrerei ben altri pericoli che l'odio di una ragazza e le ire dei cortigiani"
(Francesco Cognasso, Vittorio Emanuele II,  Utet, To 1942, pag. 142)

Che cosa poi abbia veramente spinto Napoleone III a unirsi a Cavour è ancora materia di studio da parte degli analisti. Le ipotesi formulate sono state molte, qualcuna anche convincente ma non esaustiva. Si è parlato di intrighi, del dopo attentato fatto da Orsini all'imperatore francese, del combinato matrimonio di Clotilde, e di tante altre motivazioni.
Ma qualcuno ha anche accennato alla personale "dabbenaggine" di Napoleone III, un parvenu al potere imperiale, molto sensibile al fascino femminile. Non c'è da meravigliarsi che Cavour usando tutte le altre varie sue "armi", abbia tentato con un po' di cinismo, di ficcargli tra le lenzuola anche la bellissima 18enne Contessa di Castiglione e, col suo aiuto - fargli sposare la sua causa: che era poi un'alleanza per la guerra contro gli Austriaci.

Quella guerra finì poi male, o meglio come lui assolutamente non voleva: l'abbandono della guerra alla linea del MIncio, la cessione di Nizza e della Savoia ( a Plombieres si era sì parlato di Nizza e Savoia, ma se si arrivava vittoriosi fino a Venezia e non a Peschiera). Tutto a causa dell'arroganza dell'imperatore, ma si dice anche per l'insistente richiamo a Parigi della gelosa Eugenia.
Il giorno 22, l'imperatrice nonostante tutte le vittorie di suo marito nell'avventura italiana seguendolo con preoccupazione, gli telegrafava piena di ansia che se oltrepassava il Mincio parecchie Potenze si sarebbero schierate contro di lui. La Prussia stava già mobilitando, e sul Reno la Francia era troppo debole a causa della guerra in Italia. Ella temeva un'invasione del territorio patrio e desiderava perciò una pronta pace e il suo ritorno con l'esercito in Francia.

Nella stesura di quell'armistizio, Vittorio Emanuele II non era stato nemmeno interpellato nè invitato. Si erano incontrati solo i due imperatori, l'austriaco e il francese. La decisione di interrompere la guerra l'avevano presa solo loro due.

 "La notte del 10 luglio 1859 Cavour, stravolto dalla notizia, galoppando da Torino a Peschiera, e già sul "teatro della sciagura", attendeva nella villa Melchiorri, a Monzabano il ritorno del re da Valeggio, ove si trovava il quartiere generale di Napoleone III.
Appena Vittorio Emanuele giunse, racconta Nigra, unico testimone della storica scena, fece entrare il ministro nella stanza che gli serviva da salotto. Il re si tolse la tunica (il caldo era soffocante) e accese un sigaro. Fumava ferocemente. Si sedette alla gran tavola con i gomiti appoggiati sull'orlo. Disse: "Nigra, date il foglio a Cavour" (l'Armistizio) . Cavour era in piedi, vicino al tavolo, alla sinistra del re. Prese il foglio e lesse: ma prima di terminare la lettura lo buttò sulla tavola e scattò: "Lei non firmerà mai un simile obbrobrio!".
Il colloquio che seguì ebbe momenti tempestosi e drammatici.
Cavour che vedeva crollare in un solo istante l'edificio che con tante difficoltà era andato costruendo, scongiurava il re di respingere le inique proposte di pace di Villafranca: "Maestà, voi non firmerete questo documento, sarebbe ignominioso. Ci vien data la Lombardia. Ma che vale se il resto dell'Italia vien mantenuto sotto il dominio degli Asburgo? Napoleone se ne vuole andare. Se ne vada. Lei continui la guerra da solo. Se dovremo perire, periremo da prodi".
"Si -disse il re- torneremo a Torino sotto le baionette austriache, tra le risate di tutto il mondo".

