TRENTESIMO CAPITOLO


CAPITOLO TRENTESIMO

VENEZIA ASSEDIATA
Eroica resistenza di Venezia. - La sortita di Mestre. - Preparativi del governo provvisorio. - Il 19 aprile gli austriaci incominciano il blocco della città. - Proclama di Radetzky al popolo veneziano. - La mancanza di munizioni e di vettovaglie comincia a farsi sentire. - Prodigi di valore. - Il forte di Marghera cade in mano del nemico. - L'Assemblea rinnova il giuramento del 2 aprile di resistere ad ogni costo. - Offerte dell' Austria per bocca dei ministro De Bruck ai commissari veneti.


Non inferiore per eroismo, per costanza, per abnegazione a quella di Roma fu la difesa di Venezia. Dopo la capitolazione di Milano, circondata dalle forze nemiche come dentro un cerchio di ferro, il quale a grado a grado restringendosi accorciava il raggio delle opere di difesa, diventò suprema necessità per gli assediati spezzarlo. A questo scopo si operarono alcune audaci sortite con esito diverso. Non era sfuggita al nemico l'importanza di una forte posizione in Mestre allo scopo di sfiancare più efficacemente i veneziani. Per questo motivo esso vi si é trincerato formidabilmente con barricate e linee avanzate e con soldati, che potevano essere rinforzati dai porti vicini.

La mattina del 27 ottobre 1848 i nostri con 2000 militi, ripartiti in tre colonne, si avanzarono da punti diversi col disegno prestabilito di riunirsi per assalire simultaneamente gli austriaci in Mestre. La prima colonna forte di 450 cacciatori con 5 piroghe, armate ciascuna di grosso cannone, avanzandosi per la laguna attaccherebbe la destra; contemporaneamente la seconda composta di 650 militi, compreso un plotone di cavalleria e due pezzi da campagna, offenderebbe su per l'argine del Canale di Mestre la sinistra; mentre la terza di 900 combattenti e due pezzi avrebbe tentato di sfondare il centro fra Rona e Fusina. Tale il piano.

GIi indugi e qualche contrattempo inevitabili per le difficoltà del terreno, se valsero a renderne meno precisa l'esecuzione, non ne menomarono per nulla il brillante successo. Giacché i nostri, superati i trinceramenti dopo assalti reiterati, gridando viva l'Italia, viva l'Ungheria (grido di guerra di quel giorno) riuscirono a montare sulle barricate, dietro le quali dovettero sostenere nuova e accanitissima lotta contro i croati.

Gli imperiali ebbero tempo di riordinarsi nelle piazza principale della città, che un canale impediva di aggirare, e dove non si giungeva per altra via che quella di un ponte dove due cannoni e un gran numero di cacciatori ne erano a guardia, inoltre dalle case e dalle mura e dal campanile vicino facevano fuoco sui nostri.


L'audace sortita dei Veneziani a Mestre occupata dagli Austriaci

La posizione pareva inespugnabile. Tre volte all'assalto e tre volte gl'italiani furono respinti. Alla quarta il ponte fu preso e la piazza occupata. Mestre cadde in loro potere, il nemico in fuga, abbandonando 6 cannoni, parecchie carri di munizioni, molti bagagli, 800 prigionieri, tra i quali 5 ufficiali.
I 6 cannoni furono portati come trofeo in Piazza San Marco in un tripudio di folla
(vedi immagine in apertura pagina).

Fui gloria grande l'aver vinto con milizie inferiori per numero e nuove alla guerra un nemico agguerrito e trincerato in posizione così ardua. In questa azione Alessandro Poerio ricevette una ferita mortale.
Alessandro Poerio fu il Mameli della difesa di Venezia. Giovane come il Mameli, ebbe al pari di lui l'animo generoso e acceso al culto della libertà, alla quale al pari di lui consacrò la penna e la spada e la vita.
Fu tra i primi a penetrare a Mestre e tra i primi a cader colpito dalla mitraglia ad un ginocchio. Trasportato a Venezia, gli fu amputata la gamba ma morì il 3 novembre e al sacerdote che nel trapasso gli chiedeva se perdonava tutti, rispose che "non odiava nessuno" ma che però "faceva fatica ad amare i nemici d'Italia" (gli Austriaci).

La presa di Mestre apportò, come si sperava, l'allargamento della linea del blocco e indubbiamente avrebbe dovuto dare nuovo coraggio ai difensori.

La mattina dopo però, gli austriaci rafforzatisi, rientrarono a Mestre e non mancarono di infierire sui miseri cittadini per presunta complicità nei fatti del giorno precedente. Il che diede argomento al generale Pepe di una lunga rimostranza al comandante supremo delle genti imperiali, Mitis, al quale, se non avesse posto riparo e fatto cessare quella barbarie, si minacciava la fucilazione dei cinque ufficiali fatti prigionieri.

Molte altre più importanti sortite come a Mestre si sarebbero operate dai veneziani se non le avesse dissuase il console di Francia, il quale affermava che nuove offese all'Impero d' Austria avrebbero contribuito a far loro mancare l'appoggio della sua nazione. Così se a Roma, questa Francia repubblicana bombardava, a Venezia perfidiava. E Roma e Venezia ingenue e sprovvedute entrambe ne soffrirono le conseguenze.

