ANNO 1915
VIVA LA GUERRA - E GUERRA FU

I PROCLAMI - LA DICHIARAZIONE


"Viva la guerra! Viva l'Italia" Il momento culminante della storica seduta del 20 maggio 1915
quando una grande maggioranza votò i pieni poteri al Governo per l'entrata in guerra.

LA RELAZIONE BOSELLI;
I DISCORSI DEGLI ONOREVOLI BARZILAI, CICCOTTI E TURATI
LA SEDUTA DEL 20 MAGGIO AL SENATO:
I DISCORSI DEI SENATORI COLONNA, CADOLINI, MAZZA E MANFREDI
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"L''Italia, fidando nel suo buon diritto, afferma e proclama di riprendere da questo momento
la sua intera libertà d'azione e dichiara annullato
e ormai senza effetto il suo trattato d'alleanza con l'Austria-Ungheria".

Cosi terminava la lettera dell'On. Sonnino inviata a Vienna.

ERA LO STESSO SONNINO AD AVER LUI DECISO - SENZA INFORMARNE IL GOVERNO
( VEDI "Il Patto di Londra" di SONNINO fatto in gran segreto ) > > >

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Subito dopo fu nominata la Commissione, cui doveva esser dato in esame il disegno. A formarla furono chiamati gli onorevoli PAOLO BOSELLI, LUIGI LUZZATTI, GUIDO BACCELLI, COCCO-ORTU, COMPANS, FINOCCHIARO-APRILE, GUICCIARDINI, BARZILAI, BETTOLO, PANTANO, AGUGLIA, LEONARDO BIANCHI, CREDARO, DARI, TURATI, ARLOTTA, BISSOLATI e MEDA.
Il presidente della Camera, on. MARCORA, ricordò che la proposta del presidente del Consiglio che la Commissione riferisse immediatamente e la legge fosse discussa nella stessa seduta doveva esser approvata a scrutinio segreto con la maggioranza di tre quarti dei voti. Messa subito ai voti la proposta fu approvata con 367 voti contro 54.

Sospesa per un'ora la seduta alla Camera, i ministri si recarono al Senato, che fece calde accoglienze alle dichiarazioni del Governo e rinviò i lavori al giorno dopo; quindi i ministri ritornarono a Montecitorio, dove l'on. BOSELLI, in nome della Commissione, fece la seguente relazione:

"La Commissione per la quale ho l'onore di riferirvi, propone con voto unanime di approvare il disegno di legge presentato dal Governo del Re. Ne sono palesi le ragioni, ben giustificati i provvedimenti, ed esso concerne quanto occorre in caso di guerra e durante la guerra per il supremo intento della difesa del Paese, per i bisogni urgenti e straordinari dell'economia nazionale e, anche con ogni mezzo necessario e straordinario per la vita finanziaria dello Stato. Così, questo disegno di legge viene suggellando efficacemente l'opera del Governo cui fu consiglio la voce della Patria, cui fu scorta il sentimento della dignità Nazionale.
In quest'ora fatidica, che ci stringe in un proposito solo, ardente e forte, il vostro voto, onorevoli colleghi, sarà nuova affermazione incomparabilmente solenne della fede invincibile e sicura nel diritto e nella gloria della Patria. Da qui moverà oggi il grido della concordia vittoriosa, in nome dell'Italia e del Re. Il Paese seguirà questo grido, e quando per tutte le terre della Patria, si darà al vento la bandiera: "Italia e Vittorio Emanuele!", il popolo italiano avrà una sola volontà, un solo cuore.
"Troppo lungamente al dolore delle genti italiane divelte dall'Italia per le usurpazioni della forza, per lo strazio delle nazionalità, troppo lungamente al dolore di quelle genti supremamente- italiane per i decreti della natura, per la perpetuità della lingua, per il genio del pensiero, per i vincoli della storia, troppo lungamente, rispondemmo con la parola della speranza. E' tempo oramai, di rispondere con la promessa della liberazione".

"Sarà gloria di questa Camera, la prima eletta dal suffragio universale esteso l'aver voluto, con l'entusiasmo e con la sapienza degli ardimenti patriottici, il compimento dei destini nazionali e la difesa del diritto nazionale. Felice la gioventù italiana, risorta alle fervide idealità; e noi vecchi benediciamo Iddio, nella commozione di questi giorni che così potentemente ci richiamano i giorni di Solferino, di Calatafimi e di Bezzecca, e a noi pare che tornino in quest'aula gli spiriti grandi dei fattori della rivoluzione e dell'unità nazionale per salutare con noi, i tanto invocati e sospirati eventi.

" È ventura nostra, onorevoli colleghi, affidare le nostre deliberazioni all'esercito italiano, ai soldati italiani che sentono 1'impazienza dei valorosi e la cui virtù eguaglia ogni cimento; affidare le nostre deliberazioni ai marinai italiani, più forti delle fortissime navi, i quali anelano di dimostrare come nelle pieghe del vessillo tricolore rifulga ancora e sempre, l'insegna vittoriosa di San Marco e di San Giorgio. L'esercito e l'armata guardano al Re e ne traggono esempio di coraggio caldo e sereno, degno della sua stirpe, esempio di patriottismo italiano temprato al genio dei tempi, e al sentimento della Nazione. L'esercito e l'armata mirano al Campidoglio fulgente, mirano a Roma nata a tutte t missioni della civiltà, a Roma. dove dall'epopea sempre viva del Gianicolo alle tombe sempre ispiratrici del Pantheon risplende ed arde la fiamma sacra e immortale dell'Italianità, auspicatrice di secoli nuovi per tutte le genti civili".

Della relazione di Boselli, coronata da ovazione entusiastica, fu dalla Camera plaudente, sebbene non vi fosse la consuetudine, chiesta l'affissione nei comuni del Regno.

