L'ARTE DI DOMINARE LE FOLLE
GUSTAVE LE BON
POPOLO LIBERTA' E POTERE

IN FONDO
Una singolare pagina di ROBERT MUSIL
IL POLITICO COME SI VUOLE E IL COME SI DEVE

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Il potere politico ha le sue radici nei meandri della psicologia

COME NASCE L'ARTE

DI DOMINARE LE FOLLE

LE BON - testo PSICOLOGIA DELLE FOLLE > >

Lenin, Stalin, Hitler lessero meticolosamente l'opera di Le Bon e l'uso di determinate tecniche di persuasione nella loro dittatura sembra ispirato direttamente dai suoi consigli; ma anche Mussolini fu un fervido ammiratore dell'opera dello psicologo francese. "Ho letto tutta l'opera di Le Bon - diceva Mussolini- e non so quante volte abbia riletto la sua "Psicologia delle folle" E' un opera capitale alla quale ancora oggi spesso ritorno".

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Forse fervido ammiratore dell'opera dello psicologo francese -oggi - lo è anche Silvio Berlusconi al pari dei quattro sopra.. Anche se lui ha una forte predilezione per Erasmo di Rotterdam con il suo "Elogio alla Follia", che lo stesso Berlusconi nel 1994 ne curò una pregevole edizione,



Editore: Berlusconi - Collana: Biblioteca dell'utopia - Data di Pubblicazione: 1994

firmando così la prefazione.....

"Al di là dello stile sempre scintillante, sorretto da una straordinaria intelligenza e da una sconfinata, sapida erudizione, al di là del riuscitissimo gioco degli specchi tra apparenza e realtà, ragione e assurdo, saggezza e follia, ad affascinarmi nell'opera di Erasmo fu in particolare la tesi centrale della pazzia come forza vitale creatrice: l'innovatore è tanto più originale quanto più la sua ispirazione scaturisce dalle profondità dell'irrazionale".

però qui più che essere affascinato ad Erasmo, "sembra" (!?)
affascinato e si mette in posa come Al Capone !!!
( i gusti sono gusti )

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in effetti qualche volta dice cose folli, alla Al Capone,
che se le dicessi io finirei subito in galera


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Frasi di “Elogio della follia”

“Tutta la vita umana non è se non una commedia, in cui ognuno recita con una maschera diversa, e continua nella parte,
finché il gran direttore di scena gli fa lasciare il palcoscenico.”

“La pazzia costruisce città, imperi, istituzioni ecclesiastiche, religioni, assemblee consultive e legislative:
l’intera vitaumana è solo un gioco, il semplice gioco della Follia.”

“Solo la Follia è capace di prolungare la giovinezza,
altrimenti fuggevolissima, e di tenere lontana la molesta vecchiaia.”

“Se piaci a te stesso, se ti ammiri, questo è proprio il colmo della follia;
ma d'altra parte, dispiacendo a te stesso, che cosa potresti fare di bello, di gradevole, di nobile?”

“Per un mortale, è vera saggezza non voler essere più saggio di quanto gli sia concesso in sorte,
fare buon viso all'andazzo generale e partecipare di buon grado alle umane debolezze.
Ma, dicono, proprio questo è follia.
Non lo contesterò, purché riconoscano in cambio che questo è recitare la commedia della vita.”

 

Si puó definire psicologia politica la spiegazione degli eventi collettivi in base a motivazioni in primo luogo mentali, o comunque lo studio delle motivazioni interiori dell'agire politico.
II primo apporto decisivo di questo genere é l'opera di Gustave Le Bon (1841-1931) Psicologia delle folle, del 1895.

l'opera è interamente su questo sito (PSICOLOGIA DELLE FOLLE > > )

Questo pensatore, francese, era stato assai colpito dalle folle rivoluzionarie: da quelle del 1789 a quelle della Parigi della Comune del 1871 e degli anni successivi. Egli notava nella folla spontanea un fenomeno di enorme suggestionabilitá reciproca, di tipo ipnotico, con l'emergere conseguente di tratti di atavismo o primitivismo, da branco o meglio orda primordiale, in cui tutte le emozioni e sentimenti venivano esasperati: si trattasse di paure, di forme di entusiasmo, di manifestazioni di aggressivitá o di coraggio di fronte al pericolo. Il prevalere delle pulsioni irrazionali, spesso connesso all'azione addirittura di ipnosi di fatto da parte di agitatori, avrebbe reso le folle inconsce, e perció capaci di atti che i singoli componenti non avrebbero compiuto mai se presi uno ad uno.