Dopo la battaglia di Novara il maresciallo Haynau, comandante il I e II corpo dell'esercito austriaco, da Padova diede avviso di quella catastrofe sabauda al governo provvisorio di Venezia, avvertendolo che la città da quella parte e dal perdente Re Carlo Alberto non avrebbe più potuto attendere alcun appoggio.

Incitava quindi il governo provvisorio a desistere dall' inutile resistenza e a riconsegnare la città al legittimo sovrano, l'augusto imperatore d' Austria, e aggiungeva che "era ancora possibile con una resa, con una pronta sottomissione e il ritorno al proprio dovere, ottenere delle condizioni vantaggiose, non ottenibili però qualora la città persisteva nella rivoluzione, costringendomi ad estreme misure di rigore, con risultati tristi, che io vorrei risparmiare alla città di Venezia".

Manin convocata l'assemblea aveva nuovamente chiesto ai Veneziani con voce commossa ma decisa: "Volete resistere al nemico? - Vogliamo resistere!- Ad ogni costo? - Ad ogni costo!" 
Finchè venne il giorno fatidico, le prime cannonate che annunciavano la tempesta: il Lunedì Santo, 2 Aprile 1849. In ogni angolo delle calli e dei campi apparve un breve proclama, con due righe soltanto! 
"Venezia resisterà all'Austriaco a tutti i costi".
La firma non era necessaria. Tutti sapevano che quell'ordine di resistere ad oltranza era di Manin.
Tutto il mese di marzo fu impiegato dagli assediati in opere di difesa, mentre gli assedianti erano occupati a restringere sempre di più il blocco e quindi a prepararsi per il definitivo assalto.

Memore Manin dei sacrifici già fatti dai più ricchi e anche da quei di più modesta fortuna, esitava a esigere nuovo denaro, ma tutti spontaneamente offrirono il doppio delle somme. Due famiglie promisero dare tutte le loro sostanze, e molte altre si tassarono per otto milioni. Il governo allora ordinava che quaranta dei più facoltosi dessero tre milioni, da pagarsi in due volte, e furono subito sborsati. Si diceva inoltre di supplire, in mancanza del denaro, agli argenti delle chiese, agli ori delle donne, ai bronzi delle campane, di cui c'era dovizia, i rami dei bastimenti vecchi e infine l'animo disposto a tutto soffrire fuori che l'Austriaco (CABRANO, Della difesa di Venezia.).

Difficile era però dopo il 2 aprile vettovagliare Venezia, e provvederla di munizione da guerra, giacché la squadra austriaca catturava, fra le altre cose, un bastimento carico di nitro proveniente da Trieste.
Partite le navi sarde, la squadra navale veneta non riuscì a tener testa all'austriaca, la quale stanziata nel porto Rose fu fatta avvicinare a Venezia dal viceammiraglio Dahlrup; ma però il vapore veneto Pio IX attaccò l'austriaco Vulcano, che tentò di catturare un brigantino carico di mercanzie, e costrinse la nave imperiale a ritirarsi.

Il blocco cominciò il 19 aprile. Nel frattempo il Tommaseo fece appello alla Francia e all' Inghilterra. Oramai Venezia era rimasta sola di fronte al Radetzky, che non avendo da disarmare altro nemico, si accingeva con tutte le sue forze a debellare questa "bella sdegnosa" regina dell'Adriatico; e come primo passo pose l'assedio al forte di Marghera.
Questo forte con le opere adiacenti era armato di 74 cannoni, e con una guarnigione di 1400 uomini, presto aumentati di altri mille, comandata dal generale Paolucci. Contro esso Radetzky spediva Haynau con 18 battaglioni di fanti, 2000 soldati di artiglieria e del genio: cioè quanto sarebbe bastato per espugnare una fortezza di primo ordine.

Nella casa Papadopoli, nel villaggio Marocco, era il quartiere generale, e qui si trovavano Radetzky in persona, due figli del viceré, l'arciduca Guglielmo, i marescialli Verglas e Wimpfen, innumerevoli generali e colonnelli e ufficiali del genio, scelti fra quei che conoscevano bene Venezia e i suoi forti.

Il primo giorno dell'attacco le artiglierie venete respinsero il nemico, e s'impossessarono della macchina da razzi: comandanti del forte furono nominati il colonnello Ulloa Gerolamo da Napoli e Carlo Mezzacapo, ufficiale delle artiglierie di Napoli, direttore di quelle di difesa. E intanto Venezia tutta si preparava alla lotta, e, se addolorata fu dalle inaspettate notizie dello sbarco dei francesi a Civitavecchia, si rallegrava alla notizia delle vittorie ungheresi, e coll'Ungheria si riprometteva un'alleanza offensiva e difensiva contro il comune nemico.

