QUARANTOTTESIMO CAPITOLO

CAPITOLO QUARANTOTTESIMO
LE POLEMICHE SULLA VITTORIA
La colonna di Porrone ghermita da Garibaldi il 2 ottobre. - Episodio del quarto battaglione di bersaglieri piemontesi. - Lettera di Mazzini al Dittatore. - Guerra spietata contro Bertani che parte da Napoli lasciando Crispi incaricato della segreteria. - Lettera a Brusco. - Pallavicino perseguita Crispi. - Vince l' idea dell' Assemblea. - Pallavicino e Conforti insistono per il plebiscito. - Il consiglio a Caserta. - Proclama di Garibaldi sui generis. - Finalmente è decretato il plebiscito puro e semplice. - La reazione. - L'episodio di Isernia. - Cialdini vincitore.

La colonna di Perrone, che abbiamo visto impossessarsi di Monte Caro, morto il Bronzetti, passò il resto del giorno a far fucilate con le genti di Sacchi sulle alture; dopo che fu respinta dal parco di S. Leucio dai soldati di Bossi, deciso a volere entrare in Caserta, passò la notte nelle vicinanze di Caserta vecchia.
Il Generale, appena terminato il combattimento, ordinò a Spangaro di tenere pronto un battaglione della sua brigata; il che lo potè fare soltanto riunendo qua e là dei soldati, poiché più d'ogni altra
la sua brigata aveva sofferto. Mandò Missori e Alberto Mario con le guide per scoprire il nemico, unì alla brigata Spangaro i carabinieri genovesi e li condusse a Caserta, e intanto Sirtori spedì Bixio a prendere la colonna a sinistra, onde impedire che fossero tagliate le comunicazioni fra san Michele e Caserta; spedì inoltre i Calabresi comandati da Stocco a S. Leucio, insieme a due reggimenti della brigata Assanti.
Il Perrone, evidentemente ignaro di ciò che succedeva all'intorno, si era spinto avanti vicinissimo a Caserta; ed eccoci alla parte presa dai piemontesi.

Di buon'ora era arrivato alla stazione di Caserta un battaglione di 400 uomini; (*)
(*) La nostra narrazione di questo episodio, che togliamo ai Mille di Alberto Mario testimonio oculare, (pag. 68), è testimoniata da GIUSEPPE GUERZONI che sullo stesso argomento scrive:
"Il Sirtori, costretto ad accorrere alla difesa con quanta gente si trovava fra le mani, diede modo a quei bersaglieri dell'esercito settentrionale, chiamati alla vigilia, di barattare con i Borboni alcuni felici colpi di carabina e di suggellare anche sui campi del Mezzogiorno la fratellanza mai smentita tra i soldati di Vittorio Emanuele e le camicie rosse della rivoluzione.
L'abbiamo detto altrove (
vita di Nino Bixio), lo ridiciamo qui, questa e questa sola fu la parte presa da quei bersaglieri alla battaglia del Volturno.

Tutto quanto fu scritto fin qui nell'intento di accrescere ai regolari e far scemare ai Volontari una gloria, a cui basta d'essere italiana, è assolutamente falso; falso che essi abbiano partecipato in un modo qualsiasi alla giornata del 1° ottobre; falso che abbiano contribuito alla vittoria del 2, la quale era già ottenuta prima di combattere, e che fu una scorreria di truppe disperse, non un combattimento, e che in ogni caso sarebbe stata decisa dai movimenti aggiranti di Garibaldi e del Bixio, e non dalle poche fucilate di quei pochi Bersaglieri contro l'avanguardia, deviata da una colonna che era venuta a cascare nel centro delle nostre linee. " (Guerzoni, Garibaldi, Vol. II, pag. 194)

Sirtori i suoi 400 uomini li fece schierare sul piazzale del palazzo, e Garibaldi, trovandolo lì chiese al maggiore Luigi Soldo: "Vuole ella venire con me?" e arrivarono a Caserta dove si trovavano i Calabresi e gli uomini di Assanti. Attaccato di fronte, il Perrone si ritirò su Caserta vecchia combattendo, e giunto ad una collina fece un gran fuoco sui garibaldini, ma non riuscì a ferirne nemmeno uno.
I suoi soldati furono circondati nella borgata e fatti prigionieri; degli altri 2000 disposero Sacchi e Bixio. I soldati condotti prigionieri a Napoli in numero di 2500 rimasero storditi nel trovare la città allegra ed ubbidiente agli ordini del Dittatore; avevano dato loro ad intendere che gli austriaci custodivano la città per il loro Re!
Garibaldi il giorno 2 emanò il seguente bollettino:

"Caserta, 2 ottobre 1860.
Combattere e vincere é il motto dei valorosi, che vogliono ad ogni costo la libertà dell'Italia e voi l'avete provato in questi due giorni di combattimenti. Ieri su tutta la linea la vittoria vi coronava. Oggi a Caserta e sulle sue alture si compiva uno di quei fatti d'arme, che la storia registrerà tra i più fortunati.
I prodi e disciplinati soldati del settentrione, comandati dal valoroso maggiore Luigi Soldo, hanno mostrato oggi di cosa é capace il valore italiano riunito alla disciplina."

Questo fu l'ultimo giorno di contentezza per il Generale; perché da quel momento più accanita si fece l'ostilità di Cavour contro di lui e contro tutti quanti parteciparono al suo programma puro e semplice di non deporre le armi fin quando Roma e Venezia non fossero libere. Eppure Garibaldi non pensò di abbandonare Napoli prima che fossero espugnate Capua e Gaeta.
Il Generale aveva detto a Mario, cui mostrò una lettera di Mazzini:
"Leggetela. Mazzini mi sprona alla spedizione di Roma. Sapete bene se io non ci abbia di lunga tempo pensato. Il primo ottobre abbiamo sconfitto il nemico a tal punto che esso non sarà più in grado di affrontarci. Ma non potrò andare a Roma lasciandomi indietro 60 mila uomini trincerati fra due fortezze, i quali intanto si ripiglierebbero Napoli."

Chi più d'ogni altro fu preso di mira era il Bertani, che alteramente fin dal principio aveva respinto tutte le offerte e profferte di Cavour per assecondare le sue mire, contrariando quelle di Garibaldi.
Già il 10 di luglio, a bordo della "Maria Adelaide" nel porto di Palermo, il Persano aveva scritto a Garibaldi:
"Non come ammiraglio, ma come Persano, mi sento in dovere di avvertirvi che il Governo piemontese é dispiacente che voi diate pieni poteri al vostro Bertani lasciando Amari senza istruzioni di sorta. Il Governo piemontese é deciso a non permettere che
per questa volta alcuna cosa parte di là, finché Bertani conserverà ingerenza nelle spedizioni.
Il conte Cavour non pensa di compromettersi, ed ha dato abbastanza prova del suo patriottismo, per non dovere noi aiutarlo con i nostri sforzi. Raccogliamoci tutti intorno a lui."