Il fondatore della psicoanalisi, Sigmund Freud (1856-1939), sentì il bisogno di confrontarsi con Le Bon quando scrisse il suo saggio Psicologia delle masse e analisi dell'Io ( 1921 ). Un problema fondamentale che egli doveva affrontare era il seguente: Le Bon aveva parlato di una psicologia di tipo collettivo che s'insediava al posto di quella personale cosciente. Freud naturalmente non aveva alcuna difficoltá ad ammettere il ruolo decisivo dell'inconscio in determinati comportamenti, ma non poteva riconoscere il tratto collettivo come elemento peculiare e dunque la determinazione sovrapersonale degli atti dei singoli. Infatti nella sua visione l'inconscio, ossia il sistema psichico autonomo e nativo di ciascun uomo, é caratterizzato da una sorta di energia volta al puro piacere personale, sempre direttamente o indirettamente sessuale (la libido). Un tal genere di energia desiderante é ovviamente individualistica ed anzi egoistica in modo irriducibile. Se c'era, dunque, qualcosa di morale, esso s'insediava semmai, ed a fatica - sempre secondo Freud- sul terreno della coscienza, che peró emergeva dopo l'inconscio originario, come una sorta di derivato mascherato, o comunque, di secondo grado.

Inoltre Freud riteneva che l'esperienza-base dell'inconscio - attorno alla quale tutto da principio doveva ruotare - fosse il rapporto con le figure parentali: incestuositá proto-infantile verso la madre, che il piccolo vorrebbe amare in modo esclusivo, e sentimento di amore-tremore verso il padre, che sottrae la madre, un padre sentito insieme come onnipotente, carissimo e nemico, ossia il complesso di Edipo. Verso i cinque anni il complesso di Edipo "evolutivo" deve essere superato. Se l'incestuositá, inconscia, verso la madre, e l'amore-odio per il padre, anch'esso inconscio, permarranno, poi si diventerá nevrotici, profondamente feriti psichicamente, e tali si resterá sino al superamento, eventuale, dell'ingorgo infantile che ha bloccato lo sviluppo normale della psiche verso l'eterosessualitá e oltre il familismo infantile.
Come spiegare allora i fenomeni di scatenamento di cieca passione dell'uomo "in folla" descritti da Le Bon?

Freud si
occupava non solo di folle spontanee, come quelle trattate dal francese, ma anche "artificiali" (che noi chiameremmo collettivitá organizzate), come chiesa ed esercito. Tuttavia si potrebbe applicare tutto il suo ragionamento in proposito anche ai movimenti politici. Freud, dunque, dice che quello che le tiene insieme facendone un tutt'uno non é la mera suggestione ipnotica (un fenomeno superficiale e derivato), bensì l'investimento libidico nei confronti di figure da tutti amate-temute, che costituiscono un surrogato del grande padre per i bambini piccoli, che lo adorano, lo sentono onnipotente, lo temono molto ma al tempo stesso si sentono protetti: figure identificabili con il generalissimo o comunque con i capi principali nell'esercito, o con Gesú Cristo tra i fedeli. Per amore del capo idealizzato i seguaci si amano l'un l'altro. Se perdono la fede in lui cessano di essere una folla e si disgregano.

L'impostazione di Freud é in parte ripresa ed in parte contestata o decisamente superata da altri grandi capi-scuola della psicoanalisi contemporanea. Al proposito é da ricordare l'opera di Wilhelm Reich (1897-1957) Psicologia del fascismo (1933). Egli ritiene che l'uomo tradizionale, di ogni ceto ma specialmente piccolo-borghese, sia sessualmente un inibito: per l'educazione propria del cristianesimo (da un lato) e della famiglia monogamica (dall'altro), che spingono a considerare l'erotismo spontaneo come male e ad esaltare l'autorepressione degli istinti e della spontaneitá vitale. Il represso non supera mai il suo complesso di Edipo evolutivo, come dovrebbe fare il bambino entro i sei anni al massimo.
Questa condizione, di esagerata dipendenza psicologica da figure parentali interiormente assolutizzate (come il padre dal bambino piccolo), per Reich é connessa pure al maschilismo ed al patricentrismo propri della nostra civiltá dalla proto-storia in poi. Il presupposto di essa é una famiglia chiusa, con un padre-padrone che disciplini gli impulsi dei singoli componenti, in primis sessuali, in combutta col suo equivalente immaginario trascendente, il Signore, il Padre che sta nei cieli, o Dio "Padre", e dunque con la Chiesa cristiana che, secondo Reich proprio su Dio "Padre" avrebbe costruito le sue fortune.

