I
primi martiri della patria. - Proposta di confederazione fatta dal re
di Napoli. - La vera storia d'Italia. - Parole di Fouché a Napoleone.
- Napoleone invitato a farsi imperatore dei Romani. - L'Italia spartita
come branco di pecore dalla Santa Alleanza. - Cominciano le cospirazioni.
- Ritorno di Vittorio Emanuele dalla Sardegna. - La cospirazione del 1821.
- Carlo Alberto. - Sua educazione. - Strage di studenti all'Università
di Torino. - Speranze dei patrioti in Carlo Alberto. - Giuseppe Avezzana.
- Perché abortì la rivoluzione del 21. - Gli esuli. - Mazzini
a 17 anni.
"Molto
sangue addimanda la libertà
ma il primo sangue sarà più chiaro"
A Napoli appartiene
l'onore di avere sparso il primo sangue per la libertà e l'indipendenza
dell'Italia, e i primi martiri furono Vincenzo Vitaliano, Emamuele De
Deo, e Vincenzo Galiani. E le parole che citiamo di sopra in epigrafe
erano le ultime di Emanuele De Deo ventenne a suo padre ottuagenario,
il quale ponendogli sott'occhi l'angoscia propria, quella della madre,
l'onore del casato, lo pregava di accettare il perdono offerto dalla scaltrissima
regina Carolina a patto di rivelare la congiura e i congiurati. "Padre,
soffrite che io muoia - e soggiungeva
Emanuele - la tirannia nel cui nome venite, non paga del nostro dolore,
spera la nostra infamia, e per la vita vergognosa che a me lascia ne spegnerà
mille onoratissime.
Sosteniamo il presente martirio passeggero; verrà tempo in cui
il mio nome avrà fama durevole nelle istorie, e voi trarrete vanto
che io, nato di voi, sia morto per «la patria».
E morì quell'eroe
insieme coi suoi due compagni immacolati, intrepidi, sicuri dell'avvenire.
Ed erano tipi di quella serie di martiri che volontariamente si dedicarono
all'arte del morire, pur di far vivere l'Italia. E da quel momento in
poi l'indipendenza dallo straniero divenne il voto di tutti gli intelligenti
e onesti della penisola. Fu a tutta prima sentimento vago, senza certezza
di mezzi rispondenti al fine, senza, soprattutto, quel senso della necessaria
unione dei divisi popoli d'Italia, senso che invece possedeva chiarissimo
il re di Napoli scrivendo ai governi di Sardegna e di Venezia nel 1793:
«Comunque essere le fortune degli Alemanni sul Reno, importare
all'Italia far barriera di armi sulle Alpi, e impedire che i francesi,
per disperato conforto, se vinti, o per vendette e conquiste, se vincitori,
vengano a turbare la quiete dei governi italiani".
E perciò si collegassero le Sicilie, la Sardegna e Venezia, concorrerebbe
il sommo pontefice alla santa impresa; i più
piccoli potentati che stanno tra mezzo seguiterebbero, volenti o no, il
moto comune; e si farebbe cumulo di forze capace a difendere l' Italia
e a darle peso ed autorità nelle guerre e nei congressi di Europa.
Essere implicito della nota, proporre e stringere confederazione, nella
quale il re delle Sicilie, ultimo al pericolo, offresi primo ai cimenti;
ricordando ad ogni principe italiano che la "speranza
di campar solo era stata sempre la rovina
d'Italia".
Invece, sceso in
Italia il Napoleone Bonaparte, trovò assetati di libertà
tutti i giovani, ma indifferenti i Lombardi alla libertà del resto
d'Italia; volentieri combatté il popolo a Pavia, a Lugo e sugli
Appennini; poi fondatesi due legioni di volontari, vera origine dell'esercito
italiano, tanto si distinsero che il Berthier scrive: "Vari
coraggiosi della legione lombarda furono al fuoco, benché non ne
avessero il dovere e riportarono gloriose ferite".