Ma Garibaldi sorrideva a tali minacce, sapendo di avere con sé tutta l'Italia, e Bertani organizzava, come abbiamo visto, cinque spedizioni, mettendo a disposizione dei Dittatore bastimenti, uomini e fucili.
Quando poi Cavour lo vide al fianco del Dittatore, e seppe che ci si opponeva apertamente alle immediate annessioni, la sua furia non ebbe limiti.
Bertani non fece, come tanti, due parte in una commedia, assecondando apparentemente Garibaldi da una parte e tenendo in mano Cavour dall'altra.

Nel frattempo Cavour vedendo che era utile ostacolare più oltre Garibaldi cambiò tattica, e diede ad intendere di essere in pieno accordo con lui. Avvertito di ciò da Brusco, Garibaldi rispose con la seguente lettera, che mise sulle furie tutto il partito moderato.
"Caro avvocato Brusco,
Voi mi assicurate, che Cavour dia ad intendere d'essere d'accordo con me ed amico mio. Io posso assicurarvi che disposto come sono stato sempre a sacrificare sull'altare della patria qualunque risentimento personale, non potrò riconciliarmi mai con uomini, che hanno umiliato la dignità nazionale e venduta una provincia italiana.
G. GARIBALDI.

Consigliati da Bertani e soprattutto da Cattaneo, i decreti emanati dalla segreteria generale, furono degni del governo liberatore.
Ma la questione delle annessioni tornava sempre a galla, e non solamente per la Sicilia, ma anche per Napoli.
Stranissima davvero é questa insistenza, se pensiamo alle lungaggini corse nell'Italia Centrale e alla ritrosia del Re prima ad accogliere e poi ad accettare il voto del popolo.
Allora invece era una vera frenesia per le pronte annessioni, senza convocare assemblee, senza consultare la volontà delle popolazioni. La vera volontà di Garibaldi si deduce dal seguente decreto, che porta la sua firma:

"Napoli, 11 ottobre 1860.
ITALIA E VITTORIO EMANUELE.
"Il Dittatore dell'Italia Meridionale"
In compimento del decreto dell' 8 corrente ottobre, che convoca il popolo per votare il plebiscito all' intento di riconoscere la regolarità di tutti gli atti relativi, e di determinare quindi la successiva incorporazione dell'Italia Meridionale nell'Italia una e indivisibile, decreta:
Art. 1. E' convocata per il primo novembre prossimo nella città di Napoli un'Assemblea di Deputati per le province continentali dell' Italia Meridionale. - Art. 2. I Deputati dell' Assemblea saranno nominati per suffragio universale. - Art. 3. Il Prodittatore di Napoli fisserà il numero dei Deputati, la circoscrizione elettorale e tutto ciò che sarà necessarlo per la riunione dell'Assemblea.
Art. 4. Il Prodittatore e i Ministri in Napoli sono incaricati dell'esecuzione della presente legge. "

Garibaldi mandò, questo decreto a Pallavicino aggiungendo:
"Questo è, mi sembra, quanto abbiamo combinato insieme, ed é di piena mia soddisfazione. Se siete d' accordo, mandatemi una copia del presente Decreto firmata. - La firmerò anch'io.
G. GARIBALDI.

Per una coincidenza curiosa quello stesso giorno 11 ottobre riuscì a Cavour di avere dal Parlamento Sabaudo la sanzione del suo operato, e fu votato il seguente articolo di legge:
"Il governo del Re é autorizzato ad accettare e stabilire per reali decreti l'annessione allo Stato di quelle province dell'Italia centrale e meridionale, nelle quali si manifesti liberamente per suffragio diretto universale la volontà delle popolazioni di far parte integrante della nostra Monarchia costituzionale."

Armato di questa sanzione, il Cavour istruiva il Pallavicino, guadagnato al suo partito, di opporsi alla proposta di un'assemblea, ed egli essendo riuscito ad allontanare Bertani sentiva di poter vincere (*).

(*) Per costringere il Generale a separarsi da Bertani, le più atroci calunnie furono sparse dai giornali partigiani di Cavour, e specialmente dall'Unione.
Bertani fu accusato di aver messo da parte per conto proprio parecchi milioni, di avversare con Crispi e Cattaneo la monarchia; ma queste calunnie nulla allora poterono sull'animo di Garibaldi, che sapeva quanto a lui dovesse. Sapeva di più che quegli era tutt'altro che il demagogo che veniva dipinto; sapeva che dal momento che nel 1859 aveva lealmente accettato il programma, non si era permesso il minimo dubbio intorno alla possibilità, all'opportunità di cambiarlo; ed il Generale non poteva anzi che lodarsi dei consigli onde egli e Cattaneo gli erano prodighi. Tant'è vero che quando il 26 settembre Bertani, stanco della lotta, offrì formalmente la sua dimissione, Garibaldi volle che egli rimanesse, e così per quel giorno Bertani non insistette. Anche il giorno dopo, il 27, Bertani andò a S. Angelo per offrire di nuovo le sue dimissione, credendo oramai di essere più utile a Torino.
Garibaldi non accettava.
Più tardi, Cosenz, Sirtori e Turr, misero il dilemma : "O Bertani, o noi."
Quando Garibaldi pregava Sirtori di rimanere, Sirtori disse: "A patto che voi vi intendiate con Cavour." - "Oh questo poi mai", disse il generale irato.
Türr, più abile, ripigliò: "Ma no, non è una riconciliazione che noi domandiamo, ma solamente che cessi il governo di Bertani "
Bertani, altero quanto generoso, senza altra ambizione all'infuori di quella di servire la sua patria, ripartì per Torino, ignaro che Garibaldi avesse già aperto l'orecchio alle calunnie divulgate contro di lui .

Fin dal 5 ottobre il Pallavicino aveva accettato la Prodittatura di Napoli con la seguente lettera:
"Napoli, 5 ottobre 1860.
Amico carissimo,
Ieri ho ricevuto il Decreto col quale vi piacque nominarmi Prodittatore di queste province. La gravità dei tempi mi persuase ad accettare un incarico, che probabilmente avrei rifiutato in altre circostanze. Vi ringrazio della fiducia che avete in me riposta, e tutte le mie cure saranno rivolte a meritarla. Né Cavouriano né Mazziniano! Come voi, mio grande amico, io voglio l'Italia una e indivisibile con lo scettro costituzionale di Casa Savoia.
Incrollabile nel mio proposito, io vi rinnovo i miei sentiti ringraziamenti, e sono tutto vostro
G. PALLAVICINO.