Tale situazione sarebbe l'opposto di quella dei primordi dell'umanitá, che per Reich era caratterizzata dalla comunione dei beni e dal matriarcato, con connessa promiscuitá e libertá sessuale. Reich riteneva, inoltre, che negli ultimi secoli il Dio "Padre" avesse sempre piú perso credito. La cultura scientifica, materialistica e rivoluzionaria ne aveva minato la credibilitá. La famiglia monogamica chiusa era, parallelamente, entrata in crisi a seguito dei colpi inferti all' "ordine" borghese dai movimenti popolari e proletari, rivoluzionari, ricorrenti. L'ordine - privatistico, familistico, maschilista, patricentrico, repressivo, inegualitario, borghese e cristiano - era stato scosso specie dalla grande rivoluzione socialista e libertaria, di cui Marx da un lato e l' Ottobre sovietico dall'altro erano stati tappe fondamentali. Nel primo dopoguerra il vecchio "ordine" contro natura stava dunque saltando. La rivoluzione socialista e libertaria peró fallì, nel mondo e in Russia, dove si era quasi giunti alla piena libertá libidica e all'abolizione della famiglia chiusa. Cosi si tornó indietro con la controrivoluzione staliniana (detta dall'autore "fascismo rosso"). 

Tuttavia, essendo stata quella rivoluzione semplicemente una suprema manifestazione di una lotta plurisecolare per la liberazione dalla famiglia, dall'ordine del padre, dalla religione repressiva e da ogni dipendenza e frustrazione delle tendenze vitali, non ci sarebbe stato da disperarsi: la lotta sarebbe, comunque, destinata a continuare. Nel frattempo, dopo la grande ondata liberatrice del primo dopoguerra, si sarebbe scatenata la controrivoluzione, in forma di fascismo. Questo veniva visto come una restaurazione del regno del padre del quale i duci e i capi idolatrati dei sistemi totalitari di ogni colore erano un surrogato: una sorta di Super-Io fatto leader politico. Per Reich tornavano cosi gli ingredienti odiosi del regno del padre (o del maschile): la disciplina artificiosa e repressiva, il moralismo insopportabile e la disuguaglianza contro natura.

Mentre l'analisi di Reich é sessistica quanto e piú di quella di Freud, troviamo, invece, in Alfred Adler (1870-1937) un'impostazione che pone al centro la questione del riconoscimento del singolo da parte del collettivo, istanza di riconoscimento comunitario che puó assumere i tratti della volontá di potenza di tipo nevrotico.
Per lui - socialista democratico convinto oltre che grande psicologo analista - l'uomo é un essere sociale, destinato a vivere in comunitá. Il problema della socializzazione, o accettazione senza riserve né frustrazioni nel gruppo in cui vive, é per il singolo la questione decisiva dell'esistenza. Ma ogni inferioritá anche piccola degli organi, o addirittura solo presunta, rende difficile l'integrazione positiva tra gli altri. Allora il singolo contrae una nevrosi, connessa al complesso d'inferioritá. In essa sviluppa, per compensazione del complesso d'inferioritá, un'esagerata volontá di potenza, credendosi e cercando di farsi credere "grande" per lenire il disagio e soprattutto per attrarre la simpatia altrui. Ma ció normalmente lo allontana ancor piú dagli altri, deviando la volontá di potenza dal gruppo. Adler spiega ció soprattutto in Prassi e teoria della psicologia individuale (1920). Il fenomeno descritto ha certo a che fare pure con l'emergere della volontá di potenza politica, connessa sempre - per questa scuola - a complessi d'inferioritá da compensare, e loro manifestazione morbosa, per lo piú perdente. Se ne poteva dedurre che per lui i grandi dittatori erano probabilmente dei frustrati "riusciti".

