CINQUANTOTTESIMO CAPITOLO

CAPITOLO CINQUANTOTTESIMO

LA MORTE - I FUNERALI
Vita di Garibaldi a Caprera. - Ultima sua lettera. - Agonia. - Morte. - Lutto nazionale. - Lettera del Re. - Volontà sua di essere bruciato. - Il perché non fu obbedito.
- Quod differtur non aufertur. - . - Lettere di Alberto Mario da Caprera.
Le lagrime. - I funerali. - L' apoteosi. - Viva Garibaldi !


A Caprera Garibaldi, pur infermo, riprese subito la sua vita normale e semplice; sembrava anzi che quella solitudine, quel silenzio migliorassero la sua salute. Ogni mattina, usciva di buon'ora quando faceva bel tempo e ritornava per la frugale colazione, la quale consisteva spesso in una pizza alla napoletana, od in un pezzo di carne gettato sul fuoco e abbrustolato, come usava sempre, dopo il suo soggiorno nell'America del Sud.
Poi rinnovava la passeggiata per l'isola, visitando i lavori, fermandosi a parlare con i contadini ed occupandosi in casa a leggere i giornali o dettare qualche lettera.

Proprio per nulla accennarono alla imminente catastrofe, i medici che l'avevano accompagnato e che ripartirono per il continente il 28 maggio.
Il giorno seguente di proprio pugno scrisse la seguente lettera
Caprera, 29 Maggio 1882.
Illustre Cacciatore,
Direttore dell'Osservatorio di Palermo.
Volete darmi la posizione della nuova Cometa e il giorno della maggior grandezza?
Sempre vostro, G. GARIBALDI
.

I Fu l'ultima!

Nei due giorni successivi, contro l'eccessivo caldo, egli insofferente di cure volle esporsi all'aria e servirsi del ghiaccio. I bronchi, già lesi, immediatamente ne soffrirono, ed avvenne la paralisi della faringe, che gli impediva d'inghiottire persino una goccia d'acqua. Si chiamò a Caprera la famiglia ed il medico Albanese, ma solo Menotti giunse in tempo. Quanto avrà sofferto negli ultimi giorni! Eppure mai un lamento, mai una volta che abbandonasse la consueta serenità! Mentre con gli occhi fissi sul mare prediletto, cercava distinguere il desiderato vapore in cui si trovava il dottor Albanese, i passeri abituati a volargli sulle spalle ed a mangiare sulla sua mano vennero a cinguettargli il loro addio. A chi voleva allontanarli disse: "No! - sono forse le anime delle mie bambine venute a chiamarmi." »
Essi ebbero l'ultimo suo sorriso; domandò di Manlio e dell'ora, e mentre il chirurgo Cariddi gli faceva un'iniezione al braccio, cadde in deliquio. Lo si credette morto, ma l' agonia durò altre due ore. Alle ore 8 e 50 pomeridiane del 2 giugno egli spirò. Accanto al suo letto fu trovato il vecchio volumetto dei Sepolcri di Foscolo e l'albo contenente i ritratti degli audaci che lo seguirono da Quarto a Marsala.

Il telegrafo saettò l'improvviso lutto nazionale in tutta Italia. Al primo annunzio, quasi colpito dal fulmine, ognuno rimase senza parola. Poi un grido straziante, un urlo disperato echeggiò fra i monti e sul mare, nelle cento città e nelle isole lontane. I desolati patrioti d'Italia in cuor loro mormoravano: "Foss'io morto in luogo tuo, o padre nostro Garibaldi." Ovunque un lamento, un pianto ed un gran rammarico.
Il Re di proprio pugno, senz'essere visto da nessuno, telegrafa a Menotti:
"Il dolore ch'io provo per la morte del suo illustre genitore é pari alla disgrazia da cui fu colpita la nazione.
Mio padre mi aveva insegnato dalla mia prima gioventù ad onorare nel generale Garibaldi le virtù del cittadino e del soldato. Testimone quindi delle gloriose sue gesta, ebbi per lui l'affetto più profondo e la più grande riconoscenza ed ammirazione. Questi sentimenti e la memoria di quelli dimostrati dal prode generale verso di me e la mia famiglia mi fanno sentire doppiamente la gravità dell'irreparabile sua perdita.
Associandomi al supremo cordoglio del popolo italiano ed al lutto della famiglia dell'estinto, io La prego di essere interprete presso la medesima di quella vivissima condoglianza che divido con la intera nazione.
UMBERTO.