Fondata la repubblica
Cispadana - Reggio, Modena, Ferrara e Bologna - poi proclamata in Milano
la federazione Transpadana, pareva proprio che l'Italia corresse sulla
via degli Stati Uniti. Ma qui i proclamatori della libertà per
tutti erano stati i puritani, eredi di tanti secoli di libertà,
mentre sull'italica stirpe pesavano tre secoli di schiavitù soffocatrice
delle tradizioni di un glorioso passato e delle aspirazioni ad un degno
avvenire. La vera storia nondimeno registra che gli Italiani, nonostante
tutti gli sforzi dei paterni principi e illuminati governatori per addormentarli
e sfibrarli, si conservarono sostanzialmente quali furono quando sconfissero
i due imperatori a Legnano e a Cassano.
Diciamo la vera
storia scritta prima e durante l' età napoleonica da Ugo Foscolo,
che il gesuita Cantù osa chiamare "straniero",
e i di cui scritti non vennero alla luce che trent'anni dopo a cura di
Mazzini e degli editori Mayr e Orlandini.
Poi quella storia fu scolpita in altorilievo da Cattaneo nel "Politecnico",
ma giammai, come dice lui, consegnata nei "quaresimali istorici"
di Botta e di Balbo".
Basta leggere l' opuscolo di 48 pagine intitolato "L'antico esercito
Italiano", per avere un'idea dei miracoli operati dai 90 mila
giovani che tinsero col più puro sangue italico la bandiera tricolore,
per sincerarsi come gli Italiani seppero battersi più valorosamente;
soffrire più stoicamente, morire più eroicamente che non
i soldati di qualsiasi altra nazione, compresi i Francesi.
Ma non seppero poi ugualmente rivendicare alla madre patria le glorie
dei suoi figli, non ebbero cura di fare risuonare al mondo i nomi dei
loro capi, secondi a nessuno per audacia e per genio militare; non seppero
nemmeno improvvisare un inno nazionale. E per quanto fervesse e crescesse
l'odio verso qualsiasi straniero e fosse ardente la passione dell'indipendenza,
non seppero che rivolgersi prima a Napoleone, poi a Murat, e in ultimo
a Beauharnais, sempre credenti e sempre delusi.
Che questo sentimento
dell' indipendenza fosse però universale, e da tutti quanti cercarono
di sfruttarlo riconosciuto, risulta dai melliflui proclami di Murat in
Napoli, di Eugenio in Lombardia, dell' inglese Bentinck che innalza a
Genova la bandiera di libertà e di indipendenza italiana, dall'austriaco
Nugent che, venuto a Ferrara per assicurarsi Venezia, finisce un ampolloso
proclama con le parole:
"Abbastanza soffriste un giogo insopportabile;
é del vostro interesse farvi strada coll'armi al risorgimento e
sarete protetti ed assistiti. Fatti indipendenti, in breve sarà
invidiabile la sorte vostra ed ammirata la vostra situazione".
E nel 1813 il
ministro di polizia Fouché scriveva da Roma, non considerata allora
parte d'Italia, a Napoleone: "Qui come
in tutt'Italia la parola indipendenza ha una virtù magica; sotto
la sua bandiera militano certo interessi diversi, ma tutti vogliono un
governo locale; ciascuno si
duole d'esser obbligato di andare a Parigi per richiami della minima
importanza. Un governo così distante non presenta che pesi senza
compenso. Coscrizione, imposte, vessazioni, privazioni, sagrifizi (dicono
i Romani), ecco quel che conosciamo del governo francese; nessun commercio
né interno né esterno; i nostri prodotti mancano, e il poco
che vien da fuori costa un occhio".
A Napoleone Bonaparte
relegato nell' isola d' Elba venne fatta formale proposta di rendere l'Italia
una et indivisibile, di farsi re d'Italia, imperatore dei Romani
e di risiedere in Roma con 20 milioni di lista civile, con Senato e Camera
di rappresentanti triennali da radunarsi successivamente a Roma, a Milano,
a Napoli: stampa e culti liberi, preclusa l'ampliamento di territorio
o l'intromettersi negli affari di altri popoli, inamovibili i giudici,
responsabili i ministri, guardia nazionale, giurati, nobiltà sì
ma senza privilegi, Parlamento e tribunali aperti al pubblico con resoconti
anche pubblici.
