CINQUANTESIMO CAPITOLO

CAPITOLO CINQUANTESIMO
RITIRO A CAPRERA

Garibaldi a Caprera. - Deputato di Napoli. - Duello in Parlamento fra Garibaldi e Cavour. - Gli Amici di Cavour. - Villanie di Cialdini. - Risposta dignitosa di Garibaldi.


"Garibaldi a Caprera é come un ragazzo in vacanza" ci scrisse nel gennaio un amico. "Appena giunto, ha percorso tutta l'isola; mise in libertà i suoi cavalli, "Marsala" e "Calatafimi", passò in rivista i suoi asini, "Pio IX" e compagnia, seminò qualche zolla, per darsi il piacere di seminare con le sue proprie mani; ora é tutto intento a completare la Casa Bianca e giacchè il capomastro non vuol sapere di alcun suo aiuto diretto, egli si accontenta di trasportare il materiale nella carriola.
Sembra del tutto dimentico di aver liberato dieci milioni di italiani, non parla affatto di politica ed ha nettamente dichiarato di non volere più essere membro del Parlamento.
Egli é felice nel pensare che con la vendita di granito di Caprera farà la fortuna dei suoi figli. Intanto si vive qui al solito, col prodotto del fucile di Basso, col pesce e con i legumi secchi. Di salute il Generale sta bene".

Non voleva tornare più al Parlamento. Fu una risoluzione approvata dai suoi migliori amici, giacchè non si vedeva di quale profitto sarebbe stata per la patria la sua lotta con persone assai più abili di lui nell'uso della parola.
Ma più di una spina gli stava confitta nel cuore. Era per lui uno strazio l'aperta ingiustizia con cui si ricambiavano i suoi ufficiali e i suoi bravi soldati; e nel suo cuore aveva un'eco il grido che dalla Sicilia e da Napoli mandavano molti di coloro che avevano combattuto e sofferto per la patria, cacciati, umiliati e non di rado sostenuti in carcere alla mattina dopo della liberazione, mentre gli onori e i posti si prodigavano ai portavoce e ai fidi alleati del conte di Cavour, ed anche ad alcuni che avevano parteggiato sino all'ultima ora per i Borboni.
Nulla egli avrebbe voluto o saputo chiedere per sé; ma queste dure sorti dei suoi uomini gli aprivano la ferita che gli era già stata aperta nell'animo dalla "vendita" di Nizza, la sua casa natale, il suo nido diletto, ferite che invelenivano da tempo i suoi rancori contro Cavour.

Singolare a dirsi! Tutti i deputati meridionali, e tra questi Poerio e La Farina , avevano votato in favore di quella cessione il 12 maggio 1860, proprio nel momento in cui egli giocava la vita dei figli e degli amici per liberare la loro patria. Più singolare ancora come il Poerio e lo Spaventa, insigni patrioti, dopo avere tanto sofferto per la causa della libertà, fossero i più fieri aizzatori di Farini e di Cavour contro tutto ciò che sapeva di Garibaldi o di Garibaldino.

Spaventa, anima integra, ma imprigionata entro anguste passioni politiche, che avrebbe potuto estirpare la camorra di Napoli, stringendo insieme tutti gli elementi patriottici e tutte le coscienze pure, fece un solo fascio di camorristi e di garibaldini, cacciando insieme gli uni e gli altri a domicilio coatto, confondendo in un solo destino furfanti e uomini il cui petto era coperto di cicatrici, e riservando, come unico premio del loro amore per l'Italia, la qualifica di svergognati e ribaldi. (pochi mesi dopo, borbonici o non borbonici, li chiamarono tutti "bande di briganti". Proclamato lo Stato d'assedio con soldati inviati a decine di migliaia, seguirono feroci rappresaglie, con fucilazioni indiscriminate e incendi di interi paesi, che servirono solo a far aumentare i ribelli e ad accrescere l'ostilità della popolazione nei confronti dei "piemontesi".- Ndr.)

A questo modo Spaventa fu impotente contro la camorra e rendette sempre più increscioso il governo tra le popolazioni, di null'altro certe che dell'aumento delle tasse. Il popolo cominciò presto a dire che si stava meglio quando si stava peggio. (E quando fu introdotta la leva obbligatoria, tornarono a gridare "viva Francesco II" e a dare vita ai primi tentativi insurrezionali, repressi dai Piemontesi nel sangue).

