Capitolo Secondo

CENNI STORICI

Sommario:
- 2.1. La condizione giuridica dell’ebraismo italiano dalla seconda metà dell’Ottocento agli inizi del Novecento: dall’uguaglianza dei cittadini all’uguaglianza dei culti.
- 2.2. Il periodo del fascismo e la legislazione sui culti ammessi. Il R.D. 30 ottobre 1930, n. 1731 e le leggi razziali: dalla disuguaglianza dei culti alla disuguaglianza dei cittadini.
- 2.3. La caduta del fascismo e la Costituzione repubblicana: il ritorno all’uguaglianza dei cittadini.
- 2.4. Dalla previsione dell’articolo 8 della Costituzione all’intesa del 27 febbraio 1987.

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2.1.    La condizione giuridica dell’ebraismo italiano dalla seconda metà dell’ottocento agli inizi del Novecento: dall’uguaglianza dei cittadini all’uguaglianza dei culti.

Dalla nascita dello Stato unitario fino ad oggi, diversi sono stati i cambiamenti di rotta, anche radicali, in materia di relazioni ecclesiastiche e, come ben nota parte della dottrina[1], nell’arco di meno di un secolo vi è stata, in Italia, un’evoluzione che in altri ordinamenti ha coperto un arco temporale assai più vasto: il passaggio allo Stato liberale prima, a quello autoritario poi ed infine la svolta democratica‑costituzionale, hanno implicato sistemi totalmente diversi ed antitetici di relazioni tra Stato e confessioni religiose, e la necessità, allo stesso tempo, di affrontare e di risolvere un problema peculiare alla situazione italiana, quale quello dei rapporti con la Chiesa cattolica[2], sia in senso territoriale che sul piano più propriamente internazionale, di rapporti tra Stati.

Lo Statuto albertino del 1848 proclamava ancora la religione cattolica come la sola religione di Stato, ma già allora, prima dell’unificazione nazionale, erano in nuce quelle tendenze che, in seguito, avrebbero condotto verso posizioni più aperte: ancora prima della promulgazione dello Statuto, infatti, Carlo Alberto aveva ammesso i valdesi a godere di tutti i diritti civili e politici; il 29 marzo 1848 veniva accordato ai cittadini di fede israelitica il godimento dei (soli) diritti civili, ma non avrebbe tardato ad arrivare anche la concessione di quelli politici, che avvenne infatti, in favore di tutti i cittadini appartenenti a confessioni di minoranza, con l’emanazione della legge Sineo del 19 giugno dello stesso anno, che garantiva la fruizione dei pieni diritti civili e politici a tutti i cittadini indistintamente, a prescindere dal culto professato, che non poteva assurgere a motivo di discriminazione nell’attribuzione delle cariche sia civili che militari.

La disposizione in parola viene a segnare un netto distacco dall’impostazione precedente, che concedeva la “tolleranza” solo a culti ben precisi ed individuati, quasi a titolo di privilegio, ed accompagnandola sempre a penetranti controlli di parte statuale; con la legge Sineo, invece, la patente di “culto tollerato” veniva concessa a tutte le confessioni, con due importanti conseguenze: l’apertura a nuovi culti ed il fondamentale affrancamento dei diritti dei cittadini dalla loro appartenenza confessionale[3].

Dopo la legge del 19 giugno 1848, in sostanza, gli ebrei avevano, uti singuli, gli stessi diritti civili e politici riconosciuti agli altri cittadini, e la situazione giuridica dell’ebraismo italiano, almeno nel regno piemontese, era fondamentalmente analoga a quella che sarebbe prevalsa nel Paese circa cento anni dopo, con l’abrogazione delle inique leggi razziali[4].

Le leggi Siccardi del 1850 introducevano l’abolizione del privilegio del foro ecclesiastico e l’obbligo per tutte le persone giuridiche, a prescindere dal loro carattere ecclesiastico, dell’autorizzazione statale all’acquisto di immobili ed all’accettazione di eredità e donazioni, mentre la legislazione eversiva dell’asse ecclesiastico tentava in qualche modo di riallineare la posizione della Chiesa cattolica, fino a quel momento religione dominante, a quella delle altre Chiese.

Forse nella consapevolezza che l’ebraismo è qualcosa di ben più complesso di una religione, investendo anche aspetti della vita civile, nel 1857 vedeva la luce la legge 4 luglio 1857, n. 2325, sull’ordinamento delle università israelitiche, cosiddetta legge Rattazzi, che si proponeva di uniformare la struttura interna e l’organizzazione amministrativa delle diverse comunità - o università - israelitiche presenti nel territorio dello Stato sabaudo, venendo ad imporre un sistema di contribuzione e iscrizione obbligatoria all’università di tutti gli ebrei residenti nella circoscrizione territoriale della stessa. In base alla legge, tutte le università avevano potere d’imporre tributi, venivano amministrate da consigli eletti dai contribuenti, ed erano sottoposte alla tutela amministrativa dello Stato: erano, insomma, considerate come collettività pubbliche simili ai Comuni[5].

La legge Rattazzi fu un provvedimento unilaterale soltanto nella forma, dal momento che già nel 1848 il Governo sabaudo aveva incaricato la comunità israelitica di Torino di predisporre un progetto di regolamento per gli ebrei dello Stato[6], cosicché essa è stata considerata, da alcuni autorevoli esponenti di parte ebraica, come una vera e propria «intesa ante litteram tra governo sabaudo e comunità ebraica»[7].

Ma la gestazione della legge Rattazzi fu lunga e non priva di ostacoli, soprattutto a causa della diversità di orientamenti riscontrabili all’interno delle comunità israelitiche dello Stato piemontese: il primo progetto - redatto dal rabbino Cantoni - si proponeva di realizzare, in sostanza, l’unione di tutte le comunità ebraiche del regno di Sardegna, allo scopo di tutelare la conservazione del culto e di promuovere l’istruzione dei giovani, con l’istituzione di una direzione centrale residente a Torino; per provvedere alle spese, poi, era previsto un sistema di contribuzione obbligatoria proporzionale al reddito, a cui avrebbe dovuto sottostare ciascun appartenente alla comunità.

Le comunità contrarie sia alla centralizzazione amministrativa, che al sistema di contribuzione obbligatoria previsti dal progetto economico‑amministrativo del rabbino Cantoni, presentarono delle proposte alternative, finché, per superare l’impasse, in un convegno del gennaio 1856 furono aboliti i riferimenti alla centralizzazione amministrativa (in particolare, il riferimento alla direzione centrale residente a Torino), mantenendo peraltro l’obbligatorietà del sistema tributario, insieme al principio dell’appartenenza obbligatoria[8].

Alle opposizioni ulteriormente avanzate, in Senato, dagli ebrei della comunità di Nizza Marittima - secondo i quali tale progetto comportava la violazione del principio della libertà di coscienza, non meno che del principio di uguaglianza fra i cittadini -, il Ministro degli Interni Rattazzi ebbe modo di replicare che una assoluta libertà «condurrebbe al sistema di sancire legalmente la facoltà di non appartenere ad alcuna religione. Ora io non reputo che possa essere conveniente nell’interesse stesso della società l’ammettere siffatto principio»[9].

Se dalle parole del Ministro Rattazzi emerge come fosse nell’intento del legislatore «stabilire il diritto‑dovere dei cittadini ebrei di appartenenza alla Comunità»[10], lo stesso principio di appartenenza obbligatoria non mancò, tuttavia, di suscitare dubbi e contrasti all’interno della Commissione nominata dalla Camera per l’esame del progetto di legge; ciò nondimeno, come si è visto, la legge fu approvata, e, dopo le annessioni del 1859 e del 1860, fu estesa anche all’Emilia - salvo Bologna - e alle Marche, anche se non fu mai estesa a tutta la Penisola[11].