Quest'idea era
attestatrice del progresso dell'idea nazionale, concreta e non più
vaga, dell'indipendenza di ogni singolo Stato dell'Italia una et indivisibile,
sotto un uomo che era italiano per genio e per nascita. Ma era troppo
tardi. Ancora per un istante il mondo rimase attonito, affascinato da
quel "sole" che risplendeva col solito bagliore, incerto se
fosse mattino o sera; quando travolto da una improvvisa tempesta fra densissime
nubi, disparve per sempre nell'oceano, ospite di una - fino allora - sconosiuta
piccola isola.
L'Italia proponeva,
ma la Santa Alleanza disponeva; e agli Italiani, presentatisi agli alleati,
per ottenere almeno l'indipendenza, fu domandato: "che
cosa avesse fatto l'Italia". E quanto più tardi
all'infame Castlereagh fu intimato di rendere ragione al Parlamento inglese
"perché si fosse lasciata dall'ambasciatore
dell'Inghilterra spartire nel Congresso di Vienna e rivendere, quasi branchi
di pecore, la nazione italiana?"
il ministro tessendo l' apologia del Congresso, sfrontatamente rispose
:
"Che ha dunque fatto l'Italia da meritarsi
altro che i patti della conquista?"
Giustificazione
cinica, atroce ingiuria, sofisma degno dei tempi e dell'uomo! Lombardi
e napoletani, siculi, piemontesi, liguri, veneti avevano più fatto
e sofferto per la libertà e per il progresso che non tutta l'Europa
messa insieme; avevano agito italianamente, se non in nome d'Italia. Ma
la risoluzione era presa, e lo conferma Federico Confalonieri nella relazione
al conte Verri presidente della reggenza a Milano (relazione che riepilogava
il dialogo fra lui e lord Castlereagh), ove dice. "Non
c'é più luogo di dubitare del nostro destino; gli illustri
negoziatori dell'Europa hanno tracciato la strada che conviene d'ora innanzi
calcare".
Durante quel colloquio Castlereagh aveva con brutale franchezza avvertito
il Confalonieri che "gli Italiani nulla
dovevano aspettarsi dall'Inghilterra". Confalonieri non
aveva mendicato che un re, "... e con questo
re, sia anche austriaco, i nostri voti saranno universalmente compiti,
purchè noi possiamo ottenere un'esistenza indipendente dagli altri
Stati ed una costituzione, o vogliam dire, Rappresentanza Nazionale".
A cui Castlereagh rispose: "... che una
costituzione, quando non è inutile, é sempre dannosa, che
l'Austria é un governo contro cui i sudditi hanno meno da barricarsi
che contro ogni altro, che nella storia di quella casata sino ai nostri
tempi non si vedono tracce di abuso, di potere, di forza; che non manca
mai per eccesso di queste cose, talvolta piuttosto per difetto
- e soggiunse - Vi dirò di più: Quando nelle negoziazioni
di Praga si é trattato, col cessato Imperatore, di fargli staccare
il Regno d'Italia, e in favore di uno della sua famiglia, la prima base
per la quale insistette fu che vi fosse data una costituzione la più
atta ad inceppar l' abuso del potere; ma dal paterno Governo a dell'Austria,
vi ripeto, nulla avete a temere"
Ed ecco, nonostante
i bugiardi e sdolcinati proclami dell'Austria, le inzuccherate promesse
del Borbone, l'Italia ridotta ad una vasta prigione coll'Austria come
direttore delle carceri, il re di Napoli capo custode, tutti gli altri
principi e principotti secondini, con il papa per capellano e con il boja
a disposizione di tutti.
Da tali cause nascevano i corrispondenti effetti. Uccello nato in gabbia
può in gabbia, vivere, vegetare, cantare sottovoce e morire del
tutto ignaro di una miglior vita; ma stendete una rete ad uccelli liberi
ed adulti, e dalla poetica allodola al prosaico passerotto sono messe
in opera forze, istinti, astuzia per fuggire; e non riuscendo si procureranno
la morte contro le stesse sbarre della prigione.
