GRECIA: FINE - DISTRUZIONE DI DIO - DISTRUZIONE CORINTO
I DEI ERANO GRECI O TRACI?

LA SCOMPARSA DI DIO - ANDRISCO - CECILIO METELLO, IL MACEDONICO, LO SCONFIGGE A PIDNA - RIBELLIONE DELLA GRECIA - DAMOCRITO, DIEO E CRITOLAO - ECCIDIO DI CORINTO - BATTAGLIE DI SCARFEA E LEUCOPETRA - DISTRUZIONE DI CORINTO - MUMMIO L' ACAICO
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Questa è Dio...e dietro quelle mura ciclopiche...


... si estende una città immensa, con il corso centrale lungo un chilometro.
Un città scomparsa dalla faccia della terra, e non sappiamo ancora perché....


Ho assistito al ritrovamento di una lapide; dopo la pulizia della stessa dal fango, è apparsa una scritta:
"qui dominarono i consoli romani L. Mummio e Cecilio Metello".
E' stato emozionante. Ricordiamo che Mummio e Metello sconfissero in Grecia le leghe, s'impadronirono delle città e molte le distrussero dalle fondamenta (vedi Corinto) e portarono a Roma un immenso bottino, con una grande quantità di opere d'arte, statue, bronzi, pitture. Fu la fine della Grecia ! (anche se gli fu data l'indipendenza (sic!)).

LA FINE DI DIO - ANDRISCO

Negli stessi anni che le legioni romane assediavano Cartagine, nella Macedonia e nella Grecia accadevano fatti che a queste due regioni dovevano costare la perdita dell'indipendenza. Se nella prima - che i greci consideravano abitata da una stirpe barbara- il suo destino non ha una grande importanza, nella seconda che ha avuto, e avrà ancora in seguito una grande influenza in tutto il mondo occidentale, questa decadenza inciderà enormemente nel mondo ellenistico; un mondo che si esaurisce lentamente con l'integrazione nell'impero romano prima, e scompare del tutto - cinque secoli dopo- quando nei primi anni del 300 d.C. subentra il mondo dell'età bizantina; anni in cui termineranno le espressioni letterarie, lo sport, la musica, l'arte, le tradizioni, e inizierà l'era della rassegnazione. Anticipando di alcuni decenni la fine di Roma.
Ma cosa aveva detto Scipione durante la distruzione di Cartagine?: "che l'orrendo delitto non poteva rimanere impunito e che la sorte toccata all'infelice città dovesse essere riservata, per legge fatale, a quell'altra che ne aveva voluta la fine". E dopo Cartagine, l'orrendo delitto del saccheggio, della distruzione e l'annientamento di un popolo e di una civiltà fu ripetuto in Grecia, in particolare a Dio e a Corinto (la battaglia della prima, nel precedente riassunto).

EMILIO PAOLO, ritornando a Roma, credeva -e con lui Roma- di avere con la sua opera, assicurato a quei popoli la pace, ma s'ingannava. Greci e Macedoni alle crudeli repressioni delle armi romane avevano piegato la fronte, però nel loro cuore il desiderio della riscossa non si era spento, né dalla loro mente poteva esser cancellato il ricordo delle stragi e dei saccheggi commessi nel loro paese dagli eserciti della repubblica d'oltremare.
A Dio, in Tessaglia, che d'ora in avanti nessuno storico citerà più, calò un velo pietoso. Una ragione ci deve essere. E sembra che sia stata immediatamente spopolata, uccisi o deportati tutti gli abitanti che, all'epoca di Lucio Emilio Paolo, il conquistatore di questo territorio, ne doveva contare un numero considerevole.

Sappiamo da Strabone, che quando questa regione fu sottomessa, centocinquantamila abitanti furono fatti schiavi, venduti e imbarcati per l'Italia. E che a Delo in un solo giorno ne furono imbarcati diecimila.

A DIO, che è posta sotto il Monte Olimpo, a 6 km dalla costa (dove oggi sorge la bellissima spiaggia di Gritsa Beach), Alessandro Magno aveva allestito il suo grande esercito, e da DIO, dopo aver fatto i sacrifici agli dei ai piedi dell'Olimpo, era poi partito per il suo straordinario viaggio senza ritorno, all'interno dell'Asia.
DIO l'accennava pure Omero. Ma allora, sia DIO sia il MONTE OLIMPO era terra dei Traci (una civiltà di cui non si sa -ancora oggi- quasi nulla), prima che i Greci si impossessassero dei loro territori e perfino di tutti i loro dei. Quando in Tracia vi giunsero i Romani nel 46 d.C. trasformandola poi in provincia (chiamata in seguito Romania), della civiltà Trace non esisteva più nulla, i Greci avevano cancellato ogni traccia; ma una buona parte della loro nuova civiltà e così i loro dei, dalla Tracia avevano mutuato quasi tutto.

Né immaginavano i Romani (che -affermarono- di aver portato la civiltà) che alcuni abitanti ai piedi del Palatino, prima della fondazione di Roma, erano forse proprio Traci (vedi cronologia di Roma), e che forse furono proprio loro ad introdurre la vite in Italia dai villaggi palafitticoli sorti nei laghi prealpini (in quello di Ledro, la vite era coltivata nel 1400-1200 a.C. - In Etruria apparve nel 700 a.C., a Roma alcune viti, compaiono solo nel 600 a.C. il vino era ancora considerato quasi come un medicinale, poi anche proibito per i suoi effetti alteranti)

Tutta la mitologia greca, così i famosi "tocchi magici" dei loro dei nella creazione del grande "miracolo greco" é quindi da rivisitare. Non sostengo che ogni professore che insegna storia antica debba andare di persona in Grecia (in questo caso ci vada con in mano i libri degli storici antichi, per scoprire lacune, falsità e faziosità) ma almeno suggerisco di aggiornarsi con le nuove scoperte archeologiche. Chi qui scrive ha fatto l'uno e l'altro. E di scoperte (e non è difficile) ne ha fatte molte.
(Inoltre, molto interessante, sono proprio le ultime scoperte archeologiche (come le Tavolette Tartarie e i Cilindri - che anticipano la scrittura Sumera e Egiziana) nell'opera di Heinz Siegert, "I Traci" pubblicato da Garzanti, 1986).

Dionisio era trace, e così suo padre Zeus. In lingua trace dio significa proprio zeus, e nysos significa giovinetto. Dunque, Dionisio é il giovinetto figlio di Zeus. Dei che solo nell'VIII-VII secolo a.C., iniziarono a penetrare in Grecia, quando i greci nei primi commerci scoprirono le sponde e le città trace del Mar Nero; e lì trovarono il "mondo degli dei traci" (diventati poi greci); trovarono un riflesso della società cavalleresca trace che si presenta a loro come un'aristocrazia celeste con tratti umani e una grande libertà morale; trovarono a Pomorie le saline (ci sono tuttora); trovarono le miniere d'oro e d'argento nel Pangeo; e trovarono una religione superiore, quella trace, che eclissò quella ancora aborigena com'era fino allora quella greca.

Dionisio (Bacco per i Romani - la vite era presente in Tracia nel 4000 a.C. - e anche di questo parla Omero "giungevano a Troia giare d'argilla sigillate con il dolcissimo vino trace di Taso") e Cibele (culti introdotti ufficialmente poi a Roma nel 205 a.C. dopo le guerre di cui ci siamo occupati in questi anni) sono entrambi NON di origine greca ma trace. La statuetta della Madre Terra, ritrovata nel Karanovo, è stata scolpita nel 4000 a.C. (3000 anni prima di arrivare come culto in Grecia, 3800 anni prima di arrivare a Roma).

Così Apollo (ritrovato a Dupljaja nel Banato) era venerato in Tracia 2000 anni prima di quello greco che però i greci fanno nascere a Delo nelle Cicladi, ma sempre figlio di Zeus era. Ad Apollonia sul Mar Nero (allora Trace) fondata nel V sec., proprio i greci eressero una statua ad Apollo alta tredici metri (scultore Calamide), ma era in onore del dio trace affinché proteggesse a sud della Tracia, la Grecia.
Omero dice il vero quando ci parla del culto di Apollo praticato dai Traci, a Maronea sulla costa Trace, all'epoca della guerra di Troia, quindi molto prima della colonizzazione greca e la nascita di Atene.

Lo stesso Orfeo e l'orfismo era trace. Infine lo stesso Monte Olimpo ("dimora degli dei greci") era trace, perché posto nell'antichissimo territorio un tempo trace ed era la "dimora degli dei traci".
Tutta la storia scritta impostata sull'antica tradizione greca (storici come Erodoto, Tucidide, Timeo, Apollodoro) e la stessa storicità dei Dori diventerebbe tutta errata. I Dori erano null'altro che Traci, abitanti anche in Tessaglia (Omero non ce ne parla, che allora era Tracia. Samotracia, Nasso, Imbro e Coo erano stanziamenti di popolazioni traci.
Nell' Iliade, Omero, quando parla dell'eroe "trace" Reso, che ha "un armatura e un cocchio tutto d'oro, il cavallo più bello del mondo e veloce come il vento"; lo fa spuntare fuori come un mitico eroe di tempi remoti. Ma non sbagliava Omero con i "tempi remoti"! Accenna a un già leggendario antico eroe Trace, e proprio a Varna è stata scoperta una necropoli con oggetti (monili, scettri ecc. "Tesoro di Varna") in puro oro a 24 carati, e armille a lamine d'oro battuto, non fuso, simili a quelle di Troia e Micene, come la maschera di Agamennone. Soltanto che.... quelle Trace sono di 2000 anni prima della caduta di Troia, 1000 anni prima della colonizzazione della Grecia, dell'Argolide, dell'Attica e di Creta.
Il motivo era questo; che le mitiche miniere d'oro e d'argento erano nel Pangeo; i greci poi se ne impossessarono nel 467 a.C. Il generale Tucidide era uno dei concessionari della miniera quando scontò l'esilio in Tracia e morì assassinato nel 396 a.C.. - Filippi situata a est del Pangeo era una vera e propria città di minatori d'oro. Scrive Aristotele nella "Piera Macedonica" ... "i Pieri risiedono nelle immediate vicinanze del monte Pangeo, ove si semina oro, si coltivano alberi d'oro e si raccoglie oro".
E Traci erano le favolose ricchezze dell'altrettanto favoloso re Mida, che sarebbe vissuto nella stessa zona del Bermio, un monte trace ricco d'oro puro.
L'uso delle lamine d'oro (nel tesoro di Varna o nella maschera di Agamennone poi) è dovuto al fatto che il minerale oro era presente nel Pangeo allo stato puro; e a quel tempo non si era ancora in grado di separare il metallo per fusione.
Come poi non ricordare, la spedizione di Traiano, nella zona tracica (o dacica) del monte Orastie. Vi portò via 260.000 chilogrammi d'oro e 290.000 d'argento, che gli consentì di risanare il deficit dello stato, e non solo togliere le imposte per l'anno 106 d.C., ma donare ad ogni contribuente dell'impero 650 denari.

A DIO e quindi in Tracia, scopriamo che non solo 4000 anni a.C. si era sviluppata l'agricoltura e l'allevamento del bestiame, compreso il primo cavallo; ma che era nata lì la civiltà palafatticola (a Varna esistono centinaia di villaggi palafitticoli, identici a quelli del Lago di Ledro, fondati nel 1500-1200 a.C. i cui abitanti indubbiamente risalirono nel corso di due e più millenni il Danubio, che nei pressi di Varna ha la sua foce); la ceramica a stile geometrico e a vivaci colori; le più antiche pitture su pareti intonacate (mille anni dopo comparvero a Creta); i primi lavori di tessitura del mondo; il culto del Toro, che adotta poi mille anni dopo Creta; che era diffusa già la metallurgia, contemporanea con quella vicina di Hacilar in Anatolia (3000 a.C.); la comparsa di lucerne a triangolo equilatero; e che l'incenerazione dei morti era una consuetudine trace (i famosi popoli dei Campi d'Urne non provenivano dunque dal centro nord Europa, ma dal Mar Nero, da questa antica civiltà che stiamo scoprendo solo ora in Tracia!)
(Un pugnale trovato a Ledro è simile a quello trovato a Micene -nella casa dell'olio- datato 1500 a. C. - e chi qui scrive, li ha visti entrambi, a Micene e a Ledro- in quest'ultima località, esiste uno straordinario museo, unico in Europa, e che merita una visita per chi vuole "viaggiare" nella storia del 1500-1000 a.C.).

Del resto già Schliemann scoprì, e ne rimase molto sconcertato, che i distruttori di Troia, dovevano essere gli stessi che l'avevano fondata 1500 anni prima. Infatti, nello strato più antico, trovò moltissime espressioni della cultura balcanica: proprio quella dei Traci; stile nella costruzione di templi, architettura della casa, ornamenti, ceramica, monili in oro (e ignorava il "tesoro di Varna" scoperto solo nel 1973). Lo studioso Dimitar Dimitrov avanza l'ipotesi che i troiani erano i primissimi emigranti traci in Asia Minore nordoccidentale che avrebbero attraversato in una precedente spedizione l'Ellesponto tra il IV e il III millennio a.C. . L'invasione successiva dei Dori fu insomma una lotta fra antichi cugini, e non fu una invasione improvvisa ma graduale. E gli stessi Achei detti anche Micenei, non furono la prima popolazione di origine indoeuropea che si profilò nella storia europea, ma un popolo fratello: cioè Trace. (o "Popoli del Mare" o del Nord", che usavano bruciare i morti e comporli in urne (designati poi dagli archeologi "popoli dei campi d'urne". Questi migrazioni provenivano dalla Tracia. Una parte scese nel Peloponneso a distruggere gli Achei-Micenei, un'altra, da Varna (grande centro palafitticolo) alle foci del Danubio, in un millennio, lo risalgono, dalle Porte di Ferro scendono alla odierna Belgrado, proseguono per il medio Danubio (Austria, Baviera), scendono nei laghi prealpini, si stanziano fino al 1200-1000 nella pianura Padana, poi si disperdono per l'Italia. Campi d'urne, le troviamo verso l'anno 1000 a.C. ai piedi del Palatino, dove sorgerà circa duecento anni dopo Roma.
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DIO, oggi, è ancora intatta, sotto una spessa coltre di quell'impalpabile terra della Magnesia che sembra borotalco. L'annientamento e quindi l'abbandono, fu molto probabilmente immediato. Forse un'orrenda strage dopo la conquista romana.

Da anni una moltitudine di archeologi portano alla luce quella che già dai primi scavi sembra una città, che allora, doveva essere più grande e con molti più abitanti della stessa Atene. Ciclopiche mura la circondano su un quadrato di due chilometri di lato. Massi enormi di centinaia di tonnellate, che ancora oggi sarebbero indistruttibili con un'artiglieria moderna.

Dietro queste mura, all'interno, scopriamo una città immensa, le vie sono molto simili a quelle della successiva Pompei; quella centrale è lunga un chilometro, con ai lati, case, palazzi, negozi, e in fondo edifici sacri, teatri, e altri luoghi pubblici. L'impressione è quella di una città ricca, opulenta, gremita di abitanti.
Nessuno -salvo qualche rivista di addetti- accenna a questa riscoperta; il luogo è ancora off-limit. Ma chi qui scrive, in qualche modo è riuscito a visitarla. Ed è la città che mi ha impressionato più di tutte quelle fino ad oggi visitate.
La ragione è che la città, finita sotto la coltre di una spessa polvere, è forse da ricercare proprio nel suo nome, un po' scomodo alla letteratura cristiana.

Torniamo ai nostri anni.
Erano tornati in Grecia, dopo diciassette anni d'esilio, per le preghiere di Catone e di Polibio (lui stesso era un esule, e che probabilmente sfilò prigioniero nei Fasti trionfali di Emilio Paolo dopo la vittoria su Perseo) i trecento superstiti di quella numerosa schiera di proscritti, di cui due terzi avevano miseramente lasciato la vita nelle prigioni d'Italia; erano tornati con il cuore ulcerato per i patimenti sofferti e, giunti in patria, con il racconto delle loro pene avevano destato nei cittadini l'odio contro il popolo che era stato causa delle loro miserie e dell'annientamento della storica terra.
Covava in Grecia e nella Macedonia la rivolta e questa scoppiò quasi contemporaneamente negli anni in cui Roma era impegnata in Africa, a Cartagine, in una guerra che per l'inettitudine dei suoi generali si prolungava senza sostanziali successi, anzi in alcuni casi con umilianti insuccessi.
Ed altrettanto era impegnata in Spagna con non meno insuccessi (ne parleremo più avanti).

Un audacissimo avventuriere di nome ANDRISCO, oriundo della Misia, fu l'uomo che tentò di sollevare la Macedonia, approfittando delle condizioni in cui si trovava Roma e del malcontento dei Macedoni.
Rassomigliando molto come fattezze a PERSEO, disse di essere figlio di costui e di Laodice di Siria e, preso il nome di FILIPPO, cominciò a sobillare le popolazioni della Macedonia; ma, privo di mezzi e non assecondato da coloro che gli avevano promesso aiuti, fu costretto a fuggire in Siria.
Recatosi alla corte di SOTERO DEMETRIO, cognato di Perseo, Andrisco chiese al re aiuti di uomini e di denari per riconquistare il trono, ma costui, appreso che il presunto nipote era solo un avventuriero e un millantatore, lo consegnò nelle mani di alcuni emissari di Roma.
Considerato innocuo e lasciato perciò senza custodia, Andrisco fuggì facilmente e andò prima a Bisanzio dove gli riuscì di reclutare alcuni partigiani, poi nella Tracia e qui, aiutato da due principi della regione, TERE e BARSADA, si proclamò re di Macedonia, e poco dopo vi entrò accolto dal popolo come un liberatore (era l'anno 149 a.C.).

Per qualche tempo la fortuna fu favorevole al falso figlio di Perseo. Assalito da un esercito romano comandato da SCIPIONE NASICA nella Tessaglia, riuscì a tenergli testa; assalito più tardi dal PRETORE P. IUVENZIO, sconfisse le legioni romane in uno scontro dove il loro capo trovò la morte; esaltato da questa vittoria, riunì sotto il suo scettro la Macedonia e la Tessaglia ed avviò trattative con i Cartaginesi.
Ma la fortuna di Andrisco non durò più di un anno. Resosi odioso alle stesse popolazioni alle quali aveva promesso la libertà, non seppe né poté rafforzarsi in modo tale da resistere a Roma e nel 148, a Pidna, scontratosi con un esercito di legionari condotto dal pretore QUINTO CECILIO METELLO fu sconfitto e fatto prigioniero.