Nel marzo del 1861 una deputazione delle Società operaie recò a Caprera un indirizzo assai significativo, mentre una rappresentanza del collegio elettorale di San Ferdinando annunciava a Garibaldi il voto unanime che lo aveva eletto deputato di Napoli al Parlamento italiano.
"L'Austria, - diceva l'indirizzo - sta per invadere; in poche marce, con poca resistenza può occupar subito i ducati e qualche altra provincia italiana. I soldati della Francia si rinforzano a Roma, sicché é perduta ogni fede nello sgombro e nella emancipazione della naturale capitale d'Italia.
Il malcontento a Napoli e nella Sicilia é al colmo. Un senso di tristezza indefinita occupa la mente e il cuore delle nostre popolazioni libere, ed un gemito di dolore supremo, misto all'anelito della speranza, muove invano da Roma e Venezia. E frattanto il paese é disarmato: non un punto difeso, non un provvedimento atto a scongiurare il pericolo di una invasione dell'Austria da un lato, quello evidentissimo della Francia nel regno di Napoli dall'altro.
In voi dunque, Generale, confidiamo tutti. In voi solo tutta l'Italia spera".

Non erano frasi retoriche queste, perché fra i portatori dell'indirizzo si trovavano alcuni dei suoi più prodi soldati ed ufficiali, come, ad esempio, Faustino Tanara di Parma.
Garibaldi se ne stette pensieroso per un pezzo, poi rispose press'a poco così:

"La situazione é fosca, ma forse voi l'esagerate, siamo più forti che il mondo non crede: tutto il popolo, tutta la nazione é con noi; ma una nazione non deve riposare sopra un solo uomo, deve avere coscienza di sé. Non dimenticate che l'Italia molto deve a Vittorio Emanuele; egli fu il perno intorno a cui ci siamo raggruppati, e per lui abbiamo potuto fare quel che si é fatto.
Egli é circondato da gente senza cuore, senza patriottismo, da uomini che hanno creato un dualismo fra l'esercito regolare e i volontari, sebbene gli uni e gli altri si siano battuti da prodi, mirando allo stesso scopo. Questi indegni hanno seminato discordie ed odio, hanno arrestata l'opera di fusione e di unificazione così bene da noi avviata; hanno schierata l'una a contro l'altra le due forze, gli elementi che avrebbero dovuto muovere concordi alla liberazione di Venezia e di Roma. Ma, lo ripeto, il Re è ingannato, egli vuole libera la Venezia, e noi vogliamo incoronarlo a Roma.
Dunque concordia e pazienza, e soprattutto concordia!".

Queste le sue parole, e ai deputati delle Società operaie italiane così scrisse:

"Caprera, 30 marzo 1861.
I rappresentanti delle associazioni operaie italiane si sono presentati a me, in questa solitudine per offrirmi un cenno di simpatia a nome del ceto robusto e laborioso del popolo. Evento più grato al mio cuore non poteva aspettarmi, perché io conto sempre sull'incallita destra degli uomini della mia condizione, per la redenzione sacrosanta di questa terra, e non sulle false promesse dei raggiratori politici.
Salute e fratellanza. «
GIUSEPPE GARIBALDI.

Ma a Salvati e agli altri che portavano una petizione firmata da migliaia di napoletani per ottenere ch'egli ritornasse alla sua Napoli e volesse rappresentarla nel Parlamento, egli rispose:

"Non vengo a Napoli perché la mia presenza non varrebbe che a far incrudelire sempre più contro i miei amici e i miei soldati chi mira al solo scopo di cancellare la memoria del bene che essi hanno fatto all'Italia. Né accetto la candidatura. Il mio posto non é sugli scranni del Parlamento.
Qui aspetto la chiamata a nuovi cimenti."

Risposta ben degna di Garibaldi, giacché egli era grande soltanto sul campo di battaglia o nella solitudine di Caprera. Ma la desolazione dei delegati di Napoli vinse la sua resistenza, e il 31 marzo egli spediva il seguente dispaccio a Salvati:

"Agli elettori del quartiere di S. Ferdinando a Napoli.
Accetto la candidatura del I° collegio di Napoli che avevo rifiutata".