Bertani partendo, aveva lasciato Crispi incaricato della segreteria, donde fiera guerra di Pallavicino a Crispi, appena tenuto a freno da Cattaneo. .
Era così tanto inconsciamente imbevuto quel buon uomo - col fiele iniettatogli da Cavour - che non si diede pace della presenza a Napoli di Mazzini, di Mazzini da trent' anni esule, i
dolatra dell' idea dell' unità, ma accusato dai suoi più ardenti amici di dare mano alle annessioni troppo presto!

Tanta ostilità non si capisce davvero. Vero é che la Francia aveva ritirato il suo ambasciatore da Torino, ma l'Inghilterra apertamente favoriva lo sfratto del Borbone e del Papa, la Prussia non se ne mischiava, e l'Austria tanto meno; é probabile che se Cavour avesse invitato Garibaldi ad entrare negli Stati del Papa da una parte, mentre i soldati entravano da un'altra, non avrebbe incontrata opposizione. Ma egli aveva un solo obiettivo: cacciare Garibaldi da Napoli prima che vi giungesse il Re.

Abbiamo visto nel dispaccio citato che una delle ragioni addotte per la spedizione delle Marche fu ilk timore che, varcato da Garibaldi il confine degli Stati romani, diventasse del tutto impossibile impedirgli un attacco contro gli austriaci a Venezia.
Eppure era Cavour che aizzava Garibaldi contro l'Austria. Ecco la notizia che Cavour telegrafava al Persano.

"L'Austria ci minaccia sul Mincio; se veramente vuole attaccarci, pregate Garibaldi di venire con una parte delle sue truppe qui; nel caso non potesse venire mi mandi Turr con la sua divisione."

Garibaldi non diede a questo questo telegramma, anzi manifestava la sua contentezza per le vittorie di Cialdini, né si impensieriva per nulla dell'arrivo del Re. Questo é dimostrato dalla seguente lettera da lui scritta al Re stesso:

"Sire,
Mi felicito con la Maestà Vostra per le brillanti vittorie riportate dal nostro bravo generale Cialdini, e per le felici conseguenze di queste vittorie.
Una battaglia guadagnata sul Volturno ed un combattimento alle due Caserte pongono i soldati di Francesco II, io credo, nell'impossibilità di non più resisterci. Spero dunque di poter passare il Volturno domani.
Non sarebbe male che la Maestà Vostra ordinasse parte delle truppe, che si trovano vicine alla frontiera abruzzese, di passare quella frontiera e far abbassare le armi a certi gendarmi che parteggiano ancora per il Borbone.
Io so che la M. V. sta per mandare quattromila uomini a Napoli, e penso che sarebbe bene mandarli.
Ricordi la M. V. le mie anteriori parole sui repubblicani, e pensi nell'intimo del suo cuore se i risultati hanno corrisposto alle mie parole.
Tutta brava gente, hanno combattuto per l' Italia e Vittorio Emanuele, e saranno certamente i più fedeli alla sua persona.
Pensi V. M. che io le sono amico di cuore e merito un poco anch'io d'essere creduto.
É meglio accogliere tutti gli Italiani onesti di cui V. M. é padre, a qualunque colore essi abbiano appartenuto in passato, anziché inasprire delle fazioni, che potrebbero essere pericolose nell'avvenire.
Scrissi in data di ieri che mandavo a Genova i prigionieri napoletani: penso di mandar pure alcune corpi che si sono dati a noi per capitolazione. La M. V. si compiacerà di ordinare che siano ben trattate e incorporati nell' esercito.
Essendo ad Ancona, dovrebbe V. M. fare una passeggiata a Napoli per terra o per mare.
Se per terra, e ciò sarebbe meglio, V. M. deve marciare almeno con una divisione. Avvertito in tempo, io congiungerei la mia destra alla divisione suddetta, e mi recherei di persona a presentarle i miei omaggi e ricevere ordini per le ulteriori operazioni.
La M. V. promulghi un Decreto, che riconosca i gradi dei miei ufficiali. Io mi adoprerò ad eliminare coloro che debbono essere eliminati.
Mi resta a ripetermi con affetto.
GIUSEPPE GARIBALDI.

Accanto a questa splendida lettera bisognerebbe leggere il manifesto del Re Vittorio Emanuele ai Popoli dell' Italia Meridionale.
Occupa quattro colonne di giornale.
Si allude appena a Garibaldi come:
"un prode guerriero devoto all' Italia ed a "Me" poi conclude:
"La caduta del governo di Napoli riaffermò quello che il mio cuore sapeva; cioè quanto é necessario ai Re l'amore ai governi e la stima dei popoli!
Nelle Due Sicilie il nuovo reggimento si inaugurò col mio nome. Ma alcuni atti diedero a temere che non bene s'interpretasse per ogni rispetto quella politica che é dal mio nome rappresentata. Tutta l'Italia ha temuto, che all'ombra di una gloriosa popolarità, di• una probità antica, tentasse di riannodarsi una fazione pronta a sacrificare il vicino a trionfo nazionale alle chimere del suo ambizioso fanatismo.
Tutti gli italiani si sono rivolti a me perché scongiurassi questo pericolo. Era mio obbligo il farlo perché nella attuale condizione di cose non sarebbe moderazione, non sarebbe senno, ma fiacchezza ed imprudenza il non assumere con mano ferma la direzione del moto nazionale, del quale sono responsabile dinanzi all' Europa.
Ho fatto entrare i miei soldati nelle Marche e nell' Umbria disperdendo quella accozzaglia di gente di ogni paese e di ogni lingua, che qui si era raccolta, nuova e strana forma di intervento straniero, la peggiore di tutte.
Io ho proclamato l'Italia degli Italiani, e non permetterò mai che l'Italia, diventi il
nido di sfitte cosmopolite, che vi si raccolgano a trainare i disegni della reazione o della demagogia universale.
Popoli dell'Italia Meridionale!
Le mie truppe avanzano fra voi per riaffermare l' ordine: Io non vengo ad imporvi la mia volontà, ma a far rispettare la vostra.
Voi potrete liberamente manifestarla: la Provvidenza che protegge le cause giuste, ispirerà il voto che deporrete nell' urna.
Qualunque sia la gravità degli eventi, io attendo tranquillo il giudizio dell'Europa civile e quello della storia, perché ho la coscienza di compiere i miei doveri di Re e di italiano.
In Europa la mia politica non sarà forse inutile a riconciliare il progresso dei popoli con la stabilità delle monarchie. In Italia io so che chiudo l' era delle rivoluzioni.
Dato ad Ancona addì nove ottobre mille ottocentosessanta.
VITTORIO EMANUELE
FARINI.