La giornata di Pidna procurò a METELLO il titolo di "Macedonico". La Macedonia, che dal console Emilio Paolo era stata divisa in quattro stati autonomi, perdette la sua indipendenza e fu dichiarata provincia romana.
Nell'anno 142, un altro avventuriero, che si fece anche lui chiamare Filippo, rinnovare il tentativo di Andrisco, ma non ebbe miglior sorte del primo: battuto dal questore LUCIO TREMELLIO, fu catturato e messo a morte.

IN GRECIA - BATTAGLIE DI SCARFEA E LEUCOPETRA
LA DISTRUZIONE DI CORINTO

La medesima sorte della Macedonia toccò alla Grecia. Qui il malcontento e l'odio contro i Romani era tenuto vivo da coloro che erano ritornati dall'esilio e specialmente da DAMOCRITO, DICO e CRITOLAO, insigni cittadini il cui cuore sanguinava per la degradazione in cui era caduta la patria. Damocrito anzi era stato eletto stratega della Lega achea, la quale, nominando generale delle sue forze armate uno dei più fieri nemici della Repubblica, si schierava apertamente contro Roma. Fu un gesto di cattiva politica che fu causa di immediate ripercussioni in seno alla lega stessa danneggiandone la compagine. Sparta, infatti, che temeva la collera del Senato romano, dopo la nomina di DAMOCRITO, dichiarò di ritirarsi dalla lega e DICO, successo a Damocrito, invece di sanare la discordia, dichiarò guerra a Sparta senza curarsi di aspettare gli ambasciatori annunciati da QUINTO CECILIO METELLO.
Giunti a Corinto i commissari, si presentarono all'assemblea della lega nella quale si trovavano anche i rappresentanti spartani, e stabilirono che, per volontà del Senato, allo scopo di togliere ogni causa di dissidio, Sparta, Argo ed Orcomeno si staccassero dalla lega e formassero uno stato a parte, adducendo come motivo di tale provvedimento che queste tre città erano di stirpe diversa dalle altre.
Il decreto del Senato provocò l'indignazione di DICO, il quale, uscito dall'assemblea, cominciò al cospetto del popolo a stigmatizzare l'operato di Roma, tacciando il Senato di prepotenza e di ingiustizia. Infiammato dalle parole dello stratega, il popolo di Corinto si levò a tumulto e trucidò ferocemente gli Spartani che si trovavano nella città. I soli rappresentanti riuscirono a salvarsi con la fuga e fu un miracolo se i commissari romani non caddero vittima del furore popolare.
L'eccidio di Corinto meritava una severa punizione e Roma l'avrebbe immediatamente data se i suoi eserciti non si fossero trovati impegnati in Africa ed in Spagna. Si limitò perciò a chiedere alla lega una riparazione alle offese patite dagli ambasciatori e Metello inviò a Corinto alcuni legati. Questi però furono accolti ostilmente dall'assemblea del popolo e nel tumulto non ebbero la possibilità di aprir bocca. Né, del resto, se avessero potuto parlare, sarebbero riusciti a calmare gli animi dei Corinzi, eccitati da CRITOLAO, il quale urlava che gli Achei volevano i Romani come amici non come padroni.
Frattanto gli Achei armavano le loro milizie. Essendo riusciti a procurarsi gli aiuti dei Calcidesi, dei Beoti e dei Tebani, iniziarono le ostilità, muovendo contro Eraclea, che anch'essa, ossequiante a Roma, si era distaccata dalla lega.
Occorreva soffocare sul nascere la rivolta e a tale scopo, METELLO, scese con il suo esercito dalla Macedonia e, ingaggiato battaglia con i confederali presso Scarfea nella Locride, li sconfisse.

Ottenuta questa prima vittoria METELLO penetrò nella Beozia, dove mise in rotta i superstiti di Scarfea, poi marciò su Tebe e Megara, che caddero nelle sue mani.
Malgrado gli insuccessi patiti, i Greci non si diedero per vinti. Tutte le loro forze furono chiamate a raccolta e perfino gli schiavi armati. Con un esercito di circa dodicimila uomini DIEO si rifugiò a Corinto, deciso a resistere ad ogni costo in quest'ultimo baluardo dell'indipendenza greca.
Avrebbe certamente evitato alla sua patria danni più gravi se si fosse mostrato più accorto e meno intransigente, perché i Romani preparati forse dall'esperienza degli anni passati, erano animati questa volta da grande generosità nel reprimere la rivolta; infatti, Tebe e Megara erano state risparmiate dal saccheggio e dalla distruzione e il console, invece di affrettarsi a marciare su Corinto, vi aveva inviato tre influenti cittadini achei per tentare con la persuasione d'indurre i ribelli a deporre le armi.
Ma DIEO, oltre che un cattivo generale, era un pessimo uomo politico. Non solo non volle aderire all'invito di METELLO, ma ne imprigionò gli ambasciatori, aumentando, così, maggiormente lo sdegno del Senato che inviò in Grecia altri soldati e il nuovo console L. MUMMIO. (console all'inizio dell'anno 146 a.C. con Cornelio Lentulo)
Questi, senza perder tempo, condusse il suo esercito contro Corinto e pose il campo a Leucopetra, all'imboccatura dell'istmo.
Se i Greci avessero avuto un altro stratega avrebbero senza dubbio potuto resistere lungamente ai Romani, sfruttando l'eccellente posizione in cui si trovavano; ma non compresero che conveniva loro mantenersi sulla difensiva data l'inferiorità delle loro forze e, inorgogliti da una sortita che le loro truppe avevano felicemente operata ricacciando un reparto nemico allontanatosi dal campo e ingannati dal contegno di Mummio, il quale astutamente si mostrava esitante per attirare gli avversari fuori le mura, decisero di passare all'offensiva.

Era così sicuro di vincere DIEO che, avendo stabilito di dare battaglia, fece mettere le donne sopra un'altura vicina affinché assistessero allo spettacolo della sconfitta dei Romani, e fece preparare i carri che dovevano trasportare in città il bottino che doveva essere conquistato.
La battaglia avvenne a Leucopetra. MUMMIO aveva fatto appostare la sua cavalleria in un luogo boscoso e, iniziato il combattimento, sostenne il primo urto con le sole fanterie. Aveva già la cavalleria greca attaccato il fronte di Mummio, quando i cavalieri romani, sbucando dal punto dove si tenevano nascosti, la presero di fianco e la frantumarono in più parti. A voler rialzare le sorti della battaglia, si impegnò la fanteria greca, ma questa era ormai irrimediabilmente perduta e dopo un'inutile, sebbene eroica resistenza, l'esercito greco fu duramente sconfitto.
Avrebbe potuto DIEO con i resti delle sue truppe chiudersi dentro Corinto e prolungare entro le mura della città la lotta; invece, sbigottito dalla disfatta, fuggì precipitosamente a Magalopoli, dove si trovava la sua famiglia e, qui giunto, appiccato fuoco alla propria casa, uccise di sua mano la moglie per non farla cadere prigioniera del nemico, quindi si tolse la vita ingoiando, sul cadavere della sposa, un potente veleno.

La sconfitta di Leucopetra segnò la definitiva fine dell'indipendenza dei Greci.
I superstiti della battaglia, rimasti senza capo, cercarono scampo nella fuga e si sparpagliarono per la campagna, lasciando indifesa la città. Il console vincitore, temendo qualche insidia, aspettò tre giorni nel suo campo prima di entrare a Corinto, poi assicuratosi che le mura erano veramente prive di difensori, dalle porte aperte, entrò e occupò la città senza colpo ferire.
Corinto, la più ricca città della Grecia, fu abbandonata al saccheggio delle soldatesche, che sfogarono sulla popolazione e sulle cose la loro ferocia, riducendo quel floridissimo emporio del commercio dell'Asia e dell'Europa in un informe cumulo di macerie (che sono oggi ancora tutte lì, a ricordarci questa selvaggia distruzione. E fa molta tristezza).

Numerosissime opere d'arte di cui andava orgogliosa la città furono distrutte, ma molte altre di inestimabile valore furono salvate. Si narra che il re di Pergamo (il più grande appassionato d'arte di quei tempi) offrisse seicentomila sesterzi per un quadro di Bacco dovuto al pennello di Aristide. MUMMIO, il quale non s'intendeva affatto di arte, non sapendo spiegarsi come una tela dipinta si potesse pagare una somma simile, credendo che il quadro fosse dotato di misteriose virtù, ordinò che fosse inviato a Roma e la stessa sorte toccò a una grande quantità di opere d'arte, specialmente statue, pitture e bronzi. Fra queste, il grande complesso di statue bronzee, eseguite da Lisippo, che illustravano la battaglia di Alessandro Magno al Granico.
Alla distruzione di Corinto seguì quella di Tebe e di Calcide; parecchie altre città della Grecia furono risparmiate, ma subirono l'abbattimento delle mura e tutte dovettero consegnare le armi.
L'indipendenza della Grecia era finita per sempre. Anche il suo nome fu cancellato quando il console e dieci commissari del Senato la dichiararono provincia romana. Da allora fu chiamata ACAJA; governata dal pretore della Macedonia (correva l'anno 146 a.C. - Per la Grecia, e l'Ellenismo, l'ANNO DI MORTE).

Mummio, tornato a Roma, ebbe il trionfo e in memoria della sua vittoria il titolo di "Acaico". POLIBIO narra che il distruttore di Corinto era di natura mitissima e noi dobbiamo prestar fede alle sue parole, anche perché la vita di Mummio ne é la conferma; poteva, imitando gli altri generali romani, procurarsi immensi guadagni dalle città greche da lui conquistate; invece non prese nulla del ricchissimo bottino e, dopo avere trascorsa un'esistenza modestissima, morì così povero, che la figlia, per decreto del Senato, fu adottata a spese dello Stato.
Non deve pertanto addebitarsi a lui la feroce distruzione di Corinto, ma alla volontà di chi reggeva allora le sorti della Repubblica, la quale non voleva in questo modo -con la distruzione- solo punire la capitale politica della lega achea, ma voleva distruggere un emporio commerciale che era l'invidia di altri centri d'Italia. E proprio per questo condannò spietatamente Corinto.
La stessa sorte, in questo stesso anno 146, era riservata a Cartagine. Anche qui il motivo, sembra averlo spiegato molto bene, anche se banalmente, Catone: "perché aveva i fichi più grossi". Cioè l'invidia.

Ma lasciamo la martoriata Grecia, e la furia che si sta abbattendo su Cartagine (già narrata nel precedente riassunto), e andiamo in Spagna. Qui, cacciati i Cartaginesi da alcuni anni, i Romani la guerra che dovettero sostenere contro le popolazioni che lottavano per conservare la loro indipendenza, pur accettando alleanze con Roma, fu più dura e lunga, e anche qui alcuni consoli si comportarono come belve, anche contro popolazioni che non aveva commesso nessun atto ostile contro i Romani..

Questa sporca guerra la ricapitoliamo nei due prossimI capitolI, e lI concludiamo con una ennesima distruzione, che assicura però a Roma il dominio di tutta l'Iberia.

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...periodo dall'anno 146 al 129 a.C.

RIVOLTE IN SPAGNA - VIRIATO L'EROE - NUMANZIA DISTRUTTA

RIVOLTE IN SPAGNA - VICENDE DELLA GUERRA ISPANICA - IMPRESE DI EMILIO PAOLO, CATONE E CALPURNIO PISONE - MALVAGITÀ DI LUCULLO E SULPICIO GALBA - CELTIBERI E LUSITANI - VIRIATO, L'EROE DELLA LUSITANIA - IMPRESE E MORTE DI VIRIATO - I ROMANI PADRONI DELLA PENISOLA IBERICA - LA GUERRA NUMANTINA - SCIPIONE EMILIANO ASSEDIA E DISTRUGGE NUMANZIA - CONQUISTA DELLE BALEARI - ROMA EREDE DEL RE DI PERGAMO - LE PROVINCIE ROMANE
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RIVOLTA DEI POPOLI DELLA SPAGNA

Più dura e più lunga fu la guerra che i Romani dovettero sostenere nella Spagna. Cacciati i Cartaginesi, Roma aveva formato con i territori spagnoli conquistati due province: la Citeriore che comprendeva la Catalogna e Valencia; la Ulteriore costituita dall'Andalusia.
Le popolazioni di quelle regioni consegnatisi a Roma per la promessa avuta di esser liberate al giogo cartaginese, si erano mantenute fedeli alla Repubblica fino a quando durò la seconda guerra punica, temendo di ritornare sotto il dominio degli Africani; ma accortesi, dopo la battaglia di Zama (anno 202), che da un giogo erano passate sotto un altro, avide com'erano d'indipendenza, si ribellarono.
Prima a sollevarsi fu, la Spagna Citeriore, la quale, sconfitti i Romani ed ucciso in battaglia il console SEMPRONIO TUDITANO, riacquistò in brevissimo tempo la sua libertà.
A sottomettere gli Spagnoli Roma destinò allora, nella penisola Iberica il console MARCO PORCIO CATONE con una flotta di venticinque navi, due legioni e quindicimila italici. Sbarcato ad Emporia, Catone condusse la guerra con grande abilità ed energia. In una battaglia campale sconfisse duramente i ribelli, i quali - narra Valerio Anziate- persero quel giorno quarantamila uomini, e in breve tempo riconquistò a Roma tutta la provincia, le cui città consegnarono le armi e furono costrette a demolire le proprie mura.

Catone, di ritorno in Italia, celebrò il trionfo, ma era da poco partito quando la Spagna si ribellò una seconda volta. Fra i popoli che avevano inalberato il vessillo della rivolta erano i Lusitani, abitatori del Portogallo, e i Celtiberi, che abitavano l'Aragona e la Castiglia.
Gli eventi che seguono, li riprenderemo più avanti.
Prima torniamo indietro di qualche anno, ripartendo dal 215 a.C.

Quell'anno, contro i Lusitani, combatté duramente il pretore PUBLIO CORNELIO SCIPIONE che, presso Dertosa, in una battaglia accanita sconfisse i nemici, ne uccise dodicimila e conquistò centotrentaquattro insegne; ma quattro anni dopo nel 211 a.C. fu sconfitto e ucciso lui e il fratello da Asdrubale Barca.
L'anno dopo a Roma piuttosto allarmata, nell'allestire una nuovo esercito, a comandarlo con una forte determinazione, il futuro "SCIPIONE l'AFRICANO, per vendicare, padre e zio. Nel 209 sferra l'offensiva e occupa Cartagena, ingraziandosi molte popolazioni iberiche. L'anno dopo, 208, vince a Becula, e Asdrubale Barca lascia la Spagna per unirsi in Italia al fratello Annibale.
Nel 206 Scipione coglie la vittoria a Ilipa contro le residue forze cartaginesi e in conseguenza di queste ultime vittorie i Romani occupano Cadice e fondano la colonia Italica, poco a nord dell'attuale Siviglia; poi Scipione torna in Italia e nel 204 convince il Senato che per annientare i Cartaginesi bisogna portare la guerra in Africa, nella loro capitale.

Nel frattempo, mentre Scipione si prepara e va a cogliere i successi a Cartagine; il Senato romano, in Spagna organizza - come già accennato sopra- i territori controllati dalle legioni romane, in due province, la Citeriore con centro la valle dell'Ebro, e la Ulteriore, con centro nella valle del Baetis (odierno Guadalquivir).

Più che la suddivisione ai locali non piace i "controllori" che iniziano a comportarsi come padroni, peggiori dei primi. Iniziano alcune ribellioni e contro gli Oretani si misurò CAJO FLAMINIO che strappò loro la città di Ilucia nella Provincia Citeriore; contro i Vaccei, i Vettoni e i Celtiberi marcia il pretore MARCO FULVIO che riportò presso Toledo una grande vittoria. Ma questi successi dei Romani non furono sufficienti a domare la rivolta che divampò ancora più violenta di lì a poco. Furono i medesimi pretori FLAMINIO e FULVIO a ricondurre le legioni contro i ribelli con un po' di fortuna: il primo espugnò a viva forza la città di Litabro, il secondo conquistate Viscelia, Olone, Noliba, Cusibi e Toledo, sconfissei una seconda volta i Vettoni.

Dopo queste vittorie delle armi romane cominciò una lunga serie di successi ma anche di sconfitte. Mai si batterono così accanitamente gli Spagnoli ribelli, che inflissero agli eserciti di Roma dolorosissime perdite.
I Lusitani nel 563 (191 a.C.) riportano una vittoria sul console LUCIO EMILIO PAOLO, che fu costretto a fuggire dopo aver lasciato seimila uomini sul campo di battaglia; due anni dopo, Emilio Paolo sconfigge i Lusitani, ne uccide oltre ventimila ed espugna più di duecento tra città e villaggi.
Vinti da MARCIO ACIDINO, che ne uccise dodicimila, i Celtiberi uniti coi Lusitani nel 569 (185 a.C.) furono loro a riportare un notevole successo sul pretore CAJO CALPURNIO PISONE, massacrandogli cinquemila soldati; ma poi più tardi, sulle rive del Tago, sono sbaragliati dal medesimo Calpurnio che si rifà della disfatta precedente con una vendicativa rivincita.
Queste sconfitte e vittorie durano fino al 575 (179 a.C.) quando il vicepretore FULVIO FLACCO, aggredito dagli Spagnoli mentre sta per condurre a Terragona l'esercito per consegnarlo al nuovo preconsole Tiberio Sempronio Gracco, reagisce facendo un macello di nemici, che lasciarono sul terreno diciassettemila morti e tremila prigionieri.

L'arrivo di TIBERIO SEMPRONIO GRACCO pose però fine alla guerra, durata diciotto anni. Gracco, oltre che un valente capitano è un saggio uomo politico. Prima doma la rivolta con le armi, impiegando nelle operazioni di guerra la massima energia, ma senza commettere vendicativi eccidi o punitive stragi; poi assicura la pace per mezzo di saggi provvedimenti: fa entrare al servizio di Roma i nobili Celtiberi, distribuisce terre ai poveri, stipula trattati con le popolazioni, fa cessare le rapine e crea un'equa e onesta amministrazione.