Con l’approssimarsi dell’unificazione del Paese, intanto, prendeva forma definita la reazione di rigetto al vetero-confessionismo dell’ancien règime, ed agli atteggiamenti collaborazionisti con la Chiesa cattolica assunti dai vari Stati preunitari: quasi a controbilanciare la forte connotazione confessionista del passato, si faceva strada l’idea di uno Stato laico ed agnostico in materia religiosa, e si concretizzava la svolta separatista in materia di rapporti tra Stato e confessioni religiose, nel convincimento che la laicizzazione delle istituzioni fosse una tappa imprescindibile nella tensione ideale volta al raggiungimento dell’obiettivo di fondo caratterizzante l’indirizzo politico dell’Ottocento, l’uguaglianza dei cittadini[12].

In questa direzione, la legge Casati del 1859 realizzava l’emancipazione delle strutture scolastiche dalla dipendenza dall’autorità ecclesiastica, e con il nuovo codice civile del 1865, il matrimonio contratto in forma civile diveniva l’unica forma di matrimonio produttivo di effetti civili nell’ambito dell’ordinamento dello Stato.

Nel 1871, finalmente il principio di uguaglianza dei cittadini a prescindere dalle convinzioni religiose si sviluppava pienamente nel riconoscimento esplicito della libertà di coscienza e di culto, in una parola, del diritto di libertà religiosa: è di quell’anno, infatti, l’affermazione, alla Camera, che l’abolizione di «ogni ingerenza governativa nell’esercizio del culto e della libertà religiosa sarà mantenuta ed applicata a profitto di tutti i culti professati nello Stato».

Sul presupposto che la religione fosse una questione personale e che, in quanto tale, riguardasse esclusivamente la coscienza del singolo uti fidelis, lo Stato liberale si disinteressava completamente del fenomeno religioso, in linea del resto con l’impostazione separatista, e si affermava una concezione della libertà religiosa come diritto a contenuto meramente negativo, di libertà dallo Stato[13]. È interessante notare, a questo proposito, come il codice penale Zanardelli del 1889 - con il quale, si noti, veniva raggiunta comunque una più ampia tutela penale di tutti i culti, attraverso la parificazione delle confessioni diverse dalla cattolica a quest’ultima quanto a fattispecie criminose e relative sanzioni, e con la scomparsa del termine di “culti tollerati”, sostituito da quello di “culti ammessi”, suscettibile di riferirsi anche alla Chiesa cattolica -, impostato sulla classificazione delle fattispecie criminose sulla base dell’interesse leso, non prevedesse alcun delitto contro la religione  in sé, ma piuttosto contemplasse la tutela penale del sentimento religioso nel titolo relativo ai delitti contro la libertà[14] (capo II del titolo II, artt. 140 - 144), mirando quindi a proteggere il singolo credente da ogni possibile attentato alla libertà individuale di professare il culto più idoneo alle proprie esigenze spirituali[15], tutelandone la libertà di coscienza.

L’avallare questa concezione per così dire individualistica del diritto in parola, a scapito del profilo collettivo dello stesso, finiva però con il riverberarsi sulle stesse confessioni religiose, traducendosi in una grave restrizione alle loro attività[16], soprattutto per quelle confessioni, come quella israelitica, in cui il momento collettivo‑partecipativo riveste grande rilevanza ai fini dell’esercizio del culto stesso[17].

La legge delle guarentigie del 1871, nel tentativo di dare soluzione alla questione romana ed allineare la posizione della Chiesa cattolica a quella degli altri culti, poneva fine ad una serie di istituti e prerogative della stessa, abolendo il cosiddetto “braccio secolare” e disponendo che gli atti emessi dalle autorità ecclesiastiche non avrebbero più avuto efficacia diretta ed immediata nell’ordinamento statuale, essendo preciso compito dei giudici dello Stato la determinazione dei possibili effetti civili degli atti canonici; un principio fondamentale era poi stabilito dall’ultimo comma dell’articolo d’apertura, che affermava esplicitamente, per la prima volta, la piena libertà di discussione sulle materie religiose.

Fino ai primi decenni del Novecento lo Stato liberale, con il sistema separatista, attuato comunque con grande oculatezza e moderazione[18], riuscì a proteggere in modo soddisfacente i fondamentali diritti di libertà delle minoranze religiose, così che gli ebrei italiani, come del resto gli appartenenti alle altre confessioni di minoranza, si trovarono in grado di vivere ed operare nel Paese godendo di una certa libertà ed autonomia - che mai avevano avuto precedentemente -, grazie al pieno superamento della distinzione fra religione di Stato e culti tollerati ed al raggiungimento dell’uguaglianza di tutti i cittadini e di tutti i culti di fronte alla legge[19].

2.2.    Il periodo del fascismo e la legislazione sui culti ammessi; il R.D. 30 ottobre 1930, n. 1731 e le leggi razziali: dalla disuguaglianza dei culti alla disuguaglianza dei cittadini.

Con l’avvento del fascismo al potere, l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale del periodo liberale trovò un punto d’arresto con una serie di provvedimenti volti a tornare indietro nel tempo, fino allo Statuto del 1848[20], ed alla disuguaglianza dei culti: in effetti, il fascismo attraversò a ritroso in meno di un ventennio l’itinerario che il regime liberale aveva percorso in più di ottant’anni[21].

L’art. 1 del Trattato del Laterano dell’11 febbraio 1929, riproponeva la distinzione tra la religione cattolica - denominata espressamente “religione di Stato” - e gli altri culti, riaffermando nella sua pienezza il confessionalismo di Stato; parallelamente, vedevano la luce la legge 24 giugno 1929, n. 1159[22] - la cosiddetta legge sui culti ammessi -, ed il relativo regolamento di attuazione, approvato con R.D. 28 febbraio 1930, n. 289[23]. Nel sistema precedente, non esisteva una normativa comune che regolasse la professione e le attività dei vari culti nel Paese, e tutto era lasciato alla semplice prassi amministrativa o a norme legislative particolari[24]. La legge del 1929 avrebbe dovuto colmare questa lacuna.

La formula “culti ammessi”, che fin dal codice penale Zanardelli aveva designato onnicomprensivamente tutti i culti, cattolico compreso, veniva ora riferita esclusivamente alle confessioni di minoranza[25], e nei lavori preparatori si legge che l’espressione, per il legislatore dell’epoca, era una mera variante terminologica della locuzione di “culti tollerati”, propria dello Statuto del 1848, ed in quanto tale ne conservava in toto il significato giuridico[26].

La legge sui culti ammessi fu, nel suo complesso, ben accolta dalle confessioni di minoranza - anche perché ribadiva alcuni princìpi di fondo già fatti propri dalla legge Sineo, come la pienezza dei diritti civili e politici a prescindere dal culto professato, e la libertà di discussione in materia religiosa già enunciata dalla legge delle guarentigie -, tanto che fu, da alcuni, definita come la magna charta delle libertà dei culti di minoranza[27].

Tuttavia, anche se, formalmente, la legge poteva apparire addirittura liberale, nella sostanza si tradusse, perlopiù - soprattutto in virtù del modo in cui fu ad essa data esecuzione a mezzo del relativo regolamento di attuazione, che veniva a prevedere, ancor più della stessa legge, un sistema idoneo a garantire un controllo politico ed una estesa ingerenza sui culti diversi dal cattolico -, in una serie di gravi restrizioni alla libertà dei culti[28], e con essa prese avvio un periodo di sempre crescente ostilità verso le minoranze religiose, forse a causa del timore di propaganda antifascista da parte dei rappresentanti dei culti diversi dal cattolico[29].