Dalle sette batterie nemiche 60 bocche di fuoco vomitavano palle, bombe, granate, razzi su Marghera, dove ogni giorno il generale Pepe si recava ad incoraggiare e rasserenare i difensori, che mentre gareggiavano in atti di valore, non vennero mai meno all'affetto fraterno; onde alcuni cacciatori del luogo, sapendo che gli artiglieri Bandiera e Moro erano digiuni, portarono loro da mangiare sotto una pioggia di palle, e i barcaioli trasportavano i feriti, incuranti del pericolo, e per più giorni quei valorosi, per il fatto dell'aver smontate due batterie nemiche e per la notizia che molti carri di feriti austriaci eran stati inviati a Treviso, antivedevano sicura la vittoria.

I difensori dell'ingresso di Venezia, non solo sostennero per tutto il giorno con ammirabile coraggio il fuoco, ma con le loro artiglierie, comandate dal maggiore Mezzacapo, risposero con estrema violenza, distruggendo diverse batterie nemiche e procurando agli Austriaci gravissime perdite anche con il corpo a corpo quando questi si accingevano a sbarcare.


Secondo i bollettini, i morti in quei giorni furono centoventi cannonieri austriaci, un colonnello croato, un maggiore di artiglieria e un ufficiale superiore del genio; e più di tremila soldati furono feriti e messi fuori combattimento.

Ma ormai i veneziani erano in gravissime difficoltà. Il vecchio Radetzky, dall'altissima torre di Mestre assisteva a quella lotta mortale che volgeva al suo termine.
La sera stessa del 5 maggio, cessato il fuoco, si presentava alla lunetta n.13 un parlamentare austriaco latore di una lettera dell' HAYNAU al comandante di Marghera e di un proclama del RADETZKY in data 4 maggio agli abitanti di Venezia:
"Io oggi non vengo da guerriero e generale felice; io voglio parlarvi da padre. Tra voi è già trascorso un anno intero di trambusti, di moti anarchici e rivoluzionari; e quali ne furono le sinistre conseguenze? Il pubblico tesoro esausto, le sostanze dei privati perdute, la vostra florida città ridotta agli ultimi estremi. Ma ciò non basta. Voi ora, con le vittorie della mia valorosa armata riportate sopra le vostre truppe , siete ridotti a vedere le numerose mie schiere al punto da assalirvi da ogni parte da terra e da mare, di attaccare i vostri forti, di tagliare le vostre comunicazioni, d'impedirvi ogni mezzo di lasciare Venezia. Voi cosi sarete abbandonati, presto o tardi, alla mercé del vincitore.
Io sono arrivato dal mio quartier generale di Milano a esortarvi per l'ultima volta, se date ascolto alla voce della ragione, con l'ulivo in una mano, ma con la spada nell'altra, pronta ad infliggervi il flagello della guerra fino allo sterminio, se persistete nella via della ribellione, una via che vi farebbe perdere ogni diritto alla clemenza del vostro legittimo sovrano. Io mi fermo vicino a voi, nel quartier generale del corpo d'armata qui stanziato, tutto domani, ed aspetto ventiquattrore, cioè sino alle ore otto di mattina del giorno 6 di maggio, la vostra risposta a questa mia ultima intimazione.
Le condizioni immutabili, che chiedo da voi in nome del mio sovrano, sono le seguenti:
1° - Resa assoluta, piena ed intera.
2° - Consegna immediata di tutti i forti, dell'arsenale e dell'intera città, che saranno occupati dalle mie truppe, alle quali saranno pure da consegnare tutti i bastimenti e legni da guerra in qualunque epoca fabbricati, tutti i pubblici stabilimenti, materiale da guerra e tutti gli oggetti di proprietà del pubblico erario.
3° - Consegna di tutte le armi appartenenti allo Stato oppure ai privati. Accordo però dall'altra parte le concessioni seguenti:
4° - Viene concesso di partire da Venezia a tutte le persone, senza distinzione, che vogliono lasciare la città per la via di terra e di mare nello spazio di quarantotto ore.
5° - Sarà emanato un perdono generale per tutti i sottufficiali e semplici soldati delle truppe di terra e di mare. Dal lato mio cesseranno le ostilità per tutta la giornata di domani sino all'ora sopraindicata; cioè le ore otto di mattina del 6 di maggio".


Manin rispose, di essersi rivolto ai Gabinetti d'Inghilterra e di Francia; la qualcosa provocò da quello di Vienna una nuova arrogante risposta, ove si legge che "Sua Maestà, nostro Sovrano, essendo deciso di non permettere mai l'intervento di Potenze estere fra Lui e i suoi sudditi ribelli, ogni speranza del Governo rivoluzionario di Venezia in esse era vana ed illusoria, diffusa solamente per ingannare i poveri abitanti". - E si aggiungeva: "Venezia subirà la sorte della guerra".