Con ció possiamo pure comprendere la spiegazione del nazifascismo fornita dalla "psicologia culturalista" di Erich Fromm (1900-1980), specie in Fuga dalla libertá (1941). Nati per vivere in comunitá, come animali del branco, gli uomini vivono da secoli, a causa del capitalismo e del connesso liberalismo - che pure sono stati un ampliamento benefico della nostra libertá e della nostra ricchezza - in un mondo segnato dalla "libertá da", ossia dalla libertá dal collettivo o se si vuole dallo Stato, dal potere, cioé dalla libertá come indipendenza personale, come privacy, come diritto-dovere di decidere personalmente sulla nostra sorte come poi sulla direzione dello Stato stesso (liberalismo e democrazia).
 
Ma nelle grandi crisi storiche, come quella del primo dopoguerra, quella "libertá da", quella libertá individualistica, diventa un fardello insopportabile, fonte di angoscia. L'uomo cerca allora un surrogato della protettiva, seppure gerarchica ed autoritaria, comunitá perduta, e lo trova, o meglio si illude di trovarlo, consegnando il fardello pesante della propria libertá al Capo, che deve pensare e decidere per tutti. Ma questa soluzione é un atavismo storico, che non puó durare.
Tuttavia la sorte della democrazia moderna, oltre che la nostra felicitá, é connessa per Fromm alla scoperta e fondazione di una vera comunitá, non giá premoderna ed antimoderna come quella dei fascismi e dei totalitarismi in genere, ma sociale e democratica. É il tema sviluppato in opere come Psicanalisi della societá contemporanea ( 1964).

Interessante e diversa é, infine, la posizione elaborata da un altro grande capo-scuola della psicoanalisi, lo svizzero Carl Gustav Jung ( 1875-1961 ), fondatore della "psicologia analitica": specie nei due volumi delle sue Opere intitolati Civiltá in transizione. Il periodo tra le due guerre e Civiltá in transizione dopo la catastrofe ed anche, e forse pure di piú, nel volume Jung parla. Interviste e incontri (1977).

Jung riteneva che nella psiche dell'uomo accanto a un inconscio di tipo individuale frutto di rimozione delle esperienze - specie infantili - traumatiche o comunque particolarmente sgradevoli, vi fosse - e fosse assolutamente preponderante - un inconscio collettivo, della specie. Noi siamo tutti come vissuti dall'identitá di specie, di cui siamo una particolare fioritura. Ciascuno di noi é come vissuto dall'inconscio della specie, che Jung chiama collettivo. In tale inconscio collettivo ci sono le pulsioni che ci caratterizzano, come animali ma anche come animali speciali (culturali): da un lato i ciechi istinti di sesso e potenza giá individuati e investigati da Freud e da Adler, ma dall'altro gli impulsi, altrettanto forti, ed anzi ancor piú profondi seppure tante volte compressi e mascherati dagli altri giá indicati, a trascendere la nostra vita effimera, a cercare un senso all'infinito: un infinito che risulta presente da sempre in noi almeno come bisogno antropologico, come istinto a sé, come scaturigine di immagini mentali primordiali. 

Si tratta di una sorta di Deus interior, che non dimostra nulla su Dio ma attesta almeno che la tensione - o pulsione - religiosa é in noi a priori. L'inconscio collettivo ci parla attraverso simboli primordiali o archetipi (impronte). Questi archetipi, che sono quasi i semi germinali dell'inconscio collettivo, si esprimono in taluni "grandi sogni", rari, ricchi di simboli, composti da storie non riducibili alle nostre vicende diurne, tali da impressionarci profondamente e da essere ricordati a lungo. Questi grandi sogni sono i nostri miti interiori. 
Al proposito va ricordato che giá Georges Sorel (1847-1922), ignoto a Jung, aveva ritenuto che i miti fossero come grandi sogni collettivi ad occhi aperti. Con questi grandi sogni l'inconscio collettivo reagisce alla situazione in cui viviamo, come singoli, nel privato, ma anche come individui immersi nella storia. Perciò i grandi sogni collettivi ricorrenti e diffusi, anche fatti ad occhi aperti, o raccontati - in realtá su quella traccia onirica - nelle favole e nelle opere poetiche piú universali del nostro tempo, sono la matrice interiore della storia. I nostri grandi sogni collettivi e i nostri grandi miti veramente vissuti, soggettivamente e intersoggettivamente, ci dicono chi siamo e dove andiamo. 