Giunse a Genova il giorno dopo e fu subito chiamato presso il Re che invano cercò di calmare la sua irritazione contro Cavour, ricordandogli come anche lui avesse dovuto fare un grosso sacrificio piuttosto doloroso con la la culla della sua famiglia (La Savoia).
"E ciò fa ancor più grave il delitto di quell'uomo, Maestà, disse Garibaldi. E non volle promettere di evitare un futuro conflitto.

Nella Camera piemontese nove su dieci deputati seguivano il conte di Cavour ciecamente, e gli altri, lo si dica a loro onore, fecero del loro meglio per impedire ogni recriminazione fra Cavour e Garibaldi.
Il 15 di marzo Rattazzi, presidente, diede lettura della lettera di Garibaldi, e rispondendo a questa Ricasoli, pur pronunziando qualche parola che richiamava la necessità della concordia, espresse nettamente il timore che dai volontari l'Italia si dovesse attendere più male che bene.
Questa fu la favilla che ben presto diventò una gran fiamma.

Garibaldi, alzatosi a difendere la sua proposta di armamento, rimproverò a Ricasoli di caldeggiare la conciliazione con le parole, ma di respingerla con i fatti. "Io sono uomo di fatti - soggiunse - appartengo alla mia patria, ho ceduto e cederò sempre, quando il benessere dell'Italia lo richieda.
Dirò due parole dell'esercito del Mezzogiorno, dovrei raccontare fatti ben gloriosi. La sua gloria non é stata oscurata se non quando questo Ministero ha steso sul Mezzogiorno la sua fredda e malefica mano".

Un urlo di riprovazione proruppe allora dalla maggioranza della Camera, seguito da grida ripetute: all'ordine, all'ordine !
" Io credo - riprese pacatamente Garibaldi - che trent' anni di servizio alla mia patria mi diano il diritto di dire la verità ai miei colleghi. Quando l'amore della concordia e l'orrore della guerra fratricida.... "

Qui scoppiò un tumulto indescrivibile e per ben tre volte Garibaldi ripeté lentamente la terribile frase, costringendo la Camera ad ascoltarlo.
"Quando l'amore della concordia e l'orrore della guerra fratricida - continuò - mi decisero a fermarmi sulla sacra via di Roma, tornando a Caprera io non feci che una sola raccomandazione, quella dell'esercito di prodi che aveva liberato 10 milioni di fratelli, e il Re promise di averlo caro, di rendergli giustizia.
Che ha fatto il Ministero di quell'esercito?
Poteva fonderlo coll'esercito regolare, o tenerlo separato, o scioglierlo, ma non aveva il diritto di umiliarlo. Per colpe lievi o per nessuna colpa, si esclusero gli ufficiali, e licenziandoli senza brevetto se ne è cacciato un terzo dell'intero corpo.
Chiara é l'intenzione del Ministero di disfarsene del tutto e in verità col decreto dell'11 aprile ponendo gli ufficiali in disponibilità senza tempo si é troncata la loro carriera. Quel decreto vibrò il colpo decisivo all'esercito meridionale.
La dittatura fu un governo legittimo; essa é l' autrice del plebiscito che vi ha dato due regni; perché accettando questi due regni, avete rifiutato l'esercito che ve li dava?
La sola cosa che mi chiama qui é l'armamento del paese, io non conosco altro mezzo per salvare la patria: correggete il mio progetto, modificatelo, ma occupatevene, e intanto come punto di partenza, come principio dell'armamento, occupatevi dell'organico dell'esercito meridionale."

Il Ministro della guerra rispose con frasi taglienti e che le sue idee sull'armamento erano del tutte opposte a quelle che ispiravano Garibaldi.
Bixio, l'impetuoso e generoso Bixio, prevedendo una nuova tempesta, si alzò esclamando:
"Io conosco la santità dei sentimenti che unicamente guidano Garibaldi, ma io credo anche nel patriotisme del conte di Cavour, è per vedere il conte di Cavour, il generale Garibaldi e il signor Rattazzi stringersi la mano, io sacrificherei me stesso con tutta la mia famiglia."