Nuovi sdegni e più forti preparativi di difesa seguirono questo carteggio, e il comandante del forte Marghera, a cui l'Haynau domandava armistizio di 24 ore, rimandava il foglio, perché aperto, avvertendo che in caso di una seconda infrazione delle buone leggi di guerra, egli avrebbe ordinato al comandante dei posti avanzati di comportarsi come si usa fare con le spie, con qualunque altro si fosse presentato portatore di simili fogli aperti.
E intanto giunsero risposte negative di intervento dall'Inghilterra e i forestieri a Venezia furono invitati dai loro consoli ad abbandonare la città bloccata.
Ciò nondimeno ogni giorno di maggio segna qualche nuova prodezza. Il fuoco, senza posa degli assediati, danneggiava e ritardava i lavori del nemico, da tutte le lunette la risposta ai razzi e alle granate era efficace, e specialmente dalla lunetta N. XIII , ove il prode Rosaroll, sempre in piedi sul parapetto, sprezzante del pericolo, puntava la sua macchina da guerra perfino allo scoperto.

Il presidio condotto dal capitano di marina Baldisserotto, uscendo da Tre Porti, respinse i posti avanzati rientrando con tutti i buoi già in precedenza requisiti dal nemico: poi il presidio di Brondolo, uscito col colonnello Morando, sostenne un forte combattimento, e ritornò con 300 buoi, 12 cavalli, 8 croati prigionieri, con vino, frutta e pollame. Fu un lavoro indiavolato ora per ora, minuto per minuto. I veneti inondavano i lavori degli austriaci; mentre questi prosciugavano, quelli si affaticavano alle trincee.
Ma gli austriaci ebbero ogni cosa in loro favore: soldati provviste, barche, artiglieri, munizione, medicine, aria sana, cibo sanissimo. Ai veneti tutto mancava, fuorché il coraggio e l'eroismo, e fino alle 5 di mattina del giorno 24 maggio 150 bocche di ferro sparsero morte e sterminio.

Marghera era cinta da due semicerchi di fuoco. Tra i difensori c'erano parecchi soldati di Napoleone I, come il comandante in capo Pepe, i quali affermavano di non aver mai visto una simile pioggia di fuoco. Qui cadevano i parapetti, là crollavano le difese di terra, e le bombe scoppianti mutilavano, uccidevano centinaia di valorosi che morivano al grido di "viva Venezia ! viva l'Italia !".

Bella prova di sé dettero in quel giorno gli artiglieri della marina ai pezzi di Rizzardi, Cinque Archi, e alla lunetta Manin, e incomparabili quelli di Bandiera e Moro, tutti volontari, di nobili famiglie: tutti insomma per tre giorni consecutivi stettero impavidi dando o ricevendo la morte, sfidando anche durante la notte le bombe e le granate. Parecchi depositi di munizioni scoppiarono, fra cui, quello della lunetta XIII che uccise o ferì tutti i militi.

Era argomento di viva soddisfazione ai difensori l'avere smontato molti pezzi al nemico e demolito le batterie N. 3, 8, 14, ma purtroppo ogni ora andavano loro mancando le munizioni, e molte barche, avvicinandosi a Marghera, furono affondate dalle bombe. Furono feriti il comandante dell'artiglieria Bandiera e Moro e quello del forte, Ulloa. Uccisi tutti i suoi compagni, un artigliere rimase solo tutto il giorno a caricare, puntare, e, colpito lui pure in una gamba, caricava in ginocchio, e ferito ancora in un braccio, porgeva munizioni coll'altra: e chi portava a braccio i feriti, chi appoggiato sui cadaveri degli amici continuava a sparare i cannoni; spettacolo di pietà e di generosa ira, scrive il Tommaseo, ma non di spavento.

Tale fu la vita dei nostri, che ricorda le alte parole di Senofonte: morirono irreprensibili nell'amicizia e nel valore.
Dire del valore dei combattenti nel riparare i danni causati ai bastioni, ai ponti e ai passaggi sarebbe impossibile: cinque volte in un giorno fu infranto un ponticello fra la via ferrata e il forte e sei volte rifatto sotto una pioggia di bombe, che molti dei lavoranti seppellirono fra le macerie. Eppure quando, vista la mancanza di munizioni, il governo diede ordine di evacuare le fortezze, fu un grido di dolore e di maledizione fra i combattenti, i quali, non persuasi della dura necessità, insistevano sulla possibilità di poterle ancora difendere e di poter prolungare la lotta con le artiglierie superstiti. E quando l'ordine assoluto fu comunicato, alcuni rifiutarono di lasciare i cannoni, ma poi persuasi che, unicamente a salvare Venezia, era necessario concentrare tutte le forze, essendo Marghera più utile a una guerra d'offesa, oramai impossibile, e che qualsiasi indisciplina potrebbe precipitare la catastrofe, essi, abbracciati e baciati i pezzi, partirono, dirottamente piangendo.

La ritirata fu eseguita parte per il ponte della ferrovia, parte attraverso la laguna, mentre dal forte Rizzardi e dal forte Mania si continuava a tirare. Portato in città quanto era trasportabile ed inchiodati i pezzi, tutto il presidio si allontanò in silenzio senza che il nemico, (che continuò a tirare tutta la notte) di nulla sospettasse. Fu soltanto alla piena luce del giorno dopo, che gli austriaci, accortisi che il forte era stato abbandonato, presero possesso di esso e dell'isola vicina di S. Giuliano, ove per lo scoppio di una polveriera causarono 4 ufficiali morti, 40 soldati, e moltissimi gravemente feriti.
Per quanto l'abbandono di Marghera, dopo più di un mese di trincea aperta, e un blocco di terra di più di un anno, fosse da tutti riconosciuto necessario, produsse dolorosa sensazione di sconforto in Venezia. Eppure gli stessi austriaci nei giornali di Vienna e Trieste non ebbero che parole di lode e di ammirazione (*).