Il saggio sistema adottato da TIBERIO SEMPRONIO GRACCO fece sì che per venticinque anni la quiete regnò in Spagna e sarebbe durata certamente di più se il malgoverno dei successivi pretori romani, che si distinsero tristemente per le ruberie, le uccisioni e le vessazioni di ogni sorta, non avesse generato nelle oppresse popolazioni spagnole un malcontento tale da indurle a cercar la fine di tante ingiustizie e crudeltà con la rivolta.

I CONSOLI NOBILIARE, MARCELLO E LUCULLO IN ISPAGNA

Primi a ribellarsi furono i fieri Celtiberi nel 154. Avendo il pretore romano proibito che ampliassero e fortificassero la città di Segeda, insorsero con le armi in mano ed unitisi ai Lusitani marciarono sotto il comando di un certo PUNICO, contro le truppe dei pretori delle due province e le sbaragliarono.
La notizia di questi fatti irritò Roma. Per vendicare la disfatta e per impedire che la rivolta prendesse più vaste proporzioni i1 Senato anticipò di due mesi l'anno consolare 153 - il quale da allora cominciò con il l° gennaio anziché con il l° marzo - e inviò nella Spagna Citeriore il console QUINTO FULVIO NOBILIORE con un esercito di trentamila uomini e dieci elefanti.

Il console mosse contro gli Arevaci, che erano guidati da CARO di SEGEDA, ma il 23 agosto dello stesso anno 153, le legioni romane, scontratisi in battaglia con il nemico, furono sconfitte e poco tempo dopo, attirate con l'astuzia sotto le mura di Numanzia, subirono una seconda disfatta. A questo punto le legioni romane erano in serie difficoltà, e allora il Senato mandò contro i ribelli un altro console e precisamente M. CLAUDIO MARCELLO, valente capitano e competente delle cose di Spagna dove, in qualità di pretore, era stato quindici anni prima, quando vigeva una certa serenità e meno vessazioni e ruberie.

MARCELLO era pure stato anni prima un ammiratore del saggio Tiberio Sempronio Gracco, ed era della sua opinione che, non con la violenza, ma soltanto con una saggia politica ed un onesto governo si poteva mantenere il dominio sulle indomite e fiere popolazioni della Spagna. Giunto nella penisola Iberica, anziché combattere contro i ribelli, il console intavolò trattative con gli Arevaci e riuscì a persuaderli ad inviare ambasciatori a Roma per stabilire le condizioni della pace.
Ma l'operato di Marcello non ebbe l'approvazione del Senato, il quale non volle sentir parlare di pace con i ribelli (che difendevano la loro terra) e stabilì che il console (troppo pacificatore) fosse sostituito dal collega LUCIO LICINIO LUCULLO.
Saputa la decisione del Senato e non volendo che il suo collega terminasse lui con una vittoria quella guerra, prima che Lucullo mettesse piede in Spagna, Claudio Marcello ruppe le trattative con gli Arevaci e marciò su Numanzia, sotto le cui mura assalì con decisione le forze degli Spagnoli, e le costrinse ad arrendersi a discrezione, ma senza commettere atti di vendetta.

Subito dopo però, giunse in Spagna Licinio Lucullo. Fra i tribuni del suo esercito vi era SCIPIONE l'EMILIANO che nel 152, noi abbiamo visto in Africa, mandatovi dal console per chiedere aiuti a Massinissa. LUCULLO, avendo trovato gli Arevaci sottomessi, volendo anche lui prendersi un trionfo o arricchirsi con un bottino, si mosse contro i Vaccei, popolazioni che abitavano le odierne province di Salamanca, Toro, Valladolid e Zamora, che non erano mai stati soggetti a Roma e contro la quale non avevano fino allora commesso nessun atto ostile.

Anziché rispettare questo popolo e guadagnarlo all'amicizia della Repubblica, il console senza un giustificato motivo, cinse d'assedio Cauca. I malcapitati abitanti, costretti con le armi, trattarono la resa della città offrendosi di pagare un tributo dietro promessa di avere salvi i beni e la vita; LUCULLO però non mantenne fede ai patti e, avido di ricchezze, saccheggiò quel territorio nel quale - si narra - perirono circa ventimila abitanti. Spaventati e per non seguire la sorte dei miseri cittadini di Cauca, i vicini abbandonarono i loro paesi e si rifugiarono sulle montagne portandosi dietro le cose di valore.
Sottomessa così crudelmente Cauca, LUCULLO marciò su Pallantia, capitale dei Vaccei, ma qui la fortuna non gli arrise. Vista la sorte toccata all'altra città, gli abitanti di Pallantia si difesero disperatamente costringendo il console a togliere l'assedio.
L'umiliato LUCULLO allora andò verso la Lusitania, dove gli abitanti, comandati da un certo CESARO, per difendersi da un assedio, in una controffensiva, avevano sconfitte le truppe romane uccidendo il pretore Calpurnio Pisone che le comandava e, unitisi ai Vettoni, avevano dato pure un durissimo colpo alle milizie di LUCIO MUMMIO, che nella drammatica battaglia ingaggiata, aveva lasciato sul campo novemila uomini.
In quel periodo nella Lusitania meridionale vi era il pretore SULPICIO GALBA che da circa un anno lottava con avversa fortuna contro le popolazioni che difendevano le loro terre e che non cedendole ai romani, erano considerati ribelli. Galba negli ultimi assedi aveva perfino subito delle cocenti sconfitte. Ma l'arrivo di LICINIO LUCULLO rialzò le sue sorti e quelle dell'esercito romano. Galba riprese la baldanza e Lucullo che cercava ad ogni costo gloria e bottini, i due assieme assalirono duramente i Lusitani infliggendo loro una tremenda disfatta.

Non contento della vittoria e gareggiando in perfidia con il suo console, GALBA, uomo feroce e senza scrupoli, volle vendicarsi degli scacchi precedentemente subiti, macchiandosi di un orrendo delitto. Con la persuasione e con le lusinghe gli riuscì di far deporre le armi a tre tribù, alle quali disse di voler concedere territori più ricchi. Settemila Lusitani prestarono fede alle parole del pretore e, disarmati, furono distribuiti in tre località diverse, una lontana dall'altra, poi improvvisamente, mentre nelle nuove terre erano già intenti al lavoro, furono assaliti dalle milizie di Galba e massacrati quasi tutti. Pochi i superstiti, di cui uno, parleremo più avanti, e che per una decina d'anni diventò il "castigatore" dell'esercito romano.

Più tardi (150- 149 a.C.) Lucullo e Galba, furono accusati giustamente di crudeltà e furono processati; ma Roma non era più la città di Fabrizio e di Curio Dentato. Scomparse erano molte virtù, la mala pianta dell'avidità delle ricchezze aveva messo radici anche negli ambienti dei magistrati e aveva cancellato ogni sentimento di onestà e di giustizia. Il console iniquo e il perfido pretore operando in quel modo in Spagna avevano accumulato ingenti tesori, e l'oro guadagnato con il sangue delle misere popolazioni, servì a corrompere i giudici e a procurare l'assoluzione a entrambi.

VIRIATO, L'EROE DELLA LUSITANIA

Siamo dunque arrivati al 147. Fra i superstiti della strage dei Lusitani, ordinata da Galba si trovava un valorosissimo guerriero di nome VIRIATO. Da giovane aveva fatto il pastore e il cacciatore. Era forte, robusto, agilissimo; abitualmente dormiva armato sulla nuda terra; sopportava le fatiche più dure, era insensibile al caldo e al freddo, abilissimo nel maneggiare la lancia e la spada, nell'adoperar l'arco e la fionda, instancabile camminatore ed insuperabile cavaliere.
I suoi costumi erano severissimi: si cibava frugalmente e sapeva digiunare quando il caso lo richiedeva; sdegnava i piaceri e fuggiva le mollezze; parco di parole, sapeva però avvincere e convincere con i suoi discorsi brevi, forti, incisivi, che erano l'espressione più potente del suo animo fiero e nobile, desideroso soltanto di libertà.
Si narra che, avendo sposata una giovane ricchissima, rifiutasse i cibi squisiti dello splendido convito nuziale e mangiasse soltanto del pane e della carne. Il ricco matrimonio concluso gli dava la possibilità di vivere tra gli agi; ma Viriato per nulla avrebbe cambiato il suo tenore di vita, per nessun palazzo avrebbe dato le caverne dei suoi monti e, terminata la cerimonia delle nozze, montò a cavallo, prese in groppa con sé la sua sposa e la condusse verso le dirupate montagne sulle quali lui era abituato a vivere e in mezzo a quelle voleva trascorrere il resto della sua esistenza, libera e selvaggia.

Dopo essere stato testimone delle orrende stragi fatte su un popolo che non aveva mai dato fastidio ai Romani, spinto da un ardente amore per la patria e la libertà della sua gente, VIRIATO giurò di vendicare le atroci offese recate dai Romani al suo paese e di liberarlo dagli invasori. Risoluto e tenace nei suoi propositi, si diede a predicare la rivolta, a rincuorare gli sfiduciati, a ravvivare l'odio contro i dominatori. Gli Spagnoli, con il cuore che sanguinava per le recenti sofferenze, convinti e trascinati dalle calde e appassionate parole del giovane, si unirono a lui, si armarono e prepararono la riscossa. In breve Viriato riuscì a raccogliere intorno a sé una numerosissima schiera di ribelli; creato loro duce, iniziò una lotta accanita per ridare la libertà alla sua patria.
Non fu una guerra di eserciti, ma una guerriglia spietata, cruenta, di un manipolo di gente fiera, decisa a scuotere il giogo; guerriglia che durò otto anni e che, messo in atto nei confronti della potentissima nazione e per i risultati che riscosse lasciò meravigliati tutti gli storici.
Sapendo di non potersi misurare in battaglia campale contro le straripanti forze dei Romani, VIRIATO divideva le sue schiere con le quali tormentava continuamente le legioni in marcia, gli accampamenti, i rifornimenti e gli esploratori. Lui montanaro, praticissimo dei luoghi piombava improvviso sulle milizie romane e scompariva rapidamente per ritornare di nuovo ad assalirle da un'altra parte. La rapidità e l'audacia erano le sue principali caratteristiche, dalle quali però non mancava mai la prudenza e il genio del condottiero.
In gran parte della Spagna per le sue gesta, la sua fama si era diffusa in ogni angolo del paese. Fin dalle sue prime azioni guerresche si era fatto subito conoscere come un uomo risoluto, ardimentoso ed abile, acquistandosi la fiducia dei ribelli ed ispirando terrore nel nemico.

Un esercito di diecimila Lusitani rifugiatosi sopra un'altura e accerchiato dalle milizie del pretore CAJO VETILIO, aveva perduto ogni speranza, gli uomini stavano già per capitolare, quando VIRIATO, levandosi a parlare, seppe infondere nei suoi compagni la fiducia. Ricordò le crudeltà di Lucullo e di Galba, disse loro che, arrendendosi, non avrebbero avuto salva la vita e che invece se ascoltavano i suoi consigli sarebbero riusciti non solo a liberarsi ma avevano molte probabilità di distruggere quelle stesse milizie di Vetilio.
I Lusitani, animati dalle parole di quell'uomo, si affidarono ciecamente a lui; dal quel momento Viriato divenne il capo del suo popolo. Divise i diecimila assediati in tanti manipoli e, ordinò ad ognuno di fuggire per vie e tempi diversi, ma poi radunarsi tutti nella foresta di Tribola. Lui con un migliaio di cavalieri favorì così la fuga alla spicciolata di tutto l'esercito, tenendo impegnate per due giorni, in un combattimento accanito, le milizie romane.
Quando fu sicuro che tutti avevano lasciato l'altura, Viriato corse a Tribola dove raggiunse gli altri. Sembrava la sua una fuga e quindi per non farselo scappare, lo inseguì il pretore con il suo esercito, ma Viriato, con i suoi diecimila uomini, messosi in agguato nel folto della foresta, prima lasciò che le legioni passassero, poi fece scattare la micidiale trappola e piombò all'improvviso alle loro spalle e ai due lati, compiendo una strage, e prendendo prigioniero lo stesso CAJO VETILIO (era l'anno 148 a.C.).

Fu questa la prima impresa che diede rinomanza all'eroe.
Viriato, proclamato re della Lusitania, non montò in superbia, mantenne la semplicità dei suoi costumi e fu perciò adorato da quanti amavano la libertà della patria.
VIRIATO riuscì ad ingrossare il suo esercito e divenne il terrore dei Romani. Il pretore CAJO PLAUZIO, andato contro gl'insorti, si lasciò pure lui attrarre imprudentemente in un'altra diabolica insidia tesa da Viriato alla riva destra del Tago e qui, circondato, perse anche lui la vita e le truppe.
Un altro pretore, CLAUDIO UNIMANO, fu mandato contro il montanaro lusitano, ma pure lui fu sconfitto e sorte migliore non ebbe CAJO NIGIDIO.

Distrutta Cartagine e sottomesse la Macedonia e la Grecia, Roma, nel 145, disimpegnati gli eserciti, si preparò ad inviare nella Spagna due legioni al comando di QUINTO FABIO MASSIMO EMILIANO.
Viriato pensò allora di unirsi ai Celtiberi nella comune lotta contro il nemico, ma questi, combattuti da QUINTO CECILIO METELLO il Macedonico, non riuscirono a fornirgli aiuti e fu costretto a far fronte con le sole sue forze a Quinto Fabio.
Nonostante l'esiguo numero delle sue truppe, il lusitano riuscì a sorprendere e circondare l'esercito del ben più esperto QUINTO FABIO EMILIANO, che fu costretto a lasciare sul terreno tremila morti, e lui stesso riuscì a salvarsi con la fuga.
Da questo scacco però Emiliano non tardò a rifarsi. Ritornato all'offensiva con imponenti forze, ebbe il sopravvento sui ribelli e assalite con forza costrinse alla resa due città, catturandovi diecimila ribelli.
Dei vantaggi però ottenuti da Quinto Fabio non seppe trarre profitto il pretore QUINZIO, succedutogli nel comando. Questi, anzi, ingaggiato battaglia con Viriato, non solo fu sconfitto ma lasciò nelle mani del nemico tutta la Spagna Ulteriore, e dandosi alla fuga si rifugiò a Cordova dove rimase chiuso con le sue milizie tutta l'estate del 143.
L'anno seguente, a sostituire l'inetto e vile pretore, fu mandato da Roma QUINTO FABIO SERVILIANO, fratello adottivo di Emiliano, con l'incarico di proconsole.
Le sue prime operazioni portarono a un felice risultato; entrato nella Lusitania, colse qualche successo e riuscì a impadronirsi di alcuni paesi, poi cinse d'assedio la città di Erisana. Qui però la fortuna gli volse le spalle. Viriato vigilava. Con uno dei suoi sorprendenti atti d'audacia riuscì a penetrare di notte, non visto, nella città; quindi operata un'improvvisa e temeraria sortita, ruppe le legioni di Fabio Serviliano ed inseguendole in un certo modo, fece in modo di cacciarle in luoghi difficili e privi di uscita.
Le truppe romane si trovarono a un certo punto alla mercé del nemico il quale, poteva trucidarle o nella sacca dove erano finite lasciarle morire di fame; avrebbe potuto facilmente vendicare i morti di Cauca e le vittime di Sulpicio Galba; ma Viriato era di animo generoso; egli non voleva la distruzione del nemico; desiderava soltanto l'indipendenza della patria.

Approfittando della disperata situazione in cui si trovava il proconsole, propose salva la vita ai legionari a patto che riconoscessero l'indipendenza della Spagna e lasciassero ai suoi abitanti il pieno godimento di tutti i beni in qualità di alleati di Roma.
SERVILIANO non aveva da scegliere. Accettò i patti e li firmò e il Senato, che anni prima aveva sdegnosamente rifiutato le proposte di Cajo Marcello e voluta la resa a discrezione dei ribelli, questa volta approvò i patti e li fece, ratificare dai comizi.
Però, come non aveva tenuto fede al trattato stipulato con i Sanniti alle Forche Caudine, così Roma non rispettò i patti conclusi con Viriato, e un anno dopo, mentre il lusitano, nulla temendo, era intento a dare un assetto al suo stato, invio in Spagna il console QUINTO SERVILIO CEPIONE con il compito di sottomettere tutta la penisola iberica.

VIRIATO al rinnovarsi della guerra non si perse d'animo e ricominciò a lottare con il valore di una volta. Per tutto l'anno 140 tenne con la solita audacia testa alle legioni repubblicane, ma nel 139 la sua posizione divenne critica. All'esercito di CEPIONE si era aggiunto quello di MARCO POPILIO, pretore della Provincia Citeriore e le forze dei ribelli si videro nell'impossibilità di continuare la resistenza.
Ridotto con poche schiere di fedeli per le perdite subite, Viriato fu costretto a chieder la pace. CEPIONE non la rifiutò, ma volle la consegna dei disertori delle due province e, quando li ebbe, ordinò di amputate loro le mani e poi decapitarli.

Un'altra condizione imposta da Cepione era la consegna delle armi, ma Viriato non volle accettarla é preferì continuare la lotta. L'uomo era sempre lo stesso ma i ribelli che lo seguivano erano ridotti ad un pugno di uomini disperati. Resistere contro un nemico potente sarebbe stata una follia e una disperata resistenza avrebbe inasprito la ferocia dei vincitori, aggravando così le già dure condizioni delle popolazioni vinte e quindi sottomesse.
VIRIATO scelse tre dei suoi ufficiali e li inviò a CEPIONE perché trattassero la resa, ma questi si lasciarono vincere dai doni del console e promisero di assassinare il loro capo.
Di ritorno dall'accampamento romano i tre traditori penetrarono furtivamente nella tenda di Viriato e, trovatolo immerso nel sonno, lo trucidarono (Era l'anno 138 a.C.)