Imprigionatene i figli,
i padri liberi porteranno loro il cibo fintanto che ci possano cibarsi
da sé, poi li avveleneranno per ammaestrarli a morire liberi piuttosto
che vivere schiavi: Così fu coll'Italia.
Fino al '96 le
generazioni, nate schiave, vissero da schiave, ma dopo vent'anni di vita
libera, durante la quale moralmente, materialmente e intellettualmente
gli Italiani avevano progredito di un secolo, moltiplicando i mezzi d'istruzione,
le manifatture, le industrie, perfezionando la legislazione, abituandosi
a prendere parte nell'amministrazione pubblica e soprattutto a spregiare
la vita e versare il sangue su mille campi di battaglia, era possibile
che potessero ritornare in gabbia a cibarsi, saltare e cantare al cenno
di così abborriti padroni?
Se non seppero
uniti rifiutare, con le armi mano contro gli oppressori imposti, seppero
unanimi cospirare contro tutti. Oggi é di moda di biasimare e di
sprezzare il lavoro silenzioso, sotterraneo dei cospiratori frammassoni,
carbonari, membri della Giovine Italia, e tante altre sette segrete,
ma furono essi che temprarono all'acciaio ed affilarono le spade, e fabbricarono
la polvere, che servirono più tardi ai combattimenti in campo aperto.
E volere o non volere, nei primi quattro anni del dominio austriaco sull'Italia
fu stesa una vasta rete di congiure e di affidamenti arcani. All'Austria
fu dato di inserire nella Corona di ferro la tanta ambita gemma di Venezia,
mentre la Toscana, Parma, Modena e Piacenza furono assegnate a rampolli
della casa d'Absburgo, il papa ristabilito nella sedia di S. Pietro, Napoli
e la Sicilia unite sotto il Borbone con l'austriacante sua moglie Carolina.
L'unico popolo
che accogliesse con gioia schietta la restaurazione, erano i piemontesi
e i nizzardi , o almeno gran parte di essi; ma frementi più di
tutti gli altri erano i genovesi, i quali quasi subito vollero rivendicati
i loro diritti al ristabilimento dell'antica repubblica. Vero é
che il bando del maresciallo Schwartzemberg, che annunciava ai buoni e
fedeli sudditi del re di Sardegna "che
si troverebbero di nuovo sotto il dominio di quei principi amati, i quali
avevano fatto la loro a felicità e la loro gloria"
annunciava pure che
"...in seguito ad una convenzione con la
Francia, gli eserciti austriaci occuperebbero il loro paese".
(!!!!???)
Ma tutto fu dimenticato
quando Vittorio Emanuele I entrava nella sua capitale e gli austriaci
si ritirarono... distruggendo la fortezza d'Alessandria che era costata
più di 310 milioni, lasciando l'indifeso Ticino unica barriera
fra l'Austria e il Piemonte.
Fugace purtroppo fu la contentezza dei sudditi di Vittorio Emanuele I,
che si vantava di aver dormito durante 15 anni, dimenticando che i popoli
avevano vegliato e vissuto ed erano cresciuti. Per comprendere l'assurdità
dell'indirizzo dato al governo ristabilito, si legga Brofferio, e ci si
meraviglierà della mansuetudine, della rassegnazione di quel popolo
gagliardo e testardo, allora sottomesso a pretucci e a nobilucci che pigliavano
l'imbeccata dall'Austria e impedivano che mai i suoi lamenti e i suoi
voti giungessero fino all'orecchio del gretto, cocciuto anche se non crudele
re sabaudo.
La gioventù
piemontese era stata per buona sorte educata dall'italianissimo Alfieri
che odiava ogni straniero e disprezzava i francesi, sicché convinta
dell'impossibilità di durare in quella condizione di cose, non
era più disposta a cercare oltr'alpe il compimento delle sue speranze.
E da allora incominciarono i negoziati per una federazione dei popoli
italiani, intesa all'indipendenza.