Il dado era gettato. Il Ministero, presidente Conforti, con una sola eccezione (il Crispi), era composto di uomini ligi a Cavour: Pisanelli, D' Afflitto, Scialoja, Ciccone, tutti annessionisti furibondi, che non vollero sapere di Assemblee. - Pallavicino e Conforti di comune accordo scrissero uno sproloquio di nove articoli, che il Pallavicino portò a Caserta. Garibaldi si rifiutò di firmarlo, tenendo fermo che si doveva convocare prima l'Assemblea.
Cattaneo e Crispi, Alberto Mario, Parisi ministro dell'interno in Sicilia, sostenevano con molta ragione che Garibaldi non poteva essere meno rispettoso alla volontà delle popolazioni liberate di quello che non lo fossero stati Farini e Ricasoli.

In seguito a ciò Pallavicino insistette nella sua dimissione. Turr, sempre preparato per gli intrighi, presentò allora una sedicente protesta della popolazione di Napoli contro la partenza di Pallavicino, ma Garibaldi, offeso da Pallavicino coll'insinuazione di una possibile guerra civile, disse che né egli né i suoi amici avrebbero mai condotto il popolo a farla, affermò essere il Crispi suo buon amico, uno di quelli, che l'aveano deciso ad andare in Sicilia, e che intanto Pallavicino era libero di andare o di stare; e Pallavicino se ne andò.

Cattaneo scrisse allora un'aspra lettera al Pallavicino invitandolo però in nome di Garibaldi ad assistere ad un consiglio di ministri nel palazzo d'Angri. Pallavicino vi si rifiutò, e ne successe un tumulto popolare al grido di "morte a Crispi! morte a Mazzini!".
Mentre dall'altra parte si gridava: "morte a Cavour!"

Garibaldi, sdegnato, corse a Napoli, e così arringò il popolo dal poggiolo della Foresteria:
" In questi tumulti soffia un partito avverso a me ed ogni opera mia. Quel partito mi impedì dalla Cattolica di venire in vostro soccorso; quel partito m'impedì che prendessi le armi del milione di fucili per la spedizione della Sicilia, quel partito mandò a Palermo La Farina per affrettare l' annessione della Sicilia, annessione che se io avessi fatto, non avrei potuto venire a liberarvi, popolo di Napoli.
Si é gridato morte a questo, morte a quello, ai miei amici. Gli italiani non debbono gridar morte che allo a straniero, e fra loro rispettarsi e amarsi tutti, perché tutti concorrano a formare l'unità d'Italia."

La mattina dopo Crispi, per non essere d'imbarazzo, fece come Bertani: diede le sue dimissione con la seguente lettera:
"13 ottobre 1860.
Al signor Prodittatore!
Dopo gli ultimi casi a voi ben noti, essendo incompatibile la mia presenza in un Mi
nistero del quale siete il capo, vengo con la presente a rassegnarvi le mie dimissioni di segretario di Stato degli affari esteri.
F. CRISPI.

Pallavicino insistette presso Garibaldi sulla necessità di accettare queste dimissioni:
" - Ah! - rispose Garibaldi corrucciato - Volete dunque vi sacrifichi anche Crispi? Ebbene Crispi verrà al campo con me; io lo conduco con me; restate voi e i ministri e procurate il meglio!".

Ma, per non dare ragione ne a chi voleva l'assemblea, né a chi voleva il plebiscito, emanò da S.Angelo il seguente decreto:

"Sant' Angelo, 15 ottobre 1860.
ITALIA E VITTORIO EMANUELE.
Onde soddisfare ad un desiderio senza dubbio caro a tutta la nazione, determino:
che le due Sicilie, le quali devono la loro redenzione al sangue italiano, e che liberamente mi hanno eletto Dittatore, formino parte integrante dell'Italia una ed indivisibile sotto il Re costituzionale Vittorio Emanuele e suoi successori. All'arrivo del Re deporrò nelle sue mani la dittatura, che mi venne conferita dalla Nazione.
I prodittatori sono incaricati dell' esecuzione dei presente decreto.
G. GARIBALDI.

Questa consegna arbitraria di un popolo senza averne avuto il consenso fu peggio che un salto nel buio; donde nuove discussioni finché il Generale emanò un nuovo decreto per il plebiscito puro e semplice il giorno 21.
Ma mentre questa ignobile guerra si combatteva intorno a Garibaldi, la reazione alza la testa a Boiano, a Cantalupo, a Isernia, a Campobasso. Al nemico paralizzato dalla disfatta toccatagli il giorno 1 e 2 d'ottobre, non gli restava che creare ostacoli al passaggio imminente delle truppe di Vittorio Emanuele accendendo la reazione nel Molise, nel Matese e negli Abruzzi, anche con lo scopo di circondare o molestare Garibaldi, e aver tempo di rifarsi delle sconfitte sofferte e ripigliare l'iniziativa con l'offensiva.
Ritucci, generale in capo dei borbonici, allungò dunque le sue truppe fino ad Isernia, sotto gli ordini del generale Scotti.

Garibaldi, cedendo alle istanze ostinate di Pallotta da Boiano, maggiore della guardia nazionale, ordinò al tenente colonnello Nullo di incamminarsi verso quella zona accompagnato da alcuni ufficiali dello stato maggiore: Caldesi, Mario, Zasio, da alcune guide, da due battaglioni di volontari paesani; e di assumere il comando dei tremila raccolti in Boiano e di rompere ad Isernia i disegni del nemico.

Nullo non trovò a Boiano che venti uomini. Nondimeno il giorno seguente, 17 attobre, avanzò fino a Pettorano, non lontano da Isernia. Attaccato dai borbonici di fronte e caricatili vittoriosamente, si vide poco dopo avvolto da un nugolo di tremila contadini capitanati da sergenti dei gendarmi e dell' esercito.
I due battaglioni di volontari del Matese e del Molise, sbigottiti, si dispersero. Nullo, gli ufficiali e le guide si aprirono il varco lungo dieci miglia al galoppo a colpi di sciabola e di rivoltella, e quasi la metà di loro rimase sul terreno.
Se egli, come suggerì il maggiore Caldesi, si fosse arrestato a Castelpetroso, il giorno dopo avrebbe potuto attaccare con successo di fianco lo Scotti, assalito di fronte dalla divisione di Cialdini, ed avrebbe partecipato alla vittoria del Macerone.

Ma Nullo aveva un'idea sola, perciò affidò un mezzo battaglione al capitano Zasio, ordinandogli di piantarsi su Carpinone, arduo monte davanti a Pettorano. Collocò il maggiore all'osteria con sessanta uomini di riserva; e ad Alberto Mario ordinò di impossessarsi, con i seicento rimanenti, il colle di Pettorano, che protende una delle sue pendici a mo' di cuneo orizzontale verso Isernia.