Parole sentite, ne siamo certi, giacché ricordiamo che Umberto, principe ereditario, all'insaputa del padre e della corte, appena giunto in Roma Garibaldi, nel 1876, si precipitò a visitarlo, volendo ammirarlo da vicino alla buona.
E lo visitò di nuovo appena Re, durante l' ultimo soggiorno dell'affranto veterano in Roma.
Il Parlamento sospende le sedute in segno di dolore nazionale; e non potendo più nulla per Garibaldi, con gentile pensiero vota una pensione di 10.000 lire annue per la vedova e per ciascuno dei figli, Menotti, Ricciotti, Teresita, Clelia e Manlio.

Milano tutta accorre al cimitero monumentale, dove un altro dei suoi più grandi concittadini, Carlo Cattaneo (morto nel '69) già veglia sull'avvenire. In ogni casa, fra le Alpi ed il mare, vi è lutto per colui che fu il redentore d'Italia. Le donne napoletane, strappandosi i capelli, lamentano "E' morto Cullubardo, è morto lu mio bello."
La Francia si unisce all'Italia nel pianto, ricorda colui che la difese a viso aperto; dimentica rancori, gelosie ed invidie. Purificate dal dolore, Italia e Francia formano l'alleanza dei popoli, che fu il sogno di Garibaldi, nella giovinezza e nella virilità.
L'Austria sulla salma del suo più fiero nemico tributa il dovuto omaggio.
Madre e figlia, l'Inghilterra e l'America, dopo aver riconosciuto in Garibaldi il redivivo Cromwell quella, Washington questa, ed averlo pianto come un proprio gran cittadino, dicono all'Italia: "Seguite le sue orme, e quella libertà, che egli tanto ammirò sul nostro suolo,sarà vostra nelle spirito e in verità come oggi lo é nelle parole."

Qui non riapriremo la dolorosa polemica intorno all'ineseguita volontà ultima di Garibaldi.
Egli fin dal 1877 l'aveva così espressa:
"Avendo per testamento determinato la cremazione del mio cadavere, incarico mia moglie di eseguire la mia volontà prima di dare avviso a chicchessia della mia morte. Ove mia moglie morisse prima di me farò lo stesso di lei. Verrà costruita una piccola urna di granito che racchiuderà le ceneri de entrambi. L'urna sarà collocata sul muro dietro il sarcofago delle nostre bambine e sotto l'acacia che lo domina."

Nello stesso anno (come si vede dal fac simile qui sotto), più esplicitamente così scriveva con una calligrafia zoppicante, incerta (lui che era stato un buon calligrafo), al medico amico suo:
Caprera, 26 settembre 1877.
Mio carissimo Prandina,
Voi gentilmente vi incaricate della cremazione del mio cadavere; ve ne sono grato. Sulla strada che da questa casa conduce verso tramontana alla marina, alla distanza di 300 passi a sinistra vi é una depressione di terreno limitata da un muro. Su quel luogo si formerà una catasta di legna di due metri, con legno d'acacia, lentisco, mìrto ed altra legna aromatica. Sulla catasta si poserà un lettino di ferro, e su questo la bara scoperta, con dentro gli avanzi adorni della camicia rossa. Un pugno di cenere sarà conservato in un'urna qualunque, e questa dovrà essere posta nel sepolcreto che conserva le ceneri delle mie bambine, Rosa e Anita.
Sempre vostro, G. GARIBALDI.

 

A tutta prima sembrava sacrilegio esitare un istante davanti la commovente semplicità di quelle parole, a quell'ultimo suo ordine del giorno, conciso, preciso come tutti i precedenti. E coll'immaginazione vedevamo ripetere quella poetica scena che ebbe luogo sull'altra sponda del Mediterraneo, quando Byron decise con altri amici di ardere le reliquie di Shelley naufragato fra Livorno e la Spezia e di conservare le ceneri e il cuore per essere deposti nel cimitero degli eretici a Roma.
Ma ciò non fu possibile: soldati più prodi, amici più devoti, la famiglia stessa, tutti dov
evano convincersi dell'impossibilità di eseguire testualmente la sua volontà. Lui voleva essere arso sul rogo, accesa la pira all'aria aperta.
"Bisogna ubbidire!" fu il grido di dolore emesso dal Carducci e dalla moltitudine echeggiato: "sarebbe profanazione esitare!".