Bixio consigliò l'armamento nazionale sulle due basi: aggiungendo all' esercito regolare tutti gli elementi compatibili con esso e l'organizzazione di un corpo popolare con il resto.
Cavour, commosso come nessuno lo vide mai prima di questa memoranda seduta, si difese dall'accusa di essere ostile all'elemento dei volontari; ricordò a Garibaldi che era stato lui, Cavour, a proporre, e a sostenere Garibaldi e i suoi volontari nel 1859; disse di accettare le parole di Bixio, promise di esaminare il progetto di legge; lodò il contegno dei volontari in tempo di guerra; ma si dichiarò non convinto dell' utilità di mantenerli sotto le armi in tempo di pace, e pregò finalmente Garibaldi e i suoi amici di cercare concordia e pronte soluzioni alle difficoltà insorte.

Garibaldi, insofferente come al solito che si parlasse di un tempo di pace finché l'Austria accampava sul Mincio, e i Francesi proteggevano il potere temporale del Papa con le loro baionette, rispose vivacemente:

"Nel 1859 io fui grato al conte di Cavour d'avermi fornito i mezzi di servire il mio paese, ma dopo di allora io non ebbi a lodarmi del presidente del Consiglio. E' una storia dolorosa. Quando io giunsi a Torino accorrevano volontari, ma a me non si davano che i gobbi e gli zoppi, tutti gli abili furono arruolati nell'esercito regolare. Eravamo tremila, dopo Tre Ponti fummo ridotti a 1800. Il Re diede l'ordine che mi si spedissero subito i volontari formati ad Acqui, io non ne ho mai veduto uno; io consigliai il Ministro della guerra nell'Italia centrale di fare arruolamenti fino alla fine della guerra e alla liberazione dell'Italia. Si preferì un tempo determinato, e si perdettero 20.000 buoni soldati. - Io domando se siamo in minor pericolo dell'Inghilterra, noi con la Francia nemica a Roma, coll'Austria nemica al Mincio? Eppure quella ha 180 mila volontari.
Comprendo che il generale Fanti ami i quadri, ma i mille però sono partiti senza quadri; quando si tratta dei nemici della patria, questi si possono combattere sotto tutte le forme".

Prese la parola Cavour, un po' agitato, ma piuttosto mesto che ostile:
"C'é tra il Generale e me, un fatto che ci separa; io ho creduto di adempiere il mio dovere, consigliando al Re la cessione di Nizza e della Savoia; al dolore che provai io, comprendo quello che prova il Generale, e mi spiego il suo risentimento contro di me. Io posso dirgli che io stesso assunsi la difesa dei volontari nel 1859 e mi lagnai per essi; ma il generale Cialdini mi diceva che il generale Garibaldi si accontenterebbe di tutto ciò che non potesse valere per l'esercito.
Quanto ai Cacciatori degli Appennini, io feci quanto ho potuto perché gli fossero spediti. Errore del generale Garibaldi era di tenersi nella Valtellina che non potevamo fare nulla, tanto più assalire per rispetto alla Confederazione Germanica, e perciò quelle truppe ebbero altra destinazione. Il Generale dev'essere convinto ch'io non fui animato da sentimenti ostili, e che ci devono essere stati in parecchie occasioni dei malintesi".

Queste parole dette con voce commossa finirono per placare in parte l'animo concitato di Garibaldi, che con breve discorso, mostrandosi pago delle spiegazioni di Cavour, lo pregò di adoperarsi perché avesse favore la legge sull'armamento.
Cavour, uscendo da quel Quello mortale, disse ad un suo amico
"Eppure ancora adesso Garibaldi ed io potremmo andare d'accordo senza i mestatori che per fini propri ci tengono divisi".

Cavour aveva ragione, noi lo sentiamo intimamente. Tutto ciò che questi disse intorno al 1859 era esattamente vero.
Fu lui che vinse il partito in favore dei volontari contro La Marmora e il vecchio nucleo dell'esercito regolare; fu lui che indusse il Re a dare poteri tanto ampi a Garibaldi. E rispetto ai combattenti non validi, onde si riempivano le file dei volontari, Cavour era pure nel vero: chiamare i Cacciatori delle Alpi gobbi e storpi era né più né meno che una esagerazione. Tutti i volontari accorsi a Torino che avessero avuto l' età e i necessari requisiti fisici, dovevano essere incorporati nell'esercito regolare, gli altri - o più anziani o senza requisiti - spediti ai depositi dei volontari. Questa era la regola prestabilita.
Quanto al volersi tenere a forza in Valtellina, Cavour fu indotto in errore; Garibaldi durante quella campagna non fece che ubbidire ora per ora agli ordini mandati dal Re, dal generale Della Rocca e, principalmente da Cialdini. Finita quella guerra, i rapporti fra Cavour e Garibaldi erano dei più cordiali.