Aperta la discussione del disegno di legge, parlò primo l'on. BARZILAI, non per esprimere il pensiero di una frazione politica, ma "perché le terre che furono nella visione di Dante, che gli eventi della politica internazionale confinarono nell'eresia e che oggi sono accolte nella religione della Patria, portino nella concordia l'ardore delle loro anime e della loro fede".
Parlò a favore dei pieni poteri, pure 1'on. ETTORE CICCOTTI, a nome anche degli onorevoli RAIMONDO, ALTOBELLI e LABRIOLA.
Contrario, invece, fu 1'on. Turati, il quale parlò in nome dei socialisti ufficiali fra interruzioni e rumori provenienti da ogni parte della Camera.
Brevi parole che suscitarono grande entusiasmo pronunziò NAPOLEONE COLAIANNI.
Terminata la discussione, si procedette alla votazione che diede i seguenti risultati presenti 482, votanti 481, favorevoli 407, contrari 74, astenuto 1. L'esito fu accolto con grandissimi applausi che si rinnovarono quando l'on. Marcora pronunciò queste parole:

"Ed ora onorevoli colleghi, permettete una parola al vostro vecchio presidente, che oggi, mercé vostra e nella solennità di questa storica adunanza, ha provato il momento, da tanto tempo aspettato, della più ineffabile, intima gioia. Affrettiamoci, ecco la parola, a adempiere tutti coraggiosamente, senza limiti, il nostro dovere verso la Patria, nella più sicura fede che il popolo nostro, con animo sereno, concordia e costanza di propositi, l'esercito e 1'armata, col loro valore, la facciano come Vittorio Emanuele II auspicava, compiuta. Interprete dei vostri sentimenti, ripeto il grido di Viva 1' Italia ! Viva Colui che, con insuperabile saggezza e indomito patriottismo, pieno di spirito di sacrificio o di fervida devozione alle libere istituzioni, è così degno di reggerne le sorti. Viva il Re".

Quando la seduta fu tolta fu fatta una dimostrazione indimenticabile. Salvo i socialisti ufficiali, tutti gli altri deputati, e con loro il numeroso pubblico delle tribune, si diedero ad acclamare all'Italia, al Re, all'esercito, all'armata, a d'Annunzio; poi fu intonato 1'inno di Mameli e la vasta aula risuonò delle note marziali che tante generazioni avevano infiammato. Quindi la dimostrazione passò nei corridoi e infine nella piazza, dove la folla in attesa accolse con delirio d'applausi e di canti l'uscita dei ministri e dei deputati.

Il giorno dopo l'on. SALANDRA presentò il disegno di legge al Senato. La Commissione, composta dei senatori CANEVARO, CAVALLI, PROSPERO COLONNA, DEL LUNGO, GIUSSO, INGHILLERI, MORRA Di LAVRIANO, PETRELLA, SALMOIRAGHI e SCIALOIA, per riferire gli fu concessa un'ora di tempo alla fine della quale il Colonna fece la relazione seguente:

"Onorevoli colleghi, non certo la modestia della mia persona poteva segnalarmi all'alto ufficio di relatore della, Commissione sul progetto di legge presentato dal Governo in quest'ora solenne e decisiva per la Patria nostra; ma io penso che si sia voluto indicare me, ultimo, fra voi, soltanto per sentire nel Senato del Regno l'eco di Roma, che io ho l'onore di rappresentare, della Grande Madre, mèta radiosa della nostra epopea nazionale, rievocatrice di grandezza e di gloria; incitatrice dei santi eroismi e dei più forti ardimenti. A Roma converge tutto l'ardire del patriottismo italiano, da Roma fiammeggia la luce che illuminò nei secoli il mondo. Lo stesso grido di dolore che nel 1859 s'innalzò da tutta 1' Italia al cuore magnanimo di Vittorio Emanuele II, s'innalza ora - lungamente, eroicamente soffocato, - nella speranza di questi giorni al cuore del Re e del popolo e invoca la coscienza del Parlamento da quelle terre che sin da allora avrebbero dovuto esse pure, e volevano - come sempre hanno voluto - s'integrasse la Patria italiana. E Parlamento e Popolo, accogliendo unanimi e fiduciosi quel grido, commettono oggi da Roma Immortale, nella giusta guerra, le sorti della Patria al valore dell'esercito e dell'armata.

La Commissione unanime vi propone di approvare il disegno di legge presentato dal Governo, che concerne i provvedimenti necessari in caso di guerra per i fini supremi della difesa della Patria e i bisogni urgenti eccezionali dell'economia nazionale. Alla grave responsabilità assunta dal Governo corrisponda la larghezza dei mezzi necessari al conseguimento della vittoria. Da questo Consesso, dove siedono venerandi attori del generoso ardimento del nostro riscatto, abbia la sublime concordia nazionale il suggello d'ammirazione e di plauso; si elevi il grido solenne al nostro Esercito e alla nostra Armata, il sentimento della sicura fede nel loro saldo eroismo, nell'inflessibile virtù di sacrificio, nel patriottico entusiasmo. Vada il saluto vibrante e devoto del Senato al nostro augusto Sovrano. Vada il nostro plauso ai degni Principi di Savoia, che hanno sentito l'anima della Nazione vibrare all'unisono con le anime loro. E con la ferma fede che il vessillo italico fiammeggerà vittorioso sulle Alpi nostre e sul Mare, nel nome dei colleghi v'invito ad approvare il disegno di legge al grido di Viva l'Italia ! Viva il Re !".

Anche per il discorso del senatore Colonna come per quello di PAOLO BOSELLI fu chiesta l'affissione.
Chiusa la discussione, alla quale parteciparono con brevi patriottici discorsi il senatore GIOVANNI CADOLINI e il generale FRANCESCO MAZZA, l'on. Salandra dichiarò di accettare l'ordine del giorno Canevaro-Mazzoni-Veronese-Bonasi così concepito:
"Il Senato, udite le dichiarazioni del Governo, che così altamente affermano il buon diritto d' Italia e la volontà della Nazione - passa alla votazione del disegno di legge".
Messo ai voti, fu approvato all'unanimità. La votazione a scrutinio segreto del disegno di legge diede i seguenti risultati: presenti e votanti 264, favorevoli 262, contrari 2. Votarono contro i senatori CAMPOREALE e CEFALY.