Non é qui il luogo di narrare nei particolari i nobilissimi tentativi
nel 1820-21, a cui prese parte tutto ciò che c'era di più
eminente in Piemonte, in Lombardia, in Napoli.
Ma alle classi agiate e intelligenti fu ristretto il lavoro, le quali
non pensando a servirsi del popolo come leva, sperarono allettare i re,
o chi re dovesse diventare, ad unirsi ad esse, e indurli ad arrischiare
le coroncine, garantite dall'Austria, con la prospettiva di una corona
più splendida ond' essa cingeva la sua fronte.
Il re di Napoli
mentiva e tradiva, secondo l'uso della sua stirpe. Carlo Alberto di Carignano
aspirava, tremava, esitava, si ritirava, come lo obbligava quella sua
infelice natura, che, come Macbeth, perdeva ogni occasione.
"Letting I dare not wait upon I would"
(Lasciando non oso, vincere il vorrei).
Egli era stato
educato nelle pubbliche scuole fino a 17 anni; ebbe poi per precettore
il conte Grimaldi, per segretario intimo Alberto Nota, caro ai Torinesi
per aver restaurato il teatro comico italiano, e per intimissimo amico
Provana di Collegno, uomo d' ingegno e di sentimenti patriottici. Nominato
gran maestro di artiglieria, introdusse molte riforme e promosse i più
distinti ufficiali. Ovunque fra i liberali si designava questo giovane
principe ereditario come capo della rivoluzione, la quale aveva per meta
di ottenere la costituzione spagnuola.
Intanto, essendosi
alcuni giovani mostrati in teatro col berretto rosso in capo, gli studenti
dell' Università furono presi di mira dalla polizia ed arrestati.
Molti reclamarono il diritto registrato sulla matricola, ossia carta d'
ammissione, di venir sottoposti al solo giudizio dei magistrati degli
studi. Invece, scortati dai carabinieri, furono tradotti a Ivrea ed a
Fenestrelle, mentre i loro compagni, fortificandosi nell' Università,
giurarono di non arrendersi finché non si fosse ottenuta giustizia.
In loro aiuto accorsero gli studenti del Collegio delle province. - Quella
sera, molto sangue di innocenti fanciulli fu sparso dai soldati piemontesi.
Brofferio, studente anch'esso, così narra il fatto:
"Si videro quei cannibali, indegni del
nome di ufficiali piemontesi, alzare implacabilmente le sciabole sopra
i fuggitivi e divertirsi a far macello degli innocenti; si videro e molti
di quegli infelici, trascinati per i capelli giù per le scale che
irrigavano del loro a sangue; di sotto alle panche, alle tavole, alle
ringhiere venivano tratti per le gallerie e fatti bersaglio alle sciabole
ed alle baionette; neppure nella chiesa, neppure sull'altare di Cristo,
dove alcuni di quei miseri si rifugiarono, venne usata misericordia; i
sacri arredi, le sacre ostie furono contaminate dalla mano dei manigoldi
e bevettero il sangue dei martiri.
Spuntarono i raggi del nuovo giorno ad illuminare una scena di orrore,
la città piena di costernazione, l'Università inondata di
sangue, l'ospedale ingombro di feriti e di moribondi. Si riferiva che
nella notte si fossero occultati molti cadaveri, benché non se
ne avesse certa prova; ma ciò che non poteva negarsi era questo
, che gli ammalati avevano tutti chi cinque, chi otto, chi dieci ferite:
un giovane di sedici anni, chiamato Giaccone, ne aveva quattordici; e
tutte ferite di sciabola, quasi nessuna di baionetta; la qual cosa a troppo
chiaramente dimostrava, che i veri carnefici erano appunto quelli a cui
correva maggior obbligo di umanità".
Sdegnato e commosso,
Carlo Alberto si recò all' ospedale, confortò i feriti,
fece ritirare le sentinelle che li tenevano guardati a vista e pubblicamente
biasimò la condotta del governatore e degli ufficiali.