La "vendita" di Nizza fu il pomo della discordia fra loro, tuttavia la condotta di Cavour durante la campagna delle due Sicilie é sempre rimasta inesplicabile, a meno che egli non avesse prestato fede alla falsa voce che Garibaldi mirasse di fatto ad un mutamento di bandiera (e darsi alla Repubblicana).

Bisogna leggere giorno per giorno i (funesti) fasti di La Farina, spedito a spadroneggiare in Sicilia per vendicarsi dallo sfratto di Garibaldi.
Ad ogni modo Cavour aveva vinto, e i dignitosi silenzi di Caprera lo dovettero aver persuaso che i suoi sospetti erano infondati. Egli conosceva ormai la potenza di Garibaldi sui campi di battaglia pari alla sua nei consigli di governo, ed egli stesso non poteva non sentirsi preso di ammirazione per il leone incatenato che voleva rivendicare Venezia ad ogni costo e anelava l'istante in cui il suo Re avrebbe aggiunta in Roma la più splendida gemma alla sua corona di principe liberatore d'Italia.

Ma questi due grandi parvero due nemici inconciliabili. Ora chi erano coloro che versarono il veleno della discordia nell'animo loro? Non di certo i valorosi compagni del prode condottiere, Sirtori, Medici, Cosenz devoti a Cavour oramai, e per giustificare la loro condotta, ansiosissimi di vedere il Duce di ieri e il Duce di oggi camminare insieme verso l'ambita meta; non Bixio idolatra di Garibaldi, eppure convinto che Cavour voleva finalmente l'unità della patria; non Bertani, cui il Generale non perdonava di aver detto in pieno Parlamento che Garibaldi sarebbe felice di stringere la mano di Cavour, per continuare la guerra contro i nemici dell' Italia.
No, i mestatori erano in altro campo; stavano a fianco di Cavour, ed erano uomini che vivevano di rancori, gente perversa per cui la patria era sinonimo di ire partigiane (*).

(*) Se le lettere di La Farina dalla Sicilia nel 1860 erano velenose, le lettere da Napoli e dalla Sicilia nel 60-61 sono perfide e menzognere. Calunnia Farini, fa di Mazzini un Creso che corrompe, spargendo denaro a piene mani, compatisce "il povero governo di Sicilia personificato in sé stesso, e che in Napoli si trova davvero senza tetto. - Giudica pericolosa la politica di Farini, perché a lui, a Montezemolo e a Cordova, né un pranzo né un atto di cortesia, mentre in Parma, in Modena e in Bologna, egli ebbe sempre de' magnifici appartamenti da mettere a sua disposizione." Viene poi ad una preziosa confessione: "Del Piemonte nessuno ne parla, nessuno ne chiede: la sua storia é ignorata; delle sue condizioni politiche, delle sue leggi non se ne ha notizia alcuna; insomma l'annessione morale non esiste !"
Eppure si voleva imporre l'annessione materiale (come una cuffia di silenzio) a un popolo di dieci milioni, che non conosceva altro nome che quello di "Galibardi", che non aveva altro scopo se non quello dell'Italia.
Parlando della Sicilia avverte Cavour, che intriga a Corte per indurre S. M. a consigliare Montezemolo, di non adoperare lui, almeno per i primi giorni nel Governo della Sicilia. - Sarebbe contento (poverino), appena vista sua madre, di ritornarsene a Torino, ma "ho l'intimo e profondo convincimento, che se si commette quest'atto di debolezza, il governo di Sicilia é perduto!!!!". A questo nauseanti lettere, Cavour risponde che si prepari alla lotta, "che agisca con quella lealtà e risoluzione di cui diede tante prove" e si firma "suo affezionatissimo". A Palermo "Sua Eccellenza" manda tre volte i carabinieri per ammanettare Crispi; cambia tutti i governatori e gran parte degli intendenti, e si promette di mettere mano ai delegati e questori, si lamenta di non avere un' ora per "lavori di meditazione". - "Se non arrivano altri battaglioni di bersaglieri, altri reggimenti di linea, altre colonne mobili, é assolutamente impossibile rimettere l'ordine nella Provincia di Palermo; tutto ciò perché non é sicuro di potere prevenire un movimento, benché con tutte queste forze, e licenziando tutti i soldati garibaldini, senta di poter reprimere il movimento"