La seduta fu tolta dopo che il presidente MANFREDI promunciò le seguenti parole coronate da lunghissime acclamazioni:

"Come l'ora voleva, il Senato ha approvato i poteri del tempo di guerra domandati con urgenza dal Governo. L' Italia è dunque al fiero cimento, ma da forte lo affronta. Numi nostri tutelari, spiriti dei grandi del nostro Risorgimento, scendete a propiziare le nostre sorti. Ministri del Re, il Parlamento vi ha confermato la fiducia per condurre la Patria al compimento dei suoi destini e per custodire il deposito sacro delle sue istituzioni. Abbiamo le schiere e le squadre dei prodi anelanti a battaglia, i nuovi italiani accesi, la croce di Savoia con i secolari auspicii sul tricolore vessillo. Sente l'Italia le onte da vendicare, ascolta il grido delle terre da redimere, vede da quale parte si combatte per la civiltà e per il diritto nel conflitto europeo. Vittoria alle nostre armi quando avranno a misurarsi con armi nemiche ! Separandoci oggi con questo voto, auguriamo il giorno in cui riunirci per far risuonare gli inni del trionfo. Viva l'Italia ! Viva il Re !"

LA DIMOSTRAZIONE AL CAMPIDOGLIO E AL QUIRINALE
LA MOBILITAZIONE GENERALE
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Una dimostrazione imponentissima ebbe luogo a Roma nel pomeriggio del 21 maggio. S'iniziò con una seduta del Consiglio comunale al Campidoglio, dove parlarono fra tanti applausi il sindaco senatore POSPERO COLONNA e diversi consiglieri; quindi il Sindaco, la Giunta e i Consiglieri col gonfalone del Municipio e le bandiere di Trento di Trieste, e della Dalmazia, alla testa di un corteo di oltre centomila persone, che cantavano gli inni di Mameli, di Garibaldi e di Oberdan, si recarono al Quirinale, dove fu fatta una delirante dimostrazione ai Sovrani. Vittorio Emanuele, dal balcone della reggia; agitando un tricolore, gridò alla folla: Viva l'Italia! Dimostrazioni entusiastiche furono in seguito fatte alla Consulta, davanti al Ministero della Guerra, sotto il Collegio belga, sotto il palazzo Margherita, da cui la Regina Madre si mostrò sorridente alla folla, sotto la casa dell'on. Salandra e sotto l'Ambasciata Inglese. La dimostrazione si sciolse alla ore 20.30.
II giorno dopo il Re sanzionava la legge dei pieni poteri e in tutte le città d'Italia. venivano affissi i decreti elio ordinavano la mobiltazione generale e l'arruolamento di volontari

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RISPOSTA AUSTRIACA ALLA DENUNCIA DEL TRATTATO D'ALLEANZA
LA NOTA DEL GOVERNO ITALIANO ALLE POTENZE

Il 21 maggio nel pomeriggio, come risposta alla denuncia del trattato d'alleanza, il barone BURIAN consegnò al duca D'AVARNA una nota in cui diceva:

"Con penosa sorpresa il Governo austro-ungarico prende conoscenza dalle decisioni del governo italiano di porre fine in modo così improvviso ad un Trattato, che, basandosi sulla comunanza dei nostri importanti interessi, garantì ai nostri Stati per tanti anni la sicurezza e la pace e rese all'Italia notevoli servizi. Questo stupore è tanto più giustificato in quanto che i fatti addotti dal Governo italiano per motivare la decisione risalgono ad oltre nove mesi addietro e in questo frattempo il Governo italiano manifestò ripetutamente il suo desiderio di mantenere i legami d'alleanza".

La nota continuava dicendo che l'azione austriaca contro la Serbia non poteva toccare gl'interessi dell'Italia, il cui Governo del resto sapeva che l'Austria non aveva intenzione di fare conquiste in Serbia. Quando, per 1'intervento russo, il conflitto divenne europeo, 1' Italia dichiarando la neutralità, non accennò che la guerra veniva a scalzare le basi dell'alleanza. Bastava ricordare le dichiarazioni del Di San Giuliano e il telegramma di Vittorio Emanuele III a Francesco Giuseppe del 2 agosto per constatare che il Governo italiano nulla vedeva nel procedimento dell'Austria che stesse in contrasto col Trattato.
I Gabinetti di Vienna e di Berlino accettarono lealmente la dichiarazione della neutralità italiana pur deplorandola perché non la ritenevano conciliabile con lo spirito del Trattato; e lo scambio di vedute avvenuto allora costatò immutata la conservazione della Triplice.
E appunto riferendosi a questo trattato e particolarmente all'art. 7°, 1'Italia presentò domande di compensi per il caso che l'Austria traesse dalla guerra vantaggi territoriali o d'altra natura nei Balcani. L'Austria accettò questo punto di vista e si dichiarò pronta a sottoporre all'esame la questione, osservando nello stesso tempo che finché non si fosse a conoscenza d'eventuali vantaggi per l'Austria, sarebbe stato difficile stabilire dei compensi.
Il Governo italiano divise questa opinione, come risulta da una dichiarazione dell'on. Di San Giuliano del 25 agosto. Quando il Governo italiano chiese la cessione di parti integranti della Monarchia, il Governo austro-ungarico accettó anche questa base di discussione, quantunque opinasse che l'art. 7° non potesse riguardare parti del suo territorio, ma si riferisse solo ai Balcani.

La nota riaffermava la buona volontà del Governo austriaco e diceva ingiustificata l'opinione del Governo italiano di dover rinunciare ad ogni speranza d'accordo. Inoltre affermava che l'Austria non poteva accettare la dichiarazione del Governo italiano di volere riprendere la sua piena libertà d'azione e considerare nullo e senza effetto il Trattato d'alleanza, perché questa dichiarazione contrastava con gli obblighi solennemente assunti dall'Italia con il Trattato del 5 dicembre 1912", quindi la nota concludeva:
"Essendosi in tal modo il Reale Governo sottratto ai suoi obblighi, il Governo austro-ungarico respinge la responsabilità per tutte le conseguenze che potessero derivare da tale modo di agire".

SONNINO rispose prontamente a tutti i punti della nota austriaca, la quale del resto non poteva ritardare neppure d'un giorno le decisioni già prese dal Governo italiano.