Ecco come Mario narra la fine del tragico episodio:
"Ciò fatto, dispiegai a catena una mezza compagnia attraverso la gola, un anello tra le falde di Carpinone e di Pettorano. Alle quattro e mezzo iniziò la manovra del nemico da Isernia. Un battaglione di regi, la maggior parte gendarmi, avanzava sulla consolare e sui campi laterali con mezzo squadrone di cavalleria; alle ali, cafoni a torme. Per animare i nostri con una prova segnalata di valore, Nullo mi fece raccogliere le guide e i soldati d' ordinanza.
Così in diciotto si scese da Pettorano; toccata l'osteria, il maggiore e Mingon si aggiunsero al drappello. Di là al galoppo andammo all'incontro dell'avanguardia borbonica sulla consolare.
Quelli di Carpinone, testimoni del fatto, ci battevano le mani, e mandavano alte grida d'entusiasmo dal monte di Pettorano. Spintici in prossimità dei regi, li caricammo a briglia sciolta, e li mettemmo in ritirata in un modo disordinato.
"Indietro, indietro! I cafoni al monte!" urlarono i nostri di Carpinone. Noi li udimmo, e nondimeno si proseguì l'irruzione. E per la verità vive e inaspettate scariche ci colsero di fianco dalla pendice avanzata di Pettorano, che io avevo guarnita di duecento uomini. Nullo non sapeva persuadersi come quell'importante posto fosse stato preso senza lotta, e temendo di perdere Pettorano, decise di rifare il cammino fino alla borgata.

Si accese pertanto un combattimento strano fra noi cavalieri e i cafoni, che dietro agli alberi ci bersagliavano da pochi passi. Al sottotenente Bettoni, delle guide, una palla gli distrusse una gamba e fu ricoverato alla nostra piccola infermeria all'osteria. Noi cacciando i cavalli su per l'erta nell'oliveto con rivoltelle e con spade venimmo alle strette con i cafoni. Intanto, scesi in aiuto da Carpinone e accorsi quelli che io collocai nella gola, dopo un accanito contrasto ci venne l'occasione di ricacciare gli insorti in piena ritirata.
Nullo mi ordinò di assumere il comando dei sopraggiunti, d'inseguire i cafoni, di regolarmi secondo le circostanze, e di tornare a riferire. Poi lui, il maggiore e le guide voltarono il cavallo verso Pettorano.

"Messi insieme un centocinquanta soldati, li guidai contro i fuggitivi. L'avanguardia regia respinta dalla nostra carica a cavallo, il successivo ritrarsi dei cafoni e lo affacciarsi del mio corpo inseguitore gettarono qualche scompiglio nella colonna nemica, la quale ripiegava sopra Isernia. Tentò essa due volte di fronteggiarmi, ma raccolti i miei in massa l'assaltai alla baionetta; e giunsi a gettarne una parte sulla sinistra e d'impedire il suo ricongiugnimento col rimanente, che per la consolare si rifugiò in Isernia.
Mi sorse in pensiero d'entrarvi insieme, alla rinfusa, ma ignoravo quale fossero le accoglienze della cittadinanza; temevo di andare oltre le intenzioni del comandante, e quantunque i miei come bravura e coraggio avessero superato le mie speranze, non ero certo della loro virtù per un rischio così alto e così tanto ineguale.
Rimasi piuttosto perplesso, e al fine deliberai d'impadronirmi della linea di collinette, che limitano la pianura e sovrastano Isernia; dove mi collocai. A destra la consolare biforcandosi volge ad Isernia e a Castel di Sangro. Mi rallegravo di averla sgomberata di nemici, e se era necessario di poter dare facoltà a Nullo di eseguire senza ostacolo le sue mosse visto il cambiamento della base d'operazione.
Era già mezz'ora di sera e nessun ordine mi venne trasmesso dal Comandante. Consegnata ad un capitano la custodia della collina, rifeci la via al quartiere generale di Pettorano per riferire il risultato delle mie operazioni, per apprendere i particolari della vittoria su tutta la linea e per ricevere nuove istruzioni.

Una serie di archibugiate partite da Pettorano mi infastidiva il ritorno, e deploravo il solito andazzo dei volontari di tirare ad ogni ala di vento, anche contro ai propri amici. Giunto con qualche difficoltà attraverso i campi disseminati di fossati e di siepi, sulla consolare, mossi al trotto verso l' osteria lontana circa due miglia. Dopo un miglio m' imbattei in alcune squadre dei nostri carri senza cavalli. Riconosciutici a vicenda, quelli mi domandarono notizie con voci confuse e paurose, narrando che erano stati sbaragliati dai regi e che per il momento li favoriva l'oscurità.
Caso parziale, - io risposi con accento rassicurante; - noi abbiamo battuto completamente il nemico e la giornata è nostra.

A tali notizie rimasero paghi e lieti, ed io tirai diritto al passo. Il silenzio diventava ancor più più profondo e solenne. Dopo un breve tratto, dalla pendice di Pettorano la consolare piega a sinistra, attraversa la gola, poi ripiega a destra alle radici di Carpinone. Qui mi arrivarono all'orecchio gemiti di moribondi, e la notte stellata mi consentiva appena di distinguere alcune masse brune sul fondo chiaro della strada. Smontai di sella e riconobbi che erano cadaveri e feriti, tragicamente mescolati insieme. Subito mi calmai ricordando i caduti nel combattimento, che sostenemmo per espugnare la nostra posizione. Sperando che qualcuno di quei dolorosi potesse intendermi, promisi loro che avrei mandato senza indugio a raccoglierli e medicarli. Nessuno pronunciò sillaba, e l'interrotto rantolo di una agonia fu la sola risposta che ricevetti.
Ma nel procedere sul mesto sentiero, la vista frequente di simili masse brune funestò i sereni pensieri della vittoria, e mi assicurò che quello era stato il teatro di altre 3 coraggiose lotte, mentre io all'avanguardia guadagnavo le colline d' Isernia. - Perdio, nemmeno un picchetto di guardia! nemmeno una sentinella! Attraversai la consolare e cavalcai su per la salita di Pettorano, scacciando dall'animo i pensieri tristi che vi facevano capolino. La fantasia mi raffigurava la statua della vittoria coperta di un manto funebre.
A metà dell'erta incontrai un pecoraio con il suo gregge, reduce da vicini pascoli; con accento nemico alle mie interrogazioni rispose che non sapeva nulla, e giratami villanamente la schiena si rivolse alle pecore.
Salendo con crescente sospetto, in prossimità delle prime case di Pettorano fermai un contadino che discendeva, e impugnata la rivoltella gli domandai: "Vieni da Pettorano ? - Sissignore. - Vi sono gli uffiziali garibaldini, quei dalla camicia rossa? - No. - Come no? Dimmi il vero o ti buco la testa con due palle. - Signore! ci sono i gendarmi e i soldati di re Francesco che mangiano e bevono in allegrezza. - Ma gli ufficiali e la truppa Garibaldina? - Circondati e vinti dai soldati e dai paesani; un'ora prima di sera i cavalieri tentarono ritirarsi per la consolare, e i fanti per i monti sulla direzione di Bojano."