Il dolore dei Lusitani quando appresero la notizia della morte del loro eroe, si sentì vinto non dai romani ma dalla costernazione; sapevano che la morte di Viriato significava la fine dell'indipendenza, tuttavia decisero di continuare la resistenza ed elessero come suo successore un valoroso guerriero, TANTALO, che era stato sempre al fianco dell'eroe.
Tantalo concepì un audacissimo disegno, ma la fortuna non gli fu favorevole. Raccolte tutte le forze possibili, marciò contro Sagunto, di cui sperava di rendersi padrone. Sotto le mura della fatale città ebbe fine l'indipendenza della Lusitania, perché i Romani respinsero gli assalti dei ribelli e li misero in fuga. Inseguiti dalle milizie di Roma, i Lusitani furono raggiunti mentre passavano il fiume Beti e, assaliti, toccò loro la disfatta decisiva. In questo combattimento trovò la morte lo stesso Tantalo.

Tornato a Roma, QUINTO SERVILIO CEPIONE chiese il trionfo, ma fu giustamente negato il più alto onore riservato ai generali vittoriosi a colui che il nemico aveva sconfitto non con la vittoria in battaglia ma con il pugnale del sicario.
Roma era stata informata; il Senato Romano era spesso cinico, ma non voleva infangare con una pagina indegna la storia di Roma.

A Cepione successe il console dell'anno 138 a.C., DECIO GIUNIO BRUTO, il quale ovviamente riuscì facilmente a condurre a termine la sottomissione dei Lusitani. Fece trasferire i prigionieri di guerra sulle rive del Mediterraneo e precisamente nel territorio dove oggi sorge la città di Valenza poi mosse contro i Galleci, che abitavano la regione oggi chiamata Galizia, li vinse ed unì il loro territorio alla provincia Romana Ulteriore.

LA GUERRA NUMANTINA E LA DISTRUZIONE DI NUMANZIA

Con la conquista della Lusitania e della Galizia non ebbe però fine la guerra ispanica. Rimanevano ancora da soggiogare i fieri Celtiberi, che anni prima, nel 144 si erano pure loro ribellati ai Romani.
Contro questi ribelli che lottavano per difendere la loro terra, come abbiamo detto, era stato inviato QUINTO CECILIO METELLO, il "Macedonico"; si era reso padrone di tutta la regione, ma non era riuscito nemmeno con la forza e con vigorosi e ripetuti assalti, Numanzia e Termanzia, che erano le più forti città appartenenti al bellicoso popolo degli Arevaci.
Nel 141 successe a Metello nella direzione della guerra il console QUINTO POMPEO (quell'anno collega di Servilio Copione, che invece tramava l'assassinio di Viriato) il quale con quarantamila uomini cinse d'assedio le due città; ma Pompeo non ebbe migliore fortuna, del suo predecessore, anzi, respinto parecchie volte con molte perdite e non volendo desistere dall'impresa, cercò di guadagnare le due fortezze con la pace.
Con entrambe il console iniziò trattative. Nulla sappiamo di Termanzia, ma siccome di questa città gli storici non fanno più parola, noi siamo indotti a credere che questa città stipulò dei patti che poi furono dai Romani (a Roma) non rispettati; lo possiamo benissimo credere, perché quello di Numanzia (ed era lo stesso patto) sappiamo che lo stipulò con lo stesso POMPEO; un trattato per mezzo del quale essa manteneva la sua libertà mediante il pagamento di un'ingente somma.
Ma tornato a Roma alla fine del suo consolato e quindi terminata la guerra in Spagna, Pompeo, vergognandosi di confessare che era stato costretto a concludere un trattato con la città ribelle, negò i patti e consigliò il Senato a continuare la guerra.

Invano i Numantini si appellarono all'autorità del Senato, chiedendo che fossero rispettati i patti sottoscritti; questo invece deliberò che la guerra fosse ripresa e continuata fino a che la città non si fosse arresa senza condizioni, e inviò in Spagna nel 139, il console di quell'anno MARCO POPILIO LENATE.
Indignata del tradimento di Pompeo e della slealtà di Roma, Numanzia decise di resistere ad ogni costo in una lotta impari; sola, contro le numerose ed agguerrite legioni della più potente nazione del mondo; ma fornì mirabile esempio delle sue altissime virtù civili e militari.
POPILIO LENATE tentò a più riprese d'impadronirsi della città, sferrandogli contro poderosi attacchi, ma tutte le volte fu respinto subendo gravissime perdite (era l'anno 138, Cepione nell'altro settore, vinceva assassinando a tradimento Viriato)

Esito più disastroso conseguì il console del successivo anno (137 a.C.) CAJO OSTILIO MANCINO, capitano inetto e pauroso, il quale, essendosi sparsa la notizia che i Vaccei ed i Cantabri accorrevano in aiuto di Numanzia, impaurito, levò l'assedio di notte, e si mosse con tutto l'esercito per trovare un riparo nel campo trincerato che nel 153 aveva costruito Fulvio Nobiliore. I Numantini però non gli lasciarono il tempo, lo inseguirono, poi attraverso altri sentieri che conoscevano, lo costrinsero a deviare spingendolo così in una stretta valle dove l'esercito romano fu poi circondato.

Si ripeteva la vergogna della trappola di Caudio. Costretto o a morir di fame o di ferro o arrendersi; il codardo console preferì ad una morte gloriosa l'onta della resa.
OSTILIO MANCINO giurò che Roma non avrebbe più mosso guerra a Numanzia, rispettandone la libertà; ma dal momento che i Numantini avevano sperimentato la slealtà dello spergiuro Pompeo e non si accontentavano del giuramento del solo console, giurarono con Mancino tutti gli ufficiali dell'esercito e il questore TIBERIO GRACCO, figlio di TIBERIO SEMPRONIO il cui buon ricordo viveva perenne nella mente degli Ispani.
Si fidarono insomma della lealtà di quest'ultimo.

Ma poi il Senato dichiarò di non potere accettare e riconoscere un patto che era stato concluso senza il permesso della Repubblica e consegnò al nemico il console responsabile; ma i Numantini protestarono altamente e reclamarono la consegna di Gracco e di tutti gli altri ufficiali che con il giuramento pure loro al pari del console si erano resi garanti dell'osservanza del patto.

Il Senato quasi approvava di cedere nelle mani dei nemici gli ufficiali responsabili, quando il popolo si levò a tumulto costringendo i senatori a revocare la loro deliberazione. Il console OSTILIO MANCINO fu per un'intera giornata fu esposto alle ingiurie della folla, nudo e con le mani legate dietro la schiena, accanto ad una porta di Numanzia.
La guerra si riaccese ancora più accanita, e per altri due anni, nel 136 e 135, Numanzia non solo resistette validamente agli assalti, ma riuscì a sconfiggere ripetute volte i tre capitani che Roma gli scatenò contro.
Il primo fu MARCO EMILIO LEPIDO, il quale sciupato il tempo attorno alle mura di Pallantia, capitale dei Vaccei, ritornò a Roma per sentirsi condannare al pagamento di una parte delle spese di guerra.
Il secondo e il terzo furono LUCIO FURIO FILO e QUINTO CALPURNIO PISONE che non ottennero migliori risultati dei loro predecessori.

Ma Numanzia alla fine doveva capitolare come avevano ceduto tante altre città non meno tenaci ed eroiche. Roma non poteva tollerare che una città difesa da soli ottomila uomini, continuava a resistere agli eserciti della più potente repubblica e nel 134 affidò la direzione della guerra al più famoso capitano che c'era allora in circolazione, a SCIPIONE EMILIANO AFRICANO, che delle cose di Spagna era un buon conoscitore e oltre a questo si era guadagnata fama immortale nell'aver conquistata Cartagine.

Nella primavera di quell'anno Scipione partì per la Spagna; aveva con sé sessantamila uomini e GIUGURTA, re di Numidia, gli forniva in aiuto dodici elefanti ed una numerosa cavalleria.
Giunto intorno a Numanzia, fece quello che Emilio Paolo aveva fatto in Macedonia: si impegnò innanzitutto a restaurare la disciplina militare.
Quello che gli altri consoli vi avevano lasciato non era un esercito, ma un'accozzaglia di uomini indisciplinati, dediti ai bagordi e ai piaceri; nel loro campo avevano fissato la loro dimora perfino venditori ambulanti, i ciarlatani, i teatranti e circa duemila meretrici.

Ristabilito l'ordine nell'esercito ed addestrate ed allenate le truppe con continue marce e scorrerie nei territori vicini, Scipione pose l'assedio a Numanzia e, poiché vide che per le poderose fortificazioni di cui la città era fornita, questa era impossibile prenderla d'assalto, decise di averla per fame. Cinse pertanto la città con un doppio giro di fosse e di mura, fece costruire torri altissime sulle quali furono messe potentissime baliste, ordinò una severissima vigilanza ed attese poi che il tempo facesse tutto il resto.
Dapprima gli assediati riuscirono per mezzo del fiume Duero, su cui la città sorgeva, a comunicare con la campagna ed a procacciarsi le vettovaglie, ma, non sfuggì a Scipione che mise nella via d'acqua, delle sentinelle giorno e notte; e alla riva del fiume delle grosse travi uncinate che ostruivano qualsiasi il passaggio. Tuttavia nonostante questo imponente e fitto blocco, alcuni numantini dei più audaci, sfidando il pericolo, riuscirono a passare e a recarsi nei paesi più vicini per procurare soccorsi alla infelice Numanzia.

Il disperato appello degli assediati non fu lanciato invano. Fra gli altri lo raccolsero gli abitanti della vicina Lutia, i quali già si preparavano a inviare aiuti a Numanzia quando videro comparire sotto le mura della loro città Scipione con una parte dell'esercito, che minacciò di assalire e distruggere la città se continuavano nel proposito di soccorrere con uomini, armi o viveri i Numantini.
Lutia fu costretta a ubbidire e, come garanzia, fu costretta a dare in ostaggio quattrocento giovani appartenenti alle migliori famiglie della città.
Il contegno risoluto di Scipione intimorì gli altri paesi vicini e così Numanzia rimase abbandonata al suo fosco destino.
Da un anno durava l'assedio della sventurata ed eroica città e i viveri cominciavano a mancare. Gli abitanti cercarono di giungere ad un accordo con i Romani e furono inviati ambasciatori a Scipione, ma questi rispose che avrebbe iniziato trattative di pace solo dopo che i Numantini cedevano tutte le armi seguita dalla resa senza condizioni; queste ultime le avrebbe decise solo Roma, non lui.
Ma, quantunque sofferenti per la fame, indeboliti e decimati dalle malattie, i Numantini rifiutarono di arrendersi e decisero di morire pur di non cadere nelle mani dei nemici. Qualcuno propose di fare un ultimo tentativo per rompere il cerchio inesorabile che li stringeva, e fu pure tentata una disperata sortita, ma questa volta non c'erano più di fronte a loro soldati indisciplinati e consoli codardi che fuggivano al primo apparire dei nemici, e quella sortita di disperati ebbe un esito infelice e costò solo la vita a molti.

Tramontata miseramente quest'ultima speranza, non rimase all'esiguo ed eroico numero dei superstiti che di morire. Fu dato fuoco alle case, furono distrutte le armi e i beni, poi tutti, uomini e donne, si precipitarono tra le fiamme.
Così narra la leggenda, ma si sa che nell'autunno del 621, quando entrò nella città, Scipione non trovò tutto distrutto né tutti morti, tanto che riuscì tra la popolazione a scegliere cinquanta nobili per il suo trionfo.
Poi, saccheggiò la città, vendette come schiavi tutti gli abitanti superstiti, e infine lasciò il suo passaggio: la incendiò.
Come Cartagine, e per opera dello stesso uomo, la vinta Numanzia fu ridotta in un mucchio di macerie. E così giace ancora oggi, alla confluenza del fiume Tera.

Vinta l'ostinata città, Scipione si diede a sanare le numerose ferite per le quali sanguinava la Spagna e le città che più delle altre avevano sofferto della guerra ebbero un trattamento speciale. Fra queste Cauca. Ottenuta la pace, fu dato impulso all'agricoltura, le città furono ingrandite ed abbellite con monumenti e le popolazioni al contatto delle guarnigioni romane cominciarono pure queste a incivilirsi.

Nel 123 a.C., allo scopo di distruggere i pirati che avevano il loro covo nelle isole Baleari, e da qui infestavano le coste della penisola iberica turbandone il commercio, fu inviato QUINTO CECILIO METELLO, figlio del "Macedonico", il quale non senza sforzi se ne impadronì meritandosi il titolo onorifico di "Balearico".

Con la conquista di queste isole si può dire completamente terminato il periodo delle guerre ispaniche ed assicurato a Roma il dominio di tutta l'Iberia.

ROMA EREDITA IL REGNO DI PERGAMO

Lo stesso anno che Scipione Emiliano distruggeva Numanzia (133), moriva ATTALO III, re di Pergamo, dopo quattro anni di regno.
Essendo senza figli, Attalo istituì erede del suo regno Roma della quale la sua famiglia era stata alleata fedele. A contrastare però il possesso della Repubblica, nelle cui mani così inaspettatamente giungeva un dono tanto prezioso, sorse un figlio naturale di Eumene, di nome ARISTONICO.
Questi, proclamatosi re, con il nome di EUMENE III, formò un nucleo non indifferente di partigiani; nonostante l'ostilità di Efeso, si impadronì delle città di Tiara, Mindo, Apollonide, Colofone e Samo e in poco tempo riuscì a riconquistare tutto il regno paterno.
Non poteva però Roma permettere che i suoi diritti fossero impunemente calpestati e inviò contro l'usurpatore il proconsole LICINIO CRASSO, uomo eloquente e dotto, ma poco esperto di cose militari. All'assedio di Leuce fu sconfitto e fatto prigioniero, poi, essendosi ribellato ai soldati che lo tenevano in custodia, fu ucciso.
A vendicare la morte del proconsole Roma mandò MARCO PERPENNA, che pose l'assedio a Stratonica nella Caria e, costretta con la forza alla resa, catturò ARISTONICO, che fu inviato a Roma e qui giustiziato (129 a.C.).
MANIO AQUILIO, successo nel comando a Perpenna, sottomise le città dell'Asia Minore, aggregò al regno di Pergamo la Frigia, la Caria, la Licia e l'Ellesponto, e tutte queste terre costituì in provincia romana cui diede il nome di Asia.

ROMA DOMINA: EUROPA, AFRICA e SPAGNA, e GUARDA IN ASIA

Da poco è trascorso il primo ventennio del settimo secolo dalla sua fondazione e Roma è già signora di un estesissimo dominio.
Da misero, insignificante villaggio di capanne aggruppate sul Palatino insidiato dai vicini, Roma con grande tenacia, sorretta dalle grandissime virtù del suo popolo, per mezzo di continue guerre e di sacrifici coronati da superbe vittorie e da sanguinose sconfitte, in quattrocentonovant'anni ha saputo conquistare ed unificare tutta la penisola, dall'Etruria allo stretto, che ora, sotto il nome d'Italia, è un corpo indivisibile; con sforzi non minori ed attraverso vicende liete e tristi, in centotrentacinque anni è riuscita a portare le sue armi, la sua lingua, le sue leggi in un territorio immenso e su questo ha formato le sue province.
Queste, ora sono nove: la Gallia Cisalpina, la Spagna Citeriore ed Ulteriore, la Sicilia, la Corsica e la Sardegna, l'Africa, la Macedonia e l'Acaja, l'Illiria e l'Epiro, l'Asia. Costituiscono quasi un vastissimo impero, ogni parte del quale è diversa dalle altre per clima, per razza, per lingua, costumi, religione, civiltà.
E' impossibile fondere in un insieme perfettamente omogeneo membra così diverse di un corpo così grande. Roma non vi riuscirà mai. Lascerà in ognuna segni incancellabili del suo genio, ma non ne farà mai, come della penisola, un popolo solo.

Per dominare su tanta gente Roma adotta la sua vecchia formula del "divide et impera" e ad ogni provincia dà una costituzione diversa.
Le province rappresentano territori conquistati, ma i loro abitanti non sono trattati tutti alla medesima maniera: i cittadini di queste province si dividono in due grandi categorie, quella dei tributari e quella dei privilegiati.
Gli abitanti tributari, sebbene retti da proprie leggi, sono soggetti al governatore della provincia; i privilegiati invece fuori della sua giurisdizione.

Come gli abitanti così anche le città hanno diversità di trattamento. Sei sono le categorie di privilegi nella classificazione delle città provinciali: vi sono le "colonie romane" che godono tutti i privilegi del diritto romano, salvo il quiritario; i "municipi", che sono esclusi dai diritti politici, ma godono di quelli civili; le "colonie latine" che hanno parte dei diritti civili; le "città confederate" che hanno conservato la loro autonomia per mezzo di trattati stipulati mediante un tributo; le "città libere", autonome anch'esse per deliberazione del Senato; e infine le "città immuni", non soggette cioè al pagamento di tributi.

Ogni provincia è governata da un proconsole (provincia consularis) o da un pretore o propretore (provincia praetoria), che durano in carica un triennio. Il governatore è eletto dai comizi ed è scelto fra i cittadini che hanno già ricoperta la carica di console, di questore o di edile. Il suo ufficio è gratuito; all'atto della nomina la Repubblica non gli dà che una certa somma (vasarium) per le prime spese; la provincia gli deve fornire la casa e il grano. E non a lui solo, ma anche ai soldati che costituiscono il corpo della sua guardia, ai suoi familiari, alla nobile gioventù del suo seguito, agli scrivani, agli aruspici, ai ministri, ai medici, ai littori, agl'interpreti, che rappresentano la "casa" del governatore.
Il Governatore, sui sudditi provinciali della repubblica ha un illimitato potere; amministra, per mezzo del questore, la giustizia, emana editti che hanno valore di leggi; è il capo supremo e diretto dell'esercito; stabilisce le imposte ordinarie (testatico, prediale) e straordinarie.

Sbrigativo è il modo di riscuotere le imposte: la riscossione è data in appalto ai maggiori offerenti che sono chiamati "pubblicani" e che con i mezzi che loro credono più opportuni s'incaricano di riscuotere le rendite della Repubblica.
E i modi e i mezzi che essi usano molto spesso non sono leciti né onesti. Spregiudicati, avidi, usurai, essi mungono i poveri contribuenti, riscuotono perfino tre o quattro volte le imposte, fanno prestiti ad un tasso enorme alle città, si arricchiscono disonestamente alle spalle degl'infelici sudditi, i quali hanno sì il diritto di appellarsi al governatore e ad uno speciale tribunale istituito a Roma, ma sanno che non riceveranno mai giustizia perché l'oro dei publicani ha tale potenza da corrompere governatori e magistrati.