Il 23 MAGGIO inviava ai ministri e ambasciatori italiani accreditati presso le varie potenze la nota seguente:

DICHIARAZIONI DI GUERRA DELL'ITALIA ALL'AUSTRIA-UNGHERIA
PARTENZA DEGLI AMBASCIATORI D'AUSTRIA E DI GERMANIA

"Il carattere eminentemente conservativo e difensivo della Triplice Alleanza risulta evidente dalla lettera e dallo spirito del Trattato e dalle intenzioni chiaramente manifestate e consacrate in atti ufficiali dei ministri che fondarono l'Alleanza e ne curarono i miglioramenti. Agli intenti di pace si è costantemente ispirata la politica italiana. Provocando la guerra europea, respingendo la risposta remissiva della Serbia che dava all'Austria tutte le soddisfazioni che essa poteva legittimamente chiedere, rifiutando di dare ascolto alle proposte conciliative che 1' Italia aveva presentato insieme con altre potenze, nell'intento di preservare 1' Europa da un immane conflitto che avrebbe sparso sangue ed accumulate rovine in proporzioni mai viste e neppure immaginate, l'Austria-Ungheria lacerò con le sue stesse mani il patto d'alleanza con 1' Italia, il quale, fino a che era stato lealmente interpretato non come strumento d'aggressione, ma solo come difesa contro possibili aggressioni altrui, aveva validamente contribuito ad eliminare le occasioni o a comporre le ragioni di conflitto, e ad assicurare ai popoli per molti anni i benefici inestimabili della pace.

L'art. 1° del Trattato consacrava una norma logica e generale di qualsiasi patto d'alleanza: cioè 1' impegno di procedere ad uno scambio d'idee sulle questioni politiche ed economiche di natura generale che potessero presentarsi. Ne derivava che nessuno dei contraenti era libero d'intraprendere, senza previo comune concerto, un'azione le cui conseguenze potessero produrre agli altri alcun obbligo contemplato dall'alleanza o comunque toccare i loro più importanti interessi. A questo dovere contravvenne l'Austria-Ungheria con 1'invio alla Serbia dello sua nota in data 23 luglio 1914, senza previo concerto con 1' Italia. L'Austria-Ungheria violò così indiscutibilmente in una delle sua clausole fondamentali il Trattato. Tanto maggiore era l'obbligo dell'Austria-Ungheria di preventivamente concertarsi con 1' Italia, in quanto dalla sua azione intransigente contro la Serbia derivava una situazione direttamente tendente a provocare una guerra europea; e sino dal principio del luglio 1914 il R. Governo, preoccupato dalle tendenze prevalenti a Vienna, aveva fatto giungere al Governo imperiale e reale ripetuti consigli di moderazione ed avvertimenti sugli incombenti pericoli di carattere europeo. L'azione intrapresa dall'Austria-Ungheria contro la Serbia era inoltre direttamente lesiva degli interessi generali italiani, politici ed economici, nella Penisola Balcanica.

Non era lecito all'Austria pensare che l'Italia potesse restare indifferente alla menomazione dell'indipendenza della Serbia. Non erano mancati a questo proposito i nostri moniti. Da molto tempo 1'Italia aveva più volte, in termini amichevoli, ma chiari, avvertito l'Austria-Ungheria che 1' indipendenza della Serbia era considerata dall'Italia com'elemento essenziale dell'equilibrio balcanico, che 1' Italia stessa non avrebbe mai potuto ammettere fosse turbato a suo danno. Né questo l'avevano detto soltanto nei privati colloqui i suoi diplomatici, ma dalla tribuna parlamentare lo avevano proclamato i suoi uomini di Stato.
"L'Austria dunque, aggredendo la Serbia con un "ultimatum" non proceduto, con disdegno d'ogni consuetudine, da qualsiasi mossa diplomatica verso di noi, e preparato nell'ombra con sì gelosa cura da tenerlo celato all'Italia, che ne ebbe notizia insieme al pubblico dalle Agenzie telegrafiche prima che per via diplomatica, si pose non solo fuor dell'Alleanza con 1' Italia, ma si eresse a nemica degli interessi italiani. Risultava, infatti, al Regio Governo, per sicure notizie che tutto il complesso programma d'azione dell'Austria Ungheria nei Balcani portava ad una gravissima diminuzione politica ed Economica dell'Italia perché a ciò conducevano, direttamente od indirettamente, l'asservimento della Serbia, 1'isolamento politico e territoriale del Montenegro, 1' isolamento e la decadenza politica della Romania.
Questa diminuzione dell'Italia nei Balcani si sarebbe verificata anche ammettendo che l'Austria-Ungheria non avessero avuti passi di compiere nuovi acquisti territoriali.

"Giova osservare che il Governo austro-ungarico aveva esplicito obbligo di previamente concertarsi con 1' Italia, in forza, d'Uno speciale art.7 del trattato della Triplice Alleanza, che stabiliva il vincolo dell'accordo preventivo ed il diritto a compensi fra gli alleati in caso d'occupazioni temporanee o permanenti nella regione dei Balcani. In proposito il P. Governo iniziò conversazioni col Governo Imperiale e Reale fino dalla apertura delle ostilità austro-ungariche contro la Serbia, ritraendo dopo qualche riluttanza un'adesione di massima. Queste conversazioni erano state iniziate subito dopo il 23 luglio allo scopo di rendere al Trattato violato, e quindi annullato per opera dell'Austria-Ungheria, un nuovo elemento di vita quale poteva derivargli soltanto da nuovi accordi.