Poi Alberto Mario, in una lettera (*) da Caprera a me, che aveva già consegnato alla stampa il 5 giugno 1882 l'ultime pagine della vita di Garibaldi, scriveva:
"Ho veduto il rogo in Caprera, nel sito disegnato dal Generale Garibaldi. Su questo rogo è impossibile incenerire un cadavere. Impossibil nemo tenetur." Dunque, nessuna profanazione.


(*) Nella stessa lettera di Alberto Mario si legge:
"Speriamo che la presente e futura generazione possano pellegrinare a Caprera e sotto l'acacia da lui designata alla vista dell' urna racchiudente le ceneri di Garibaldi...

... ispirarsi ad eroici pensieri, ad imprese degne di lui ! Neppure per un momento possiamo ammettere che i funerali ufficiali di giovedì (8 giugno) siano l'ultimo omaggio degli Italiani all'adorato e perduto Duce. Ci telegrafano che Roma, sentendosi di nuovo Niobe fra le nazioni, portò piangendo il busto di Garibaldi in Campidoglio, e che nessun Cesare antico ebbe un trionfo così commovente. E sia! Ma l'Italia tutta, che come Israele radunato per David su Hebron, disse a Garibaldi vivo: - Ecco ! Noi siano tuo ossa, noi tua carne, l' Italia dei volontari e del popolo, mai sorda alle sue parole, disobbedirà oggi all'ultimo suo comando? Impossibile. I figli e la vedova, il venerando Sacchi, che alla vista dell'esanime viso proruppe in disperato pianto al pari dell'ultimo reduce che porta la gloriosa camicia rossa, tutti curvando la testa durante i funerali di Caprera, avranno detto: "Quod differtur non aufertur".
Ed in un giorno non lontano tutti si raccoglieranno su quell'angolo roccioso di Caprera, ombreggiato dagli alberi da Lui piantati, e trasportata la salma dalla temporanea dimora sul rogo di cisto e di mirto getteranno per incenso e profumo non le cose più care, ma tutto quello che hanno più di triste. Allora soltanto con coscienza pura per il dovere compiuto, ognuno potrà esclamare:
"Obbedisco!"

 

Avvertito delle difficoltà, Francesco Crispi partiva con il professore Todaro e Pini, i più zelanti sostenitori della cremazione, con l'ingegnere Manfredi, portando con sè ciò che sembrava necessario sia per la cremazione sia per l'imbalsamazione. Trovatisi con Albanese, Canzio e Menotti, tutti furono d'accordo che il testamento non era testualmente eseguibile e che bisognava compiere l'imbalsamazione.
"LUI vuole essere cremato, la nazione lo vuole cremato" scrive ancora Mario. "L'imbalsamazione non viola la sua volontà, solamente ne differisce la esecuzione e la rende possibile.
L'imbalsamazione del cadavere é riuscita perfetta. La salma é rimasta esposta fino alle due. Presenti Torlonia e i rappresentanti del municipio di Roma, il generale Sacchi, commilitone di Garibaldi a Montevideo e ferito nella battaglia di Sant'Antonio, commosso fino alle lacrime, sta davanti al cadavere. E' una cosa straziante.
A vederlo nudo, il corpo del generale pareva quello di una donna, tanto aveva bianca la carnagione, rotonde le forme e perfette le linee. Rari i peli sul petto; le braccia, le gambe e le mani ne erano immuni. Guardando attentamente quel corpo pareva impossibile che avesse racchiuso un'anima indomita; e dando uno sguardo alle mani ed ai piedi del Generale, si provava una stretta fortissima al cuore, tante e sì gravi erano le deformazioni prodotte dall'artritide. Le falangi superiori delle dita erano rattrappite, contorte; le une si
accavallavano alle altre; la pelle era divenuta lucida, giallastra, coriacea, in molti punti ulcerata. Le articolazioni delle ginocchia, di molto ingrossate, non permettevano quasi più all'illustre vegliardo di piegare le falangi inferiori e le vertebre cervicali anchilosate toglievano a lui la possibilità di muovere e specialmente di piegare il collo. Sul corpo egli aveva sette gloriose cicatrici, la più profonda delle quali quella riportata ad Aspromonte in vicinanza del malleolo interno del piede destro. Questa ferita profonda, irregolarmente cicatrizzata, era non di rado al Generale cagione di acuti dolori".