Nei governatori e nelle province sono riposte le cause dei futuri rivolgimenti di Roma. La corruzione di Roma, l'odio dei provinciali verso lo stato romano, le rivolte dei sudditi non saranno che il prodotto degli abusi dei publicani e del malgoverno degli uomini preposti all'amministrazione delle province; le fazioni e le guerre civili saranno il risultato fatale della potenza e della sete di dominio dei governatori, i quali dilanieranno il corpo della Repubblica e prepareranno l'avvento dell'impero.
Roma, giunta all'apogeo della sua potenza, ha nella sua stessa grandezza i germi funesti della decadenza.

La rapidità delle conquiste è sorprendente, ma è altrettanto rapido il tramonto delle virtù. Le conquiste, l'oro, gli schiavi, i commerci, fa penetrare gli agi e il lusso, i romani non lavorano più, subentra l'ozio; e in parallelo la corruzione che penetra nelle famiglie, nei templi, nella curia, nell'esercito.
Conquiste che hanno in pochissimi anni, profondamente modificato la struttura economica e sociale dell'antica società.

I quindici anni che seguono ci danno un quadro preciso della nuova vita romana, i suoi costumi, e le tasche di alcuni romani sempre più piene di denaro, che è il nuovo e più potente dio di Roma.

il periodo dall'anno 135 al 121 a.C.

LA CORRUZIONE ROMANA - I GRACCHI; LE LEGGI - CATONE - LA CRISI

CORRUZIONE ROMANA - CATONE CENSORE - DISAGIO ECONOMICO E SUE CONSEGUENZE - LA PRIMA GUERRA SERVILE : EUNO E GLI SCHIAVI DELLA SICILIA - LA FAMIGLIA DEI GRACCHI - CORNELIA - TIBERIO GRACCO - LA LEGGE AGRARIA - MORTE DI TIBERIO - MISTERIOSA FINE DI SCIPIONE EMILIANO - RIVOLTA DI FREGELLE - CAIO GRACCO; SUO PRIMO E SECONDO TRIBUNATO - LE LEGGI GRACCANE - TRAGICA FINE DI CAIO GRACCO
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LA CORRUZIONE DEI ROMANI

Se - come abbiamo visto nei precedenti capitoli- sorprendente, è la rapidità con la quale Roma conquista i vastissimi territori delle sue nove province, con non minore rapidità, tramontano le virtù che sono state la sua forza maggiore e si corrompono i suoi severi costumi.
Un aumento territoriale di così vaste proporzioni in pochi anni con le conquiste del Mediterraneo e dell'Oriente, e i contatti con popolazioni tanto diverse per vita e costumi avevano trasformato in pochi anni la società romana, portandola ad assumere, in diversi campi della vita, aspetti problematici che, come esamineremo in queste pagine, provocarono grandi mutamenti politici oltre che sociali.

Prima, l'identità dei Romani era legata alle leggende, e nonostante gli avvenimenti che si erano succeduti fin dalla fondazione, quella Romana era comunque rimasta una civiltà contadina; con qualche commercio in più all'interno della penisola, ormai alla fine del 200 a.C. tutta conquistata, ma sempre civiltà contadina era rimasta. Nonostante i contatti con gli Etruschi, i latini (popolo fiero e autonomo) con le popolazione dell'Etruria non si erano identificati mai, e tanto meno sostanzialmente mutarono le proprie caratteristiche; anzi le imposero, non subendo -se non in minima parte- l'influsso della superiore civiltà etrusca, che, inutile volerlo nascondere (come fecero molti storici posteriori) superiore lo era; anche se decisamente lo era meno politicamente. Gli Etruschi non mirarono mai ad una "unione", nella loro "dodecapoli" (12 stati, ognuno governato dal suo "lucumone") cercarono sempre di mantenere tenacemente la loro reciproca indipendenza, non realizzando mai una vera unità politica. E fu poi questa la prima causa della loro decadenza e infine della loro definitiva scomparsa.

Molto diversa fu la situazione dopo la conquista della Grecia e dell'Oriente; i Romani subirono fortemente l'influsso della superiore civiltà greco-ellenistica.

Il contatto con le più civili popolazioni della Magna Grecia prima (Puglia, Calabria, Sicilia, Campania) e con quelle (a breve distanza) della stessa Grecia e dell'Oriente poi, fu fatale a Roma, e più funeste furono le enormi ricchezze ricavate dai commerci e dalle conquiste.
I severi costumi degli antichi Romani scompaiono e con l'oro, gli agi, il lusso, la corruzione, penetra nelle famiglie, nei templi, nella curia, nell'esercito.
All'operosità di un tempo subentra l'ozio; il lavoro è schivato perché tenuto in "vil conto", e nei cantieri, nelle case, nelle campagne, ogni umana fatica é delegata agli schiavi; con le conquiste, sempre più numerosi; e fra questi, artisti, poeti, storici, letterati, filosofi, tecnici, agronomi, sacerdoti di altri culti.


L'estrema eleganza dell'arte e della cultura greca, contribuirono in modo decisivo ad allontanare i Romani da quella semplicità di costumi che avevano ereditato dagli avi. Forse fu anche un desiderio legittimo dopo tanti anni di guerre e sacrifici per farle.

La semplicità e la sobrietà di un Cincinnato sono un lontano ricordo: le umili case hanno ceduto il posto ai palazzi grandiosi, le modeste suppellettile ai mobili più sfarzosi e ai più costosi e più lussuosi oggetti: la cucina non è più frugale come quella di una volta; è cresciuto il numero dei pasti (dopo il "prandium" del mezzodì, si abituano alla "cena" della sera) e a preparare le più squisite vivande sono chiamati cuochi forestieri che sfoggiano tutta la loro virtuosità utilizzando cibi e ingredienti mai visti. I ricchi, adottarono, esagerandole, tutte le raffinatezze della mensa orientale.
Ai sani ed onesti divertimenti di una volta succedono spettacoli superbi e dispendiosi, che sono tutti inviti al dolce far niente ma anche ai vizi; teatri dove si applaude ai mimi, agli istrioni, alle sfrontate ballerine; o nei circhi dove si scannano le belve o si assiste già da una decina d'anni -dopo la conquista della opulenta Capua, città più ricca di Roma- con gioia all'agonia dei gladiatori.

I panni tessuti in casa delle casalinghe sono sostituiti con stoffe ricchissime giunte dall'oriente, di finissima seta, tinte di indaco, di verdi smeraldo, di porpora o intrecciate a fili d'oro e d'argento; ai modesti ornamenti cedono il posto gioielli di altissimo prezzo; alle poche ancelle ed all'esiguo numero di servitori, fanno riscontro nelle case dei patrizi e dei ricchi, schiere di schiavi di ogni lingua, deportati da tutte le parti del mondo al seguito degli eserciti vittoriosi.
I giovani non si esercitano più al maneggio dell'arco, della lancia e della spada, ma passano il tempo in sciocchi divertimenti, ubriacandosi con vini squisiti, frequentando le case delle meretrici, sperperando le loro sostanze nel gioco.

Fenomeni questi che non passavano inosservati ai conservatori, agli esponenti dell'oligarchia romana. Uno dei quali - come figura più rappresentante- PORCIO CATONE, che pur consapevole dell'importanza degli apporti greci, avrebbe voluto contenerli per non "snaturare le caratteristiche della tradizione romana". Ma Catone "il censore" non poteva da solo frenare il contatto fra culture, da cui la civiltà romana uscì, e nonostante gli aspetti negativi, certamente arricchita.
Abbiamo parlato, di arte, vesti, ornamenti, cibi, ma c'è dell'altro. A Roma fino alo sbarco in Africa e in Grecia si scriveva poco e si scriveva solo sulle pietre e tavolette d'argilla. Ora si è scoperto il papiro, e nel più ricco e fiorente regno ellenico, Pergamo, che Attalo ha donato nel 133 a Roma, i romani oltre che i tesori hanno scoperto la pergamena; sopra la quale POLIBIO - anche lui prigioniero a Roma- inizia a scrivere i quaranta volumi di "Storie", e lui che è greco, nello stile epico greco. Che prosegue l'opera iniziata da un altro prigioniero a Roma, da Taranto nel 272: LIVIO ANDRONICO. è lui a scrivere le prime opere letterarie redatte in lingua latina, lui a tradurre e a far conoscere le tragedie, le commedie greche, e l'Odissea di Omero.

E oltre ai costumi, anche la religione perse i suoi caratteri originali ed assimilò quelli ellenici, introducendo in Italia dalla Grecia i nuovi culti. Ma una delle conseguenze della trasformazione religiosa fu che, mentre il popolo si mantenne legato alle vecchie superstizioni (a quelle del "pagos" cioè del villaggio = paganesimo), nelle classi sociali più ricche e colte, cominciarono ad apparire lo scetticismo e l'indifferenza verso tutti gli altri culti sino allora noti a Roma.
I Romani scoprono in questi fatidici anni (delle conquiste) i mitici Dei greci, che salvo alcuni, molti durarono poco; dopo l'"abbuffata" e con le prime grandi crisi nella repubblica, scopriranno quelli orientali; uscendo dal concetto politeistico della loro originaria religione italica, per elevarsi a quello monoteistico di un'unica divinità (fra pochi anni a quella egiziana di Iside, poi a quella Persiana di Mitra; si appoggiano non più a quella religione grossolana del popolo, ma a quella più affine al bisogno di novità di gente diventata raffinata, più colta, e sempre più matura per una vera religione dello spirito, quale fu il successivo Cristianesimo. Per soddisfare al bisogno insito nell'uomo di conoscere la ragione prima di tutte le cose; soprattutto quando, in uno stato d'angoscia, vedranno crollare attorno a loro ogni cosa, chiedendosi "perche", e "come è stato possibile" dopo tanta gloria.

E con la religione in questi anni di rapide e ricche conquiste, si modifica perfino la famiglia. La donna non è più il sorriso della casa, la compagna casta e fedele dell'uomo, l'ispiratrice di alti sensi, la virtuosa educatrice della prole. Da schiava, è vero, è divenuta libera; ma la libertà ha rallentato in lei il freno morale; essa è ora una creatura frivola, che si perde dietro al lusso ed alle pompe, che ama i gioielli e i ninnoli più del marito guerriero, che non si cura più del suo onore. Roma pullula di cortigiane, la voluttà e la libidine imperano sovrane, i vincoli familiari s'indeboliscono, i matrimoni diventano rari e il celibato trionfa.
Le mollezze e l'ozio, sfibrando il corpo, fanno scemare l'entusiasmo guerriero e indeboliscono la disciplina militare. Siamo lontani dai tempi - e che abbiamo letto- in cui un console condanna a morte il proprio figlio solo perché ha disubbidito ai suoi ordini; ora più di una volta i cittadini non rispondono alla chiamata alle armi (Mario nel 104 a.C. sarà costretto ad accettare nell'esercito anche i nullatenenti se vuole allestire un esercito) o se vanno ad arruolarsi è perché sono costretti; e spesso abbiamo visto in questi anni, come i veri coscienziosi generali, assumendo il comando delle truppe, sentissero come prima cosa il bisogno di restaurare la disciplina se volevano ottenere qualche decisiva vittoria.
Ma che dire dei soldati di questi ultimi tempi, se sono gli stessi loro superiori a dare il cattivo esempio non osservando le leggi? Senza deliberazione del Senato il console MANLIO VOLSONE porta la guerra contro i Galati; POPILIO contro i Liguri; LUCULLO contro i Vaccei; METELLO contro i Balearici; e che invece di essere puniti (e lo abbiamo visto nel precedente riassunto) ottengono lodi ed onori.
Lo sfarzo della nuova vita mette a tutti, nei capi e nei gregari, una sete straordinaria di guadagni. I soldati eccedono nei saccheggi e questi sono sempre accompagnati da inaudite violenze: nessuno delle province conquistate uscì immune da un saccheggio, da una spoliazione, da una distruzione totale.

Sono rarissimi i generali che tornano dalla guerra a tasche vuote; come ad esempio in questi anni, PAOLO EMILIO il Macedone, MUMMIO, il distruttore di Corinto, e SCIPIONE EMILIANO. Quasi tutti devastano, saccheggiano e se ne tornano a casa carichi di bottino.
L'Oro è diventato il più potente dio di Roma; esso toglie la sobrietà ai soldati, la pudicizia alle donne, la rettitudine ai consoli e ai senatori, l'equità ai giudici. I magistrati diventano avidi e venali: abbiamo visto Lucullo e Galba comperare con l'oro arraffato in Spagna, l'assoluzione; e vedremo ancora (nel prossimo capitolo della "Guerra Giugurtina") l'oro di Giugurta comperare facilmente capitani e senatori, che come disse lo stesso Giugurta, tutti erano in "vendita", compresa la stessa intera Roma.

La corruzione è una lebbra dalla quale i sacerdoti neppure si salvano, perché neppure i templi restano immuni. Se da un lato ai vecchi numi di Roma si dà la compagnia di tutte le divinità dell'Asia e dell'Africa e il semplice, austero, solenne culto degli avi s'imbastardisce con i fastosi culti orientali (che ai romani piacciono, e ai nuovi ciarlatani piombati a Roma da ogni parte, rendono), da un altro canto si fa strada in questi anni l'ateismo (quelli antichi sono dimenticati, e quelli spirituali devono ancora arrivare), il tempio si muta in bottega e la religione è pretesto di oscenità infami come le orge notturne dei baccanali.
Il Senato sa che la decadenza delle antiche istituzioni politico-religiose, è in gran parte dovuta all'influsso delle dottrine esotiche e ricorre ad energici provvedimenti: espelle nel 161 i retori greci e proibisce nel 155 che CARNEADE, DIOGENE e CRITOLAO diffondano la loro filosofia.
Tutto è inutile: la Grecia ora è provincia romana, e impone la sua lingua, la sua moda, le sue dottrine; né grande efficacia ha l'opera di MARCO PORCIO CATONE detto il "censore".
Quest'uomo ammirevole spende la sua vita per la rigenerazione dei costumi romani. Lui discendente da un'illustre famiglia di Tuscolo, e in un secolo di decadenza è uno dei pochi, genuini rappresentanti dei Romani antichi. Soldato, si distingue per onestà, disciplina, valore, nelle guerre contro Annibale; combatte a Capua, a Taranto, al Metauro e nella guerra asiatica, meritandosi le altissime lodi del console; è nella guerra di Sicilia sotto Marcello e nella guerra ispanica. Tuttavia è amante del vivere sobrio e frugale.
Trascorre la sua adolescenza in un podere paterno della Sabina, lavora con i servi nei campi e si fa strenuo patrocinatore degli oppressi. Giunto a Roma, inizia una guerra spietata contro tutto ciò che sa di nuovo e di straniero, sostenendo strenuamente il ritorno alle antiche virtù. Riscuote plausi e si procura inimicizie; ma i primi non lo commuovono e le seconde non lo spaventano. Non esita a schierarsi contro la potentissima famiglia di CORNELIA -che in quanto a sobrietà non era inferiore allo stesso Catone- accusando i fratelli SCIPIONI, di cui Publio va in esilio e Lucio è condannato, "per aver favorito la cultura ellenistica".

Nominato censore, fa veramente il suo mestiere, combatte spietatamente e con tenacia i vizi, il lusso, le mollezze, gli abusi, prendendo come bersaglio dei suoi fierissimi colpi, delle sue terribili accuse, delle sue roventi orazioni, patrizi e plebei, uomini e donne, uomini di governo e pubblicani. Fa cacciare dalla curia sette senatori che conducono vita scostumata, cancella dalla lista alcuni senatori per immoralità, perfino il fratello di Flaminino, vincitore di Filippo il macedone; toglie il cavallo a molti cavalieri, impone una tassa in ragione del tre per mille sul lusso eccessivo delle matrone, ristora le finanze, cura l'igiene della città, caccia dalla Sardegna gli usurai e diminuisce le imposte delle quali i pretori avevano gravato quei poveri isolani; difende gli innocenti, i calunniati, gli oppressi, cita in giudizio tribuni. Dove c'è scandalo lì implacabilmente c'è Catone, "il censore".

Ma l'opera di un solo uomo è incapace di arginare la corruzione. Alla decadenza dei costumi ora si aggiunge il disagio economico e quella e questo sono causa di gravi disordini e che iniziano ad arrecare gravi danni a Roma.

E fra questi mali, si sta profilando una frattura all'interno della società romana, che anche questa inizia ad avere entro breve tempo gravissime conseguenze.
Una frattura dovuta principalmente ai seguenti fattori:
a)- rivalità fra gli aristocratici, decisi a mantenere il potere, e i cavalieri e i popolani che consapevoli di costituire la maggioranza dei cittadini aspirano a quel potere; uscendo così da quello stato di inferiorità politica in cui si trovavano. Le guerre hanno reso famosi soggetti (spesso con natali plebei) dentro non solo l'ambiente militare (che inizia con i suoi generali a diventare sempre più potente) ma anche nel popolo che li porta in trionfo anche quando il Senato a loro lo nega.
b) - rivalità di Roma con gli alleati (Sanniti, Piceni, Marsi, Peligni, Apuli, Lucani ecc.) che consapevoli di aver concorso alla potenza di Roma, non hanno ricevuto nulla in cambio delle loro fedeltà, né miglioramenti alle condizioni economiche che aspiravano, né il pieno diritto alla cittadinanza.
c) - rivalità con gli uni e gli altri, di quella massa d'avventurieri, affluiti a Roma da paesi e regioni vicine e lontane, per trarre vantaggio dalle situazioni più torbide, e sempre pronte a mettersi al servizio delle varie fazioni in lotta.

DISAGIO ECONOMICO E SUE CONSEGUENZE

Dell'antico patriziato pochissime famiglie hanno potuto mantenere gli aviti agi. Un nuovo spregiudicato patriziato che patriziato non è, ha sostituito il vecchio; alla nobiltà legata alle virtù subentra la nobiltà dei ricchi, la plutocrazia dei mercanti, degli usurai e degli speculatori, che si servono dei loro tesori per ottenere o mantenere il potere. Ma Roma, con il suo splendore, attira non solo gli avventurieri accennati sopra, ma anche un'infinità di gente dalla penisola e dalle province, che nella capitale non trova il benessere agognato, ma la disoccupazione e la fame; masse di scontenti -suggestionabili perché ignoranti- che possono trasformarsi da un momento all'altro in un potenziale esplosivo se con la demagogia queste masse le utilizzano le opposte fazioni solo per creare disordini (come vedremo più avanti).

