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Conclusioni


Le ragioni del progressivo declino dell’Eurocomunismo.

L’ipotesi iniziale da cui sono partito, secondo la quale il progetto eurocomunista sarebbe fallito soprattutto per l’estemporaneità dello ’dislocamento’ politico e ideologico del P.C.F., si è mostrata in buona parte esatta, anche se non può essere considerata come l’unica causa che ha condotto all’appannamento della proposta eurocomunista. In effetti, pur essendo questa, probabilmente, la ragione principale, ve ne sono altre, alcune imputabili a tutti e tre i partiti, altre riferibili in modo esclusivo agli altri due componenti del movimento eurocomunista.

L’Eurocomunismo ha preso avvio dalla comune consapevolezza dei tre partiti che essi, da soli, non avrebbero potuto proporre un loro modello di società socialista alternativo a quello sovietico senza incorrere negli anatemi di Mosca e nel rifiuto delle società nelle quali si erano sviluppati. Tuttavia, troppo raramente le tre anime dell’Eurocomunismo hanno mostrato una reale unità di intenti. Sovente, infatti, ogni partito è sembrato portare avanti una strategia di tipo “nazional-comunista”, irrimediabilmente condannata al fallimento [Salvadori, 1978].

Significativa testimonianza delle laceranti divergenze tra i partiti eurocomunisti è la circostanza per cui, nel 1979, in occasione delle prime elezioni per il Parlamento Europeo, non solo non esisteva un programma comune tra i nove partiti comunisti della C.E.E. ma, cosa ancor più grave, la distanza tra l’analisi politica ed economica avanzata dal P.C.I. e quella elaborata dal P.C.F. era enorme, quasi fossero due programmi assolutamente inconciliabili. 

Occorre poi ricordare anche gli errori di valutazione compiuti dai tre partiti congiuntamente.
Innanzitutto vi è stato un grave fraintendimento a proposito della reale natura della coesistenza pacifica, un peccato di ingenuità messo molto bene in risalto da Bonanate e di cui si è già parlato nel corso della tesi.
Erronea si è mostrata, inoltre, anche la convinzione secondo cui la fase di transizione antimonopolista si sarebbe potuta verificare all’insegna della stabilità democratica e senza forti scossoni politici e sociali. Una visione senza dubbio troppo ottimistica di un momento storico che, nelle intenzioni dei tre partiti, avrebbe dovuto portare i loro rispettivi Paesi verso una società socialista avanzata e segnare, nei fatti, l’inizio del processo di smantellamento del sistema capitalista.

Un’ultima osservazione riguarda i progetti di riforma strutturale dell’economia presentati dai tre partiti eurocomunisti. Questi erano condizionati, in linea generale, dalla prospettiva di un forte tasso di crescita delle economie dei rispettivi Paesi nel medio e nel lungo periodo, cosa che la realtà ha dimostrato del tutto irrealistica [Mandel, 1978].

Ma oltre a questi errori di valutazione commessi da tutte e tre le formazioni politiche, ve ne sono altri riconducibili ai singoli partiti.

Come ho messo precedentemente in evidenza, il P.C.F. si è mostrato ben presto l’elemento più inaffidabile della coalizione eurocomunista. I limiti del partito francese sono emersi sia sul piano politico nazionale che su quello internazionale. Per quanto concerne il primo ambito, il partito di Marchais, dopo aver contribuito, in maniera determinante, alla nascita dell’Union de la Gauche insieme con il P.S., al fine di costituire un’autentica alternativa di sinistra, quando ormai tutto lasciava presagire un imminente trionfo elettorale, ha compiuto un’improvvisa inversione di rotta, provocando così non solo il fallimento della prospettiva di conquistare il governo del Paese, ma anche la fine stessa dell’alleanza. Tra le ragioni addotte per tentare di spiegare questa sorta di “harakiri” compiuta dal partito comunista francese, interessante è quella secondo la quale esso avrebbe agito in questo modo per paura di trovarsi a gestire una difficile situazione di crisi economica, la quale lo avrebbe obbligato ad assumere misure fortemente antipopolari. Inoltre il P.C.F. si sarebbe anche reso conto che il vero motore della coalizione di sinistra era ormai divenuto il partito di Mitterand.

Tuttavia, pur giudicando molto valide queste spiegazioni, ritengo che alla base di questa scelta, per molti versi assurda, vi siano soprattutto ragioni di ordine ideologico, in particolare l’ostinato rifiuto di andare fino in fondo nel processo di omologazione con il resto della cultura politica francese, per timore di perdere la propria identità.
 Non si deve, infine, dimenticare che il P.C.F. ha pagato a caro prezzo il fatto di non aver mai avuto tra le sue file un grande pensatore politico, come invece il P.C.I. con Gramsci, il quale fosse in grado di elaborare un autonomo progetto per la costruzione di una società socialista nazionale. In effetti, l’influenza di Mosca sul P.C.F. è sempre stata molto rilevante, al punto che, al termine dell’esperienza eurocomunista, mentre il P.C.I. ha imboccato in modo risoluto la strada del dialogo e del progressivo incontro con la socialdemocrazia europea, il partito francese ha optato per un ritorno all’antico, riportandosi sotto l’ala ancora benevola del Cremlino e riproponendosi come il partito comunista occidentale più fedele di Mosca.