Cosi Jung, nel 1936, in Wotan, spiega il nazismo come risveglio dell'archetipo del dio pagano germanico, foriero di entusiasmi deliranti seguiti peró in modo altrettanto certo da lutti e rovine, che faranno rimpiangere il Cristo perduto. Nelle interviste, spesso a misura di saggio, egli interpreta Hitler come il rivelatore dell'inconscio collettivo dei tedeschi, il loro profeta post-cristiano, paganeggiante. Vede infine, dal 1945, nei grandi crimini tedeschi commessi durante la Seconda Guerra mondiale - come lo sterminio degli ebrei -l'effetto di un senso di onnipotenza male inteso che prende l'uomo quando crolla il mito cristiano ed egli pretende di farsi dio a se stesso, come gli imperatori della tarda romanitá, e così, da vero neo-pagano, torna ad imporre forme di schiavismo (campi di concentramento) e di statolatria (nazista ma anche comunista) che erano state tipiche della fine del mondo antico.

Come si vede l'applicazione delle psicologie alla politica é giá stata molto feconda. Varrebbe perció la pena - essendo esso agli inizi - di approfondire questo genere di ricerche.

(NOTA: Questo scritto, che abbiamo pubblicato per cortese concessione dell'autore e dell'editore, fa parte del libro "Politica e istituzioni - Lessico" di Ettore A. Albertoni e Franco Livorsi, edito da Eured, Milano. Il volume, che contiene l'ampia bibliografia sulla quale ha lavorato il professor Livorsi per l'elaborazione di questo saggio, può essere richiesto direttamente a CUESP, Cooperativa Universitaria Editrice Scienze politiche s.c.r.l. - Via Conservatorio 7 - 20122 Milano).

 

di FRANCO LIVORSI

 Ringraziamo per l'articolo
(concesso gratuitamente) da
Gianola direttore di Storia in Net
 


Nel sec. XIX Gustav Le Bon fu il primo studioso ad analizzare il comportamento
delle masse ed a elaborare tecniche per guidarle e controllarle.

PSICOLOGIA DELLE FOLLE:
I TIRANNI LA USANO COME KILLER MENTALE


Gustav Le Bon

Gustav Le Bon, nato in Francia a Nogent-Le Retrou nel 1841, fu il primo psicologo a studiare scientificamente il comportamento delle folle, cercando di identificarne i caratteri peculiari e proponendo tecniche adatte per guidarle e controllarle. Per questa ragione le sue opere vennero lette e attentamente studiate dai dittatori totalitari del novecento, i quali basarono il proprio potere sulla capacità di controllare e manipolare le masse.

Sia Lenin che Hitler lessero l'opera di Le Bon e l'uso di determinate tecniche di persuasione nella dittatura nazionalsocialista sembra ispirato direttamente dai suoi consigli, ma Mussolini fu certamente il più fervido ammiratore dell'opera dello psicologo francese. "Ho letto tutta l'opera di Le Bon - diceva Mussolini- e non so quante volte abbia riletto la sua Psicologia delle folle. E' un opera capitale alla quale ancora oggi spesso ritorno".
In effetti gli scritti di Le Bon e in particolare la
Psicologia delle Folle edita nel 1895 erano una vera e propria miniera d'oro per chi voleva comprendere il comportamento della massa, il nuovo soggetto che si affacciava sulla scena politica negli ultimi decenni dell'ottocento e che avrebbe dominato tale scena nel novecento. La nascita della massa, intesa come "grande quantità indistinta di persone che agisce in maniera uniforme" fu infatti il risultato di un processo storico a cui concorsero una pluralità di cause e che iniziò a prendere forma sul finire del XIX secolo. Nella creazione di una società di massa un ruolo importante fu svolto dall'avanzare del progresso tecnologico, inteso sia come processo di standardizzazione del lavoro sia come modello di produzione di oggetti detti appunto "di massa".

La seconda rivoluzione industriale si caratterizzò infatti per una forte razionalizzazione e meccanizzazione dei processi produttivi, i quali tendevano ad omologare e serializzare il lavoro degli operai e degli impiegati. Mentre nella prima rivoluzione industriale l'operaio era impiegato in mansioni che non si discostavano di molto dal lavoro artigianale, a partire dal 1870 il suo lavoro divenne sempre più simile a quello delle macchine e privo di qualsiasi contributo personale nella creazione dell'oggetto.