Le conversazioni furono riprese con più precisi intenti nel mese di dicembre 1914. Il R. Ambasciatore a Vienna ebbe allora istruzione di far conoscere al conte BERCHTULD che il Governo credeva necessario procedere, senza alcun ritardo, ad uno scambio d'idee, quindi ad un concreto negoziato col Governo Imperiale e Reale circa la situazione complessa derivante dal conflitto provocato dall'Austria-Ungheria. Il conte Berchteld rispose prima con ripulse, concludendo che non riteneva fosse il caso di venire per questo ad alcun negoziato. Ma in seguito alle nostre repliche, alle quali si associò il Governo germanico, il conte Berchtold fece poi conoscere di essere disposto ad entrare nello scambio d'idee da noi proposto.
Esprimemmo allora subito un dato fondamentale del nostro punto di vista: e dichiarammo che i compensi contemplati, sui quali doveva intervenire l'accordo, dovevano riflettere territori che si trovano sotto il dominio attuale dell'Austria-Ungheria. Le discussioni proseguirono per mesi, dai primi di dicembre 1914 al marzo 1915. E solamente alla fine di marzo, dal barone BURIAN, ci fu offerta una zona di territorio compresa in limiti lievemente a nord della città di Trento. Per questa cessione il Governo austroungarico ci richiedeva a sua volta numerosi impegni a suo favore, fra cui piena ed intera libertà d'azione nei Balcani. È da notarsi che la cessione del territorio nel Trentino non doveva, nel pensiero del Governo austro-ungarico, effettuarsi immediatamente come noi chiedevamo, ma solamente alla fine dell'attuale conflitto. Rispondemmo che l'offerta non poteva soddisfarci; e formulammo il minimo delle cessioni che potevano corrispondere in parte alle nostre aspirazioni nazionali, migliorando ugualmente la nostra situazione strategica nell'Adriatico. Tali richieste comprendevano: un confine più ampio nel Trentino; un nuovo confine sull'Isonzo; una situazione speciale per Trieste; la cessione di talune isole dell'Arcipelago Curzolare; il disinteresse dell'Austria nell'Albania; ed il riconoscimento dei nostri possessi di Valona e del Dodecaneso.

Alle nostre richieste furono opposti da prima dinieghi categorici. Solo dopo un altro mese di conversazioni, l'Austria-Ungheria s'indusse ad aumentare la zona di territorio da cedere nel Trentino, limitandola a Mezzolombardo, ma escludendone territori italiani, come un lato incero della vallata del Noce, la Val di Fassa e la Val d'Ampezzo; o lasciandoci una linea non rispondente nemmeno a scopi strategici. Restava poi sempre fermo il Governo austro-ungarico nel negare qualsiasi effettuazione di cessione prima del termine della guerra. I ripetuti dinieghi dell'Austria-Ungheria risultarono esplicitamente confermati in un colloquio che il barone Burian tenne col R. Ambasciatore il 29 aprile u. s., nel quale risultò che il Governo austro-ungarico, pur ammettendo la possibilità di riconoscimento di qualche nostro prevalente interesse a Valona e l'anzidetta cessione territoriale nel Trentino, persisteva a pronunziarsi in modo negativo circa tutte le altre nostre richieste e precisamente circa quelle che riguardavano la linea dell'Isonzo, Trieste e le isole.

Dall'atteggiamento seguito dall'Austria-Ungheria dai primi di dicembre alla fine d'aprile risultava chiaro il suo sforzo di temporeggiare. In queste condizioni l'Italia si trovava di fronte al pericolo che ogni sua aspirazione avente base nella tradizione e nella nazionalità e nel suo desiderio di sicurezza nell'Adriatico, si perdesse per sempre; mentre altre contingenze del conflitto europeo minacciavano i suoi maggiori interessi in altri avari. Da ciò derivavano all'Italia la necessità e il dovere di riprendere la sua libertà d'azione, cui aveva diritto, e di ricercare la tutela dei suoi interessi all'infuori dei negoziati condotti inutilmente per cinque mesi, ed all'infuori di quel patto d'alleanza che per opera dell'Austria-Ungheria era virtualmente cessato sino dal luglio 1914.
Non sarà fuori di luogo osservare che, cessata l'alleanza, è cessata la ragione dell'acquiescenza, determinata per tanti anni nel popolo italiano del desiderio sincero della pace, mentre rivivono le ragioni della doglianza per tanto tempo volontariamente repressa per il trattamento al quale le popolazioni italiane in Austria furono assoggettate.

Patti formali a tutela della nostra lingua, della tradizione e della civiltà italiana nelle regioni abitate dai nostri connazionali, sudditi della Monarchia, non esistevano nel Trattato. Ma quando all'Alleanza si volesse dare un contenuto di pace e d'armonia sincera, appariva incontestabile l'obbligo morale dell'alleato di tener in debito conto anzi di rispettare con ogni scrupolo, il nostro interesse costituito dall'equilibrio etnico nell'Adriatico. Invece la costante politica del Governo austro-ungarico mirò per lunghi anni alla distruzione della nazionalità e della civiltà italiana lungo le coste dell'Adriatico. Basterà qualche sommaria citazione di fatti e di tendenze, ad ognuno già troppo noti sostituzione progressiva dei funzionari di razza italiana con funzionari d'altra nazionalità; immigrazione di centinaia di famiglie di nazionalità diverse; assunzione a Trieste di Cooperative di braccianti estranei; decreti Hohenlohe diretti ad escludere dal Comune di Trieste e dalle industrie del Comune, impiegati regnicoli; snazionalizzazione dei principali servizi del Comune di Trieste e diminuzione delle attribuzioni municipali; ostacoli d'ogni sorta all'istituzione di nuove scuole italiane; regolamento elettorale con tendenza antitaliana; snazionalizzazione dell'amministrazione giudiziaria; la questione della Università, che formò pure oggetto di trattative diplomatiche; snazionalizzazione delle compagnie di navigazione; azione di Polizia o processi politici tendenti a favorire le altre nazionalità a danno di quella italiana; espulsioni metodiche ingiustificate e sempre più numerose di regnicoli.