Innanzitutto, la libertà di discussione in materia religiosa veniva intesa essenzialmente come divieto di propaganda religiosa[30]; in secondo luogo, i culti venivano ammessi a condizione di non professare «princìpi contrari all’ordine pubblico o al buon costume», e la concreta verifica di ciò si traduceva necessariamente in un controllo di merito da parte statale sui princìpi religiosi professati, in contrasto con il principio della libertà di culto[31].

Coerentemente ad una impostazione siffatta, istituti come la necessità dell’approvazione governativa per la nomina dei ministri di culto, la vigilanza statale sugli istituti e il potere di ispezione, la possibilità, per i ministri di culto, di celebrare matrimoni con effetti civili solo dietro autorizzazione specifica dell’ufficiale di stato civile, importavano un’inammissibile violazione del diritto di libertà religiosa delle varie confessioni, e palesi discriminazioni di trattamento tra i cittadini cattolici e gli “altri”.

La parabola discendente continuava, poi, con l’emanazione del nuovo codice penale Rocco, che ripristinava il reato di vilipendio alla religione di Stato, e collocava gli altri culti in una posizione subordinata per quanto riguardava la tutela penale del sentimento religioso, differenziando le fattispecie criminose e le relative sanzioni. In questo quadro, inoltre, veniva ripristinato l’insegnamento confessionistico nelle scuole di Stato, con violazione della libertà di coscienza dei giovani appartenenti alle confessioni religiose di minoranza.

Per la confessione israelitica, in particolare, il giurisdizionalismo assunse una forma del tutto peculiare: infatti, l’art. 14 della legge sui culti ammessi delegava il Governo a rivedere le norme legislative particolari riguardanti le confessioni diverse da quella cattolica, ed a coordinarle con le leggi dello Stato. La sola regolamentazione in tal senso - che pure non era mai stata estesa a tutto il territorio nazionale - era la legge Rattazzi del 1857 sulle università israelitiche, alla quale subentrò così, con il R.D. 30 ottobre 1930, n. 1731[32] - seguito dal regolamento attuativo emanato con R.D. 19 novembre 1931, n. 1561[33] - la nuova normativa sulle comunità israelitiche e sull’Unione delle comunità.

Come ha osservato un attento studioso[34], con questi provvedimenti lo Stato non si limitava a prendere in considerazione i rapporti esterni tra una confessione e lo Stato stesso, ma arrivava addirittura a regolare lo statuto interno dell’ebraismo italiano, disciplinandone in modo preciso ed assai puntiglioso «l’appartenenza dei membri, l’organizzazione interna, i poteri degli organi e le forme di controllo da parte dell’autorità amministrativa»[35], dando vita ad una vera e propria «costituzione civile»[36] della confessione israelitica, e creando, affinché fosse più facile il controllo sul fenomeno associativo ebraico, un organo che rappresentasse unitariamente gli ebrei italiani: era l’Unione delle comunità - un unicum nella storia dell’ebraismo della diaspora, che da sempre ha conosciuto solamente una pluralità di comunità[37] -, alla quale appartenevano obbligatoriamente, ed a cui dovevano versare un tributo annuale, tutte le comunità israelitiche del Regno.

Nel complesso, la maggioranza delle comunità italiane accolse in modo favorevole la nuova legislazione [38] - alla cui realizzazione avevano collaborato anche esponenti di parte ebraica -, perché per la prima volta veniva a dare una regolamentazione certa, e soprattutto uniforme, a tutte le comunità del Paese che, oltretutto, potevano usufruire del “braccio secolare” dello Stato per la riscossione dei contributi annuali dovuti, da ogni ebreo, alla comunità di appartenenza. Gli stessi ebrei non si resero conto del fatto che, con una regolamentazione così puntuale dell’organizzazione di una minoranza religiosa, lo Stato aveva compiuto un passo veramente decisivo verso il ritorno alla disuguaglianza dei culti[39].

La stessa diversità di tutela del sentimento religioso degli appartenenti alle confessioni di minoranza, rispetto a quella degli appartenenti alla Chiesa cattolica - evidente con il ritorno al giurisdizionalismo per i primi, e con l’adozione del regime concordatario per i secondi -, era, poi, un segnale di avvertimento ed al tempo stesso prima manifestazione di quella spaccatura che, nel giro di pochi anni, si sarebbe prodotta nei diritti civili e politici dei cittadini: già con le leggi del 1929‑1932 ci si avviava, insomma - ignorando bellamente le conquiste del periodo liberale -, a ristabilire la disuguaglianza dei diritti civili e, conseguentemente, la disuguaglianza dei cittadini[40].

La disuguaglianza dei diritti individuali dei cittadini a seconda che professassero la fede cattolica o non, infatti, emergeva già dalla comparazione di alcune disposizioni del Concordato del 1929 con quelle omologhe della legge sui culti ammessi, dal momento che le prime, innovando rispetto al sistema precedente, reintroducevano in Italia il matrimonio religioso canonico: così, mentre la legislazione concordataria consentiva ai cattolici la libertà di scegliere quale tra le due leggi, civile o canonica, avrebbe retto il loro matrimonio - e le diversità in proposito non erano di poco momento, considerando che il diritto canonico conosceva ipotesi più ampie di invalidità del matrimonio -, la stessa possibilità non era prevista per gli appartenenti alle confessioni di minoranza, che dovevano sottostare alla sola legge civile, anche se il matrimonio era stato celebrato dal proprio ministro del culto, secondo le disposizioni della legge sui culti ammessi.

Dagli ebrei, questa differenziazione di trattamento quanto al regime matrimoniale era percepita come particolarmente discriminante, dal momento che «non può dirsi che l’obiezione fondata sulla solida tradizione giuridica della Chiesa cattolica in contrasto con l’assenza di tradizione giuridica degli altri culti, potesse reggere di fronte alla considerazione della altrettanto solida tradizione giuridica, dell’altrettanto solida costruzione normativa e giurisprudenziale talmudica e rabbinica, che già aveva trovato un riconoscimento nel diritto italiano prima del 1865»[41].

Intanto, nel 1932, il Ministero dell’Interno assumeva le competenze in materia di politica dei culti, che precedentemente erano state del Ministero della Giustizia: come ha notato la dottrina più attenta[42], il cambiamento era destinato ad avere molteplici ripercussioni nell’immediato futuro, dal momento che sarebbe prevalsa una «mentalità poliziesca»[43] nell’applicazione della legge sui culti ammessi, della quale venivano esaltate le parti più spiccatamente giurisdizionalistiche, con il moltiplicarsi di controlli e divieti e la soppressione invece delle affermazioni di libertà; inoltre, un anno prima era stato emanato il nuovo T.U. di pubblica sicurezza, il cui art. 18 prevedeva la possibilità di considerare come pubbliche anche le riunioni private indette in luoghi aperti al pubblico: tale articolo ebbe sempre più vasta applicazione, e, anche grazie ad una opportuna interpretazione dello stesso, le confessioni di minoranza videro sempre più ristretti i propri spazi, fino a che non si giunse all’esplicito divieto di alcuni tipi di culto[44].

Nel 1938, prendeva forma definita e concreta la politica discriminatoria dello Stato fascista nei confronti degli appartenenti alla confessione israelitica, con l’emanazione di una serie di provvedimenti volti ad emarginare ancora di più gli ebrei dalla società civile: erano le leggi razziali.

Questi provvedimenti erano diretti a colpire non la religione in sé, ma piuttosto l’appartenenza al gruppo etnico ebreo, anche se, come sottolinea la dottrina più autorevole in proposito[45], lo scopo pratico della normativa in esame, il considerare la razza e non la religione, era semplicemente quello di non sottrarre alla regolamentazione neppure gli ebrei che, per evitare di sottostarvi, si fossero convertiti, ed il risultato vedeva comunque un ulteriore peggioramento della condizione della confessione ebraica, anche rispetto alle altre minoranze religiose, già pur esse discriminate rispetto alla Chiesa cattolica.