(*) Nella Gazzetta di Vienna si leggeva: "..Insomma noi ammiriamo i nostri nemici, che hanno sostenuti questi giorni terribili senza cedere prima! "

E dalla Gazzetta d' Augusta si leggevano qua e là queste parole scritte intorno alla caduta di Marghera: "A mezzanotte del 26 cessò il fuoco del forte, ma le nostre batterie continuarono tuttavia a bombardare fino all'alba. Allora il forte, che si vide abbandonato, fu occupato dalle nostre truppe. La letizia per la presa di Marghera fu però subito diminuita, perché alcuni ufficiali, che andarono a prendere il possesso del forte di san Giuliano, furono balzati in aria da una mina. Quattro ufficiali rimasero morti, un altro ferito. Soldati poi ne perirono moltissimi. Finora contiamo 35 cadaveri e molti feriti. Fu scoperta anche un'altra mina, ma si poté levare la miccia prima che scoppiasse. Alle 11 e 1/2 io pure entrai nel forte di Marghera. Su tutta la strada, a destra e sinistra, si vedeano tracce orribili del bombardamento. Di mano in mano che mi andavo avvicinando, la scena si faceva più orribile. Non é dato farsi un'idea dello stato di distruzione, in cui il bombardamento ha ridotto quel forte. Non si possono fare tre o quattro passi senza cadere in un buco scavato dalle bombe; il suolo é seminato di pezzi di mitraglia. Non vi è più un fabbricato, una casetta, che non sia ridotta aun mucchio di rovine. Tutti i cannoni trovati non potevano più servire. All'onore bisogna render onore. La guarnigione di Marghera si é comportata valorosamente, e qui tutti lo riconoscono. Nessuna truppa avrebbe potuto resistere di più."

Ed ecco la relazione del comandante l'assedio maresciallo Thurn che si legge nell'Osservatore Triestino, così tradotta in italiano:

"Quantunque la caduta di Marghera, e l'occupazione di essa per parte delle nostre truppe, è pervenute già a conoscenza dell'eccelso ministero della guerra, pure io mi credo in dovere di dare ulteriori particolari su questa importante impresa, che ha una grande influenza sulla sorte di Venezia, in continuazione del mio rapporto in data 25 maggio. E tanto più volentieri lo faccio, poiché mi trovo nella gradita situazione di rivolgere l'attenzione di questo eccelso ministero della guerra alle distinte prestazioni delle nostre brave truppe, le quali incominciarono tale impresa sotto le più difficili circostanze, e l'adempirono felicemente in brevissimo tempo, con rara perseveranza e bravura. Com'ebbi l'onore di annunciarlo nell'anteriore umilissimo rapporto, il bombardamento, incominciato il 24, fu proseguito con vigore nella notte successiva. Quantunque gli effetti del nostro fuoco fossero notevolissimi, essendosi smontato più di un cannone nemico e ridotte in parte al silenzio anche parecchie opere, pure i risultati da parte nostra al 25 furono ancor più rilevanti. A ciò contribuì specialmente la circostanza che, ad onta del più terribile fuoco nemico, durante la notte del 24 al 25, la nostra valorosa gente non temette sacrificio né fatica alcuna per ristabilire le demolite batterie N. 3, 8 e 14, e per cambiare i cannoni smontati con nuovi.

"In questo giorno il nostro fuoco esercitò tale un'influenza devastatrice su tutte le batterie del nemico, che la maggior parte di esse non fu più in stato di proseguire il suo fuoco. La nostra brava ed abile artiglieria andava a gara, e dei 15.000 proiettili, che furono scagliati e tirati in questo giorno, pochi soltanto fallirono la loro funzione. Ne venne di conseguenza che il più degli edifici nel forte e perfino 6 caserme libere da bombe, furono quasi totalmente distrutti, e molte opere demolite.
Specialmente il forte Rizzardi, e la batteria sporgente sull'argine della strada ferrata, nonché il cavaliere nella caserma destra di difesa, vennero ridotti a un mucchio di rovine, e il nemico non poté più servirsene in alcun modo.
Durante questo giorno, ci riuscì di far saltare in aria due magazzini di polvere, fra i quali uno molto grande. Siccome, mediante la demolizione del forte Rizzardi, veniva favorito al nostro avanzamento dalla prima parallela, così io ordinai per la notte del 25 al 26 la continuazione dei lavori di trincea sull'ala destra; ma risolvetti, in mezzo a così favorevoli circostanze, di aprire subito le trincee dalla prima parallela fino alla sommità della terra. Durante questo lavoro, io feci progredire il fuoco per tutta la notte da tutti i mortai, onde impedire al nemico di molestare i miei lavori, nonché di rimettere le sue batterie.
Sul far del giorno io aprii nuovamente il fuoco da tutte le batterie, ma lo feci scagliare specialmente su quei punti, da cui il nemico cercava di proseguire il suo fuoco. Del resto egli canbiò tattica in quel giorno; approfittò principalmente di quelle linee ed opere, che per la loro posizione eran poco esposte al nostro fuoco, servendosi però sugli altri punti dell' artiglieria di campagna, con cui esso dopo pochi tiri cambiò luogo; e mediante queste batterie ambulanti si sottrasse, per quanto fu possibile, al fuoco devastatore de' nostri cannoni.