Secondo il classico modello della catena di montaggio, l'operaio doveva semplicemente ripetere infinite volte una serie identica di gesti che non comportava l'intervento di alcuna capacità pratica o tecnica e che finiva per annullare ogni contributo personale nella realizzazione del manufatto. Tale sistema, che finiva per eliminare le differenze tra operai semplici e specializzati e tra operai dotati d'ingegno e semplici esecutori di ordini favorì la creazione di una massa omogenea di lavoratori, i quali non si distinguevano né per genere di impiego, ne per capacità, ne per reddito e che quindi tendevano a formare un gruppo compatto all'interno della società. L'omologazione dei processi produttivi determinò inoltre l'omologazione degli oggetti creati e venduti, la quale a sua volta generò una standardizzazione dei consumi e dei gusti. L'oggetto di massa, sempre identico a se stesso, tendeva a creare consumatori identici e a modificare in direzione di un uguaglianza anonima i comportamenti collettivi.

Per quanto importante, la trasformazione industriale e produttiva non fu tuttavia l'unica responsabile della creazione della cosiddetta "massa", a cui concorsero anche eventi di natura più spiccatamente politica. Paradossalmente, l'esistenza della massa fu scoperta e studiata la prima volta a partire da una serie di fatti politici in cui si dimostrò la sua incredibile forza. In Francia ad esempio, la massa divenne oggetto di attenzione all'indomani dei fermenti rivoluzionari del 1789, per affermarsi poi come tema ricorrente della trattazione politica e sociologica dopo gli episodi della Comune di Parigi del 1871. La particolare ferocia dei comportamenti collettivi nel periodo del terrore rivoluzionario e dell'insurrezione della Capitale spinsero molti intellettuali francesi ad interrogarsi e soprattutto a preoccuparsi per i comportamenti della folla, la quale era ritenuta capace delle più spaventose aberrazioni.
In questo contesto sociale e intellettuale, carico di curiosità e ancor più di paura verso la massa "nascente" maturò l'opera di Gustav Le Bon, il quale non a caso era dovuto fuggire precipitosamente da Parigi nel 1871 dopo aver rischiato più volte la vita e che perciò condivideva le preoccupazioni di chi vedeva nella folla un pericolo per le moderne società capitaliste.

Tuttavia, per quanto ispirata da una esperienza personale e per quanto affine alle riflessioni di molti altri autori, la
Psicologia delle folla rappresentò per l'epoca una grande novità e come tale fu accolta sia dai contemporanei ma ancor più dai lettori dei primi del novecento.
Ma quale era la peculiarità dell'opera di Le Bon e perché si meritò tanta fama, nonostante le accuse di dilettantismo che il mondo accademico rivolse contro lo psicologo francese?
Anzitutto, Le Bon seppe delimitare un nuovo campo di studi, che fino ad allora era suddiviso tra la psicologia, che si occupava solo dei comportamenti individuali e la sociologia, che si occupava delle trasformazioni della società. Le Bon fu il primo ad utilizzare gli strumenti e il linguaggio della psicologia per descrivere i fatti sociali, nella convinzione di poter assimilare il comportamento della massa a quello di un singolo soggetto, per quanto questo fosse costituito da una pluralità di persone. Questa grande intuizione di Le Bon - che ancora oggi sotto molti aspetti conserva la sua validità- era a sua volta il frutto di una specifica visione della massa dello psicologo francese. Per l'autore della "
Psicologia della folla" l'esistenza di una massa anonima rappresentava un segno di regresso nella società moderna, che perdeva quella diversità individuale che era la vera ricchezza e il vero patrimonio della società umana.

Per Le Bon le grandi folle erano il risultato di un arresto del processo evolutivo, il quale in linea teorica avrebbe dovuto procedere dall'informe alla forma, dall'indifferenziato alla progressiva differenziazione e pertanto dai comportamenti collettivi ai singoli gesti promossi dalle singole coscienze. Il fallimento del processo evolutivo tendeva a riportare la società verso gli stadi più antichi della sua evoluzione e quindi l'imporsi delle masse- almeno finché queste fossero rimaste senza controllo e senza guida- era il segno di un ritorno della barbarie che disgregava una cultura formatasi in una storia bimillenaria.
Di tale involuzione Le Bon trovava conferme anche analizzando il comportamento stesso della massa, che era guidato dall'istinto e dall'emotività piuttosto che dalla logica e dalla ragione. La folla gli appariva agire sulla base dei sentimenti più primitivi, quelli che dal punto di vista dell'evoluzione costituiscono le prime tappe dello sviluppo dell'umanità, mentre in questi raggruppamenti ciò che andava smarrita era la più grande conquista degli uomini moderni, ovvero la razionalità e l'uso delle superiori capacità intellettive. Come molti suoi contemporanei Le Bon era convinto dell'estrema fragilità delle ragione che era considerata una conquista recente e pertanto fragile, al contrario dell'istinto, che era invece ritenuto una caratteristica permanente e duratura dell'essere umano.