In un impeto d'ira Cavour invitò allora il sovrano ad abdicare.
"A questo ci devo pensare io, che sono il re", ribattè Vittorio Emanuele.
E Cavour: "Il re? Il vero re in questo momento sono io!".
"Chiel a l'è 'l re? Chiel a l'è mac un birichin!" ("Lei il re? Lei non è altro che uno sfacciato!) scattò in piemontese il re e rivolgendosi a Nigra: "Nigra, ca lu mena a dourmi!" (Nigra, lo porti a dormire!).
Cavour presentò la mattina dopo le dimissione e si ritirò nel suo possedimento di Leri. Vittorio Emanuele nell'accettarle commentò: "Questi signori con le dimissioni si aggiustano sempre. Sono io che non mi posso dimettere!".

Un'altra versione, molto simile di Kossuth (uomo di Napoleone, presente sul luogo)
"All'armistizio di Villafranca, nel 1859, Cavour da Torino -a cose quasi fatte- giunse trafelato a notte alta  al Q.G. di  Momzambano. Nel tempestoso colloquio notturno, per le condizioni del trattato accettate (anche se era ancora da firmare) da Vittorio Emanuele,  perse ogni ritegno e rispetto nei riguardi di Napoleone III; ma anche di fronte al suo stesso sovrano. Cavour era fuori di se' dal furore, e fu tale da chiedere le proprie dimissioni, che il Re imperturbabile accettò.  Nella sua indignazione egli arriva a dire al re che anche lui dovrebbe dimettersi, abdicare. Allorchè Vittorio Emanuele risponde che, in fin dei conti il Re era lui e che quello era affar suo, Cavour, perde le staffe, e lasciandosi del tutto andare nell'ira diventa perfino insolente "il Re?  Gli italiani non guardano il Re, ma a me, il vero Re sono io". Vittorio Emanuele, pur offeso, mantenendo una calma glaciale si rivolse a Nigra "Si è fatto molto tardi, portatelo a dormire!"
Il giorno dopo, presente io Kossuth e Petri (uomini di fiducia di Napoleone III - Ndr.)
Cavour prosegue con  la propria furia e l' indignazione: "Il vostro imperatore mi ha disonorato. Mi aveva dato la sua parola che avremmo cacciato tutti gli  austriaci dall'Italia. E adesso si prende il premio (Nizza e la Savoia, ma senza darci il pattuito Veneto) e ci pianta in asso a mezza strada. E' terribile, terribile...Alla pace non si verrà!...Io mi farò cospiratore. Rivoluzionario. Questo trattato di pace non si dovrà attuare. No! Mille volte no! Mai!, mai" 
(Memoriale di Luigi Kossuth, Meine Schriften aus der Emigration. Presburgo, 1880, vol. 1, pagg.518-519).

Cavour cospiratore? Rivoluzionario? Lo avrebbe fatto. In Parlamento si alleò con la sinistra, con la destra, con i democratici, con i ribelli, con tutti. Usò Garibaldi, il Re, i nemici come amici, gli amici li trasformò in nemici di altri amici, accese tante micce per scatenare una guerra, minacciò un po' tutti, e s'inventò le "annessioni" che volevano dire "sottomissioni",  il tutto per dare una soluzione monarchica all'unità italiana, o forse se fosse vissuto il monarca sarebbe stato lui
(la impudente frase di sopra era abbastanza già chiara)  ne avrebbe fatto un Regno personale (Lo Statuto Albertino così com'era concepito lo permetteva - vedi poi Mussolini)
e non una Nazione. La Chiesa gli fu ostile, ma lui camminò diritto, imperturbabile; si disse coerente con la tradizione liberale (tutta sua però, dicono i nemici. Gli inglesi non erano per nulla d'accordo. Ne erano perfino inorriditi, ma intanto "lo ammiravano e... lo utilizzavano").