Le leggi razziali vennero progressivamente ampliate grazie all’introduzione - anche al di fuori dell’ordinaria pratica legislativa, attraverso semplici circolari del Ministero dell’Interno - di una nutrita serie di provvedimenti, che ebbero il risultato di allargare lo spettro delle persecuzioni ben al di là del già ampio ambito previsto dalle leggi originali[46], così che tra le numerose e pesanti discriminazioni avviate nei confronti dei soli ebrei spiccavano il divieto di insegnamento nelle scuole pubbliche, unitamente al divieto di frequentarle, l’esclusione dalle cariche militari e civili, dalle amministrazioni locali, il divieto assoluto di matrimoni “misti”, l’esclusione dalle professioni e dai commerci più importanti, fino ad arrivare, addirittura, all’affievolimento dei diritti testamentari ed alla limitazione delle proprietà immobiliari. Fino al momento della liberazione nazionale, gli ebrei sarebbero stati in una condizione deteriore addirittura rispetto a quella dei cittadini di Paesi dichiaratamente in guerra con l’Italia, che erano protetti dalle norme internazionali, e per i quali la legge italiana di guerra prevedeva non la confisca, ma solamente il sequestro dei beni[47]: agli ebrei, invece, veniva negato «non solo il diritto di avere, ma anche il diritto di essere»[48].

Nel 1982 uno studioso ebbe a scrivere che «anche se più di quattro quinti degli ebrei italiani sopravvissero alla guerra, essi subirono un duro colpo dal quale difficilmente si riprenderanno in un prevedibile futuro. In migliaia avevano abbandonato la Comunità, e circa seimila erano emigrati; molti di coloro che rimasero erano fisicamente e spiritualmente distrutti. Le usanze di vita ebraiche erano state interrotte e in molti luoghi era scomparso lo stesso quadro ambientale in cui si erano sviluppate. Trentasette anni dopo la caduta del fascismo, gli ebrei italiani conservano ancora soltanto una pallida sembianza della loro antica identità»[49].

2.3. La caduta del fascismo e la Costituzione repubblicana: il ritorno all’uguaglianza dei cittadini.

Con la caduta del fascismo e la liberazione nazionale, per gli ebrei italiani cominciò il processo che avrebbe portato alla riaffermazione del principio di uguaglianza dei diritti individuali: l’abrogazione della legislazione razziale e l’adozione di provvedimenti restitutori portarono, infatti, a reintegrarli nei diritti civili e politici loro negati negli anni precedenti, ed alla loro piena equiparazione agli altri cittadini dello Stato, mentre un’altra serie di norme cercava, con l’attribuzione di particolari vantaggi, di cancellare, almeno in parte, i danni provocati da anni di soprusi e persecuzioni.

Contemporaneamente, i lavori preparatori per la nuova Carta costituzionale rappresentavano, per tutti gli appartenenti alle confessioni di minoranza, un’occasione unica per stabilire un dialogo con il legislatore costituente, e per giungere, finalmente, ad una regolamentazione del fattore religioso che fosse rispettosa anche delle esigenze delle confessioni diverse da quella cattolica, con la parificazione di tutti i culti e l’abolizione dei privilegi che la Chiesa cattolica era tornata ad accumulare sin dalla riproposizione, ad opera del legislatore fascista, del confessionalismo di Stato.

In tal senso, gli ebrei italiani, rappresentati dall’Unione delle comunità israelitiche, ed i protestanti, riuniti nel Consiglio federale delle Chiese evangeliche in Italia, iniziarono un intenso scambio di documenti programmatici con il legislatore, di cui lo stesso tenne conto nelle fasi più importanti dell’elaborazione del progetto, anche se poi, in effetti, nella stesura definitiva non furono affatto consacrate le soluzioni da essi caldeggiate[50]: in particolare, gli ebrei reclamavano l’assoluta parificazione dei culti e dei cittadini, il riconoscimento degli effetti civili del matrimonio celebrato secondo i riti ed il diritto delle singole confessioni, e l’abolizione di ogni restrizione così come di ogni privilegio, nella più completa uguaglianza di diritti e doveri, ciò che avrebbe dovuto presupporre l’assenza, nel nuovo sistema, di qualsiasi riferimento ad una Chiesa determinata; per contro, i democristiani, forti della loro posizione di maggioranza in seno all’assemblea, sostenevano comunque la necessità di mantenere una sorta di status speciale per la Chiesa cattolica, e di affermare la centralità dei Patti lateranensi anche nel nuovo ordinamento, così che, dopo accesi dibattiti, vide la luce l’attuale art. 7, che espressamente menziona i Patti come fonte di regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa, un articolo essenzialmente frutto di un compromesso politico, dettato dalla necessità di assicurarsi il sostegno della Chiesa cattolica nella costruzione del nuovo regime democratico[51].

Fortemente desiderato, tanto dagli ebrei come dai protestanti, il primo comma del successivo art. 8 enunciò il principio per cui tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge - dove, come è ormai pacifico, il termine “tutte” include anche la stessa confessione cattolica[52] -, per fugare ogni dubbio sull’assoluta uguaglianza dei culti nella nuova Costituzione: infatti, anche se l’inclusione dei Patti lateranensi nell’art. 7 poteva essere vista dal profilo puramente internazionalistico, come attinente ai rapporti diplomatici dello Stato con la Santa Sede, e non con la confessione in sé, l’interpretazione che ne fu data in seguito fu ben diversa, legittimando interventi della Chiesa nel campo dell’istruzione scolastica, della famiglia e del matrimonio, a tutto sfavore delle confessioni di minoranza[53]; «non potendosi diminuire le garanzie già accordate alla Chiesa cattolica, si cercò di migliorare la condizione delle altre confessioni»[54]: il terzo comma dell’art. 8 introduceva così nell’ordinamento italiano il principio pattizio, secondo cui i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica devono essere regolati con legge sulla base di intese con le relative rappresentanze, passo decisivo, questo, verso il riconoscimento delle confessioni religiose come soggetti giuridici autonomi ed indipendenti dallo Stato, ed in quanto tali, interlocutori necessari nel procedimento di produzione di norme aventi ad oggetto i loro rapporti con l’ordinamento statuale[55].

Di più, confrontando il secondo comma dell’art. 8 (le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano), con il capoverso dell’art. 123 riguardante lo statuto delle Regioni (lo Statuto è deliberato dal Consiglio regionale a maggioranza assoluta dei suoi componenti, ed è approvato con legge della Repubblica), un attento studioso ha avuto modo di notare che il legislatore costituente attribuì alle confessioni religiose un’autonomia più larga di quella attribuita alle stesse Regioni, dal momento che gli statuti da esse deliberati hanno pur sempre bisogno, per acquistare efficacia, dell’approvazione statale, non necessaria invece per quelli delle confessioni, il cui unico, comprensibile limite è dettato dal non contrasto con i princìpi dell’ordinamento italiano[56].

In questo quadro, il nuovo Stato democratico nasceva in contrapposizione sia al giurisdizionalismo fascista, che all’elaborazione giuridica liberale del secolo precedente: infatti, il termine “uguaglianza” assumeva ora un significato diverso, ignoto allo stesso liberalismo ottocentesco, «legato alla presa di coscienza del carattere collettivo delle esigenze libertarie delle diverse formazioni sociali»[57]. Lo Stato moderno prendeva coscienza dell’esistenza, al proprio interno, di una pluralità di ordinamenti giuridici, e della necessità di un componimento di tale pluralità in un sistema organico che rispettasse la libertà di ciascun gruppo di conformarsi al proprio ordinamento, con l’unico limite del rispetto dell’uguale libertà degli altri[58].