Ma lo smarrimento della ragione nell'aggregazione di massa era, per lo psicologo francese, il presupposto per un ben più importante perdita: la dissoluzione di una identità individuale in una identità collettiva. Senza una ragione autonoma, suggeriva Le Bon, l'uomo regredisce allo stadio animale e in natura gli esseri della stessa specie si somigliano tutti l'uno all'altro: così nella massa l'uomo si fa "animale" e i suoi istinti primitivi lo rendono praticamente identico a chi si trova a condividere con lui questa esperienza di gruppo.
Se l'uomo nella folla è un tutt'uno con gli altri uomini - pensava Le Bon- era quindi possibile considerare la folla come un unico soggetto e pertanto era lecito applicare ad essa quell'analisi psicologica che per solito si riservava agli individui singoli. La folla, in quanto tendente ad avere un comportamento collettivo era, dal punto di vista medico-scientifico, un "paziente" che lo psicologo doveva analizzare e se possibile curare, in quanto affetta da una regressione verso agli stadi arcaici.

Quest'analisi della folla di Le Bon non era però esente da una serie di presupposti ideologici e di pregiudizi che esploderanno in maniera evidente con l'uso che delle sue teorie faranno i dittatori totalitari. Anzitutto, se le masse sono l'esito di un processo involutivo della coscienza e della ragione è quasi scontato pensare che esse debbano essere controllate e instradate su una giusta via da un' elite o da un capo che abbia conservato una forte individualità, quasi che le folle fossero considerate al pari di un incapace bisognoso di tutela.
E questo fu per l'appunto l'atteggiamento di Mussolini, che così si espresse sulla folla e sul proprio ruolo di guida delle masse: "La massa per me non è altro che un gregge di pecore finché non è organizzata. Non sono affatto contro di essa. Soltanto nego che possa organizzarsi da sé." Quello di Mussolini era un pensiero perfettamente aderente a quello di Le Bon, che riteneva necessario mettere un capo alla guida delle masse: "l'avvento di un conduttore di folle rappresenta l'unica alternativa al rassegnarsi a subire il regno delle folle poiché mani imprevidenti hanno rovesciato una dopo l'altra tutte le barriere che potevano trattenerle".

La preoccupazione di Le Bon per la libertà della masse è indice dell'ideologia conservatrice di cui egli era portatore e che lo induceva a contrastare sia le aperture democratiche proprie della sua epoca sia i presupposti del pensiero illuminista.
L'autore della Psicologia delle folle considerava con disprezzo l'ipotesi di una società pienamente democratica, capace di autogoverno e regolata dai principi della ragione. Per Le Bon le società democratiche non solo erano destinate al fallimento ma rappresentavano anche una minaccia per la vita stessa della società, poiché conducono gli uomini verso la mediocrità. Le Bon riteneva impossibile educare l'intera massa ai principi della ragione e al pieno dominio di sé e al tempo stesso pensava che il potere dovesse essere detenuto da uomini eccellenti: perciò l'unica forma di governo possibile era per lui quella delle elite. Tuttavia Le Bon era consapevole che nella sua epoca nessun capo avrebbe potuto governare senza il consenso delle masse: finita l'epoca delle monarchie basate sulla forza economica, militare o sull'autorità dinastica, il vero capo politico avrebbe potuto governare solo guadagnandosi il consenso delle folle.
E, quale moderno Macchiavelli, Le Bon si assumerà l'incarico di insegnare al futuro principe come conquistare l'anima e il cuore delle folle.

La prima regola che un capo deve seguire per guadagnarsi il consenso della folla è quella di comandare ricorrendo ai sentimenti e non alla ragione; e di questo consiglio di Le Bon fecero ampiamente uso i dittatori totalitari del novecento, che furono l' incarnazione di un potere che si guadagna il consenso della folla senza concederle rappresentanza e distruggendone le libertà.