Lo smacco per il fallimento del progetto eurocomunista ha lasciato, tuttavia, un segno indelebile nel partito transalpino. Molti tra i suoi più illustri intellettuali, fortemente pessimisti riguardo alla capacità del partito di sapersi trasformare e evolvere secondo le nuove esigenze della società francese di inizio anni ’80, hanno preferito abbandonarlo, accentuando, in questo modo, la già profonda crisi del partito e il suo progressivo autoisolamento dalla vita politica nazionale.

Anche il partito comunista italiano, comunque, non è stato esente da errori.
Se da un lato è senza dubbio vero che la sua svolta democratica aveva radici ben più profonde e forti rispetto a quella operata dal P.C.F., dall’altro anche il P.C.I. è parso, a volte, prigioniero di vecchie idee che appartenevano ancora a quel tipo di comunismo di impronta stalinista che, nei fatti, il partito italiano aveva da tempo superato. Così, per citare un caso, il tema della rivoluzione non è mai stato completamente accantonato nei discorsi dei leader comunisti, anche se l’intensità dei toni si era decisamente via via sempre più attenuata.

Alcuni intellettuali di area socialista, a proposito della dislocazione ideologica del P.C.I. e, in particolare, in riferimento al nuovo modo di intendere concetti quali la democrazia e le libertà individuali, hanno rivendicato il fatto che questi principi facevano parte integrante del patrimonio socialista già da molti decenni. Effettivamente, il partito di Berlinguer ha dato sovente l’impressione di voler a tutti i costi rivendicare la continuità col passato più che mettere in evidenza le novità presenti nella sua nuova duplice strategia del Compromesso storico e dell’Eurocomunismo.

Questo legame forzato col passato è così diventato, in certe occasioni, un vincolo, diciamo, ’asfissiante’. E’ accaduto soprattutto nel caso delle relazioni con il mondo comunista e, in particolare, con il suo centro, l’Unione Sovietica. L’ossessione di non rompere, almeno formalmente, i legami con la Patria della Rivoluzione ha condotto il partito italiano ad assumere comportamenti quanto meno ambigui, che hanno giustificato dubbi sulla sua reale volontà di costruire una società socialista democratica e rispettosa della libertà. Così, in occasione del durissimo attacco portato dai sovietici nei confronti del leader spagnolo Carrillo, la difesa d’ufficio assunta dal partito di Berlinguer nei confronti del segretario del P.C.E., oltre a suonare come una critica velata verso lo stesso Carrillo, le cui dichiarazioni sono state giudicate intempestive, ha messo drammaticamente in luce tutta la debolezza dell’impianto solidaristico eurocomunista. L’immagine del P.C.I. è uscita intaccata da questa vicenda, in quanto ha dato a molti l’impressione di un partito poco coerente nelle sue prese di posizione, avendo affermato, da un lato, che il socialismo senza libertà non era vero socialismo, ma essendosi mostrato incapace, dall’altro, di rompere in modo definitivo con un regime che di socialista aveva ormai solo il nome.

Per quanto riguarda il P.C.E., infine, più che di errori di strategia o di evoluzioni ideologiche troppo timide, il vero problema è stato rappresentato dalla grande difficoltà incontrata dai comunisti spagnoli nell’inserirsi nella nuova realtà politica del dopo-Franco, quando il partito ha riacquistato la piena libertà d’azione. Altri grossi problemi sono stati, senza dubbio, il pesante clima di ostilità ancora molto diffuso in diversi settori sociali del Paese e, soprattutto, il difficile rapporto con i cattolici e con i socialisti, tutti fattori che condussero il partito a un risultato elettorale più che modesto.
Ma ciò che ha reso veramente problematica la situazione del partito spagnolo è stata la grossa frattura creatasi tra il vertice del P.C.E., deciso a compiere una radicale svolta nei rapporti con Mosca, e la base, al contrario ancora fortemente filosovietica. Questo fatto ha provocato una serie infinita di lotte intestine che hanno prodotto dapprima, nel 1981, un disastroso risultato elettorale e, pochi anni dopo, addirittura l’uscita dello stesso Carrillo dal partito.

Dunque non una sola causa, ma una serie di circostanze hanno, nel loro complesso, contribuito a far fallire il più importante tentativo operato in Occidente di riformare il comunismo in senso democratico, senza che si dovesse ammettere la preferibilità del sistema capitalistico riformato.

Fine


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Mauro Bruscagin 
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano 
Facoltà di Scienze Politiche - 
Tesi di laurea in Scienze Politiche

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