La filosofia di Cavour era che: "Non dovevano ripetersi "quarantottate" che avrebbero allarmato i conservatori; ciò che occorreva era una guerra regolare, non una rivoluzione popolare. Cavour guardava lontano, mirando a coinvolgere se necessario, persino la Russia e gli Stati Uniti in un conflitto mondiale; "l'Italia avrebbe un giorno conquistato il mondo"; e  affermava: "noi metteremo a ferro e fuoco l'Europa".
Gli inglesi erano addirittura inorriditi dal fatto che Cavour, senza essere attaccato da nessuna potenza straniera, e senza che fosse in gioco alcun punto d'onore "cercasse in modo così deliberato di provocare un grande conflitto europeo, un conflitto da cui tutti gli altri sarebbero stati verosimilmente danneggiati".
(C. Cavour,  Lettere edite e inedite, a cura di L.Chiala, Torino 1883-87, vol, VI, pag. 307 -  G. Massari, Diario delle cento voci, Bologna 1959, pag. 116, 140, 142, 147,148, 206. - D. Mack Smith, Univ. Cambridge, Storia del Mondo Moderno, Garzanti, 1970-82,  X vol, pag.734 ).

Poi nel '60 ci fu la spedizione di Garibaldi in Sicilia. Cavour prese le distanze. Il re un po' meno, e solo ufficialmente. Entrambi non volevano complicare i rapporti internazionali. Poi andò come andò. E montarono entrambi sul carro garibaldino. Noncuranti degli altri, e soprattutto dei Francesi e degli Inglesi.

Qualcuno ancora più cattivo e malizioso, insinua che Napoloene III si sia poi vendicato, per il comportamento di Cavour avuto prima a Momzambano e poi in Sicilia (unione all'Italia con un improvviso plebiscito) compromettendo lui e Farina l'indipendenza che invece Garibaldi (appoggiato dagli inglesi) voleva offrire ai siciliani.
La cattiveria è che l'imperatore pochi mesi dopo lo abbia ripagato con la stessa moneta tramite "una giovane donna, d'un viso piacevole" moglie di un commissario di polizia (forse di Parigi), che in cambio di un sostanzioso premio (500.000 lire) si sarebbe prestata allo "scellerato progetto" di avvicinare Cavour e di avvelenarlo pure (1861)
vedi MA CAVOUR FU VERAMENTE (ASSASSINATO) AVVELENATO?" > > >

E veniamo a LEI, a
VIRGINIA OLDOINI
poi Contessa di Castiglione

"Nacqui nell'istante in cui una stella cadente passava sulla mia culla. Correva l'anno 1843 e non 1840 e non fu il mio « antico villaggio a sentire i miei primi vagiti, ma un altro villaggio, poiché il segreto circonda la mia nascita non so bene dove sia nata e da chi sia nata..."

Chi scriveva così sapeva benissimo di essere nata a Firenze il 22 marzo del 1837 dal marchese Filippo Oldoini e da donna Isabella Lamporeschi.
Questo strano modo di avvolgere i propri natali in un alone di mistero è una chiara testimonianza di un carattere fantasioso e bizzarro.
Virginia Oldoini era di una bellezza rara. Quando a Firenze, ancora dodicenne, passeggiava sui Lungarni, la gente si affollava per guardarla. Qualcuno la chiamò l'Unica. Gli occhi, di un azzurro intenso, con una strana sfumatura violacea, facevano un profondo contrasto con i capelli castano-dorati, morbidi, inanellati.

Virginia non ebbe una grande cultura, ma mostrò presto un'intelligenza vivace e un intuito pronto. In casa la chiamavano « Nicchia » e sotto questo nome la conobbe il principe Luigi Napoleone (il futuro Napoleone III) quando a quell'epoca abitava a Firenze.

Crescendo, Nicchia divenne oltre che bella sempre più strana: amava sbalordire, farsi ammirare, essere al centro dell'attenzione generale. Si vestiva preferibilmente di viola, anche se questo colore non si addiceva ad una giovinetta. Ma i suoi occhi non avevano forse sfumature viola?...