In tal senso, con l’art. 2 (sono riconosciuti e garantiti i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità...) e l’art. 19 (tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata...), il legislatore non limitò la tutela del diritto di libertà religiosa, come di tutti gli altri diritti, al profilo puramente individuale, consapevole del fatto che un effettivo pluralismo «non concerne solo la libertà di scelta degli individui, ma anche il diritto all’esistenza, all’organizzazione e alla funzionalità delle varie istituzioni, sorte da iniziative del tutto autonome da quelle dello Stato e degli altri enti pubblici, senza le quali la libertà di scelta individuale non potrebbe essere realmente esercitata»[59].

Lo stesso concetto di laicità, già fatto proprio dallo Stato liberale di fine Ottocento, si evolveva in una nuova prospettiva: se con il primo comma dell’art. 3 (tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali) e con il primo comma dell’art. 8 erano ristabiliti i fondamentali princìpi di uguaglianza formale dei culti, con il secondo comma dell’art. 3 (è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana...), si delineò il profilo di uno Stato laico sociale.

Abbandonata la concezione puramente garantista dei diritti di libertà, in uno con il mutamento della concezione della libertà stessa da negativa in positiva, come libertà nello Stato[60], il compito dello stesso sarebbe stato anche quello di intervenire per garantire ed agevolare in ogni modo la libertà di scelta e la soddisfazione dei bisogni religiosi dei cittadini, assicurando così i valori di pluralismo religioso connaturati all’ordinamento stesso, come condizione necessaria dell’uguaglianza sostanziale dei culti, senza che il principio di laicità ne venisse per questo intaccato, ma, semmai, rafforzato[61].

2.4.  Dalla previsione dell’articolo 8 della Costituzione all’intesa del 27 febbraio 1987.

La situazione venutasi a creare all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana era sicuramente tra le più singolari: infatti, erano stati affermati princìpi supremi in tema di libertà religiosa, parità ed uguale libertà dei culti, ma, nello stesso tempo, era rimasta in vigore la gran parte delle disposizioni facenti parte dell’impalcatura giuridica espressa dal regime autoritario precedente.

Così, se gli ebrei, uti cives, avevano riacquistato in toto i loro diritti civili e politici, nondimeno - proprio perché appartenenti alla confessione israelitica -, continuavano a rimanere sottoposti sia alla legislazione sulle comunità israelitiche e sull’Unione delle comunità del 1930‑1931, sia - per quanto non disposto dalla normativa de qua -, alla legge sui culti ammessi del 1929, che, insieme al relativo regolamento di attuazione, costituiva l’unica fonte esistente di regolamentazione generale dei rapporti tra lo Stato e le confessioni diverse dalla cattolica suscettibile di applicazione immediata[62].

Il solo modo per impedire macroscopiche disparità di trattamento tra la Chiesa cattolica e le confessioni di minoranza sarebbe stato l’immediato avvio di trattative con lo scopo di arrivare a stipulare, il più presto possibile, le intese previste dal terzo comma dell’art. 8 della Costituzione tra lo Stato e le confessioni religiose che lo avessero richiesto; tuttavia, diversi fattori ostacolarono per decenni il raggiungimento di tale obiettivo, con la conseguenza che, dagli anni della ricostruzione fino quasi ai giorni nostri, gli ebrei e le altre minoranze religiose avrebbero sostanzialmente continuato a vivere in un inaccettabile clima restrittivo del loro diritto di libertà religiosa, un clima tanto più insostenibile se si pensa al contrasto tra la situazione di fatto ed i valori di pluralismo religioso formalmente recepiti dalla Costituzione, e di cui gli artt. 7 e 8, in intima connessione con l’art. 2, costituivano immediata specificazione[63].

E detto contrasto della situazione di fatto con i valori consacrati nella Carta costituzionale trovava il suo climax proprio nei confronti della confessione ebraica, atteso che alle generali limitazioni previste nei confronti di tutte le minoranze religiose, si aggiungevano, per gli ebrei, numerose altre limitazioni al diritto di libertà religiosa inteso in “senso ebraico”: basti pensare, ad esempio, alle violazioni imposte, nell’ambito delle collettività organizzate, alle prescrizioni della legge religiosa ebraica relative al riposo sabbatico, alla macellazione rituale, o al divieto di consumare determinati cibi[64].

Indubbiamente, in tutto questo, non di poco momento fu l’influenza esercitata da istituti e costruzioni giuridiche ereditati dal regime fascista: infatti, se è vero che, scomparsa la dittatura, sembrava naturale che le limitazioni di libertà introdotte dal fascismo dovessero anch’esse scomparire, è altresì vero che, quando si cercò in concreto di affrontare tale operazione, lo stesso ordinamento oppose una energica resistenza ad ogni tentativo di demolizione dei vecchi, ma ormai consolidati, moduli giuridici[65].

D’altronde, a nostro avviso, ciò non deve stupire più di tanto, dato che l’ordinamento stesso è pura astrazione, mentre nella realtà concreta delle cose chi si trova ad operare all’interno del sistema sono gli uomini, che si comportano ed affrontano le situazioni in base alla propria forma mentis, basandosi sui propri retaggi culturali che, all’epoca, derivavano - per trasferire questo discorso sul piano che a noi ora interessa -, dalla matrice cattolico‑concordataria, nata sotto l’impero del giurisdizionalismo e del confessionalismo di Stato[66].

In quest’ottica, i Governi avvicendatisi dal 1948 in poi respinsero ogni richiesta, proveniente dalle diverse confessioni religiose, in ordine all’apertura delle trattative bilaterali per giungere ad un’intesa, pretendendo anzi che venisse data piena applicazione non solo alla legge sui culti ammessi, ma anche alle norme del T.U. di pubblica sicurezza del 1931 in materia di riunioni a fini religiosi, arrivando così ad interpretare in modo del tutto aberrante - o, il che è lo stesso, ad ignorare - non solo le prescrizioni dell’art. 8, ma anche quelle degli artt. 17 e 19 della Costituzione[67].

Peraltro, è da dire che, da parte ebraica, per diverso tempo non furono avanzate richieste di apertura di trattative: anche in sede di dibattito alla Costituente, gli ebrei presentarono svariati documenti su uguaglianza sostanziale, parità di tutela penale dei culti ed effetti civili del matrimonio religioso, ma non una menzione fu fatta a proposito della sorte da riservare alla legge sulle comunità israelitiche ed al rispettivo regolamento di attuazione[68], dal momento che, come abbiamo già visto[69], la normativa in sé non era così invisa ai vertici dell’ebraismo italiano, nonostante il provvedimento in questione fosse ormai, come dianzi detto, in insanabile contrasto con la Costituzione in parecchi punti, che sarebbero stati censurati solo nel prosieguo.

Gli evangelici, invece, presentarono immediatamente, sin dal 1948, diverse istanze a livello governativo per l’avvio delle trattative in parola, e proprio a questa fitta rete di rapporti intrecciati dal Consiglio federale delle Chiese evangeliche con l’apparato statale bisogna inizialmente guardare per individuare le fasi principali dell’evoluzione giuridica che, non senza difficoltà, portò alla stipulazione delle prime intese, tra cui quella con la confessione ebraica.