Crebbe per ciò la fiducia in lui ed essendo già stati arrestati
il liberale principe della Cisterna e Perrone, i federati decisero di
agire, tanto più che dal proclama del re, del 10 marzo, si avvidero
che i cortigiani gli nascondevano sempre i veri bisogni e i desideri del
popolo.
I particolari della rivoluzione di Piemonte furono narrati dal Brofferio
e dal Santarosa, del pari il Colletta ha scritto la storia della rivoluzione
di Napoli. Uno degli
attori in quella rivoluzione (che incontreremo spesso in queste pagine,
perché fu uno dei gagliardi capi delle rivoluzioni successive,
amato e stimato da Garibaldi come lo furono pochissimi) lasciò
dei particolari interessantissimi su quei giorni, celebri per le generose
aspirazioni e per le amare delusioni.
Giuseppe Avezzana,
nato in Chieri il 19 febbraio 1797, fu anch' egli dotato dalla natura
di temperamento atto a sostenere le avversità, anzi a provocarle
se utili alla patria. Suo padre fu così devoto alla reale Casa
di Savoia, sotto cui militò col grado di capitano, che durante
la dominazione francese, lui e suo fratello combatterono contro i partigiani
di questa; il fratello rimase morto e per 48 ore esposto sulla pubblica
piazza. Per 14 anni, Lorenzo Avezzana tenne nascosta la sua divisa di
capitano e il giorno del ritorno di Vittorio Emanuele I, ecco che la riveste
e pazzo di contentezza va a dare il benvenuto al suo sovrano.
Che dolore per questo padre, quando suo figlio, a 16 anni, veste la divisa
francese col grande esercito corre da Lione a Strasburgo, dalla quale
città per rottura di una gamba dovette rimpatriare ! Ma più
grande ancora fu lo sdegno del vecchio genitore, quando riseppe che Giuseppe
si era arruolato nelle file degli insorti e si era congiunto al Ferrero
capitano della legione piemontese! Rintracciatolo, non riuscì a
fargli abbandonare la bandiera nazionale, per quella del suo legittimo
re. Gran parte della rovina che seguì, Avezzana l'attribuisce ad
aver lasciato il reazionario generale De la Tour comandante di Novara.
Ecco colle sue parole la fine della lugubre tragedia:
"La
fuga di Carlo Alberto aveva costernato gli animi, ma non abbattuto il
coraggio. Alla vista della nostra colonna, il popolo proruppe in applausi,
seguendoci per la via Po, Piazza Castello, via Nuova e Santa Teresa, fino
innanzi alla cittadella, di cui era comandante il colonnello Staglieno,
del reggimento Genova, uomo di dubbia fede. Costui, al vederci, fuggì
via; così che posi mano ad ordinare la mia gente sotto il nome
di Veliti Italiani, avendone avuto facoltà dal ministro Santarosa.
La cittadella era angusta, e chiesi ed ottenni la caserma in fondo alla
via del Soccorso e Po. Ma le cose in Alessandria volgevano in peggio e
mancò intelligenza e audacia nei capi; bisognava diffondere la
rivoluzione, muovere tutto il popolo, ordinarne le forze, e poi gettarsi
con impeto nella Lombardia, dove erano raccolti uomini e denari. Circa
12.000 veterani stati al servizio del Regno d'Italia sotto Eugenio De
Beauharnais erano pronti ad assecondarci. La generosa città di
Milano aveva destinato un milione di franchi al primo reggimento piemontese,
che ne schiudesse le porte.
"Ma
i nostri capi, illusi da speranze di pronte adesioni, si limitarono a
concentrare tutte le milizie costituzionali sotto Novara. Si volle più
tosto un sollevamento militare sempre pericoloso, che uno popolare: e
così avvenne che i nostri nemici presero animo e gli amici si intiepidirono.
Gli Austriaci, che alla notizia della sollevazione del Piemonte si erano
disposti a lasciare la città e la cittadella di Milano, si rassicurarono
alle notizie che avevano da la Tour, e presi con lui i contatti, una notte
alcune migliaia di essi furono ricevuti dentro la fortezza di Novara.