La costante politica del Governo Imperiale e Reale riguardo alle popolazioni italiane soggette, non fu unicamente dovuta a ragioni interne o attinenti al gioco delle varie nazionalità contrastanti nella Monarchia; essa invece apparve inspirata in gran parte da un intimo sentimento d'ostilità e d'avversione riguardo all'Italia, dominante in alcuni circoli più vicini al Governo austro-ungarico ed avente una determinante influenza sulle decisioni di questo. Fra i tanti indizi che si possono citare, basterà ricordare che nel 1911, mentre l'Italia era impegnata nella guerra contro la Turchia, lo Stato Maggiore a Vienna si preparava intensivamente ad un'aggressione contro di noi; ed il partito militare proseguiva attivissimo il lavoro politico inteso a trascinare gli altri fattori responsabili della Monarchia. Contemporaneamente gli armamenti alla nostra frontiera assumevano carattere prettamente offensivo. La crisi fu allora risolta in senso pacifico per l'influenza, a quanto si può supporre di fattori estranei; ma da quel tempo siamo rimasti sotto 1' impressione di una possibile inattesa minaccia armata, quando, per cause accidentali, prendesse sopravvento a Vienna il partito a noi ostile. Tutto questo era noto all'Italia; ma, come si disse più sopra, il sincero desiderio della pace prevalse, nel popolo italiano.

Nelle nuove circostanze l'Italia cercò di vedere se e quanto, anche per tale riguardo, fosse possibile dare al suo patto con l'Austria-Ungheria una base più solida ed una garanzia più duratura. Ma i suoi sforzi, condotti per tanti mesi in costante accordo con la Germania, che venne con ciò a riconoscere la legittimità dei negoziati, riuscirono vani. Onde 1' Italia si è trovata costretta dal corso degli eventi a cercare altre soluzioni. E poiché il patto dell'Alleanza con l'Austria-Ungheria aveva già cessato virtualmente di esistere e non serviva ormai più che a dissimulare la realtà dei sospetti continui e di quotidiani contrasti, il R. Ambasciatore a Vienna fu incaricato di dichiarare al Governo austro-ungarico che il Governo italiano era sciolto da ogni suo vincolo decorrente dal Trattato della Triplice Alleanza nei riguardi dell'Austria-Ungheria. Tale comunicazione fu fatta a Vienna il 4 maggio.

Successivamente a tale nostra dichiarazione, e dopo che noi avevamo già dovuto provvedere alla legittima tutela dei nostri interessi, il Governo Imperiale e Reale presentò nuove offerte di concessioni, insufficienti in sé, e nemmeno corrispondenti al minimo delle nostre antiche proposte; offerte che ad ogni modo non potevano più essere da noi accolte. Il R. Governo, tenuto conto di quanto è sopra esposto, confortate da voti del Parlamento e dalle solenni manifestazioni del Paese, ha deliberato di rompere gli indugi; ed ha dichiarato oggi stesso in nome del Re all'ambasciatore austro-ungarico a Roma di considerarsi, da domani, 24 maggio, in stato di guerra con l'Austria-Ungheria.
Ordini analoghi sono stati telegrafati ieri al R. Ambasciatore a Vienna. Prego V. S. di render noto quanto precede a codesto Governo".

Nel pomeriggio del 22 maggio l'on. SONNINO aveva fatto telegrafare all'ambasciatore italiano a Vienna il testo della dichiarazione di guerra all'Austria-Ungheria perché fosse presentato al barone BURIAN. Essendo interrotte le linee telegrafiche fra l'Italia e l'Austria e non risultando, la mattina del 23, che la dichiarazione fosse stata presentata, Sonnino faceva quel giorno presentare all'ambasciatore austriaco a Roma la dichiarazione medesima insieme con i passaporti. Solo ad ora tarda del 23 SONNINO ricevette dal duca d'AVARNA il telegramma con cui gli annunciava di aver consegnato al ministro BURIAN la dichiarazione.

Il testo era il seguente:
"Secondo le istruzioni ricevute da S. M. il Re suo augusto sovrano, il sottoscritto ha l'onore di partecipare a S. E. il ministro degli Esteri d'Austria-Ungheria la seguente dichiarazione: già il 4 del mese di maggio furono comunicati al Governo Imperiale e Reale i motivi per i quali l'Italia, fiduciosa del suo buon diritto, ha considerato, decaduto il Trattato d'Alleanza con l'Austria-Ungheria, che fu violato dal Governo Imperiale e Reale, lo ha dichiarato per l'avvenire nullo e senza effetto ed ha ripreso la sua libertà d'azione. Il Governo del Re, fermamente deciso di assicurare con tutti i mezzi a sua disposizione la difesa dei diritti e degli interessi italiani, non trascurerà il suo dovere di prendere contro qualunque minaccia presente e futura quelle misure che siano imposte dagli avvenimenti per realizzare le aspirazioni nazionali. S. M.
il Re dichiara che l' Italia si considera in stato di guerra con l'Austria-Ungheria da domani. Il sottoscritto ha l'onore di comunicare nello stesso tempo a S. E. il ministro degli Esteri austro-ungarico che i passaporti sono oggi consegnati all'ambasciatore imperiale e Reale a Roma. Sarà grato se vorrà provvedere fargli consegnare i suoi. Duca d'Avarna".

La sera stessa del 23 maggio partivano da Roma per il Quartier generale Italiano il generale CADORNA e il generale Porro, salutati alla stazione da S. E. Salandra. Al momento della partenza il presidente del Consiglio e il generalissimo si abbracciarono e si baciarono mentre la folla gridava commossa: "Viva la guerra ! Viva l'Italia ! Viva l' Esercito ! Viva Cadorna ! Viva Salandra !"

Il 23 stesso il barone MACCHIO, ambasciatore austriaco presso il Quirinale e il principe GIOVANNI SCHÒNBURG-HARTENSTEIN, ambasciatore austriaco presso il Vaticano, ricevettero i passaporti; il barone Macchio affidò all'ambasciatore Spagnolo don RAMON PINA MILLET la protezione dei sudditi austro-ungarici residenti in Italia e prese congedo, quello stesso giorno, dal ministro Sonnino. Anche al principe di Bulow, dietro sua richiesta, gli furono consegnati i passaporti.
Il barone Macchio e il principe di Schónburg-Hartenstein partirono il giorno 24 alle ore 20, alle 21.30 partì il principe di Bulow; alle 21.45 partirono il barone De Taun, ministro di Baviera presso il Quirinale, e il barone De Ritter, ministro di Baviera presso la Santa Sede. La sera stessa del 24 partiva da Vienna il duca d' AVARNA e qualche giorno dopo lasciava Berlino l'ambasciatore italiano BOLLATI.