Sbalordito da questa notizia, rimasi alquanto sospreso e mi lampeggiarono alla mente gli ordini invano aspettati, i colpi di moschetti di Pettorano, i carri di provvigioni e il drappello tagliati fuori, il silenzio, i feriti senza soccorso, l'osteria abbandonata. Poi ripigliai: "I cafoni dove si diressero? - Si accamparono sulle alture che dominano la consolare da qui a Castelpetroso. - Sono in gran numero ? - Non saprei quanti con precisione, ma certo da due a tremila. - Tu m'inganni ed io t'ucciderò. - E montai il cane della rivoltella; indi soggiunsi: - Precedimi a Pettorano.

"Mossi il cavallo; il contadino rivolto a me: - Arrestatevi, signore; vi assicuro che là trovate i gendarmi, v'incamminate verso la morte. Se volessi ingannarvi, vi direi: andiamo. - Ebbene, va a verificare di nuovo, io ti attenderò ai piedi della salita; giurami sull'ostia sacra che ritornerai e mi riferirai la verità; io ti regalerò due piastre. - Giuro e vado per accontentarvi; ma i gendarmi ci sono come voi siete qui.

"A me pareva codardia lo scendere, eppure trepidando sulla sorte della mia squadra e risoluto di raggiungerla, scesi. Venti minuti dopo ricomparve il contadino a riconfermarmi il fatto terribile. Dategli le due piastre e stesagli la mano, lo ringraziai stupefatto molto più della sua generosità che della nostra disfatta. Poi, separandosi da me, mi augurò buona fortuna e mi consigliò di pigliare la cima dei monti.
Io mi avviai verso le colline d'Isernia verso il mio manipolo, e lo incontrai sgominato e atterrito; nel riconoscermi, quei miseri si consolarono un po', e seppi che un' ora dopo la mia partenza un nugolo di nemici saliti sulla collina, e li aveva attaccati all'arma bianca, perseguitandoli.
Io li ragguagliai della situazione, e li invitai a seguirmi verso Bojano, sulla consolare aprendoci la ritirata se necessario alla baionetta. La ritirata di soldati garibaldini, deve risolversi insomma in un assalto.
Nativi del Molise, quei volontari, pratici dei luoghi, m'invitarono alla loro volta a lasciare il cavallo, e salire a piedi sulla cima delle montagne, e di cima in cima riparare a Bojano con minore pericolo.
Risposi che non avevo paura del pericolo, e che avrei stimato viltà abbandonare il cavallo, che preferivo la morte affrontando il nemico, che non evitandolo fuggendo.

"Essi tuttavia non presero l'erta, ma, divisi nell'opinione, si divisero per le opposte montagne, ed io soletto voltai e mi mossi sulla consolare. Percorsi due miglia, la gola allargandosi s'impaluda ed esala miasmi crudeli. Un miglio ancora e mi apparve sulla biancastra via una macchia nera. Subito la giudicai un albero abbattuto, ma il rumore dei passi di gente armata sul dosso soprastante m'indusse a crederla un gruppo di cafoni. Trascorse qualche minuto e mi s' intimò l' "alt, chi va là ?" Mi spinsi avanti al galoppo gridando "Ferma, amici, amici!".

"Era questo un pugno di sbandati, fra i quali parecchi ufficiali. Essi narrarono che altri si trovavano sul colle di Pettorano, altri all'osteria, altri ancora con lo stato maggiore. Appresi dunque che il battaglione regio e le due ali cafoniche marciavano da Isernia in un semicerchio, di modo che la sinistra toccando il monte di Carpinone e la destra investendo la pendice di Pettorano, il battaglione nel centro figurava in seconda linea, e che intanto un secondo corpo di gendarmi uscito dalla opposta porta d'Isernia, per nascosti sentieri stava giungendo su Pettorano di fianco, appoggiato dalla manovra simultanea della menzionata ala destra.
Quest'ultima operazione eseguita mentre il comandante e noi del suo seguito si assaliva a cavallo il battaglione del centro, i difensori di Pettorano, circondati da due fuochi, separati da Nullo, che li avrebbe o trattenuti o deviati in altro luogo, avanzavano a passo accelerato. La discesa sulla consolare e il ricongiungimento con gli amici furono loro vietati dalla presenza di ben tremila cafoni in armi, i quali, sbucati dai versanti esterni della doppia riga di monti e scesi per primi, chiusero dal di dietro il passaggio.

"A questo punto la disordinata colonna, offesa da ogni lato, si arrampicò sulle scoscese sommità con un filo di speranza di mettersi almeno in parte in salvo. In quel mentre, ritornava Nullo per difendere Pettorano, ma, giunto all'osteria, un grosso nerbo di gendarmi e di cafoni dalle finestre e all'aperto, lo accolse con un fuoco micidiale. Ricostituita, in mezzo alle palle borboniche, la retroguardia, già sbalzata dall' osteria, e le guide, con ripetuta irruzione provarono invano di aprirsi il varco. Allora la scoraggiata retroguardia si rifugiò al monte, ripromettendosi di trovarsi con la compagnia degli accampati in Carpinone.
Nullo, il maggiore Caldesi e sette guide, rimasti isolati, spronarono i cavalli nel folto dei nemici, e grazie a quell'impeto, alle minacciose grida, alle sciabolate e ai diversi colpi di rivoltelle passarono oltre, ma poco più in là urtarono in una moltitudine di cafoni, e di loro se ne ignora la sorte. Quegli spietati non accordavano clemenza, i caduti nelle loro mani, o feriti o sani, li uccidevano tutti".

Alberto Mario allora decise di aprire il passo di Castelpetroso con la baionetta, con lui stesso in testa di colonna:

"A mezza ora di là ( continua) c'imbattemmo in una carrozza rovesciata sull'orlo della consolare, senza cavalli. Era la carrozza ch'io feci noleggiare a Caserta. Dinanzi ad essa giaceva il vetturino immerso nel proprio sangue, che si dibatteva nell'ultime angosce della morte. Poco più giù, sulla china, stavano supini vari cadaveri ignudi; alla luce di fiammiferi riconobbi Bettoni di Cremona, ferito sotto Pettorano, sottotenente delle guide, Lavagnolo di Udine, Mori di Mantova; il soldato d'ordinanza di Caldesi e alcuni altri che non riconobbi; tutti trafitti da un'arma bianca. Solo il cencioso vetturino era vestito. Mi accorsi che il misero spettacolo intristì gli animi della mia squadra. Ciononostante si andò avanti, io vuotando il sacco delle buone ragioni, e Bergamo associandovi alcuni rimproveri sui renitenti.