"Onde
accadde che al far del giorno insieme alla guarnigione operando una sortita
da vari punti, furiosamente assalirono le nostre milizie mal disposte
e colte alla sprovvista. Perciò non si potette opporre gagliarda
resistenza; e la nuova della rotta giunse nello stesso giorno a contristare
Torino. Allora la Giunta di Governo con tutti quelli che avevano partecipato
alla sollevazione, si diressero alla volta di Alessandria, sperando che
col concentrare tutte le nostre forze su quella piazza e su Genova si
potessero risollevare ancora le nostre sorti. Ma la disciplina già
debole, la sconfitta riportata, le seduzioni dei nostri nemici, il tradimento
di Novara per le arti inique di la Tour, gli errori dell'assedio avevano
sgagliardito il valore delle milizie. Si smise dunque il pensiero di un
concentramento sopra Alessandria e la linea del Tanaro , Bormida e Po.
Le nostre forze si dispersero, e i più audaci presero la via di
Genova, che teneva ancora per la costituzione, nonostante che un manifesto
di Carlo Felice, datato da Modena, comandasse il ritorno all'obbedienza.
"Avvenne intanto un fatto che forse avrebbe potuto risollevare le
nostre speranze, se spesso la viltà degli uomini non guastasse
le migliori imprese. Due bravi giovani genovesi, ufficiali nella marina
sarda, si erano presentati a me per ottenere il grado di capitano nel
corpo dei Veliti dal ministro Santarosa. E come l'ebbero ottenuto subito
li spedii in Genova per reclutare nuove forze. Ma saputosi in quella città
dai fuggiaschi il disastro di Novara e il mio prossimo arrivo, essi mi
si fecero incontro non lontano da Savona.
"Mi dissero che la Guardia Nazionale di Genova e parte della guarnigione
erano risolute a mantenere la libertà. Questa notizia mi diede
animo: giudicai potersi fare di Genova base di nuove operazioni: e nella
peggiore ipotesi rimaneva sempre aperto il mare alla nostra salvezza.
Applaudirono tutti quei genovesi che mi seguivano. Ma un vecchio ufficiale
decisamente si oppose, riuscendo a dividere gli animi di maniera che per
poco non si venne alle armi. Reputando temerario e infruttuoso il mio
disegno, mi abbandonarono, e fui costretto con alcuni altri miei compagni
di rassegnarmi al destino e depositare le armi nel portone di S. Pier
d'Arena consegnandole al reggimento della regina.
"Era un triste spettacolo quel gran numero di fuggiaschi raccolti
in Genova. La reazione aveva sollevato il capo e infieriva nelle province
piemontesi. Gli austriaci marciavano rapidi sopra Alessandria. Altro rifugio
non rimaneva che l'esilio. Con che ardore di carità cittadina quella
nobilissima città soccorse i patrioti che fuggivano la tirannide
domestica e forestiera non so esprimere. Ora che scrivo, il cuore mi s'intenerisce
ricordando tanta magnanimità. Basta dire che si raccolsero in brevissimo
tempo lire 400.000 genovesi. Così senza indugio furono noleggiati
più bastimenti per trasferirci a combattere nella Spagna per quella
stessa libertà, che ci fece prendere le armi nel nostro paese.
Tramontava il sole del 17 aprile 1821 quando dicemmo l'ultimo addio agli
amici ed alla patria. Salpammo per Barcellona. Io col cuore rotto dal
dolore mi posi a giacere sul ponte del vascello, e mi sorgevano l'una
appresso l'altra tante immagini che mi funestavano l'animo, tra le quali
l'abbandono della famiglia.
"Ma non furono patimenti inutili né sacrifici sterili codesti
perché se le forche decimavano, le prigioni sottraevano e l'esilio
strappava gli eroici attori, questi, subendo il martirio, educavano e
fortificavano i loro compatrioti per proseguire il cammino verso l'alta
meta e infervoravano le nuove e giovani generazioni che, modificando il
metodo e allungando il campo dell' azione, finalmente vi arrivarono.