A 17 anni, e precisamente il 9 gennaio del 1854, Virginia Oldoini diventa contessa di Castiglione poiché sposa il 28 enne conte Francesco Verasis Asinari di Castiglione Tinella, gentiluomo di corte di S. M. Maria Adelaide, la prima moglie di Vittorio Emanuele II.
Ma non si può certo dire che sia stato un matrimonio d'amore: la giovane sposa infatti confessa nel suo diario di aver pianto quel giorno, e non per la più comprensibile delle emozioni. Ma si consola, a Corte, con Gentiluomini, Banchieri e le malelingue mormorano anche con il Re a cui non dispiaceva la carne molto fresca (vedi poi la 14enne Rosina). Non solo si consola ma soprannomina con derisione il marito "il povero Becco"
Di questo matrimonio disgraziato (pur con tutti i benefici economici e la entrata a corte) ambiziosa com'era ella incolperà in seguito la madre, rimproverandola di non averla accompagnata allora in Francia (due anni prima - 1852 - Napoleone III era diventato Imperatore dei francesi e l'anno dopo (1853) si era sposato Eugenia. - A quella data "Nicchia" aveva 16 anni).

«Se così fosse stato - scriveva - oggi la Francia avrebbe per imperatrice un'italiana e non una spagnola». (Riferendosi a Eugenia - E a dire il vero, chissà quante cose sarebbero andate per un altro verso ! In Italia, in Francia e poi in Prussia)

Parole non certo modeste, che rivelano chiaramente quale grande ammirazione la bella contessa ha di se stessa. Come detto sopra, Napoleone III aveva sposato nel 1853 la spagnola Eugenia de Montijo (< < nell'immagine a sinistra), figlia di Guzman, conte di Teba. E non era una grande bellezza. Non poteva certo gareggiare con "Nicchia".


A Torino, dove i Castiglione si erano trasferiti, Nicchia trovò - grazie al marito - ben presto modo di risplendere nei salotti della nobiltà piemontese, anche se due avvenimenti vennero in questo periodo ad interrompere la sua scintillante vita mondana: la morte della regina Maria Adelaide e la nascita del suo primo figlio.
Amava - abbiamo detto - la vita mondana, e il Conte Francesco vede ridursi le sue ricchezze per pagare i capricci e le esigenze della sua consorte, la sua situazione si fa insostenibile moralmente e finanziariamente (1856-1858) e inizia anche una causa di separazione. Morirà dieci anni dopo, nel 1867, tragicamente, cadendo da cavallo e finendo sotto una carrozza.

La morte della Regina, che valse a far chiudere per qualche tempo i salotti torinesi, parve turbare la giovane Contessa più di quanto non la esaltasse la gioia per la nascita del figlio. Comunque a Torino conobbe un cugino molto importante: il Presidente del Consiglio dei Ministri, Camillo Benso conte di Cavour.

Cavour frequentando la Corte ebbe modo per più di un anno di studiare questa giovane fatua ma intelligente, vanitosa ma affascinante cugina.
E, da quel grande conoscitore dell'animo umano che era, pensò di sfruttare tali qualità. A poco a poco andò maturando un progetto, originale per quei tempi, ma che dimostra un certo acume del grande ministro piemontese: mandare cioè "Nicchia" a Parigi, dove col suo fascino, ma soprattutto con la sua ambizione, avrebbe potuto influire sull'animo di Napoleone, sensibile alla bellezza femminile, e convertirlo alla causa italiana.

Cavour sapeva che durante la sua vita l'Imperatore era stato sempre dominato dalle donne: prima fra tutte dalla madre, la regina Ortensia, che ne aveva forgiato il carattere come meglio aveva creduto. L'avvenenza e l'ambizione di "Nicchia" non avrebbero quindi potuto avere facilmente ragione della debolezza dell'Imperatore?

A Parigi però ben pochi seppero trovare in questa bellissima giovane quella vivace intelligenza su cui puntava il conte di Cavour. Fu definita da qualcuno addirittura «sciocca e priva di fascino» e alla corte francese circolò per lei il soprannome di «la bella e la bestia» per sintetizzare in due parole le sue uniche qualità. Ma le malelingue dissero anche di peggio.

Comunque il suo primo ingresso a Corte fu veramente teatrale. Apparve molto in ritardo, vestita di un vaporoso abito bianco e assolutamente priva di gioielli. Era una sfida. La bella italiana voleva conquistare Parigi solo con la propria bellezza.
Ma più che Parigi voleva conquistare Napoleone III (come detto, già suo ammiratore all'epoca del suo soggiorno a Firenze).