Possiamo individuare una prima fase - dal 1948 al 1956 -, caratterizzata da una radicale divergenza di vedute tra lo Stato e gli evangelici: questi ultimi avevano inteso subito nella sua piena, rivoluzionaria portata il principio pattizio sotteso dal terzo comma dell’art. 8 della Carta costituzionale, mentre su una posizione totalmente opposta stava il Ministero dell’Interno - in quanto titolare della competenza in materia di culti -, che negava recisamente che il termine “intese” avesse il preciso significato di accordo bilaterale, poiché ciò avrebbe comportato un inammissibile parallelismo fra le intese con le confessioni di minoranza ed il Concordato con la Santa Sede[70].

Di più, si sosteneva che, sostanzialmente, le intese in discorso non costituissero altro che proposte non vincolanti per la modifica della legge sui culti ammessi, che era così destinata a rimanere alla base della disciplina dei rapporti tra lo Stato e le varie Chiese, come se il Costituente avesse voluto richiamarsi alla regolamentazione preesistente per stabilire i fondamenti del nuovo sistema[71].

Portata, in seguito, la questione all’attenzione della Presidenza del Consiglio, e non avendo avuto risposta alcuna, nel 1956, con l’aiuto di alcuni parlamentari, le rivendicazioni degli evangelici si concretizzarono nella proposta di legge dell’onorevole La Malfa - che rimase lettera morta -, che prospettava specifiche procedure per l’attuazione dell’art. 8, ed abrogava la gran parte delle disposizioni della legge sui culti ammessi, facendo discendere la nuova normativa direttamente dall’applicazione dei princìpi costituzionali in materia di libertà religiosa[72].

Nel 1956, con l’entrata in funzione della Corte costituzionale, si apriva la seconda fase dei rapporti tra Stato e confessioni religiose, in cui furono soppresse le norme maggiormente limitative della libertà dei culti: la sentenza n. 1 del 1956[73] è importante non soltanto perché dichiarò incostituzionali alcune disposizioni del T.U. di pubblica sicurezza che limitavano la manifestazione del pensiero, ma soprattutto perché affermò esplicitamente che anche le leggi anteriori alla Costituzione erano sottoposte al vaglio di legittimità costituzionale; nel 1957, la Corte dichiarò l’incostituzionalità dell’obbligo di preavviso per le funzioni religiose in luoghi aperti al pubblico[74], mentre, nel 1958, il regolamento di esecuzione della legge sui culti ammessi venne dichiarato incostituzionale nella parte in cui prevedeva la necessità dell’autorizzazione statale all’apertura di locali di culto e condizionava lo svolgimento delle funzioni religiose alla presenza, nei locali autorizzati, di ministri di culto anch’essi autorizzati[75].

Tuttavia, le trattative per giungere alle intese languivano irrimediabilmente, e solo nel 1961 il rinvio a specifici accordi con le confessioni interessate, previsto dalla legge che estendeva l’assicurazione d’invalidità e vecchiaia ai ministri di culto, costrinse il Ministero dell’Interno a trattare ufficialmente con alcune rappresentanze qualificate delle confessioni richiedenti, per giungere alle c.d. “piccole intese” in materia previdenziale, che, se non costituivano certo attuazione dell’art. 8 della Costituzione, rappresentavano sicuramente un esempio ante litteram di regolamentazione concordata tra le due parti[76].

Negli stessi anni, una parte consistente degli ebrei italiani cominciava, intanto, ad avvertire il peso della legislazione sulle comunità del 1930, percepita ormai come obsoleta, non più in linea con i valori maturati nel frattempo all’interno della società ebraica, e confliggente con i princìpi consacrati nella Carta costituzionale; d’altro canto, c’era anche la consapevolezza dell’impossibilità di mutare sostanzialmente lo stato delle cose in mancanza di un’intesa, che però appariva ben lungi dal poter essere realizzata in tempi brevi, vista la pressoché totale chiusura degli apparati dello Stato in proposito. Ma la necessità di una maggiore democrazia all’interno delle strutture dell’ebraismo italiano, ed il bisogno di calarsi nella realtà del concreto sviluppo storico e giuridico contemporaneo, erano considerati da alcuni riformisti come condizioni indispensabili ad assicurare la stessa sopravvivenza delle istituzioni ebraiche in Italia, con l’abbandono di ogni forma di tutela di Stato ed il ritorno all’autonomia delle comunità nel quadro dei princìpi dettati dalla Costituzione, cosicché, anche senza la collaborazione da parte dello Stato, la riforma strutturale iniziò ad essere attuata[77].

Nel Congresso delle comunità israelitiche del 1961, secondo la prima mozione presentata, ogni comunità avrebbe dovuto interpretare le leggi in materia elettorale secondo le seguenti tre direttive fondamentali: iscrizione nelle liste elettorali e dei contribuenti di tutti i maggiorenni senza distinzione alcuna in base a sesso, stato civile o censo, estensione alle donne dell’elettorato passivo e rinnovo totale del consiglio di ogni comunità ogni sei anni, fermo restando il rinnovo parziale biennale; direttive tutte tese ad assicurare maggiore democraticità all’interno delle singole entità territoriali, ma sostanzialmente in conflitto con le prescrizioni della legge dello Stato, poiché, de facto, non si trattava di mera interpretazione, bensì di vera e propria creazione di norme. Nel contempo, con un’altra mozione si invitò l’Unione delle comunità a predisporre lo studio di una revisione della legge del 1930, in vista di un adeguamento dei suoi princìpi alle mutate esigenze dell’ebraismo[78].

Il Congresso straordinario del 1968 proseguì sul cammino intrapreso praeter legem da quello del 1961, adottando delle delibere che definì vincolanti per tutti gli appartenenti alle comunità, tra le quali spiccavano l’introduzione del suffragio universale senza distinzione di sesso, stato civile o censo; la creazione di due nuovi organi, l’assemblea della comunità e l’assemblea rabbinica; l’introduzione del principio della rappresentanza delle minoranze, sia nei consigli delle comunità più numerose, che nel consiglio dell’Unione e nella consulta rabbinica; l’introduzione del principio di progressività nella tassazione[79].

Le riforme strutturali adottate dal Congresso del 1968 non erano certo di poco conto, e costituivano in pratica lo statuto dell’ebraismo italiano, ai sensi del secondo comma dell’art. 8 della Costituzione, una svolta significativa nel cammino che avrebbe portato all’autonomia normativa delle comunità[80].

Nel 1975, allorché la Tavola valdese tentò di riallacciare i rapporti con il Ministero dell’Interno in vista di una possibile intesa, la risposta fu che non era nelle intenzioni dello Stato avviare trattative con le minoranze prima della revisione del Concordato con la Chiesa cattolica.

Il consiglio dell’Unione delle comunità israelitiche ritenne utile puntualizzare che una revisione del Concordato non poteva prescindere dall’esame di alcune questioni fondamentali, per gli ebrei costituite innanzitutto dalla modifica dell’art. 1 del Trattato del Laterano - che dichiarava la religione cattolica, apostolica e romana la “religione di Stato” -; dall’insegnamento religioso nelle scuole, dalla regolamentazione del matrimonio e, in ultimo, dalla questione dell’affidamento delle catacombe ebraiche[81].

Nel 1976, il Presidente del Consiglio annunciò l’avvio dei negoziati con la Tavola valdese e con l’Unione delle comunità israelitiche, in contemporanea con l’apertura delle trattative per la revisione concordataria: da quel momento le due intese avrebbero corso su un binario parallelo a quello del Concordato, ma, mentre le trattative con i valdesi diedero vita ad un testo suscettibile di avere l’approvazione definitiva dei contraenti in tempi relativamente brevi, quelle con gli ebrei non portarono, inizialmente, a vere e proprie ipotesi di accordo, essendo l’ebraismo un quid non facilmente riducibile ad un’unica definizione, «un complesso di elementi, tra i quali la comune religione è solo un fattore»[82].