La piccola proprietà terriera si è quasi tutta ridotta in mano di pochi, essendo stati i piccoli proprietari costretti a cedere i loro poderi agli usurai per soddisfare i debiti contratti durante le guerre.
Con il formarsi dei latifondi decade l'agricoltura. Sul mercato di Roma i ricchissimi prodotti delle province diminuiscono di pregio e svalutano i prodotti d'Italia, e i proprietari dei latifondi per sopportare spese minori, violando impunemente le leggi Licinie, trasformano in pascoli i campi e, poiché il libero (ma capace) lavoratore costa più dello schiavo, preferiscono la (bassa) mano d'opera degli schiavi a quella degli uomini liberi, anche se producono poco e male.
Ne deriva che gli agricoltori, non trovando più lavoro nelle campagne, affluiscono numerosi a Roma, accrescendovi spontaneamente il numero dei disoccupati e dei poveri; e lo stato deve provvedere al sostentamento di questa folla d'affamati, ma, invece di dare loro da lavorare, vende a bassissimo prezzo il grano o lo distribuisce gratuitamente, innalzando a regola ciò che per eccezione, nei casi di carestia, era fatto per generosa solidarietà.

Ed ecco che la repubblica favorisce con i suoi stolti provvedimenti la disoccupazione e l'ozio, nutrendo un numero rilevante di persone che a poco a poco cadono nell'abbrutimento e nei vizi e costituiscono elemento di disordine.

Altro elemento pericolosissimo è quello dei "liberti" che SCIPIONE EMILIANO chiama "figliastri d'Italia". Figli di schiavi, e schiavi un tempo essi stessi, che anziché per le loro virtù si sono guadagnati la libertà per le iniquità commesse in pro e a servizio dei loro tristi padroni. Privi di occupazione, non amanti del lavoro, i liberti vivono, nelle taverne e nei postriboli, di lenocini, di ricatti, di furti, pronti sempre a favorire le ribalderie dei ricchi e a prestare la loro opera malvagia, in compenso di denaro ai loro ex padroni.

Ai disoccupati ed ai liberti vanno aggiunti gli schiavi, che costituiscono un elemento non meno pericoloso alla sicurezza pubblica.
Con l'estendersi delle conquiste romane cresce il numero degli schiavi. Noi non sappiamo con precisione a quanti assommavano al principio del II sec. a.C. il numero di questi disgraziati. Certo dovette essere considerevole e non debbono considerarsi come esagerazioni le affermazioni di certi statisti e storici del tempo, che affermano che vi erano tre schiavi per ogni cittadino.
Si pensi, infatti, che in Epiro centocinquantamila schiavi furono venduti quando in questi anni questa regione fu sottomessa, che a Delo - secondo Strabone - diecimila schiavi in un solo giorno furono imbarcati per l'Italia, che nella sola Sicilia presero parte alla rivolta dell'anno 135, duecentomila schiavi, che nel 104, nella Bitinia, - secondo le dichiarazioni di qualche re - non si trovavano più uomini adulti essendo stati presi tutti come schiavi dagli esattori romani, che Crasso aveva sotto di sé cinquecento schiavi muratori, che il figlio di una vedova n'ereditò quattrocento e che un certo Claudio Isidoro, morendo, ne lasciò ai parenti quattromilacentocinquanta !

Agli schiavi si faceva fare qualsiasi lavoro: erano addetti alla coltivazione dei campi, alla costruzione delle case, delle vie, degli acquedotti, dei monumenti, ai cantieri, agli arsenali; facevano i fabbri, gli spazzini, i falegnami; servivano da ciurma e rematori nelle navi, erano impiegati nei servizi delle case private, presso lo stato e nelle province come carcerieri, corrieri, carnefici; o facevano i suonatori, gli istrioni e perfino i pedagoghi.
Misere erano le loro condizioni: di giorno lavoravano con la catena ai piedi sotto la sorveglianza di guardiani spietati, di notte erano condotti in celle sotterranee che erano chiamate "ergastoli".
Se ai tempi dell'antica Roma la schiavitù era sopportabile, con l'andar del tempo divenne intollerabile. Gli schiavi erano tenuti in minor conto degli animali e considerati come cose; non avevano diritti di proprietà, neppure sui figli e sulle spose, e su di loro il padrone esercitava un potere senza limiti.
Maltrattati, seviziati, torturati, gli schiavi spesso ad una vita di tormenti preferivano la morte in un tentativo di liberazione e, poiché a nessuno potevano appellarsi affinché fosse migliorata la loro sorte, consapevoli del loro numero che rappresentava una grande forza, cercarono di porre fine al loro stato miserando ribellandosi.

LA PRIMA GUERRA SERVILE

La prima rivolta di schiavi, che provocò la guerra chiamata servile, scoppiò in Sicilia nel 135 a.C.
Gli schiavi della Sicilia erano trattati peggio che quelli delle altre regioni; erano perfino marchiati con un ferro di cavallo arroventato.
Un ricchissimo signore di Enna di nome ANTIGONO aveva tra gli altri uno schiavo, certo EUNO, nato in Apamea di Siria, il quale si spacciava per divinatore del futuro. Parlava al volgo tenendo in bocca una noce piena di zolfo e di stoppa accesa, diceva di essere invaso dallo spirito di Apollo ed asseriva di avergli la dea Cibele annunciato che un giorno sarebbe stato re.

Nella stessa città abitava un altro ricco signore di nome DAMOFILO, crudele verso gli schiavi, sposato ad una certa Megallide che in crudeltà non era per nulla inferiore al marito.
Partì dagli schiavi di Damofilo la prima scintilla della rivolta. Capitanati da EUNO, in numero di quattrocento entrarono improvvisamente a Enna compiendo una strage di abitanti. Un manipolo di rivoltosi, recatosi nella casa di campagna del crudele signore, s'impadronì di Damofilo e Megallide e li condusse in città alla presenza degli altri schiavi che si erano radunati nel teatro. Damofilo cercò di scusarsi e d'impietosire i suoi giudici, ma uno schiavo chiamato ERMEA lo passò da parte a parte con la spada, e un altro, di none ZEUSI, lo decapitò con una scure. Megallide fu consegnata alle sue serve schiave, che prima la seviziarono poi la precipitarono in un burrone. Solo una figlia di quella triste coppia, che sempre si era mostrata buona con gli schiavi, ebbe salva la vita.
EUNO, fattosi proclamare re, prese il nome di ANTIOCO, ordinò che fossero uccisi gli abitanti superstiti di Enna e, sceltosi come consigliere un certo ACHEO, alla testa di seimila schiavi si mise a fare scorrerie, saccheggiando le vicine campagne.
L'esempio degli schiavi di Enna trascinò alla rivolta i compagni dei paesi vicini, guidati da un certo CLEONE di Cilicia e in breve tempo EUNO ebbe sotto i suoi ordini ventimila schiavi.

Prima il pretore MANILIO poi CORNELIO LENTULO marciarono contro gli insorti, ma furono sconfitti; un corpo di cavalleria romana comandata da C. TIZIO fu accerchiato; L. IPEO, inviato con truppe da Roma, fu battuto. Il numero dei ribelli nel frattempo era diventato di duecentomila, che mise allo sbaraglio un altro esercito romano comandato da L. PLANICO.
Dopo Enna, anche Tauromenio cadde in potere degli schiavi, che marciarono su Messana (Messina) e la cinsero d'assedio.
A domare la rivolta fu inviato dal Senato in Sicilia il console LUCIO CALPURNIO PISONE. Questi inflisse ai ribelli una durissima sconfitta e li obbligò ad allontanarsi da Messana, dopo aver lasciato sotto le mura della città ottomila morti.
La repressione della rivolta fu continuata dal console PUBLIO RUTILIO che cinse l'assedio con un numeroso esercito Tauromenio. Nonostante mancanti di viveri, gli schiavi resistettero disperatamente e si narra che si cibassero della carne dei cadaveri. La città cadde in potere dei Romani per il tradimento dello schiavo siriaco SERAPIONE. Si racconta che COMANO, fratello di CLEONE, catturato mentre fuggiva e condotto alla presenza del console, per non rivelare il piano dei suoi compagni si suicidò.

Tutti gli schiavi catturati furono fatti precipitare dall'alto delle rocce. Caduta Tauromenio, il console decise di assediare Enna, dove si trovavano EUNO e CLEONE. Quest'ultimo, vedendo che non c'era speranza di salvezza, affrontò coraggiosamente gli assedianti in una disperata sortita e trovò morte in battaglia; Euno invece, dopo che la città era caduta per tradimento, riuscì a fuggire con seicento schiavi e si rifugiò sopra un monte, dove, circondato dalle truppe romane fu poi catturato (132 a.C.).
Condotto in prigione a Murganzia, o, come altri narrano, morì a Roma.

Con la morte dei due capi e la resa delle due città i rivoltosi si persero d'animo e ben presto furono debellati. Ventimila schiavi - secondo Diodoro Siculo - li uccisero per dare un salutare esempio ai compagni: mentre gli altri schiavi videro peggiorate le proprie condizioni.
Avendo rivelato i libri sibillini, che la rivolta era dovuto allo sdegno di Cerere, furono fatti solenni sacrifici nel tempio della dea ad Enna; ma nessuno comprese cosa volesse significare lo sdegno di Cerere, per placare il quale occorreva soltanto migliorare la sorte degli schiavi, che erano addetti alla coltivazione della terra, ma ricevevano un trattamento inumano.
Cosicché le ingiustizie e le crudeltà dei pretori romani continuarono.
Il pretore PORCIO CATONE, accusato dagli abitanti di Messana di concussione, fu, è vero, condannato a pagare diciottomila sesterzi; ma questo non servì a far smettere l'avidità dei dominatori e non mutò in meglio le condizioni dell'isola, che anzi, peggiorando sempre di più, ventiotto anni dopo, vi scoppiò un'altra rivolta ancora più grave della prima.

TIBERIO SEMPRONIO GRACCO

Alla repressione della rivolta degli schiavi di Sicilia seguirono- anche se minori- le insurrezioni in Grecia e in Campania. Ma il rimedio non era nelle repressioni; il male andava estirpato dalle radici. Occorreva lenire senza indugio i dolori, alleviare la miseria, sanare la minacciosa piaga della disoccupazione e risollevare la sorte degli schiavi.
A Roma non mancarono uomini autorevoli che si resero conto della gravità della situazione sociale e compresero pure quali potevano essere i rimedi. Questi uomini erano: SCIPIONE EMILIANO e CAIO LELIO. Il primo, per la fama che aveva e per l'autorità che gli era venuta dalle gloriose imprese, era forse l'uomo più adatto a far cessare il disagio economico, ma, se vide in anticipo le conseguenze che sarebbero derivate alla repubblica dalla continuazione di quello stato di cose, nulla poi fece per evitarle.
Il secondo, ancora durante il suo consolato del 140 aveva proposto di distribuire fra gli agricoltori l'agro pubblico della penisola, ma ritirò subito la sua proposta quando si accorse che non era per nulla gradita al Senato, dove sedeva la maggior parte di coloro che di quei terreni erano i proprietari. Gran parte di tali terre erano per legge proprietà dello Stato (agro pubblico), ma erano state date in affidamento quasi esclusivamente agli aristocratici, con la conseguente formazione d'immensi latifondi, lasciati per lo più a bosco e a prato o coltivati da masse di schiavi che continuavano ad arrivare a decine di migliaia a Roma dalle terre conquistate.
I piccoli contadini proprietari, prima delle numerose guerre in Spagna, Africa, Macedonia, Grecia, c'erano ed erano molti, e nella produzione di derrate alimentari, rappresentavano il pilastro per l'economia romana, ma con le continue coscrizioni per allestire sempre nuovi eserciti, e la lontananza dalle loro case per molti anni, quando poi tornavano, non avendo potuto provvedere alle loro terre (peggio ancora per i familiari di quelli che non tornavano, e che dovevano pensare a pagare anche le tasse nonostante la bassa produzione) queste piccole proprietà erano gravate da debiti fatti con gli usurai (che poi erano gli stessi aristocratici dell'ordine senatorio) e finivano inesorabilmente assorbite dagli stessi, che accumulavano sempre più ricchezze sia con i prestiti sia allargando i loro latifondi, spesso come detto sopra non sempre coltivati.
Le conseguenze della mancanza di produzione, essendo la domanda sempre più alta -per l'incremento demografico e le inarrestabili migrazioni in città- era l'aumento di prezzo delle derrate alimentari che il popolo non si poteva più permettere di acquistare; e paradossalmente neppure gli ex contadini che vivevano nelle campagne ma senza lavoro, e senza un metro di terra per coltivarci l'indispensabile per vivere.

Nel concepire una riforma, più audace, molto più concreto di Emiliano e Lelio, si mostrò TIBERIO SEMPRONIO GRACCO.
Era questi figlio di quel Sempronio che era stato console nel 177 e nel 163 a.C. e censore nel 169; sua madre era CORNELIA, nobilissima matrona, figlia di Publio Cornelio Scipione l'Africano.
Questo matrimonio era stato concluso per rappacificare due grandi famiglie che erano poi gli esponenti dei due grandi partiti politici di Roma. Più tardi, per completare la pacificazione, altri vincoli di parentela furono stretti tra le due famiglie: SCIPIONE EMILIANO sposò SEMPRONIA, la figlia di Cornelia. Ma a nulla valsero l'uno e l'altro matrimonio: i dissidi non prendevano origine da questioni personali né quelli dei due partiti, ma da opposte concezioni politiche e il contrasto prodotto da queste cause non poteva di certo essere sanato con delle semplici nozze siano pure contratte tra membri di famiglie molto influenti.
Rimasto privo del padre in giovanissima età con il fratello CAIO, minore di nove anni, Tiberio Sempronio Gracco restò affidato alle amorevoli e sapienti cure della madre Cornelia.
In un secolo di tanta corruzione, CORNELIA era il vero tipo della donna romana antica; amava la semplicità e giustamente disprezzava il lusso; era buona con i suoi sottoposti, pia e devota, scrupolosamente onesta. Erano tante le sue virtù che, rimasta vedova, la chiese in sposa TOLOMEO VII, re di Cirene; ma lei rifiutò e volle rimanere regina della sua casa.
Ad una matrona romana, recatasi in casa della virtuosa figlia di Scipione, dopo averle mostrati i suoi preziosi gioielli, le chiedeva che mostrasse i suoi; si narra che Cornelia, fatti entrare i suoi figlioletti, esclamasse: "I miei gioielli sono questi !".

Dei suoi dodici figli sopravvissero solo una femmina, e dei maschi Tiberio e Caio; che poi morirono tragicamente prima della madre.

I due Gracchi ebbero per maestri i filosofi Diofane di Mitilene e Blossio di Cuma, ma la maestra migliore fu la madre, la quale li educò nella virtù degli avi, all'amore della patria, allo sprezzo della vita e al culto della libertà, narrando loro le imprese che il padre aveva compiute nella Sardegna, nella Spagna e nella Tracia, magnificando le gesta gloriose del nonno in Africa, in Spagna e in Asia e facendo loro sapere che il tempio alla Libertà che sorgeva sull'Aventino era stato innalzato a spese e per volontà di uno dei loro illustri antenati.
Ben presto TIBERIO SEMPRONIO GRACCO si rese degno dei suoi maggiori e fece parlare di sé: appena diciassettenne partecipò con Scipione Emiliano alla terza guerra punica e, all'assalto di Megara fu lui il primo a scalare le mura; pochi anni dopo, 25 enne, nominato questore, accompagnò in Spagna il console CAIO Mancino nel 137 ed, essendo l'esercito caduto nella trappola dei Numantini, seppe lui strappare ai vincitori quel trattato che, se non era onorevole per i Romani, salvava però la vita a ventimila uomini.

Quando tornò dalla Spagna in Italia, era salito in gran fama di guerriero e di uomo politico. Attraversando l'Etruria, sensibile com'era fu addolorato nel vedere dei validissimi agricoltori che, per la disoccupazione, languivano nella miseria, e non meno rattristato nel vedere che le terre o non erano coltivate o se lo erano dagli schiavi, queste erano mal coltivate.

Pieno l'animo dell'ardente desiderio di lenire tante miserie e di ovviare ai gravissimi disagi economici che affliggevano la sua patria, Tiberio Gracco conseguì il tribunato.
Entrò in carica il 10 dicembre del 133 e, messosi d'accordo con APPIO CLAUDIO, suo suocero, con PUBLIO LICINIO CRASSO MUCIANO, pontefice massimo, e con il nuovo console P. MUCIO SCEVOLA, insigne giureconsulto, propose che fosse rimessa in vigore la legge agraria "Licinia-Sestia"
Secondo tale legge - che da tempo era stata messa in abbandono - nessun cittadino poteva possedere più di cinquecento jugeri (misura equivalente a un quarto di ettaro) di agro pubblico, e che dovevano esser coltivati da un certo numero di lavoratori, e non di servi.
Quell'antica legge però non si adattava più ai tempi nuovi e Tiberio Gracco molto opportunamente la modificò temperandola proponendo che, oltre ai cinquecento jugeri prescritti dalla legge ogni cittadino potesse possedere altri cinquecento purché dividesse questi ultimi in parti eguali fra due suoi figli (il totale per una famiglia era quindi il massimo di 1000 jugeri.

Propose inoltre che lo stato pagasse ai cittadini per le terre sottratte in virtù della legge le spese fatte nei miglioramenti o in case fabbricate nei fondi. Le terre tornate in proprietà dello stato dovevano, in lotti di trenta jugeri ciascuno, essere distribuite ai bisognosi, i quali dovevano pagare un simbolico canone alla repubblica. Le terre erano cedute in usufrutto perpetuo, ereditario e inalienabile.
Se molti e non lievi erano le modifiche alla legge Licinia-Sestia, non poche erano le difficoltà per la sua attuazione. Da moltissimi anni non si erano più fatti acquisti di agro pubblico in Italia e non era cosa facile identificare tra le private proprietà quelle che un tempo erano state terre demaniali e -come detto già sopra- soltanto affidate ai latifondisti.
Oltre a questo, molti avevano acquistato legalmente terre da coloro che le avevano avute alle condizioni d'affidamento ma le avevano alienate come loro proprietà. Sarebbe stato quindi ingiusto, ora sottrarle a chi le aveva pagate in buona fede, come sarebbe stato un onere gravissimo per lo stato pretendere con i denari dell'erario pubblico risarcire i danneggiati.