IL MANIFESTO DI FRANCESCO GIUSEPPE AI SUOI POPOLI

Il 24 maggio l'imperatore Francesco Giuseppe lanciava da Vienna ai suoi popoli il seguente manifesto:

"Il Re d'Italia mi ha dichiarato la guerra. Un tradimento di cui la storia non conosce l'esempio fu consumato dal Regno d'Italia contro i due alleati, dopo un'alleanza di più di trent'anni, durante la quale l'Italia poté aumentare i suoi possessi territoriali e svilupparsi ad impensata floridezza.

" L'Italia ci abbandonò nell'ora del pericolo e passa con le bandiere spiegate nel campo dei nostri nemici. Noi non minacciammo l'Italia; non minacciammo la sua autorità; non toccammo il suo onore e i suoi interessi. Noi abbiamo sempre fedelmente corrisposto ai nostri doveri di alleanza; e la abbiamo assicurata della nostra protezione quando essa è scesa in campo. Abbiamo fatto di più; quando l'Italia diresse i suoi sguardi bramosi verso le nostre frontiere, eravamo decisi, per conservare le nostre relazioni di alleanza e di pace, a grandi e dolorosi sacrifici che toccavano in modo particolare il nostro paterno cuore. Ma la cupidigia dell'Italia, che ha creduto di poter sfruttare il momento, non era tale da poter essere calmata. La sorte dove così cambiarsi.

"Durante dieci mesi di lotte gigantesche nel più fedele affratellamento d'armi dei miei eserciti con quello dei miei augusti alleati abbiamo vittoriosamente tenuto fermo contro il potente nemico del nord. Il nuovo perfido nemico del sud non è un avversario sconosciuto: i grandi ricordi di Novara, Mortara, Custoza, Lissa, che formano la gloria della mia gioventù, lo spirito di Radetsky, dell'arciduca Albrecht, di Tegethof, che con le forze di terra e di mare vivono eternamente, ci sono garanzia che noi difenderemo vittoriosamente le frontiere della Monarchia anche verso il sud. Io saluto le mie truppe vittoriose e agguerrite e confido in esse e nei loro condottieri. E confido nel mio popolo il cui spirito di sacrificio senza esempio merita il mio più profondo ringraziamento. Prego l'Onnipotente che benedica le nostre bandiere e prenda la nostra causa, sotto la Sua benigna protezione".


Senza la burbanza e l'albagia che era nel manifesto imperiale e con grande sobrietà, il 24 maggio Vittorio Emanuele III lanciava il suo proclama a tutte le forzo armate della Nazione:

 

IL PROCLAMA DI VITTORIO EMANUELE III ALL' ESERCITO E ALLA MARINA

"Soldati di terra e di mare ! L'ora solenne delle rivendicazioni nazionali ó sonata. Seguendo l'esempio del mio Grande Avo, assumo oggi il comando supremo delle forze di terra e di mare con sicura fede nella vittoria, che il vostro valore, la vostra abnegazione, la vostra disciplina sapranno conseguire. Il nemico che vi accingete a combattere è agguerrito e degno di voi. Favorito dal terreno e dai sapienti apprestamentî dell'arte, egli vi opporrà tenace resistenza, ma il vostro indomabile slancio saprà di certo superarla. Soldati ! A voi la gloria di piantare il tricolore d' Italia sui termini sacri che la natura pose ai confini della Patria nostra. A voi la gloria di compiere, finalmente, 1'opera con tanto eroismo iniziata dai nostri padri".

…ma retorica e esaltazioni a parte, l'Italia era pronta per un guerra ?
e quanto sarebbe durata? di "lunga durata", di logoramento e a oltranza?
SCHIEFFLEN capo di stato maggiore tedesco, era sicuro che la guerra non sarebbe stata di lunga durata e disse: "le guerre lunghe...sono impossibili in un'epoca in cui l'esistenza della nazioni si basa sullo sviluppo ininterrotto del commercio e dell'industria. E se anche l'ingranaggio dell'economia industriale si arresta, una rapida soluzione dei conflitti deve consentire di metterlo nuovamente in moto. Non si possono tirare le cose per le lunghe con una strategia di logoramento, quando il mantenimento di milioni di persone richiede un dispendio di parecchi miliardi".
Viceversa accadde proprio che il carattere industriale della guerra, la sistematica mobilitazione e la moltiplicazione delle energie disponibili, resero possibile una sua trasformazione in guerra ad oltranza, e ciò a sua volta determinò una modificazione rilevante e per certi aspetti durevole degli assetti produttivi e sociali.
Torniamo alla domanda: l'Italia era pronta per un guerra ?
Avevamo - scrive il generale SEGATO- grande deficienza di artiglierie, di fucili, di munizioni; di vestiario, d'oggetti d'equipaggiamento individuale e generale e di tutti quei mezzi tecnici (e perfino banalissimi) che si sono poi dimostrati indispensabili per ottenere il successo nella guerra moderna, nè il paese aveva capacità produttiva, - per provvedere alle lamentate deficienze. Inoltre vi erano, nel nostro esercito, insufficienza numerica e qualitativa dei quadri, deficienza quest'ultima derivante dal sistema di avanzamento per anzianità con insufficiente severità nella selezione dei non idonei" e "insufficiente forza bilanciata, per l'insufficiente addestramento delle truppe, e più specialmente delle grandi unità, alla guerra manovrata, e tanto più a quella in montagna, anche pel fatto che soltanto gli alpini avevano equipaggiamento da montagna".