Ma le trattative sarebbero andate a rilento anche perché si imponeva la risoluzione di un problema di fondo, costituito dalla questione dell’appartenenza obbligatoria alle comunità di tutti gli ebrei ivi residenti, sancita dall’art. 4 della legge sulle comunità israelitiche, che demandava poi alle stesse comunità i poteri di imposizione tributaria sui propri membri così identificati.

Il primo progetto di intesa prevedeva ancora il principio dell’appartenenza obbligatoria, e quando, nel 1979, un’ordinanza pretorile[83] portò all’esame della Corte costituzionale l’art. 4 della legge sulle comunità, censurandolo di incostituzionalità soprattutto in rapporto al principio di uguaglianza formale così come enunciato dal primo comma dell’art. 3 della Costituzione, il consiglio della comunità di Roma ritenne opportuno sospendere le trattative in attesa della definizione del giudizio, per evitare che l’intesa, fin dalla sua entrata in vigore, potesse contenere princìpi già giudicati incompatibili con l’ordinamento giuridico italiano[84].

La sentenza n. 239 del 1984[85] dichiarò l’incostituzionalità dell’art. 4 del R.D. 1731/1930, e si dovette procedere ad una sostanziale revisione del progetto di intesa che tenesse conto del nuovo principio di volontarietà dell’adesione alla comunità.

Le trattative furono riprese nel 1985 e, dopo un’ultima sospensione a causa dell’accordo tra il Governo e la Conferenza episcopale italiana sull’insegnamento religioso cattolico nelle scuole statali - che suscitò le vive proteste degli ebrei e di tutte le altre confessioni di minoranza[86] -, condussero finalmente all’intesa tra la Repubblica italiana e l’Unione delle comunità israelitiche italiane, siglata a Roma il 27 febbraio 1987, ed approvata con legge 8 marzo 1989, n. 101.