Da "Cronologia"
In quel 18 APRILE ci fu un violento scontro alla Camera tra Garibaldi e Cavour e come contraccolpo seguì quello di Garibaldi con Cialdini. Questa volta il Re dovette intervenire per una pacificazione, invitando Cavour e Garibaldi a palazzo reale per arrivare a delle spiegazioni; ma l'ostinato Garibaldi "proclamò" che non avrebbe mai stretto la mano a Cavour. I due erano reciprocamente insofferenti.
  Intanto nel Sud nel corso dell'anno si stanno moltiplicando le rivolte, ed il governo inizia ad inviare i primi grossi contingenti di truppe, prima ancora di tentare una politica di mediazione con i legittimisti borbonici.
Tutto ciò che si sta decidendo nel Parlamento torinese, è motivo di rifiuto e di rivolte non solo del militari ma anche della popolazione. Rurale e latifondista. Quest'ultimi quando vidroe che dovevano prendere ordini dai piemontesi, si pentirono di averli appoggiati, convinti di spartirsi le proprietà borboniche, e quelle dei servili e privilegiati - senza meriti - lacchè dei borboni.
Nel centro-meridione nessuno dei nuovi politici che dovevano guidare il paese c'era mai stato. Lo stesso CAVOUR non era mai sceso oltre Firenze. Né volle mai andarci, per accertarsi se dopo Firenze c'erano uomini, selvaggi, oppure scimmie che si arrampicavano sugli alberi. Di storia del sud ne conosceva molto poca. Di Agrigento, di Siracusa non sapeva nulla, non sapeva che qui e nei dintorni c'erano le meraviglie, i palazzi, i templi, i giardini, l'arte, la filosofia e la civiltà, già 2470 anni prima che lui nascesse a Torino, a quei tempi coperta dal fango del Po e con i primi abitanti sulle palafitte nel vicino lago di Viverone o a Lanzo.
CAVOUR per migliorare le sue grandi tenute di famiglia guardava al nord Europa, ignorando che i più curati, e i più bei giardini dell'agricoltura europea erano in Sicilia. Lui, amante dell'agricoltura, gli sarebbe bastata una visita per scoprire che nel Sud c'era la terra delle grandi miniere dell'"oro verde". Un patrimonio potenziale della futura nazione, enorme, incommensurabile, buttato al vento; e che anche i suoi successori, più ciechi di lui, non seppero mai valorizzare. Anzi distrussero quello che perfino i beduini  Arabi - quando vi sbarcarono - avevano valorizzato e al mondo  mostrato i pregi,  dato valore, creando la Conca d'Oro, con al centro Aziz, "il Fiore" del Mediterraneo (l'odierna Palermo).
Poi si lamentavano i politici del nord che nel sud scoppiavano le rivolte. In coro dissero che era una " terra di briganti". Si comandò una feroce repressione inviando 116.000 soldati. Che catturarono e fucilarono  5212 "briganti" (fra questi oltre che capi-popolo, molti regolari  ufficiali borbonici allo sbando, come un famoso 8 settembre 1943, con i partigiani sulle montagne).
Questa insorgenza sociale la definirono "brigantaggio". Stava lievitando su tutta la popolazione meridionale (Molise, Abruzzi, Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia)  ma loro, i nuovi governanti  seguitarono a chiamarli,  i capi di quella "resistenza",  "banditi". E che contro il "dilagare del brigantaggio nel sud, bisognava ricorrere a una feroce repressione armata".
Il paradosso fu che in piena guerra civile - perchè tale era diventata la questione meridionale -  in questo 1861 si introdusse nel meridione la leva  obbligatoria  oltre gli inasprimenti fiscali, che  colpirono non i grandi proprietari di latifondi ma la popolazione e i consumi popolari. Si arriverà a tassare perfino il pane per ripianare i grossi debiti del Piemonte che erano pari alla metà di tutto il resto d'Italia. La Lombardia addirittura aveva un quarto in attivo, ma si ritrovò in debito. 
Nel Salernitano erano nate alcune industrie; le trasferirono nel Nord; e asportarono perfino i pochi binari delle prime modeste ferrovie, chiusero i cantieri navali, requisirono le navi.
Del resto la destra favoriva gli interessi dei proprietari terrieri (l'unico settore che esportava ortofrutticultura- fra l'altro male esportata per non aver incentivato i trasporti navali e ferroviari!). Non favoriva né l'industria, né il commercio. Poi diventò un boomerang, infatti, l'industria, non incentivata, rimasta arretrata, creò poi danni enormi alla modernizzazione della stessa agricoltura. Ci si mangiò così la capra e il cavolo nel momento più critico, mentre all'estero era in atto un periodo di grandi trasformazioni, nelle tecniche agricole e soprattutto nei trasporti (con l'Inghilterra che possedeva già 14.000 km di strade ferrate contro i 100 km del sud) (abbiamo detto 100 !!!  non è un errore !!!)
Il danno fu irreversibile.  Esposti i due settori a una agguerrita concorrenza internazionale, con gli errori sabaudi fatti in questo decennio non permetteranno più ai meridionali di risalire sul treno della competitività, mentre gli altri paesi europei ormai viaggiavano a tutto vapore. Con le prime macchine utensili che  in forma esponenziale le stesse producevano altre macchine, ferrovie, navi, infrastrutture.
Il 20 agosto del prossimo anno verrà proclamato lo stato d’assedio in tutta la Sicilia;  soppressa la libertà di stampa e di riunione; i sospettati  furono deportati in Piemonte;  instaurata la dittatura militare  con pieni poteri per la repressione.
Nel corso dell'anno  6.800 persone si rifugiarono  in Egitto. Un accogliente   rifugio per i siciliani.
Altri 7000 nel 1863, 9000 nel 1864, 11.000 nel 1865, 18.000 nel 1866, La media fino al   1897 sarà poi di 940 persone all'anno, la media dal 1898 al 1914 è di 2170 ogni anno.
I fuggiaschi non erano nè banditi nè briganti. In Egitto crearono e produssero grandi opere. Alcune ancora oggi vanto dell'Egitto: la Ferrovia delle Piramidi, Tranvie, il Museo (del Cairo!), Teatri, Banche, Ospedali, Dighe, Strade, e perfino la più importante Moschea di Alessandria, la El Rifai, interamente decorata da Letterio ed Enrico PRINZIVALLI  di Messina. Un grandioso capolavoro dell'arte italiana in Egitto.
Prinzivalli lasciò Messina nel 1866. E non era un brigante!
Era l'anno di una terribile repressione guidata dal commissario straordinario con pieni poteri. Che usò il pugno di ferro,  comminando ai ribelli  numerose condanne a morte e ai lavori forzati.
Nel frattempo era scoppiato anche il colera con decine di migliaia di morti.
))