"Un'ora ancora, e spuntarono sul basso della strada varie case della fatale borgata, distaccate da essa un quarto di miglio; ce le indicarono le strisce di luce che usciva dai balconi socchiusi. Io chiamai quattro dei più intrepidi a precedere la colonna in due coppie a cinquanta passi per esplorare la strada onde evitare qualche sorpresa, e con l'ordine di ripiegare solo in prossimità della borgata.
Faticosamente riuscii a convincerli, ma dopo qualche minuto, indietreggiando, si rimescolarono con gli altri. Qualcuno imprecava e deplorava, e una voce ostile indistinta mi giunse all'orecchio "che invece di mandare avanti altri, vi andassi io stesso". - Andrò, risposi, se uno di voi assume il comando al posto mio.
Promisi d' essere primo nell' entrata di Castelpetroso. E aggiunsi: "Ad ogni modo qui siamo tutti ugualmente primi".
I tetri guerrieri ci tenevan dietro lentissimi. Oltrepassato in pace il casolare, eccoci al fine a Castelpetroso. Costruita a tre quarti della montagna ripidissima, Castelpetroso è una borgata lunga oltre mezzo miglio, tortuosa e solcata dalla consolare. In quella notte vi si attendarono effettivamente due migliaia di cafoni, perché quello era un punto strategico.
A un gomito della strada arrestai i miei seguaci, e li arringai di nuovo quanto più calorosamente mi venne di fare. Frattanto i posti avanzati dei cafoni, impediti di offenderci con i fucili, perché qui il monte ergendosi a picco ci copriva, dall'alto rotolarono sassi e macigni che ci
rovinavano addosso; quando da un cespuglio di fronte alla consolare, s'intese un "chi va là?". Pietro mi chiese che cosa io dovessi rispondere.
"Rispondi: Viva l'Italia ! No: Viva Garibaldi ! Capiranno meglio".
Replicarono alla nostra risposta con un colpo di fucile che chiamò all' armi le masnade.
"Amici, - così io parlai - ora alla prova. Avanti ! Viva l'Italia! Io vi precedo".
Dopo mezz'ora di faticoso camminare i tetri guerrieri entrano in Castelpetroso, ma ricevuti a fucilate da Mario e Bergamo Tosi, tirarono avanti al galoppo.

Il nemico schierato sul ciglione che costeggia da un capo all' altro della borgata la consolare serpeggiante, ci aspettava con le armi puntate.
Una scarica frontale ci salutò nell'ingresso, e, girato l'angolo, fummo tempestati di fianco da un turbine di palle a bruciapelo. Era un getto continuo di cartucce accese, che cadevano da ogni lato intorno a noi e ai cavalli.
Il forte pendio, ci costringeva a rallentare la corsa per metterci al riparo, e così diventavamo per il nemico un più facile obbiettivo. Il mio cavallo, sempre irrequieto e indocile nei combattimenti, quella notte, forse penetrato dalla gravità del momento, aveva messo giudizio, e filava diritto come una freccia.
I cafoni, irritati di non vederci cadere malgrado i cento e cento colpi, raddoppiarono gli stessi, seguiti dalle feroci imprecazioni, degli ululati furibondi, e ne intesi anche di donne. Era un tumulto. Sulla fine della borgata la strada si sviluppa in emiciclo nella congiunzione di due monti, ove le offese nemiche si allentarono. In capo ad esso un cavallo ucciso ingombrava il passo: quel di Bergamo passò senza difficoltà, ma il mio, nel vedere il confratello estinto, arretrava, si impennava. Il nemico, approfittando dell'intoppo, ci bersagliò con tiri convergenti e si gettò sulla strada per afferrarmi.
Finalmente, più del ribrezzo, potendo sull'animo della sconsigliata bestia la logica degli speroni che gli premevo, si risolse di saltare il morto e di conservare due vivi.

Là la gola si spalanca, la consolare cala dalla costa all'alveo del Tiferno e lo attraversa; i tiri sempre più lontani e innocui a grado a grado cessarono.
Nondimeno fino a Cantalupo vi era il pericolo di un' imboscata, e benché si avanzava guardinghi, a pensarci ora si andava allo sbaraglio.
Ma la consolazione di avere salvata prodigiosamente la vita in così simile frangente ci amareggiava il ricordarci degli amici trucidati, l'ignota fine di altri e la scena nuova per noi della sconfitta.
Rattristati dalla pietà, dall' incertezza, dall'umiliazione, a mezzanotte si entrò in Bojano. Alle due, Nullo passò in rassegna la riunita colonna sulla piazza di Boiano. Duecento uomini muti all'appello, e sei dei quattordici distaccati dal quartiere generale del dittatore.
Il giorno successivo ripartimmo per Campobasso".

L' indomani sera a teatro, a mezzo dell'opera, i cantanti intonarono l'inno di Garibaldi. L'intendente De Luca dal palchetto troncò quella musica gridando: - "Basta, basta, non più inno. Viva il generale Cialdini, vincitore dei Borbonici e dei cafoni al Macerone presso Isernia. Viva il Re galantuomo!" -
Prima ingratitudine contro il Liberatore, di cui la serie - con la palla presa poi sull'Aspromonte - non chiuse. Noi tumultuando urlammo: Viva Garibaldi! Rivolemmo ostinatamente l'inno, e l'inno fu cantato e ricantato..»

Garibaldi però annunciò questa impresa con il seguente bollettino:
"II prode generale Cialdini ha vinto presso Isernia; i borbonici sbaragliati hanno lasciato 880 prigioni, 50 ufficiali, bandiere e cannoni.
Ben presto i valorosi dell'esercito settentrionale porgeranno la mano al coraggiosi soldati di Calatafimi e del Volturno.
G. GARIBALDI.

Ma le delusioni dovevano ancora venire.
Nel frattempo gli arrivò la lieta novella che Vittorio Emanuele
stava marciando verso Napoli.


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NOTA

Nello stesso giorno, 15 ottobre, che decretava l' annessione delle Due Sicilie al Regno d'Italia, e dallo stesso monte di S. Angelo, Garibaldi scrisse di suo pugno il seguente Memorandum alle Potenze d'Europa:

"È alla portata di tutte le intelligenze, che L'Europa é ben lungi di trovarsi in uno stato normale e convenevole alle sue popolazioni.
La Francia che occupa senza contrasto il primo posto fra le potenze europee, mantiene sotto le armi seicentomila soldati, una delle prime flotte del mondo, ed una quantità immensa d'impiegati per la sua sicurezza interna.
L' Inghilterra non ha il medesimo numero di soldati; ma una flotta superiore e forse un numero maggiore d'impiegati per la sicurezza dei suoi possedimenti lontani.
La Russia e la Prussia, per mantenersi in equilibrio, hanno bisogno pure loro di assoldare eserciti immensi.
Gli Stati secondari, non foss' altro che per spirito di imitazione e per far atto di presenza, sono obbligati di tenersi proporzionalmente sullo stesso piede.