"Verso la sera del 26 si fece poco a poco più debole il fuoco nemico, e siccome io credevo, il nemico sufficientemente scosso dal costante bombardamento, diedi le disposizioni per un assalto generale.
Così potevo adempiere il desiderio ardente, da sì lungo tempo nutrito da' miei bravi soldati. Però una pattuglia, avanzatasi di soppiatto la notte del 26 al 27 fino alla porta, vide con stupore che il nemico aveva in quella notte abbandonato Marghera. A tale notizia tutte le guardie delle trincee, e perfino i lavoranti, si precipitarono nel forte, e ben presto sventolò sulla sommità di esso la bandiera imperiale con l'acquila bicipite.

"Alle ulteriori opere di fortificazione del nemico apparteneva una forte batteria, armata di 6 cannoni, ch'esso aveva eretta sulla media piattaforma del ponte della strada ferrata, dopo averne fatti saltare i primi archi. Dopo l'occupazione del forte di Marghera, la nostra truppa si avanzò verso il ponte della strada ferrata. Una parte di essa si avanzò fino agli archi fatti saltare in aria; l'altra si gettò nelle lagune e nuotò, sotto il fuoco de' cannoni nemici, fino al forte S. Giuliano onde impossessarsi di esso. Ma disgraziatamente una granata nemica colpì quel magazzino delle polveri ed oltre a 20 di questi valorosi guerrieri, fra cui due distinti ufficiali, rimasero vittime del loro coraggio; essi saltarono in aria insieme a quello.

"Però il possesso, a caro prezzo acquistato, di questo forte ci rimase assicurato, e forma un vantaggioso punto d'appoggio per il nostro ulteriore avanzamento.
Ora dunque che il forte di Marghera é conquistato, e sono giunti a termine i difficili lavori d'assedio, mi trovo ancora in dovere di esprimere la mia lode per le prestazioni del corpo assediante in generale. Tutti i corpi di truppa gareggiarono di rara perseveranza, di coraggio e risolutezza, nell'adempimento dei doveri di servizio. Né i più faticosi lavori, in mezzo alla stagione spesso inclemente, né i molteplici pericoli, a cui essi erano esposti costantemente, valsero a scoraggiarli. Specialmente i corpi tecnici, e fra questi precipuamente l' artiglieria, diedero molteplici prove della loro abilità, del loro valore. Per altro in ciò hanno il maggior merito i signori generali e ufficiali; al loro zelo, alla loro bravura si deve il conseguimento di sosì favorevoli risultati.
Mentre mi riservo d'indicare in un posteriore ragguaglio i nomi di coloro, che particolarmente si distinsero durante tutto l'assedio, mi permetto di nominare soltanto quelli, che io considero prencipalmente degni di essere raccomandati alla grazia sovrana; e sono: il colonnello di Schaurot e il tenente-colonnello di Bauernfeld del corpo degli ingegneri e il maggiore Freuka dell'artiglieria. E finalmente il tenente-colonnello Schiller dello stato maggiore generale.

Settantamila proiettili gli austriaci scagliarono dentro Marghera, e si dice che una buona parte degli assedianti ne fosse malconcia. Meritati elogi ebbe Ulloa e grandemente si segnalarono Sirtori, Cosenz, Seismit-Doda, Rosaroll, Andreasi, comandante il forte Manin, e Barabau, a cui fu amputato un braccio, il Rizzardi e il maggiore Ponti e i capitani Novello ed Acton e il sottotenente Acerbi, giovane mantovano presente a tutte le battaglie.
Entrato in Marghera, il nemico calcolava potere con poca fatica proseguire diritto fino a Venezia, ma fatti pochi passi sul grande ponte della laguna, dovette voltare le spalle sotto il fuoco delle batterie dello stesso ponte e del forte di San Secondo. Chi non conosce questo gigantesco ponte che unisce la terraferma a Venezia difficilmente può capire il seguito della lotta che vi si faceva potente fra il nemico che intendeva ad ogni costo a forzare il passo e i difensori decisi con ogni sforzo a contenderglielo.

A quattro metri sopra il livello del mare, lungo 3.605 metri, largo 9 e composto di due testate con uno spiazzo maggiore nel mezzo e quattro minori, il gran ponte é sostenuto da trentasei piloni a pile abbinate, e da centottanta pile semplici formanti in tutto duecentoventidue arcate. Diviso in sei stadi, ciascuno con arco di 505 metri, il primo e il secondo terminano in una piazzetta; dopo il terzo la piazza maggiore, dopo il quarto e quinto altra piazzetta; il sesto poi termina alla testata. Ogni stadio é composto di 37 archi, divisi in sette compartimenti; il parapetto del ponte é di massiccio d'Istria, e su questo come sui piazzali si ergono colonnette disposte fra loro ad uguale distanza.