La conquista fu facile. Lei aveva 20 anni, lui 50. Ben presto l'Imperatore si prostrò ai suoi piedi. Cavour, nel congedarla, le aveva detto: «Cercate di riuscire, cara cugina, con il mezzo che più vi sembrerà adatto, ma riuscite! ».
E il « mezzo » la bella Contessa lo trovò facilmente.

I doni dell'Imperatore superarono le sue più rosee previsioni. C'è chi parla di 50 mila franchi mensili per le spese voluttuarie o, come si diceva allora, per « i dolciumi e i guanti », e di una famosa collana di perle a sei giri che sarà poi venduta per 422 mila franchi.
Ma non erano quelli i soli regali, perchè - dicevano le serpi di palazzo - non era solo l'imperatore a ricevere le sue grazie. E anche qui le solite malelingue furono spietate, affibbiandole la nomina di "vulva d'oro".

Si narra che la stessa Eugenia, in una delle tante teatrali entrate della sua rivale, apparsa nei saloni con un ciondolo a forma di cuore sul ventre un po' sotto la cintura, perfidamente la indicò "ecco essa dove ha il cuore".

La bella contessa di Castiglione offrendo questo "cuore", non è che si sacrificò dunque molto sull'ara della patria; e, secondo alcuni suoi critici, fu anzi molto interessata a ben altro. Tuttavia la bella Contessa si vantò più volte, in seguito, di aver addirittura «fatto l'Italia».

Non fece certo l'Italia, siamo d'accordo, ma la sua presenza a Parigi ebbe indubbiamente un certo influsso sulla politica francese nei riguardi del Piemonte. Sta di fatto che l'allora Ministro degli Esteri francese, Walenski, divenne a poco a poco filo-piemontese.

Quando realmente ha inizio la relazione tra la Contessa e l'Imperatore? Pare non prima del 1856, forse il 9 gennaio 1856
quando Cavour negli incontri di Parigi giocò queste carte della seduzione della spumeggiante 19enne cugina per entrare nella grande coalizione per la guerra in Crimea, volendo far diventare il Regno di Sardegna una rispettata potenza d'Europa.

La moglie di Napoleone III, Eugenia assistette impotente al trionfo della contessa, che conquistò il cuore dell'imperatore. Oltre essere molto bella - per i suoi originali vestiti - era sempre al centro dell'attenzione alla corte di Francia. Le donne stringevano la loro bocca e i denti per l'invidia, mentre gli uomini con la loro bocca spasimavano e sbavavano dal desiderio.

"Nicchia" stabilì la sua residenza in una villetta in Rue de Passy e raramente si mosse da Parigi nonostante gli insistenti richiami del marito che viveva solo a Torino (fin quando, un po' perchè gli si erano ridotte le ricchezze, e un po' per l'indifferenza di sua moglie, inizia anche una causa di separazione).
Ma "Nicchia" a Parigi era tanto presa da quel gioco cavouriano così piacevole che non si sentì più di rituffarsi nella vita provinciale della capitale piemontese.
E ben presto la sua separazione dal marito diverrà legale. Ritornerà ancora in Piemonte, ma per brevi soggiorni, soprattutto quando dovrà caldeggiare il matrimonio tra la principessa Clotilde, figlia di Vittorio Emanuele II, e Gerolamo Bonaparte: matrimonio che farà inorridire i sudditi sabaudi, ma che si rivelerà utilissimo alla causa italiana. Le fanciulle piemontesi, Clotilde non la invidiarono, anzi si dicevano fra di loro "guarda un po' ad essere figlie di Re che cosa poi ti ritrovi come marito".