"Non parlerò dell'Austria e dell'Impero ottomano, dannati, per il bene degli sventurati popoli che opprimono, a crollare. Uno può alla fine chiedersi: perché questo stato agitato dell'Europa? Tutti parlano di civiltà e di progresso.... a me sembra invece che, eccettuandone il lusso, non differiamo molto dai tempi primitivi, quando gli uomini si sbranavano fra loro per strapparsi una preda.
Noi passiamo la nostra vita a minacciarci continuamente e reciprocamente, mentre in Europa la grande maggioranza non solo dell' intelligenza, ma degli uomini di buon senso, comprende perfettamente che potremmo pur passare la povera nostra vita senza questo perpetuo stato di minaccia e di ostilità degli uni contro gli altri, e senza questa necessità che sembra fatalmente imposta ai popoli da qualche nemico segreto ed invisibile dell'umanità di ucciderci con tanta scienza e raffinatezza.

"Per esempio, supponiamo una cosa:
Supponiamo che l'Europa formasse un solo Stato.
Chi mai penserebbe a disturbarla in casa sua? Chi mai si oserebbe, io ve lo domando, di turbare il riposo di questa sovrana del mondo ?
Ed in tale supposizione, non più eserciti, non più flotte, e gli immensi capitali strappati quasi sempre ai bisogni ed alla miseria dei popoli per essere prodigati in servizio di sterminio, sarebbero convertiti invece a vantaggio del popolo in uno sviluppo colossale dell'industria, nel miglioramento delle strade, nella costruzione di ponti, nello scavo di canali, nella fondazione di stabilimenti pubblici, e nell'erezione di scuole che salverebbero dalla miseria e dalla ignoranza tante povere creature che in tutti i paesi del mondo, qualunque sia il loro grado di civiltà, sono condannate dall'egoismo del calcolo e dalla cattiva amministrazione delle classi privilegiate e potenti, all'abbrutimento, alla prostituzione dell'anima o della materia.
Ebbene ! l'attuazione delle riforme sociali che accenno, dipende soltanto da una potente e generosa iniziativa. Quando mai presentò l'Europa più grandi probabilità di riuscita per questi benefici umanitari ?

"Esaminiamo la situazione: Alessandro II in Russia proclama l'emancipazione dei servi; Vittorio Emanuele in Italia getta il suo scettro sul campo di battaglia ed espone la sua persona per la rigenerazione di una nobile razza e di una grande nazione;
In Inghilterra una Regina virtuosa ed una nazione generosa e saggia che si associa con entusiasmo alla causa delle nazionalità oppresse;
La Francia finalmente, per la massa della sua popolazione concentrata, per il valore dei suoi soldati e per il prestigio recente del più brillante periodo della sua storia militare, chiamata ad arbitra dell'Europa.
A chi l'iniziativa di questa grand'opera?

"Al paese che marcia in avanguardia della rivoluzione!
L'idea di una Confederazione europea che fosse posta davanti dal capo dell'Impero francese, e che spargerebbe la sicurezza e la felicità nel mondo, non vale essa meglio di tutte le combinazioni politiche che rendono febbrile e tormentano ogni giorno questo povero popolo?

"Al pensiero dell'atroce distruzione che un solo combattimento, tra le grandi flotte delle Potenze occidentali, porterebbe con se, colui che si avvisasse di darne l'ordine dovrebbe rabbrividire di terrore, e probabilmente non vi sarà mai un uomo così vilmente ardito per assumere la spaventevole responsabilità.

"La rivalità che ha sussistito tra la Francia e l'Inghilterra dal XIV secolo fino ai nostri giorni, esiste ancora; ma oggi, - noi lo mettiamo a gloria del progresso umano, - essa é infinitamente meno intensa, di modo che una transazione tra le due più grandi nazioni dell' Europa, transazione che avrebbe per scopo il bene dell'umanità, non può più essere posta tra i sogni e le utopie degli uomini di cuore.
Dunque la base di una Confederazione europea é naturalmente tracciata dalla Francia e dall' Inghilterra. Che la Francia e l'Inghilterra si stendano francamente, lealmente la mano, e l'Italia, la Spagna, il Portogallo, l' Ungheria, il Belgio, la Svizzera, la Grecia, la Romaniaia verranno esse pure, e per così dire, istintivamente, a raggrupparsi intorno a loro.

"Insomma tutte le nazionalità divise ed oppresse, le razze slave, celtiche, germaniche, scandinave, la gigantesca Russia compresa, non vorranno restar fuori di questa rigenerazione politica, alla quale le chiama il genio del secolo.
lo so bene che una obiezione si affaccia naturalmente in opposizione al progetto che precede.
Che cosa fare di questa innumerevole massa di uomini impiegati ora nelle armate e nella marina militare?
La risposta é facile.

"Nel medesimo tempo che sarebbero licenziate queste masse, saremmo sbarazzati delle istituzioni gravose e nocive, e lo spirito dei sovrani, non più preoccupati dall' ambizione, dalle conquiste, dalla guerra, dalla distruzione, sarebbe rivolto invece alla creazione di istituzioni utili, e discenderebbe dallo studio delle generalità a quello delle famiglie ed anche degli individui.
D'altronde coll'accrescimento dell'industria, con la sicurezza del commercio, la marina mercantile reclamerà dalla marina militare sul momento tutta la parte attiva di essa; e la quantità incalcolabile di lavori creati dalla pace, dall'associazione, dalla sicurezza, ingoierebbe tutta questa popolazione armata, fosse anche il doppio di quello che é oggi.

"La guerra non essendo quasi più possibile, gli eserciti diverrebbero inutili. Ma quello che non sarebbe inutile é di mantenere il popolo nelle sue abitudini guerriere e generose, per mezzo di milizie nazionali, le quali sarebbero pronte a reprimere i disordini e qualunque ambizione tentasse infrangere il patto europeo.

"Desidero ardentemente che le mie parole pervengano a conoscenza di coloro, a cui Dio confidò la santa missione di fare il bene, ed essi lo faranno certamente preferendo ad una grandezza falsa ed effimera la vera grandezza, quella che ha la sua base nell'amore e nella riconoscenza dei popoli."
(Garibaldi, per GIUSEPPE GUERZONI. Vol. II. pag. 223-227.)

Ma come ricordato sopra,
a Garibaldi le delusioni dovevano ancora venire.
Nel frattempo gli arrivò la lieta novella che Vittorio Emanuele
stava marciando verso Napoli.

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