Ora nel piazzale di mezzo sulla massima larghezza di esso (36 metri) fu costruita una batteria profonda 100 metri con ponte di 36, armata di sette cannoni, di cui cinque da 24 e due da 36. Dietro questa piazza (a circa cinquecento metri), sorge l'isoletta San Secondo, e all'opposta parte l'altra detta San Giuliano, e nella prima un'altra batteria fu costruita.
La notte della ritirata di Marghera rovinarono parecchi archi del ponte nella testata dalla parte di terraferma fino alla prima piazzetta, e qualche altro fra questa e la seconda, e tre soli fra la seconda e il piazzale. Questa era opera del nemico, ma i difensori trovarono necessario demolirne con le proprie mani una parte per fare spazio alle loro batterie. Laonde quell'opera colossale, che era costata sei milioni di lire e quattro anni e mezzo di lavoro e il sudore di 800 operai, opera che il veneziano additava al forestiere con legittimo orgoglio, é ora secrificata alla difesa della patria, e demolita allegramente. Quando il ponte sarà tutto distrutto voi tornerete, dicevano le donne chioggiotte nel congedarsi dei loro uomini.

Sulla grande piazza centrale (oggi piazzale Roma) fu posta una batteria, detta di "S. Antonio", sette pezzi di grosso calibro e due mortai. Un'altra batteria di tredici pezzi e cinque mortai fu messa nell'isoletta di "S. Secondo".
Una notte, ottanta volontari austriaci comandati dal capitano Brull riuscirono a penetrare nella piazza dove era posta la famosa batteria "S. Antonio" e a metter in fuga i soldati addetti ai pezzi. Fu un inutile atto d'audacia pagato a caro prezzo, perché subito i cannoni dell'isola di S. Secondo cominciarono a fulminare quei temerari e poco dopo Enrico Cosena, tornato con i suoi al contrattacco, ne fece una strage; solo un austriaco si salvò e riuscì a malapena a portare la notizia della fallita impresa al proprio campo.

Il nemico intanto, posti i mortai sui primi due archi rotti, e l'arco sotto servendogli da parapetto, non indugiava dal lanciar bombe contro le opere dei difensori, e anche dentro la città.
Non potendo espugnare la città attraverso la via del ponte, gli Austriaci escogitarono un mezzo molto singolare ma estremamente cinico, (che purtroppo farà poi scuola quando si usarono gli aerei) consistente nel bombardamento della città dall'alto con palloni aerostatici carichi di granate e di bombe; ma il risultato fu solo quello di distruggere case e chiese vuote, con nessuna vittima perché c'era tutto il tempo per mettersi in salvo; allora si cominciò a colpire Venezia con grossi pezzi da ventiquattro.

Circa 1000 proiettili, iniziarono a cadere quotidianamente sulle case, sulle calli, nei campi e nei campanili, incendiando Venezia ovunque, facendo questa volta anche molte vittime insieme allo scempio di secolari palazzi, chiese, tesori d'arte. 

Il bombardamento durò quasi ininterrottamente 24 giorni e ben 20.000 proiettili caddero sulla città che gli austriaci volevano "liberare", mentre volevano solo terrorizzarla, distruggendo quello che i veneziani avevano di più caro della loro stessa vita: La Venezia della Serenissima! La loro storia, riportata sui quadri dei più grandi pittori, le chiese, i palazzi, gli affreschi, le monete, i preziosi archivi conservati per mille anni.

Così andarono avanti le cose fin quando avendo gl'imperiali eliminato molte traverse lungo il ponte, costruirono due batterie, l'una a dritta, l'altra a sinistra della testata con cinque pezzi da 24 questa, e tre da 32 quella. Eressero pure una batteria di tre mortai da sessanta in mezzo alle colonne e tre batterie nelle isoletta di S. Giuliano, un'altra sulla ferrovia in luogo detto Bottenigo e un'altra di quattro pezzi in Campaltone, per difendere i canali Campalto e Zenioli. Ma di tutti questi preparativi i veneti non si sgomentarono, e non poca gioia recò loro in quei giorni la seguente lettera di Luigi Kossuth allora governatore in Ungheria:

"Debreczin,
Eccellenza,
"Gli avvenimenti ben conosciuti dell'anno scorso, il tradimento della dinastia austriaca verso l'Ungheria, infine e principalmente l'invasione dei Russi chiamati dalla casa d'Austria contro i propri sudditi, hanno deciso l'assemblea nazionale di Ungheria, riunitasi a Debreczin, di proclamare la totale indipendenza del paese.
Nello stesso tempo il sottoscritto ha l'onore di essere nominato ed installato dalla volontà del popolo, espressa dai suoi rappresentanti legittimi, Governatore dello Stato ungherese ed in questa qualità capo supremo del potere esecutivo.
Il sottosegnato si fa un dovere ed un piacere di comunicare questi avvenimenti a V. E. sperando che la repubblica di Venezia coltiverà le relazioni d'amicizia, che uno scopo comune e comuni interessi reclamano fra i Governi di due popoli liberi ed indipendenti, e combattenti tutti e due contro la stessa tirannia.
Il sottoscritto coglie questa occasione per pregare il signor Presidente d'accettare l'assicurazione della più alta stima e distinta considerazione
LUIGI KOSSUTH ".