L'armistizio di Villafranca (luglio 1859) sarà un duro colpo per la Contessa e segnerà l'inizio del distacco da Napoleone. In verità il distacco non fu dovuto al voltafaccia del «piccolo Bonaparte», come "Nicchia" dirà in seguito, ma ad un fantomatico attentato all'Imperatore organizzato, pare, da una sconosciuta cameriera della Contessa, durante un convegno dei due amanti (qualcuno disse che a organizzare la messa in scena sia stata proprio Eugenia per sbarazzarsi della rivale).
L'attentato ovviamente fallì, ma l'imperatrice Eugenia ottenne ciò che voleva: l'espulsione dalla Francia della rivale. La stella di "Nicchia" volgeva ormai al tramonto.
Nel 1861 era inoltre morto improvvisamente l'influente cugino, il 51 enne Conte Cavour. ( una morte piena di interrogativi, quasi misteriosa)
(come già segnalato sopra VEDI.... MA CAVOUR FU AVVELENATO? > >

Fino al 1862 alla contessa di Castiglione non sarà permesso di rimettere piede in Francia. Non appena però, per l'intervento di potenti amici, potrà farvi ritorno, cercherà di rinverdire gli allori di un tempo.
Ma l'incostante Napoleone aveva già rivolto i propri pensieri verso altri amori. Allora "Nicchia" cercherà altre vittorie.
Saranno piccole vendette di donna, come, quando smetterà di indossare la crinolina che, per ragioni estetiche, l'Imperatrice Eugenia aveva rimessa in voga. Tale gesto costituirà una sfida alla bella Eugenia, poiché l'Imperatrice non poteva certo indossare un abito sciolto con la medesima disinvoltura della bellissima contessa di Castiglione, sarebbe apparsa ridicola.

Poi per "Nicchia" venne il suo giorno, nel '70, e chissà con quale soddisfazione apprese la sconfitta dell'imperatore e della Francia, e con l'imperatrice caduta dal suo regale piedistallo. Forse pensò di ritornare al centro dell'attenzione. Ma molti per le mutate condizioni politiche avevano ormai fatto tramontare un epoca e con essa anche le spuntate armi seducenti della contessa, pur essendo da un paio d'anni diventata vedova.

A 33 anni la bella Nicchia si sente già vecchia. Ma non sa arrendersi. La sua bellezza va sempre più sfiorendo e la lotta con gli anni sarà patetica e disperata, tenace e umiliante. Nel 1868 gli era morto il marito travolto da una carrozza e poco dopo, in Spagna, gli morì l'unico figlio che di certo non ebbe le attenzioni di una amorevole madre.

Ombre tristi si addensano sull'animo di questa bellissima donna, ombre che varranno sempre più ad incupirla, a renderla sospettosa e persino maniaca. Il disinteresse degli altri è visto come una congiura, come una persecuzione.
Inoltre la sua situazione economica va sempre peggiorando. Fin dal suo primo ingresso in società ella ha puntato tutto su caduci "doni passeggeri": la giovinezza e la bellezza, e deve constatare con immenso sgomento che ha puntato su due cavalli perdenti. E forse, solo in questa situazione finalmente con la ritrovata saggezza di donna matura, riuscì a capire di essere stata soltanto usata e di essersi lei stessa buttata via.

E non varrà ad allontanare la sconfitta il velo nero con cui farà coprire gli specchi di casa per non guardarsi.
Eliminò perfino tutti i bellissimi ritratti. Ma le rughe si addenseranno ugualmente sul suo viso, il corpo perderà ugualmente la propria freschezza e "Nicchia" vivrà la sua squallida e solitaria vecchiaia in modo triste e angosciante, poiché mai saprà rassegnarsi al declino ma vivrà sempre nel disperato rimpianto della giovinezza perduta. Usata e buttata via.

E giungerà la fatale data del 28 novembre 1899, quando la morte a 62 anni, la coglierà, improvvisa, in una misera camera dell'alberghetto Voisin di Parigi ove, tormentata dalla mania di persecuzione, si era ritirata negli ultimi tempi. In solitudine, con rarissime visite di amici, perchè sempre sospettosa.
Essa aveva disposto nel testamento che la propria salma venisse rivestita con una certa camicia da notte, in ricordo dell'amore imperiale e che i suoi due cagnolini, imbalsamati, venissero sepolti con lei; queste disposizioni non furono però eseguite, poiché il testamento - si disse - venne alla luce solo dopo il suo funerale.

Fu così sepolta come una semplice mortale e senza "veri" amici attorno.
Come del resto aveva già capito in vita: "usata e buttata via".

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