Ma la più gran difficoltà proveniva dai ricchi proprietari che decisero di combattere con tutti i mezzi la legge.
Uno degli avversari più accaniti era SCIPIONE NASICA.
Il giorno in cui i comizi tributi dovevano votare la legge, le aspettative erano grandi. Da ogni parte della penisola era convenuta a Roma una folla di persone, alla quale TIBERIO GRACCO, rivolse un discorso caloroso.
Parlò dei bisogni del popolo, della legge votata dai patrizi, delle usurpazioni dei ricchi; disse dell'onta della nazione e del danno che essa subiva, condannando le nuove generazioni alla miseria; parlò dei vasti latifondi affidati alle mani degli schiavi che non coltivavano con amore la terra dei loro crudeli ed avari padroni; rimproverò con asprezza i ricchi che con la loro rapacità portavano alla rovina la patria e la coprivano di disonore; ricordò i prodi che avevano difeso con il loro sangue Roma e che come ricompensa erano stati abbandonati alla povertà più squallida e concluse: "Non dicono il vero i capitani quando spronano i soldati a lottare per le are degli dei e per i sepolcri degli avi. Fra i soldati romani, non c'è nessuno che ha altari e sepolcri aviti. Loro si battono e muoiono solo per procurare ad altri agi e mollezze; sono chiamati i dominatori del mondo ed invece non possiedono neppure una zolla di terra. Precipiterà nel baratro della rovina la patria se a questi mali non si metterà riparo".

Parlò con tale fervore che nessuno dubitò dell'esito della votazione. Ma questa purtroppo non avvenne. Fra i tribuni della plebe era MARCO OTTAVIO CECINA, il quale, essendo un ricco proprietario terriero, si oppose alla votazione e il suo veto impedì che la vittoria fosse del popolo e del tribuno che aveva proposto la legge riparatrice.
La riprovevole condotta del collega irritò TIBERIO GRACCO, il quale ricorse alle rappresaglie, sospese i magistrati e chiuse l'erario dichiarando che né questo sarebbe stato aperto né quelli avrebbero esercitate le loro funzioni fino il giorno della nuova votazione.

Riunitisi nuovamente i comizi, si era in procinto di votare, quando il partito dei ricchi sottrasse furtivamente le urne. A questa prepotenza insorsero i partigiani della legge e sarebbe nato un violento e sanguinoso conflitto se Tiberio non avesse placato gli animi.
Il fiero e ostinato tribuno si recò nella curia per protestare, ma i senatori lo accolsero con ingiurie. Allora Tiberio cercò di rimuovere gli ostacoli pregando MARCO OTTAVIO di desistere dall'opposizione; ma vane furono le preghiere, vana fu l'offerta che fece al collega di pagargli i danni che riceveva dall'attuazione della legge. Ottavio non si piegò; in maggiore misura irritato, Tiberio convocò i comizi affinché si decidesse se si poteva lasciare in carica un tribuno che invece di difendere i diritti del popolo li combatteva.
Le prime diciassette delle trentacinque tribù avevano già votato la destituzione di Ottavio; mancavano quindi i voti di una sola tribù perché Tiberio ottenesse la maggioranza.
TIBERIO generosamente si decise a fare un ultimo tentativo per persuadere il collega, ma OTTAVIO rifiutò ancora una volta di ritirare il suo veto e la votazione continuò.
L'esito finale fu nettamente contrario ad OTTAVIO, che fu cacciato dalla ringhiera tribunizia e sarebbe stato malmenato dal popolo inferocito se non fosse intervenuto in suo favore proprio TIBERIO.
Dopo la destituzione di Ottavio, rimessa la legge ai voti, fu approvata e, seduta stante, fu nominata una commissione di tre membri per metterla in esecuzione. Risultarono eletti, TIBERIO, il suocero APPIO CLAUDIO e il fratello CAIO GRACCO che allora era assente da Roma trovandosi con Scipione Emiliano all'assedio di Numanzia.
La vittoria era stata del popolo; ma non fu facile dare esecuzione alla legge.
Tutta l'oligarchia senatoria era impegnata a ostacolarla
Era una faccenda molto complicata distinguere i patrimoni terrieri dello stato dai privati, tuttavia con della buona volontà non era difficile risolverla con una commissione di esperti agronomi. Ma il Senato si rifiutò di fornire i denari del pubblico erario per formare questa commissione di esperti.

Pochi mesi dopo (e siamo nel 132 a.C.) era morto ATTALO III, re di Pergamo, lasciando erede del regno non Roma ma "il popolo romano". Tiberio Gracco, non tenendo conto della costituzione che dava facoltà solo al Senato di governare gli affari esteri e disporre dei nuovi acquisti, propose audacemente che i tesori del defunto re lasciati in eredità al popolo della repubblica fossero distribuiti fra i cittadini ai quali erano state assegnate le terre pubbliche affinché potessero acquistare gli arnesi agricoli, semenze e quant'altro, per far fronte alle prime spese.
A questo temerario annuncio, ad arte dalle file senatorie scoppiarono tumulti, imprecazioni, sdegno nel sentire che si voleva distribuire il "Tesoro di Attalo" alla plebaglia.

Non contento di questo, per conservarsi il favore del popolo, Tiberio propose altre leggi, di cui non abbiamo precisa notizia; alcune delle quali avevano lo scopo di diminuire sensibilmente l'autorità del Senato.
Sempre più inaspriti dall'opera del tribuno, i nobili e i ricchi decisero di abbatterlo. Cercarono anzitutto di metterlo in cattiva luce presso il popolo stesso che lo sosteneva insinuando che Tiberio Gracco aveva in animo di farsi tiranno di Roma e per avvalorare queste insinuazioni il senatore POMPEO sosteneva che il tribuno teneva in casa il diadema di Attalo; QUINTO METELLO invece lo accusava d'ipocrisia, che difendeva i poveri ma poi come un re si faceva accompagnare a casa con le fiaccole accese dai poveri.

Ma il popolo non prestò fede a queste banali malignità dei grandi, anzi consigliò e raccomandò il suo difensore di fare molta attenzione ai suoi nemici.
Inefficace ogni trama il partito avverso tentò allora d'impedire che il tribuno fosse rieletto.
L'elezione avvenne nei primi di luglio del 132, e gli oligarchi contavano sull'assenza di moltissimi elettori favorevoli a Tiberio trattenuti fuori di Roma dai lavori dei campi e mietitura del grano.
Tuttavia TIBERIO GRACCO ai voti si presentò al Campidoglio pieno di fiducia e le elezioni lo avrebbero confermato nella carica se gli avversari, protestando che i voti assegnati a Gracco erano illegali perché non poteva un tribuno essere rieletto. Riuscirono così a far sospendere la votazione.

Il giorno seguente furono riconvocati i comizi per riprendere la votazione e Tiberio Gracco si trovava al Campidoglio tra la folla dei suoi elettori quando il senatore FLAVIO FLACCO, suo amico, lo raggiunse per comunicargli, che i suoi oppositori, riuniti nel tempio della Fede, avevano deciso di troncare con la violenza le operazioni elettorali in corso.
La grave notizia causò grande agitazione fra coloro che, trovandosi vicino al tribuno, riuscirono a sentire le parole del senatore. Iniziarono ad infiammarsi e a rumoreggiare; i piccoli assembramenti più vicini e la folla lontana non conoscendo la causa del trambusto voleva sapere di che cosa si trattasse.
Non potendo Tiberio farsi intendere a parole e volendo far capire che gli avversari volevano la sua testa, indicandola fece un gesto con la mano sul capo.
Questo gesto gli fu fatale. I nemici, che erano presenti, corsero in Senato a riferire che Tiberio Gracco aveva chiesto all'assemblea che gli fosse data la corona di re.
A quella notizia, furono le teste dei senatori ad accendersi di ostentato sdegno, e SCIPIONE NASICA, l'accanito avversario del tribuno, chiese ad alta voce al console che si ordinasse di mettere a morte Tiberio.
MUZIO SCEVOLA disse che non poteva condannare un uomo contro il quale dai giudici non era stata pronunciata alcuna sentenza, ed allora Scipione, infuriato, urlò: "Poiché i1 console tradisce Roma, chi vuole la salvezza della repubblica mi segua !".
Non pochi dei senatori lo seguirono; a loro si unirono lungo la via altri nemici del tribuno e la turba, capitanata da SCIPIONE NASICA, si recò al Campidoglio urlando e roteando i bastoni che avevano in mano.
Sorpresi dall'improvvisa irruzione, i partigiani di Gracco si diedero alla fuga trascinandosi dietro Tiberio.
Si narra che il tribuno scivolò lungo il pendio capitolino e, che travolto e calpestato dai fuggiaschi, rimase ucciso; ma, la sua morte si deve senza dubbio ai colpi di bastone ricevuti dalla turba di Nasica. Tiberio non fu la sola vittima dell'insano furore degli oligarchi: quel giorno rimasero uccisi trecento suoi partigiani e i loro cadaveri, insieme con quello di Tiberio, furono gettati nel Tevere.

MORTE DI SCIPIONE EMILIANO

Dopo la morte di Tiberio Gracco e la strage dei suoi sostenitori, l'eccitazione del popolo fu grande. E poiché tutti sapevano che la causa di quel sangue versato era SCIPIONE NASICA, il Senato per sottrarlo alla vendetta popolare lo spedì lontano, in Asia.
Gli oligarchi cercarono in un primo tempo di tener testa ai sostenitori del defunto tribuno, iniziando un processo contro i partigiani di Tiberio, sopra i quali si faceva cadere la responsabilità dei fatti; ma non si tardò a desistere dalle persecuzioni di fronte al contegno minaccioso del popolo e non si osò nemmeno toccare la legge agraria, ma morì lungo la procedura della sua applicazione, poi si esaurì del tutto. Come leggeremo più avanti, la legge fu ripresa ed ampliata dall'altro figlio di Cornelia, cioè dal fratello minore di Tiberio, CAIO GRACCO eletto tribuno della plebe nel 123 a.C.

Nella commissione dei tre membri il posto occupato da Tiberio fu dato a PUBLIO LICINIO CRASSO MUCIANO, suocero di Caio Gracco, che però ucciso due anni dopo dai soldati di Aristonico in Asia, fu eletto il senatore MARCO FULVIO FLACCO. Nel frattempo anche Appio Claudio cessò di vivere e fu nominato CAIO PAPIRIO CARBONE.
Quest'ultimo un ardente fautore di Tiberio e valentissimo oratore in lui il popolo ripose tutte le sue speranze.
Nominato tribuno del 131, Caio Papirio Carbone propose che le leggi fossero votate a scrutinio segreto e la sua proposta fu approvata ("lex Papiria tabellaria"); propose inoltre una legge in forza della quale i tribuni uscenti potevano venire rieletti; ma questa rogazione incontrò l'opposizione della nobiltà e fu solo accettata quando fu ripresentata in altra forma. Si concesse, cioè, che un tribuno uscente poteva essere rieletto soltanto nel caso in cui il numero dei candidati alla carica tribunizia fosse incompiuto.
Uno di quelli che più degli altri avevano osteggiato la seconda rogazione di Papirio Carbonene "de tribunis plebis reficiendis" era stato SCIPIONE EMILIANO.
Quando Tiberio Gracco era stato ucciso, lui, il distruttore di Cartagine si trovava all'assedio di Numanzia. All'annuncio di quel tragico avvenimento si narra che il grande capitano esclamasse con Omero: "Perisca così chiunque oserà imitarlo".
Con queste parole Scipione non intendeva alludere, come qualcuno crede, alle mire di tirannide attribuite a Tiberio, né, come credono altri, voleva proclamarsi avversario della legge agraria, perché anzi era molto sensibile ai bisogni del popolo, di cui godeva il favore, ma, rigido osservatore delle leggi della repubblica, condannava il metodo violento ed illegale con il quale il cognato aveva voluto far trionfare le sue idee.
Ritornato a Roma, per lo stesso motivo per il quale aveva disapprovato i metodi di Tiberio, si schierò contro la rogazione di Papirio. Riuscì -come abbiamo detto- a non farla approvare, ma si attirò l'odio del fiero tribuno, il quale, allo scopo di alienargli il favore del popolo, durante un'assemblea popolare, lo invitò ad esprimere il suo giudizio sulla fine di Tiberio.

Scipione confermò quello che aveva detto a Numanzia ed essendo state le sue parole accolte dalle grida ostili dei presenti aggiunse fieramente che "chi tante volte non era stato atterrito dal clamore dei nemici armati non poteva essere scosso da quello di gente cui l'Italia era matrigna", alludendo ai numerosi liberti presenti all'assemblea e a tutti i disoccupati che al sano lavoro dei campi, che la legge agraria assicurava, preferivano l'ozio della città.
Scrisse CICERONE che, messosi in urto con il partito popolare, Scipione mirava a fare il dittatore per salvare la repubblica dalle fazioni.
Può darsi, ma non è certo. Noi sappiamo solo che da allora il vincitore di Numanzia si sforzò di giovare alla causa del popolo, e quindi dello stato, sfrondando la legge agraria di alcune norme che erano la causa dei contrasti dei due partiti e perché fosse imparzialmente applicata propose che non la commissione, formata da elementi notoriamente militanti nel partito popolare, dovesse giudicare le controversie che sorgevano, ma il console.

Erano consoli quell'anno (129) CAIO SEMPRONIO TUDITANO e MANIO AQUILIO. Trovandosi quest'ultimo in Asia, fu dato a Sempronio l'incarico di risolvere le liti provocate dalla legge agraria; ma il console, non volendo attirarsi l'odio dell'uno e dell'altro partito, si fece dal Senato mandare in Gallia Cisalpina con il pretesto di reprimere una ribellione di Giapidi.
Per la partenza del console, la legge proposta da Scipione così rimase lettera morta. Allora il grande generale rivolse tutto il suo studio a epurare la legge agraria da tutte le ingiustizie che conteneva.
Questa legge accordava, condizioni di privilegio ai cittadini romani e danneggiava enormemente gli interessi dei Latini e degli altri popoli italici, ai quali gli emendamenti apportati da Tiberio alla "Licinia-Sestia" non recavano alcun beneficio. Latini e Italici, infatti, non solo erano esclusi dalla clausola per mezzo della quale i cittadini con prole ottenevano cinquecento jugeri di terreno in più, ma non avevano neanche il diritto di partecipare alla distribuzione dell'agro pubblico sottratto ai ricchi. Questo ingiusto trattamento aveva sollevato molte dure proteste e Scipione Emiliano si era saggiamente preoccupato delle gravissime conseguenze che senza dubbio potevano provocare il malcontento degli alleati.
Decise quindi di difendere la causa di questi ultimi e annunciò che avrebbe parlato al popolo in loro favore; ma la mattina del giorno stabilito, quando tutti erano impazienti di sentire cosa avrebbe detto, SCIPIONE EMILIANO fu trovato morto nel suo letto.
La morte dell'illustre capitano rimase avvolta nel più fitto mistero.
Alcuni dissero che Scipione - aveva allora 56 anni - era morto di malattia; altri ch'era stato vittima del partito popolare. Cadde il sospetto su PAPIRIO CARBONE, su FLAVIO FLACCO e su CAIO GRACCO e qualcuno giunse perfino a sospettare della moglie SEMPRONIA e di CORNELIA.
Ma nessuno osò indagare e così il più grande romano di quel tempo scomparve senza che le autorità e gli stessi suoi amici ed ammiratori si curassero minimamente di chiarire le cause di quella sua misteriosa morte.

Durante i funerali il suo feretro fu portato dai figli di Q. Metello Macedonico, ai quali -si narra- che il padre rivolgesse le seguenti parole che fanno onore al vivo e mettono in giusta luce i meriti grandissimi del defunto: "Andate, e celebrate i funerali. Voi non vedrete mai esequie d'un cittadino più illustre".

RIVOLTA DI FREGELLE

Morto SCIPIONE EMILIANO, i Latini rimasero senza un valido difensore; molti di loro si erano trasferiti a Roma, ma la loro presenza era causa di continue agitazioni e un "tribuno della plebe", M. GIUNIO PENNO, il quale, nonostante la carica di cui era rivestito, favoriva il partito degli aristocratici nemici della plebe, chiese lo sfratto da Roma dei Latini e l'ottenne.
CAIO GRACCO, che allora era questore, aveva parlato in difesa dei Latini, ma il popolo che li vedeva come dei concorrenti, non ascoltò le parole del fratello di Tiberio e i Latini furono espulsi.
Vi era fra questi il padre dell'ex-console PERPENNA che fu costretto a ritornare nel suo natio Sannio (era l'anno 126 a.C.).

L'anno seguente (125) M. FULVIO FLACCO, uno dei tre membri della commissione per l'esecuzione della legge agraria, nominato console presentò una rogazione con la quale proponeva che si desse facoltà ai latini sfrattati di appellarsi al popolo; ma la sua proposta incontrò l'ostilità del popolo stesso, né miglior fortuna ebbe l'altra proposta da lui avanzata di concedere la piena cittadinanza romana a tutti gl'Italici (città di diritto latino) i cui interessi erano lesi dalla legge agraria.
FULVIO FLACCO partì poco dopo per recare soccorso ai Massilioti contro i Salluvi, e CAIO GRACCO dal Senato fu mandato in Sardegna al seguito del console AURELIO ORESTE.
Erano gli ultimi due difensori dei Latini, i quali con la partenza di quelli, da quel momento non avevano più nessuno. E poiché non vi era nessun mezzo legale per fare valere le proprie ragioni, decisero di ricorrere alla violenza.

Fortuna per Roma che il malcontento degli Italici non generò un'azione concorde e contemporanea; fu invece isolata
Fregelle, la ricca città posta sulle rive del Liri tra il Lazio e la Campania, insorse prima del tempo e fu vittima del suo sdegno e della impulsiva imprudenza. Marciò sulla città, il pretore LUCIO GIUNIO al comando di un grosso contingente di truppe. Queste e il tradimento, in breve tempo, repressero la resistenza dei ribelli e Fregelle cadde in potere dei Romani.
Il Senato trattò molto duramente l'infelice città affinché l'esempio non fosse imitato dalle altre città della penisola.
A Fregelle furono distrutte le mura; fu privata dei diritti e, come Capua, fu cancellata dal novero delle città; deportati tutti gli abitanti nella colonia di Fabrateria Nova.