Fu proprio nei giorni in cui si discuteva la proposta di Garibaldi per l'armamento, che il Cialdini, eroe di Castelfidardo, stampò sulle colonne della Perseveranza, la seguente lettera, le cui contumelie sbalordirono tutta Italia:

Torino, 21 aprile 1861.
Generale,
Da quando vi conobbi fui vostro amico, e lo fui, quando l'esserlo e il dirlo era biasimato da molti.
Schiettamente applaudii i trionfi vostri, ammirai la vostra possente iniziativa militare e con gli amici miei e vostri, in pubblico e in privato, sempre e dovunque, diedi testimonianze di stima altissima per Voi, o generale, e mi dissi incapace di tentare ciò che avevate così magistralmente compiuto a Marsala.
Ed era tanta la mia fiducia in Voi, che quando il generale Sirtori pronunziò funeste parole in Parlamento, io ero sicuro che Voi avreste trovato il modo di smentirle. Ed allorché vi seppi partito da Caprera, sbarcato a Genova, giunto a Torino, credetti che a ciò venivate a fare, a ciò soltanto.
La vostra risposta all'indirizzo degli operai di Milano, le vostre parole nella Camera, mi portarono un disinganno penosissimo, ma completo.
Voi non siete l'uomo che io credevo, voi non siete il Garibaldi che amai.
Con lo sparire l'incanto é scomparso l'affetto che a voi mi legava. Non sono più vostro amico, e francamente, apertamente, passo nelle file dei politici avversari vostri.

" Voi osate mettervi al livello del Re, parlandone coll'affettata familiarità d'un camerata. Voi intendete collocarvi al disopra degli usi, presentandovi alla Camera in un costume stranissimo, al disopra del governo, dicendone traditori i ministri perché a voi non devoti; al disopra del Parlamento, colmando di vituperii i deputati che non pensano a modo vostro; al disopra del paese, volendolo spingere dove e come meglio vi aggrada.