"Nonostante tanto intelligente, energico, concorde ed alacre lavoro per preparare l'esercito, - cito ancora il Segato - cinque gravi deficienze ancora erano da lamentarsi quando entrammo in guerra:

1° La scarsità delle bocche da fuoco di medio e di grosso calibro a seguito dello forze operanti. Tutta la nostra ricchezza consisteva nel nostro parco d'assedio che, con grandi sforzi, eravamo riusciti a portare, da 128 a 236 bocche da fuoco. Più precisamente entrammo in guerra con 28 batterie di obici 140 A, 7 da 149 G, 12 batterie di mortai da 210. Di batterie di grosso calibro non ne avevamo che pochissime da 280 e da 305, costituito con ripieghi ricorrendo a materiale da costa, e per questo motivo di scarsissima mobilità. Aggiungemmo poi alcune batterie di obici da 210 G, bocca da fuoco buona ma alquanto antiquata.
Scarse in genere le munizioni; specialmente scarse quelle per le artiglierie di medio e di grosso calibro; e per scarsità di esplosivo moderno, parte delle granate era ancora caricata con polvere nera.
Come poi vedremo, o per affrettato e poco diligente caricamento dei proiettili o per altro
(Ingenuamente -non a conoscenza di queste cose- Cadorna dimenticò che uno dei più grandi gruppi bancari in Italia, che sosteneva i grandi complessi siderurgici e metallurgici subito convertiti alla produzione bellica, era... tedesco! Ndr), molte artiglierie, e proprio le migliori, scoppiarono dopo pochi colpi, riducendo ancora di più la già scarsa dotazione di bocche da fuoco di medio calibro.

2° La scarsità delle mitragliatrici; meno della metà dei reggimenti permanenti aveva le tre sezioni, organicamente loro spettanti; alcuni ne avevano una sola; quelli di milizia mobile nessuna; né eravamo in grado di prevedere quando saremmo stati in grado di distribuirle loro. E ciò mentre ogni compagnia degli eserciti germanico ed austro-ungarico ne aveva almeno una sezione.

3° Mancanza quasi assoluta di mezzi adatti per la distruzione dei reticolati ed altre difese accessorie dell'avversario, alla quale mancanza non si poteva sopperire col tiro delle artiglierie di medio calibro, data la loro scarsità o lo scarso effetto che causavano.
Unici mezzi per distruggere i reticolati: tubi di gelatina che dovevano però venire collocati sotto i reticolati e quindi accesi con i zolfanelli, che voleva dire sotto l'infuriare del fuoco nemico; e le forbici, le quali erano scarso di numero, e molto volte insufficienti allo scopo perché troppo deboli"
.
(Si requisirono sul mercato delle cesoie da giardiniere - alle reiterate e angosciose richieste dei reparti di prima linea, si rispondeva dal Comando Supremo con frasi di questo genere: "I soldati italiani sfondano i reticolati con i petti, spezzano il filo spinato con i denti" - (Alberto Consiglio: Vittorio Emanuele, il Re silenzioso) - Purtroppo i petti erano veramente squarciati dalle mitragliatrici austriache, e i corpi cadevano a grappoli sui reticolati. Ndr).
"Può sembrare strano che a questa deficienza di mezzi per la distruzione dei reticolati non si abbia provveduto prima di entrare in guerra, mentre ormai da oltre nove mesi le azioni tattiche svolte sui campi di Francia e di Polonia- in quelli di Francia specialmente - avevano provato come sui reticolati (3, 4, 5 e anche 10 barriere) si erano infranti gli attacchi meglio architettati e più vigorosi, quando non si aveva avuto a disposizione grande quantità di mezzi adatti per distruggerli.
4° Per un complesso di cause che sarebbe superfluo ora riferire, tra cui quella che fino a poco prima della guerra si era dato la preferenza ai più leggeri (dirigibili) anzichè ai più pesanti (aereoplani) l'aviazione si trovava ancora in uno stato di grave crisi quando siamo entrati in guerra. (perfino ostilità tra Esercito e Marina- vedi la iniziale storia di GIANNI CAPRONI - I suoi aerei, che conquistavano un record dietro l'altro, si costruivano su brevetto in Inghilterra e in Usa, mentre i comandi italiani acquistavano quelli esteri, non affidabili).
Un solo mese prima - il 20 aprile - delle 15 squadriglie di aeroplani allora esistenti, non erano impiegabili in eventuali operazioni di guerra che le 6 squadriglie di monoplani Blériot-Gnome, tutte dotate di apparecchi non completamente rispondenti alle necessità di quel momento. Su nessuno dei nuovi apparecchi Voisin (motore 130 HP), Aviatik (125 HP) si poteva fare assegnamento prima della fine di luglio per operazioni di guerra. E difficili, ed in uno stato di marcata inferiorità rispetto al nemico, rimasero le condizioni della nostra aviazione durante tutto l'anno 1915. In questo campo, solo dopo, nei successivi due anni furono compiuti meravigliosi progressi di qualità e quantità.
L'Italia entrò in guerra con 70 apparecchi di tipi vari ed alcuni antiquati, mentre nell'ottobre 1917 disponeva di oltre 2000 aereoplani, di cui 500 in piena efficienza e dei migliori tipi, ed oltre 1500 erano Caproni
(finalmente Caproni ebbe il suo "breve" momento di gloria; ma le ottusità e le gelosie, alle alte sfere delle tre Armi, purtroppo continuarono, fino all'entrata in guerra nel 1940. E si ripetè la stessa deficienza in qualità e quantità nell'Arma decisiva: l'Aeronautica - Vedi Caproni e Balbo).
5° Nonostante i corsi accelerati nelle scuole militari ed i corsi istituiti presso molti reggimenti per il reclutamento degli ufficiali di complemento, molte erano ancora le deficienze in fatto di quadri, fino al punto che le compagnie di fanteria non avevano, di massima, che due ufficiali; deficienze cui male si poteva provvedere con dei sottufficiali che però erano scarsissimi.
Si era poi dovuto promuovere un grande numero di giovani tenenti per provvedere al comando delle compagnie, di modo che la maggior parte dei plotoni era affidato ad ufficiali di complemento, molti dei quali ancora molto giovani ed inesperti pari ai loro coetanei sottoposti. Più sentita ancora la deficienza nell'artiglieria, cui si era dovuto provvedere ricorrendo largamente ad ufficiali di cavalleria, molti dei quali però, è giusto riconoscere, nonostante difettassero di studi tecnici e più ancora di cognizioni scientifiche tuttavia fecero dei miracoli quanto ad efficienza".

eppure si gridava "VIVA LA GUERRA !!!"

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