CAIO GRACCO

Mentre si svolgono questi avvenimenti entra nella scena tumultuosa della vita politica romana CAIO GRACCO, e vi entra compiendo un atto d'insubordinazione.
Ad AURELIO ORESTE è stato prolungato il comando con il titolo di proconsole e nessuno è stato mandato a sostituire il fratello di Tiberio nella carica di questore. Ma Caio Gracco, nel 124, senza aver chiesto e ottenuto l'autorizzazione del Senato, ritorna a Roma e gli oligarchi, che l'odiano e lo temono, lo accusano di diserzione presso i censori L. CASSIO LONGINO e GNEO SERVILIO CEPIONE.
Nel processo seguito all'accusa, CAIO si difende appassionatamente: ricorda ai giudici ciò che ha fatto in Sardegna in occasione di una carestia, si vanta altamente della sua onestà, dicendo che dalla Sardegna è tornato a mani vuote mentre gli altri erano soliti tornare a Roma con le anfore colme d'oro e d'argento, dopo che n'avevano bevuto il vino, infine sostiene che non può essere considerato disertore chi come lui ha fatte dodici campagne, due in più cioè di quante la legge ne impone ai cavalieri.
Il popolo manda assolto Caio, che da quel processo anziché la condanna e il disonore, ci guadagna in popolarità e simpatie, e da quel momento si lancia con foga nella politica deciso a vendicare la morte del fratello del quale vuole seguire le orme.
Caio era il fratello minore di Tiberio assassinato, e aveva 30 anni

Invano la madre, Cornelia, memore della sorte toccata al figlio maggiore, lo esorta di rimaner fuori delle competizioni, invano gli scrive: "Quando dunque il delirio si allontanerà dalla nostra casa? Non abbiamo forse noi sufficiente motivo di vergognarci per aver suscitato il disordine e il tumulto nella repubblica?" invano lo prega che aspetti la sua morte, prima di chiedere il tribunato.
CAIO GRACCO è insensibile alla voce materna e sebbene sappia che il partito contrario farà tutto il possibile perché lui non la spunti, presenta nel 123 la sua candidatura al tribunato della plebe e nel luglio dello stesso anno riesce ad essere eletto.
Appena tribuno, CAIO GRACCO inizia con passione e con decisione la sua opera che mira a rialzare le sorti della plebe e a ridurre la prepotente autorità del Senato.
La prima legge da lui proposta è che nessun magistrato destituito può coprire un'altra carica, legge evidentemente rivolta a colpire l'ex tribuno Marco Ottavio, ma non incontra il favore del popolo e viene ritirata.
Una seconda legge stabilisce la perdita dei diritti civili e la confisca dei beni ai magistrati che, senza il giudizio del popolo, hanno inflitto pene corporali ad un cittadino, è invece approvata, e POPILIO LENATE, che era console al tempo dell'assassinio di Tiberio, prima che la nuova legge sia applicata contro di lui se ne va in esilio a Nuceria; ritornerà a Roma per intercessione del tribuno CALPURNIO BESTIA, ma solo dopo la morte di Caio Gracco (che ha i giorni contati)

A queste due leggi, che sono come il preludio della sua riforma, GRACCO nel suo primo consolato, ne fa seguire altre quattro; sono leggi rivoluzionarie, tutte rivolte a rialzare le condizioni dei poveri; la legge agraria, la frumentaria, la militare e la giudiziaria.

CON LA LEGGE AGRARIA Caio richiama in vita quella del fratello, abolendo la riforma introdottavi da Scipione Emiliano che dava al console presente a Roma, il potere sottratto ai triumviri della commissione.
Forse in questa legge, Caio, nell'intento di togliere i dissidi che tenevano divisa Roma dai suoi alleati, aveva stabilito di distribuire anche ai Latini poveri l'agro pubblico.
In questa legge è prevista la fondazione di centri urbani nelle province, per creare o riattivare dei centri produttivi e commerciali, in modo da far sfollare la capitale da gente senza lavoro diventata accattona.

CON LA LEGGE FRUMENTARIA fu fissato il prezzo del grano e regolate le distribuzioni pubbliche di frumento. Questo è dato dai magazzini dello Stato ai poveri residenti in Roma a prezzo bassissimo che, secondo certi storici, era meno della metà del prezzo corrente. La legge che ha lo scopo di alleviare la miseria, si rivelerà invece dannosa, perché attirerà a Roma una moltitudine di bisognosi dai comuni rurali, favorendo l'ozio.

LA LEGGE MILITARE richiama in vigore la disposizione secondo la quale era esonerato definitivamente dal servizio chi avesse militato nell'esercito per vent'anni. Inoltre, stabilisce che nessuno può essere ammesso nell'esercito se non ha compiuto il diciassettesimo anno d'età e mette a carico dello Stato le spese di vestiario che prima si prelevavano dalla paga dei soldati.

LA LEGGE GIUDIZIARIA ha lo scopo preciso di abbattere fin dove è possibile la potenza del Senato. Il Senato è composto degli ottimati (discendenti da famiglie patrizie o da famiglie che hanno dato edili curuli, pretori, consoli o censori) e da magistrati maggiori usciti dalla carica e rappresenta un'assemblea oligarchica gelosa delle proprie prerogative.
CAIO Gracco stabilisce in un primo tempo che l'albo dei giudici, al quale fino allora sono iscritti i senatori soltanto, comprenda trecento senatori e trecento cavalieri, in un secolo tempo cancella dall'albo i senatori e lascia ai soli cavalieri il governo della giustizia.
Chiarissimo quali scopi vuole conseguire Caio con la sua riforma giudiziaria. Lui sa che il popolo non è più la plebe di una volta, sa che non è possibile con questa massa popolare combattere con successo contro il Senato e, per abbattere l'oligarchia senatoriale gli contrappone astutamente la classe dei ricchi (ceto dei commercianti, uomini d'affari e medi proprietari terrieri, detti "cavalieri" perché in possesso del censo necessario per militare nella cavalleria), non perché abbia fiducia nell'opera di costoro, che anzi sono peggiori dei primi ma perché spera che nella lotta, entrambi i ceti, quello dei senatori e quello dei cavalieri, si logorino ed al popolo rimanga la forza per arrivare al potere.

Il primo anno del suo tribunato non è ancora trascorso e CAIO sembra l'arbitro dei destini della repubblica. Rieletto ad umanità di voti, lui prosegue nella via delle riforme senza incontrare ostacoli da parte degli avversari che sembrano rassegnati a non intralciare l'opera del tribuno.

Proseguendo nel cammino delle riforme, modifica pure il sistema elettorale, stabilendo che la centuria "praerogativa" non sia scelta più tra la prima classe, ma a sorte tra le cinque e che queste non votino più per numero d'ordine ma tutte a sorte finché non sia raggiunta la maggioranza.
Questa riforma mira a render più facile l'elezione di consoli democratici; ma i consoli sono sempre soggetti al Senato, che ha la facoltà di attribuire a loro la provincia ad elezione avvenuta.
Per sottrarli all'influenza dei senatori e renderli indipendenti CAIO Gracco fa approvare una legge con la quale si stabilisce che la scelta delle province consolari debba esser fatta prima dell'elezione dei consoli. Né qui si ferma l'opera di Caio Gracco. Si accorge che la sua legge frumentaria ha avuto, com'effetto, l'aumento degli oziosi danneggiando non poco la legge agraria, sa quanto pericoloso per la repubblica sia il gran numero di proletari e di liberti e insieme col collega RUBRIO propone e fa approvare la "legge coloniale" ("legge Rubria") che autorizza e ha subito la sua applicazione con l'invio di coloni a Taranto, a Capua, a Squillace e nel territorio della distrutta Cartagine dove è fondata la colonia Giunonia. (siamo sempre nell'anno 123 a.C.)
Cecilio Metello nello stesso anno conquistate le Baleari, vi fonda la colonia Palma nell'isola di Maiorca.

Con il secondo tribunato nel 122, CAIO GRACCO, propone infine la "lex de sociis" che è legge tendente a riparare l'ingiustizia con la quale sono stati trattati i Latini e gli Italici, dando a questi la possibilità di conseguire la piena cittadinanza romana.
Ma la legge non incontra il favore di quello stesso popolo che è stato tanto beneficiato da Caio, e che sta cadendo con la sua ignoranza nella trappola populista che sta preparando l'oligarchia. Contro questa legge -tratteggiando a tinte fosche la concessione della cittadinanza agli "stranieri" (ma non lo sono quando fanno le coscrizioni)- parla il console C. FANNIO, e il tribuno MARCO LIVIO DRUSO, creatura del Senato, collegato a potenti gruppi nobiliari, pone il suo veto, e il popolo applaude.
Da questo momento la fortuna di GRACCO comincia a tramontare e il Senato, rimasto fino ad ora passivo, con abili manovre, inizia la sua offensiva.
A guidare il partito oligarchico, è L. OPIMIO. La guerra a Caio inizia!

CAIO GRACCO va combattuto con le sue stesse armi: con i discorsi alla plebe. Occorre con proposte demagogiche alienargli il favore popolare; poi quando la plebe abboccherà e il tribuno sarà rimasto solo sarà facilissimo ridurre all'impotenza il popolo, informe, vile accozzaglia di gente senza coscienza e volontà, così tanto diversa dall'ubbidiente e servile antica plebe, e la cui forza quella d'ora è riposta soltanto nel suo capo.
CAIO GRACCO si reca in Africa per inaugurare la nuova colonia Giunonia e il Senato approfitta dell'assenza del tribuno per combatterlo.
Chi deve soppiantarlo nel cuore del popolo è LIVIO DRUSO e questi mette a servizio del Senato la sua opera, che è altro non è: proposte demagogiche finalizzate a screditarlo.
DRUSO propone che i cittadini poveri tra cui sono state distribuite le terre pubbliche non paghino all'erario il tributo annuo di cui li ha gravati CAIO, e propone che invece di colonie romane nelle province lontane, volute dal collega, si fondino in Italia dodici colonie di tremila cittadini ciascuna; poi propone che il popolo nomini una commissione che dia esecuzione a quest'ultima legge, della quale -con studiata modestia- dichiara di non voler far parte.
L'opera dell'astuto LIVIO DRUSO, appare agli occhi del popolo ignorante più liberale di quella di Gracco e l'antico idolo è subito dimenticato per il nuovo. Cioè il popolo è caduto nella grande trappola demagogica tesa.

Nel 121 a.C., tornato a Roma, CAIO GRACCO chiede per la terza volta il tribunato; ma la sua stella è definitivamente tramontata; il popolo non gli dà i necessari suffragi. Né questa del popolo è la sola stoltezza che la sua ceca ignoranza gli suggerisce. Nell'elezione consolare i voti popolari convergono su L. OPIMIO, nemico accanito del popolo, che nel 122 non era uscito eletto perché avversato da CAIO GRACCO. Ed è proprio lui come capo a guidare il partito oligarchico alla riscossa.

Ora comincia apertamente il lavoro di demolizione dell'opera del riformatore.
L. OPIMIO convoca i comizi per proporre la revoca della legge graccana che decretava la fondazione della colonia Giunonia.
CAIO GRACCO si reca all'adunanza per combattere la proposta del console. Numerosi aderenti lo seguono e, temendo che il partito avverso voglia commettere contro di loro delle prepotenze e si ripeta l'aggressione subita da Tiberio, si recano armati all'assemblea. Sul Campidoglio sta L. Opimio, il quale attende al rituale sacrificio di propiziazione, assistito da QUINTO ANTULLIO che tiene in mano le viscere della vittima.
Si narra che quest'ultimo, alla vista dei graccani, dicesse loro di sgombrare da quel luogo chiamandoli cittadini indegni.
A quelle parole i partigiani di Gracco, accesi d'ira, si levano a tumulto ed uno di loro si avventa su Quinto Antullio e l'uccide.

È il segnale della lotta che costerà la vita a numerosi popolani e allo stesso Caio. Il console Opimio ordina che il Campidoglio sia circondato dalle truppe fra cui pone un corpo d'arcieri cretesi; i senatori si armano e si raccolgono nella curia e qui è conferita all'istante al console l'autorità dittatoriale.

La bara con il cadavere di ANTULIO è deposta presso la curia, i senatori la circondano, imprecano contro gli assassini, compiangono la sorte del morto. Ma non è la vendetta dell'uccisione di Quinto Antulio che si vuole; agli oligarchi preme la testa di CAIO GRACCO; che è accusato di avere sul Campidoglio, durante il tumulto, interrotto il tribuno che parlava, rendendosi reo di lesa maestà tribunizia.
Il giorno trascorre senza altri incidenti. I partigiani di Gracco hanno sgombrato il Campidoglio, che è stato occupato dai senatori e dalle truppe della repubblica, e si sono recati sull'Aventino, guidati da Caio e da Fulvio Flacco.
Il giorno dopo, forse per consiglio di Caio Gracco, che vuole evitare un conflitto armato ed uno spargimento di sangue, Marco Fulvio manda sul Campidoglio il minore dei suoi figli con proposte di pace; ma i senatori rispondono chiedendo prima la resa dei ribelli senza condizioni e intimando ufficialmente ai capi di costituirsi.

CAIO CRACCO è disposto ad ubbidire all'ingiunzione del Senato, ma FULVIO FLACCO lo sconsiglia e rimanda il figlio con altre proposte.
A quel punto, il dittatore mette a prezzo d'oro la testa dei capi ribelli, promette l'amnistia a coloro che abbandoneranno il colle sul quale i sediziosi si sono rifugiati, poi muove con le milizie all'assalto dell'Aventino, che, abbandonato nel frattempo dalla maggior parte dei graccani, è difeso da un esiguo manipolo di uomini.
La mischia già all'inizio è furiosa, ma nell'impari lotta, le milizie della repubblica, hanno in breve ragione del disperato valore dei difensori. Duecentocinquanta graccani cadono uccisi e l'Aventino è preso a forza. Flacco e il figlio maggiore rifugiati in un nascondiglio, sono scoperti ed uccisi. Rimane CAIO GRACCO. Riuscito a chiudersi nel tempio di Minerva, vuole uccidersi per non cadere nelle mani dei nemici, ma, persuaso da PUBLIO LETORIO, fugge sull'opposta riva del Tevere, mentre Letorio sul ponte e Marco Pomponio alla porta Trigemina cercano, trattenendo i soldati, di dar tempo all'ex tribuno di salvarsi.
Ma Caio Gracco, nella corsa, si è slogato un piede. Incalzato dagli inseguitori e vedendo che non gli restava più nessuna via di scampo, giunto nel bosco sacro alla dea Furrina, ordina ad un fedele schiavo di dargli la morte. Lo schiavo ubbidisce, poi con la stessa arma con la quale ha spento il padrone si toglie la vita pure lui.
Ma neppure Caio Gracco cadavere ha pace, raggiunto da un certo LUCIO SETTIMULEJO, costui pensa all'oro promesso da Opimio e, staccata la testa dell'ex tribuno, corse a portarla al Senato che la pagò, come aveva, promesso, a peso d'oro.

Dopo la morte di Caio, gli avversari non vollero distruggere con la repressione solo il partito graccano, ma l'opera del fiero tribuno. Fu demolita la casa di Gracco e sempre sotto il consolato di L. OPIMIO furono condannati a morte e giustiziati più di tremila partigiani di Caio; ma se fu facile dare sfogo alle vendette non fu altrettanto facile demolire le leggi graccane, delle quali una sola fu ritoccata, l'agraria, quella che più interessava i latifondisti.
La commissione dei Triumviri incaricati di distribuire le terre fu sostituita dai censori e ai censori e ai pretori fu affidato il compito di risolvere le liti.

La legge agraria, la cui esecuzione fu così affidata all'oligarchia (cioé ai proprietari delle terre), si trascinò fino al 111. Anno che cessò di aver valore dopo l'approvazione della legge, proposta dal tribuno C. Bebio, con la quale le terre pubbliche occupate furono costituite in proprietà privata.

Nel 106 a.C., per opera del console QUINTO SERVILIO CEPIONE, anche la legge giudiziaria fu soppressa, ma il Senato non rientrò in possesso dei suoi persi diritti per soli tre anni, perché nel 103 il tribuno C. SERVILIO GLAUCIA propose e fece approvare dai comizi il ripristino della legge di Gracco.
Anni in cui (riforma di Mario anni 106-105) con il declino dei piccoli contadini, che fino allora avevano costituito il nerbo dell'esercito, si è costretti per fare le guerre, a reclutare pagati dallo stato, i proletari, i nullatenenti, gli oziosi. Che al soldo, sono sempre disponibili per quei capi politici o militari che offrono migliori condizioni. Deprimendo così lo spirito civico. Più avanti si recluteranno gli ex nemici; più avanti ancora i "barbari", fino a mettere a capo dell'esercito romano, gli stessi capi barbari. Di modo che, in mano ai barbari finirà l'impero di Roma.

Il partito dell'oligarchia, spegnendo CAIO GRACCO e i suoi principali aderenti, aveva creduto di assicurarsi per lungo tempo il dominio. Per indebolire maggiormente la plebe, si era poi messo d'accordo con il ceto dei "cavalieri". Ma era un accordo più formale che sostanziale. Permanevano fra l'aristocrazia e i neo-ricchi, quella del sangue e quella del censo, sempre vivi le rivalità, gli odi e il profondo disprezzo della prima per i secondi.

Poi il popolo che non si era rassegnato alla sconfitta. Purtroppo si era accorto troppo tardi quanto male si era fatto da solo con l'abbandonare all'ira dei naturali nemici il suo benefattore; tuttavia si era accorto e la memoria di Caio Gracco affettuosamente venerata gli fu di sprone alle future lotte.
Da questo stato di cose non era possibile sperare un lungo periodo di pace; la guerra civile era inevitabile. A ritardarla contribuì la "pericolosa minaccia" dei nemici esterni; ma, cessata questa, le lotte intestine dovevano ineluttabilmente scoppiare e passare come un ciclone sull'immenso corpo della repubblica.

FINE

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
I VIAGGI in loco dell'autore di storiologia.
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ altri, in Biblioteca dell'Autore 

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