" Ebbene, Generale! Vi sono uomini non disposti a sopportare tutto ciò ed io sono con loro. Nemico di ogni tirannia, sia essa vestita di nero o di rosso, combatterò a oltranza anche la vostra.
Mi sono noti gli ordini dati da voi, o dai vostri, al colonnello Tripoti per riceverci negli Abruzzi a fucilate, conosco le parole dette dal generale Sirtori in Parlamento, so quelle che voi pronunciaste, e su queste tracce successive cammino sicuro e giungo all'intimo pensiero del vostro partito. Esso vuole impadronirsi del paese e dell'armata, minacciandoci, in caso contrario, di una guerra civile.
Non sono in grado di conoscere cosa pensi di ciò il paese, ma posso assicurarvi che l'armata non teme le vostre minacce, e teme solo il vostro governo.

"Generale, voi compieste una grande e meravigliosa impresa con i vostri volontari. Avete ragione di menarne vanto, ma avete torto di esagerarne i veri risultati.
Voi eravate sul Volturno in pessime condizioni, quando noi arrivammo. Capua, Gaeta, Messina e Civitella, non caddero per opera vostra, e cinquantasei mila borbonici furono battuti, dispersi e fatti prigionieri da noi, non da voi.
Dunque è inesatto il dire che il Regno delle Due Sicilie fu tutto liberato dalle armi vostre.
Nel vostro legittimo orgoglio non dimenticate, o Generale, che l'armata e la flotta nostra vi ebbero qualche parte, distruggendo molto più della metà dell'esercito napoletano, e prendendo le quattro fortezze dello Stato.

"Finirò per dirvi che io non ho la pretesa, né il mandato di parlarvi in nome dell'armata. Ma credo conoscerla abbastanza per ripromettermi, che essa dividerà il sentimento di disgusto e di dolore che le intemperanze vostre, del vostro partito, hanno sollevato nel l'animo mio.
Sono colla massima considerazione il vostro devotissimo servo,
ENRICO CIALDINI.

Un fremito d'ira corso fra i volontari; ognuno di essi voleva sfidare il Cialdini; tutti i deputati della sinistra volevano dare in massa le loro dimissioni. Garibaldi impose silenzio a tutti, dicendo che la lettera di Cialdini era affar suo, e rispose come segue:

Torino, 22 aprile 1861
Generale Cialdini
Anch'io fui vostro amico ed ammiratore delle vostre gesta. Oggi sarò ciò che voi volete, non volendo scendere certamente a giustificarmi di quanto voi accennate nella vostra lettera, d'indecoroso per parte mia, verso il Re e verso l'esercito: forte in tutto ciò nella coscienza di soldato e di cittadino italiano.
Circa alla foggia mia di vestire io la porterò finché mi si dica che io non sono più in un libero paese ove ciascuno va vestito come vuole.
Le parole al colonnello Tripoti mi vengono nuove. Io non conosco altri ordini che quello da me dato: di ricevere i soldati italiani dell'esercito del settentrione come fratelli; mentre si sapeva che quell'esercito veniva per combattere "la rivoluzione personificata in Garibaldi". (Parole di Farini a Napoleone III).
Come deputato io credo di avere esposto alla Camera una piccolissima parte dei torti ricevuti dall'esercito meridionale, e dal ministero; e credo di averne il diritto.
L'armata italiana troverà nelle sue file un soldato di più, quando si tratti di combattere i nemici dell'Italia e ciò non vi giungerà nuovo.
Altro che possiate aver udito di me verso l'armata - sono calunnie.
Noi eravamo sul Volturno al vespro della più splendida vittoria nostra, ottenuta nell'Italia del mezzogiorno prima del vostro arrivo; e tutt'altro che in pessime condizioni.
Da quanto so, l'armata ha applaudito alle libere e moderate parole di un milite deputato per cui l'onore italiano é stato un culto di tutta la sua vita.
Se poi qualcheduno si trova offeso del mio modo di procedere, io parlando in nome di me solo, e delle mie parole solo garante, aspetto tranquillamente che mi si chieda soddisfazione delle stesso
GIUSEPPE GARIBALDI.

CINQUANTUNESIMO CAPITOLO >

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