Nella camera innumerevoli bandiere di associazioni operaie, di Società di reduci, fra cui quella dei Mille.
Un drappo di velluto nero, ricamato stupendamente in oro, copriva il feretro: un regalo del municipio di Sassari.

Il corteo ha percorso circolarmente un chilometro. La via è fiancheggiata da pennoni. Il corteo é aperto dalla musica militare, chiuso dalla musica di Sassari.
Nelle quattromila persone che accompagnano il feretro é il fiore della Nazione: ammiragli, ministri, generali, il principe di Savoia, celebri letterati e politici, fra gli altri il colonnello d'artiglieria Dogliotti, agli ordini di Garibaldi nel Trentino. Parlarono il senatore Alfieri di Sostegno per il Senato, Farini per la Camera, il ministro Ferrero per l' esercito, Crispi per i Mille, Zanardelli per il Governo.
Zanardelli parlò della divina Provvidenza. Alfieri lo salutò principale artefice dell'unità del regno.

La salma fu collocata nel cimitero della famiglia, in attesa della definitiva destinazione. La tomba fu immediatamente coperta da una miriade di corone, pervenute da ogni parte d'Italia.
Il discorso culminante fu quello del ministro della guerra, il quale, ricordando le virtù cittadine e le magnanime geste del perduto eroe, augurò all'esercito il coraggio, la scienza e il genio militare di Garibaldi.

Strana miscela di gente corsa a piangere su quello scoglio ! Strano miscuglio di lacrime versate per cause diverse !

Molti dei convenuti perdevano in Garibaldi ciò che a loro era più caro sulla terra, sentivano davvero che l'epopea della loro gioventù, la visione ideale degli anni virili erano scomparse e chiuse per sempre; che la parte migliore della vita loro era finita.
Molti si sentirono anche trafitti di pentimento, per averlo abbandonato e lasciato solo a lottare nell'ultimo periodo della sua vita.

Neanche mancarono in altri gli atti di contrizione verso un uomo da questi altri dannato, per loro volere o dei loro padroni, condannato a morir fucilato nella schiena quale nemico pubblico e dello Stato, e dopo l'immortale difesa di Roma arrestato, imprigionato ed esiliato, contrariato nella spedizione dei Mille, fatto relegare sullo scoglio di Caprera, storpiato in Aspromonte, imprigionato dopo Mentana.

Bello e commovente spettacolo davvero quell'atto di contrizione recitato su quella bara davanti quella gloriosa salma, tanto che un repubblicano intemerato, invitato a parlare, vi si rifiutò. Vogliam dire di Alberto Mario che, visto quel sincero rimpianto, sapendo di dover dire cose dure all' animo di quei signori convenuti, per non parer scortese, lui preferì tacere.

Dopo i funerali in quell'arcipelago, ove il cielo quasi si velò come alla morte del Giusto, e gli elementi scatenati aggiunsero il loro fragore a quello del cannone, e i venti schiantarono le bandiere repubblicane e monarchiche e dei comuni, tutte a mezz'asta.... ecco l'apoteosi in Roma, la celebrazione di Garibaldi in Campidoglio!

Mentre sulle due facce dei quaranta labari portati dai garibaldini, attorno al carro, si leggevano i nomi di ottanta battaglie a cui prese parte Garibaldi e si mirava quello stendardo stupendo col quale a LUI, in Roma, dissero "Tutti sono con te", e invano si cercarono quelli di Trento, Trieste ed Istria, - mentre le bande suonarono marce funebri invece dell'inno di vittoria, ecco sulla piazza del Campidoglio arrivare a galoppo il carro funebre, e dai quarantamila spettatori - dal cor cordis del popolo - irrompere lo stesso grido irrefrenabile che era già uscito dai 300,000 affollati sul passaggio del corteo: il grido di Viva Garibaldi!

II cuor del popolo rifiutava di credere che Garibaldi si fosse da loro dipartito. Egli infatti vive in loro come per loro é vissuto, e il suo nome risuonerà sul labbro di quanti in avvenire si accingeranno a rivendicare il diritto, la libertà.

Possono i potenti, i gaudenti, gli oppressori adagiarsi nella illusione che Garibaldi é morto, ma quando suonerà l'ora del riscatto il suo alfiere suonerà ancora la carica a passo di vittoria.

Essi crederanno allora all'immortalità!
Sentiranno che Garibaldi vive!
Che Garibaldi é !

 

FINE
DEI CAPITOLI E DELL'OPERA

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