E più tardi venne un'altra lettera scritta in Ancona da un agente diplomatico di Kossuth, assicurando i veneti, che, se essi potessero tenere il forte per altri due mesi, la vittoria era loro assicurata, e Ludovico Pasini, vicepresidente dell'assemblea veneziana, fu mandato in Ancona, ove da Giovanni Braticht, l'incaricato di Kossuth, ricevette formale promessa, che il governo di Debreczin manderebbe a Venezia una buona somma di denaro, due fregate a vapore e un corpo di esercito per via di terra. E tutte queste promesse sarebbero state senza dubbio, adempiute senza il tradimento di Gòrgey.
E a incoraggiare ancor più il governo a non disperare della situazione contribuiva una lettera del ministro austriaco del commercio barone De Bruck, nella quale si dichiarava autorizzato di entrare in trattative con Venezia, e che perciò si sarebbe trattenuto al quartiere generale di Mestre in attesa dei rappresentanti dell'Assemblea.

Chiaro appariva che l'Austria voleva terminare la guerra in Italia per poter avere le mani libere contro l'Ungheria. Convocata l'assemblea, benché il presidente fosse autorizzato ad entrare in trattative, salva la ratifica di essa, fu rinnovata la risoluzione già votata il 2 aprile, facendo assegnamento sul valore delle milizie e sulla resistenza e perseveranza del popolo.
Questo decreto, presentato dal rappresentante Varè, ebbe nell'Assemblea 98 voti favorevoli e 8 contrari. Pur sapendo Venezia di essere da ogni parte bloccata, e sapeva che i viveri cominciavano a mancare, che le finanze erano quasi esauste, e l'esercito, tra feriti, morti o presi da gravissime malattie, diminuito di un terzo.
Ai due plenipotenziari veneti Calucci e Giorgio Foscolo il ministro De Bruck fece conoscere che le basi, sulle quali l'Austria acconsentiva a trattare, erano queste: che Venezia avrebbe fatto parte del regno lombardo-veneto con Verona per capitale e con una costituzione. Oppure si farebbero due governi, uno veneto, l'altro lombardo- - Se invece Venezia avesse preferito staccarsi dalle sue province, sarebbe stata costituita come Trieste, in città imperiale; vale a dire retta dal suo municipio, che in un momento più opportuno si convertirebbe in Dieta.
In quanto all'indipendenza di Venezia, inutile discutere, essendo volontà ferma dell'imperatore e del suo governo di conservare l'assoluta sovranità sulla medesima. Ma volendo l'assemblea veneta proposte per iscritto, il De Bruck, girando il discorso, accennava solo a speranze fondate sul beneplacito della magnanima Austria; e intanto si negoziava un trattato difensivo ed offensivo fra l'Ungheria e la Venezia, che sarebbe stato di grande utilità per entrambe, se non che il soccorso della Russia all'Austria assicurava a questa facile vittoria in Ungheria.

Il vettovagliamento di Venezia cominciò a trovarsi in gravi ristrettezze, né bastavano le audaci sortite a procurare sufficiente cibo. Ai mali della guerra si aggiunsero quindi quelli della fame e nel caldo e afoso mese (si era intanto arrivati a giugno) scoppiò anche il colera, e come se ciò non bastasse scarseggiavano le munizioni, si facevano più frequenti le diserzioni, occulti nemici cercavano di fiaccare la resistenza e di ottenere che il popolo -che era quello che pagava più di tutti- chiedesse la resa. Ma il popolo, sebbene estenuato dalla fame e dalle malattie, non voleva sentir parlare di resa e minacciava di morte chiunque osasse proporla; il popolo voleva la leva in massa mentre i militari più audaci proponevano che si facesse un'estrema sortita di tutte le forze per raccogliere le provviste di guerra e di bocca per un anno: proposte irrealizzabili, che stanno a provare come oramai a Venezia si fosse giunti a tal punto da appigliarsi alle decisioni più disperate proposte da questo o quel partito.

L'assemblea intanto per non perdere il tempo in inutili dispute, allo scopo di provvedere meglio che fosse possibile al decreto di resistenza ad ogni costo del 2 aprile e del 31 maggio, deliberava:
In nome di Dio e del popolo,
1° - Una commissione investita di pieni poteri é istituita per quello che concerne gli affari puramente militari.
2° - Questa commissione si compone dei cittadini Gerolamo Ulloa, del generale Giuseppe Sirtori, luogotenente colonnello Francesco Baldisserotto luogotenente di vascello.

La mattina dopo i membri della commissione eleggevano il presidente della stessa col maggiore Seismit-Doda segretario.

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