[1]   Cfr. C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 156.
[2]
   Cfr. C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 156.
[3]
   Cfr. G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 14.
[4]
   Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 41.
[5]
   Cfr. G. Fubini, L’anno della svolta, in RMI, 1986/2‑3, p. 328.
[6]
   Cfr. G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 142.
[7]
   G. Disegni, Considerazioni sulla storia e la natura giuridica delle Comunità ebraiche, in RMI, 1985/3 (Scritti in memoria di Sergio Piperno Beer), pp. 630 s.
[8]
   Cfr. G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 142.
[9]
              L’affermazione è riportata in G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 108.
  Così, ancora, G. disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 108.
  Cfr. G. Fubini, L’anno della svolta, cit., p. 328.
  V. supra, § 1.2.
  V. supra, § 1.2.
  Lo spirito del nuovo codice del 1889, in ordine alla tutela della libertà religiosa, fu ben messo in rilievo nel par. 83 della relazione ministeriale che accompagnava il progetto, che così diceva: «in uno Stato dove imperano i principii di libertà e di progresso civile, tutte le credenze religiose che vi sono ugualmente professate devono trovare una uguale tutela giuridica, mediante opportuna sanzione penale. [...] Nella legislazione vigente le disposizioni intorno ai delitti contro la libertà non sono tutte coordinate al criterio della loro obbiettività giuridica, né tutte riunite secondo un sistema completo e razionale. Ciò trova, in parte, la sua spiegazione nell’angustia del tempo, che non consentì al legislatore italiano di conciliare la pronta attuazione dei nuovi ordinamenti liberali, richiesti dalle mutate condizioni politiche, con quella matura elaborazione legislativa che sarebbe stata necessaria per ovviare ai suddetti inconvenienti. Il concetto fondamentale , cui s’informa il nuovo codice, quello si è di riferire al diritto naturale della libertà, le disposizioni che il codice del 1959 riferiva alle guarentigie sancite dallo Statuto». Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 45.
  Cfr. G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 20. Conforme, anche S. Lariccia, Diritto ecclesiastico, cit., p. 24.
  Cfr. S. Lariccia, Diritto ecclesiastico, cit., pp. 17 ss.
  V. supra, § 1.1.
              Conforme, C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 156.
  Cfr. P. Gismondi, L’autonomia delle confessioni acattoliche, cit., p. 637.
  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 52.
  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 63.
  In G.U., 16 luglio 1929, n. 164.
  In G.U., 12 aprile 1930, n. 87.
  Così G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 45.
  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 53.
  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 53.
  Cfr. M. Petroncelli, Diritto ecclesiastico, Napoli, 1977, p. 281.
  Cfr. G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 48.
  In tal senso, cfr. ancora G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 50.
  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 54, il quale precisa che «tale interpretazione trovava conforto nella stessa relazione Vassallo alla Camera dei deputati e nella relazione Boselli al Senato, ed era stata suggerita dal Chirografo 30 maggio 1929 di Papa Pio XI, per il quale in Stato cattolico, libertà di coscienza e di discussione devono intendersi e praticarsi secondo la dottrina e la legge cattolica». In senso conforme, cfr. anche G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 48.
  In tal senso, cfr. ancora G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 54.
  In G.U., 15 gennaio 1931, n. 11.
  In G.U., 31 dicembre 1931, n. 301.
  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 55.
  G. Rossi, Enti pubblici associativi. Aspetti del rapporto fra gruppi sociali e pubblico potere, Napoli, 1979, p. 192.
  La definizione si trova in A. C. Jemolo, Alcune considerazioni sul R.D. 30 ottobre 1930 n. 1731 sulle Comunità israelitiche, in DE, 1931, I, p. 75. Nello stesso senso, cfr.. R. Botta, L’attuazione dei princìpi costituzionali e la condizione giuridica degli ebrei in Italia, cit., p. 169. In senso contrario, cfr. M. Falco, La nuova legge sulle comunità israelitiche italiane, in Riv. dir. pubbl., 1931, I, p. 512 ss.
  Cfr. M. F. Maternini Zotta, L’ente comunitario ebraico, cit., p. 198. V. anche, amplius, infra, § 4.9.
  Cfr. G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., pp. 120 s.
              Osserva, tra l’altro, M. Michaelis, Mussolini e la questione ebraica, Milano, 1982, pp. 392 s., che «sebbene non vi fosse alcuna intenzione di persecuzione razziale nella mente di coloro che elaborarono le leggi sulle Comunità israelitiche italiane nel 1930 e nel 1931, la rigida organizzazione degli ebrei italiani sotto il controllo dello Stato sarebbe stata particolarmente utile ai gerarchi fascisti per la politica di segregazione sociale ed economica che essi intrapresero pochi anni dopo».
  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 63.
  G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 64. Cfr. anche Id., Considerazioni “de iure condendo” in tema di matrimonio e di culti acattolici, in FI, 1960, IV, c. 154.
  Cfr., ad esempio, G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 27.
  Così, G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 27.
  Su questo punto, cfr. P. Barile, Appunti sulla condizione dei culti acattolici in Italia, in DE, 1952, I, specialmente p. 354.
  Cfr., a questo proposito, G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., pp. 64 s., secondo il quale «l’obiezione ha una rilevanza solo formale; riguarda una misera frangia di ebrei non israeliti o di israeliti non ebrei; non tiene conto che la considerazione della cosiddetta “razza” anziché del culto aveva per il legislatore del 1938 e degli anni successivi solo lo scopo di colpire con la legislazione antiebraica anche i convertiti di comodo, i nuovi possibili “marrani”; ignora il carattere complesso, composito, insuscettibile di una definizione globale, dell’Ebraismo: legge morale e tradizione religiosa, popolo e cultura». Cfr. anche G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 28.
  Cfr. S. Caviglia, Un aspetto sconosciuto della persecuzione: L’antisemitismo “amministrativo” del Ministero dell’Interno, in RMI, 1988/1‑2, p. 234. Secondo F. Levi, Riflessioni su istituzioni e società di fronte alle leggi antiebraiche, in RMI, 1993/1‑2, p. 87, l’insieme di tutti questi provvedimenti diede origine ad un corpus normativo disorganico e, non di rado, anche contraddittorio, ma tuttavia capace di coinvolgere, oltre ai più diversi momenti della vita degli ebrei in Italia, anche quella dell’intero Paese.
  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 79.
  Così, ancora G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 79.
  M. Michaelis, Mussolini e la questione ebraica, cit., p. 395. Cfr. anche M. Toscano, Le comunità ebraiche, in Aa. Vv., Le minoranze religiose in Italia, a cura di S. Ferrari - G. B. Varnier, Cinisello Balsamo (Milano), 1997, p. 19.
  Cfr. G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 29.
  In questo senso, cfr. G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 72, e G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 31.
  Nel senso del testo, cfr. G. Fubini, Variazioni sull’art. 5 della Costituzione, cit., c. 202. V. anche F. Margiotta Broglio, Sistema di intese e rapporti con la chiesa cattolica, in aa. Vv., Le intese tra Stato e confessioni  religiose, cit., p. 135. Contra, cfr. G. Balladore Pallieri, Diritto costituzionale, Milano, 1959, p. 353, che fa leva proprio sul testo letterale del capoverso, per sostenere che il primo comma vada riferito alla sola religione cattolica.
  Cfr. G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 72.
  G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 32.
  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 118.
  Cfr. G. Fubini, Variazioni sull’articolo 5 della Costituzione, cit., c. 202.
  G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 84.
  Cfr. G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 118.
  F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, Bologna, 1999, p. 102.
  Così C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 165.
  Nella sentenza del 12 aprile 1989, n. 203, in FI, 1989, I, c. 1340, la Corte costituzionale ha espresso la convinzione che il principio di laicità della Costituzione «implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione», e che i valori della libertà religiosa e del pluralismo religioso «concorrono, con altri, a strutturare il principio supremo della laicità dello Stato». In senso leggermente diverso, G. Fubini, Variazioni sull’art. 5 della Costituzione, cit., c. 204, afferma che non si tratta più «di laicismo, ma nemmeno di giurisdizionalismo; si tratta di qualcosa di nuovo, che forse non è ancora stato definito».
  Su questo punto, cfr. ancora G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 107.
  Cfr. P. Gismondi, Introduzione, in Aa. Vv., Le intese tra Stato e confessioni religiose, cit., p. 125.
  Cfr. G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 133.
  In questo senso, cfr. G. Fubini, Dalla legislazione antiebraica alla legislazione riparatoria. Orientamenti giurisprudenziali nell’Italia postfascista, in RMI, 1988/1‑2, p. 478.
              Riteniamo che la considerazione accennata supra non possa essere contraddetta dall’obiezione secondo la quale è vero che, in rerum natura, sono gli uomini ad operare e non l’ordinamento astratto, ma è anche vero che esso è pur sempre, in regime democratico, emanazione diretta di quegli stessi uomini tenuti poi ad applicarne i princìpi, per cui non si vede come possa realizzarsi la dicotomia espressa nel testo, non essendo verosimile che le stesse persone artefici di un determinato principio, possano poi discostarsene senza incorrere in colpa d’omissione o, perlomeno, in grave contraddizione: la replica a quest’obiezione potrebbe essere molto articolata ma, senza scomodare la filosofia del diritto, e per rimanere sul terreno della nostra indagine riguardante (l’inapplicazione del) la Costituzione, basta dare un’occhiata, per quanto distratta, ai lavori preparatori, per accorgersi che gli articoli di più immediato interesse ai nostri fini, id est, gli artt. 7 ma anche 8, furono il frutto di compromessi politici atti ad assicurare una base di maggioranza al provvedimento, e non certo espressione di unanime volontà, e che il terzo comma dell’art. 8 fu inserito solamente per dare una sorta di “contentino” agli oppositori del regime concordatario (Cfr. V. Onida, Profili costituzionali delle intese, in Aa. Vv., Le intese tra Stato e confessioni religiose, cit., p. 29); stando così le cose, non possono dunque stupire gli innumerevoli “stratagemmi” messi in atto per aggirare la stipulazione delle intese con le minoranze religiose negli anni seguenti alla Costituzione.
  Così G. Peyrot, Significato e portata delle intese, cit., p. 59. Cfr. A. C. Jemolo, Le libertà garantite dagli artt. 8, 19, 21 della Costituzione, in DE, 1952, I, pp. 416 ss., in cui l’A. passa in rapida rassegna alcune sentenze pretorili che dimostrano l’aberrazione di cui supra.
  Cfr. G. Long, Alle origini del pluralismo confessionale. Il dibattito sulla libertà religiosa nell’età della Costituente, Bologna, 1990, specialmente pp. 294 s.
  V. supra, § 2.2.
  V. la lettera della Direzione Generale per gli affari di culto del 30 settembre 1950 al Consiglio federale delle Chiese evangeliche, in DE, 1952, I, p. 156, in nota.
  Così G. Peyrot, Significato e portata delle intese, cit., p. 61.
  Cfr. G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 150, e G Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., pp. 37 s.
  Corte cost., sent. 14 giugno 1956, n. 1, in FI, 1956, I, cc. 833 ss.
  Corte cost., sent. 18 marzo 1957, n. 45, in FI, 1957, I, c. 733: «è costituzionalmente illegittimo, in riferimento all’art. 17 della Costituzione, l’art. 25 T.U. delle leggi di pubblica sicurezza, nella parte relativa all’obbligo del preavviso per le funzioni, cerimonie o pratiche religiose in luoghi aperti al pubblico».
  Corte cost., sent. 18 novembre 1958, n. 59, in FI, 1958, I, c. 1778: «contrastano con gli art. 8 e 17 della Costituzione gli art. 1 e 2 R.D. 28 febbraio 1930, n. 289 (il secondo nella sua totalità in quanto sottopone l’esercizio della facoltà di tenere cerimonie dei culti acattolici e compiere altri atti di culto negli edifici aperti al culto, alla condizione che la riunione sia presieduta o autorizzata da un ministro del culto, la cui nomina sia stata approvata dal Ministro competente; e il primo nella parte in cui esige l’autorizzazione per l’apertura dei tempii, quale autonoma professione di fede religiosa al di fuori dei rapporti con lo Stato); e non anche l’art. 3 della legge 24 giugno 1929, n. 1159, che non riconosce effetti civili agli atti del loro ministero, compiuti da ministri dei culti acattolici, la cui nomina non abbia riportato l’autorizzazione amministrativa».
  In questo senso, cfr. G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 41.
  Su questo punto, cfr. G. Fubini, la condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 132.
  Cfr. G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 147.
  Cfr. G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., pp. 130 s.
  Cfr. G. Fubini, la condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., pp. 133 s.
  In proposito, cfr. S. Dazzetti, Un percorso di libertà. Il dibattito e le scelte dell’ebraismo italiano preliminari all’intesa con lo Stato (1977‑1987), in Le intese viste dalle confessioni. Quaderni della scuola di specializzazione in diritto ecclesiastico e canonico, a cura di M. Tedeschi, Napoli, 1999, vol. 6, p. 176.
  Così, G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 150. V. anche supra, § 1.1.
  Pret. Roma, ord. 16 maggio 1979, in FI, 1980, I, c. 552.
  Cfr. S. Dazzetti, Un percorso di libertà, cit., p. 203.
  Corte cost., sent. 30 luglio 1984, n. 239, in FI, 1984, I, cc. 2397 ss.
  Cfr. ancora S. Dazzetti, Un percorso di libertà, cit., p. 218.


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