"Una domenica dell'aprile 1821
- scrive GIUSEPPE MAZZINI - io passeggiavo,
giovanetto (aveva 16 anni - Ndr.), con mia madre e un vecchio amico della
famiglia Andrea Gambini, in Genova, nella Strada Nuova. L' insurrezione
piemontese era in quei giorni stata soffocata dal tradimento, dalla fiacchezza
dei capi e dall'Austria. Gli insorti s'affollarono, cercando salute al
mare, in Genova, poveri di mezzi, erranti in cerca d'aiuto per recarsi
nella Spagna dove la rivoluzione era tuttavia trionfante.
I più erano confinati in Sampierdarena aspettandovi la possibilità
dell'imbarco; ma molti s'erano introdotti ad uno ad uno nella città,
ed io li spiavo fra i nostri, indovinandoli ai lineamenti, alle fogge
degli abiti, al piglio guerresco e più al dolore muto, cupo, che
avevano sul volto. La popolazione era singolarmente commossa. Taluni fra
i più arditi avevano fatto proposta ai capi, credo Santarosa ed
Ansaldi, di concentrarsi tutti nella città, impossessarsene e ordinarvi
la resistenza; ma la città, dicevano, era militarmente sprovveduta
d'ogni difesa, mancavano ai forti le artiglierie, e i capi avevano ricusato
e risposto: "Serbatevi migliori destini".
"Non rimaneva che soccorrere di denaro quei poveri e santi precursori
dell'avvenire; e i cittadini vi si prestavano liberalmente. Un uomo di
sembianze severe ed energiche, bruno, barbuto e con un guardo scintillante
che non ho mai dimenticato, s'accostò a un tratto fermandoci: aveva
tra le mani un fazzoletto bianco spiegato, e proferì soltanto le
parole: per i proscritti d'Italia. Mia madre e l'amico versavano nel fazzoletto
alcune monete; ed egli s'allontanò per ricominciare con altri.
Seppi più tardi il vero nome. Era un Rini, capitano nella Guardia
Nazionale che si era, sul cominciar di quel moto, istituita. Partì
anch'egli con gli uomini per i quali s'era fatto collettore a quel modo;
e credo morisse combattendo, come tanti altri dei nostri, per la libertà
della Spagna.
"Quel giorno fu il primo in cui s' affacciasse confusamente all'anima
mia, non dirò un pensiero di Patria e di Libertà, ma un
pensiero che si poteva e quindi si doveva lottare per la libertà
della Patria".
GIUSEPPE MAZZINI
aveva allora 16 anni e GIUSEPPE GARIBALDI era fra i 13 e i 14 anni e già
s' impazientiva molto delle costanti prediche dei preti sui doveri verso
i sovrani, sui delitti dei cospiratori, e ad illuminare la sua mente contribuirono
non poco le lettere del fratello maggiore Angelo che dagli Stati Uniti
gli parlava degli eventi contemporanei, con il cuor di patriotta e con
l'intelligenza di uomo il quale viveva in mezzo ad uomini liberi.
I Nizzardi allora
come durante la dominazione francese erano devoti a casa Savoia; ma non
mancava chi malediceva Vittorio Emanuele I, il quale lasciava il trono
fra le tempeste di una rivoluzione che doveva ricondurre lo straniero,
e costare proscrizioni, esili, fughe e condanne capitali.
Parlavano costoro, é vero, a voce bassa, ma giuravano vendetta
di quella atrocità; onde non desta meraviglia se troviamo più
tardi molti Nizzardi fra i più accaniti combattenti per la libertà
e per la patria. Basta nominare i due fratelli Ansaldi, ucciso il primo
quel giorno alla testa della sua compagnia detta "della Morte",
ferito il secondo nel 1848 in Lombardia.
Anche al nostro
giovinetto Giuseppe tredicenne, poco garbavano quegli atti di ferocia.
Ascoltava avidamente i discorsi degli indignati cittadini e assai più
- che non sapesse la pia sua madre o sospettasse quel buon animo di suo
padre - ne era informato e meditava sulle tristi vicende della sua patria.