Le Bon era fermamente contrario al progetto illuminista di distruzione delle certezze tradizionali, che incrinando la fede in Dio e nello Stato avevano indebolito la capacità di credere delle masse. Diceva Le Bon: " i filosofi dell'ultimo secolo si sono consacrati con fervore al compito di distruggere le illusioni religiose, politiche e sociali di cui per centinaia di anni avevano vissuto i nostri padri. Distruggendole, hanno inaridito le fonti della speranza e della rassegnazione."

Per essere governate senza che si instauri un regime di pericolosa anarchia le masse devono tornare a credere ed è compito del futuro meneur de foules reintrodurre la fede nella comunità, anche se questa non sarà più di natura trascendente ma terrena. Per Le Bon, le folle non potevano essere guidate dalla ragione, perché l'animo della folla è caratterizzato dal sentire e non dal pensare. Il discorso logico e razionale può servire per convincere un singolo uomo, non certo per guidare una massa. Secondo l'autore della Psicologia l'uomo inserito nella massa ha bisogno di illusioni, di passioni, è animato dalla volontà di credere e questa volontà cresce nel momento stesso in cui le vecchie illusioni sono state messe in crisi dall'illuminismo. Mentre la ragione è fatto transitorio, il sentimento e il bisogno di credere sono forze arcaiche ed eternamente operanti dell'uomo e il capo deve colmare con nuove speranze e illusioni questa sete di speranza. Se si guarda alle grandi rivoluzioni, diceva Le Bon, si nota come tutte furono prodotte dalla speranza e dalle fede e non da un accurato ragionamento: il cristianesimo e l'islamismo, il successo della rivoluzione francese e di Napoleone sono frutto della fede e della speranza e non della "ragion pura".

I totalitarismi del XX secolo accolsero in pieno la lezione di Le Bon, fornirono agli individui nuove illusioni in cui credere, si preoccuparono di costruire sempre miti sempre nuovi anche se spesso tra loro in contraddizione. Mussolini in particolare vantò più volte l'assenza di programma del primo fascismo, giungendo ad ostentare sia il suo trasformismo politico sia i cambiamenti nel programma del partito. Con questo atteggiamento Mussolini mostrava di aver metabolizzato l'insegnamento di Le Bon circa il carattere inconfutabile delle illusioni e di ricordare il suo suggerimento di assecondare la volontà di credere delle folle anche a costo di sacrificare la coerenza dei propri ragionamenti. Era infatti lo stesso Mussolini ad affermare che "solo la fede smuove le montagne, non la ragione. Questa è uno strumento, ma non può essere la forza motrice delle masse. Oggi, meno di prima. La gente, oggi, ha meno tempo per pensare. La disposizione dell'uomo moderno a credere ha dell'incredibile."
Ma oltre ad aver appreso l'insegnamento sulla necessità delle illusioni, Mussolini dimostrava di aver recepito un altro e forse ancora più importante suggerimento proposto da Le Bon: la creazione della fede incondizionata nel capo.

Mentre ogni illusione può essere sostituita da un'altra, ogni credenza prende il posto di quella precedente anche in aperto contrasto con quanto prima, la fede nel capo deve rimanere sempre inalterata se si vuole mantenere il controllo delle folle. Il capo deve essere trasformato in una vera e propria divinità terrena, sottratto anche al solo dubbio dell'errore e dello sbaglio, fatto oggetto di vera e propria idolatria utilizzando tutte le strategie messe a disposizione dalla propaganda. In tal senso, l'esempio del fascismo italiano, ma ancora più di quello tedesco e di quello sovietico sono dimostrazioni inconfutabili di questa necessità intuita con largo anticipo da Le Bon.


Mussolini parla agli operai della Fiat di Torino (1930)


In Unione Sovietica il culto della personalità di Stalin fu uno dei principi su cui si resse l'intero apparato totalitario e in Germania nessuno dubitò dell'infallibilità di Hitler anche quando i segnali della sconfitta nella seconda guerra mondiale cominciarono ad essere evidenti.
Per un sistema totalitario, il capo costituisce infatti il fulcro dell'intero sistema, perché a differenza di quanto accade nelle semplici dittature, tutto ciò che accade nel paese è sotto la sua responsabilità. In Unione Sovietica e in Germania sia Stalin che Hitler si assumevano la responsabilità di qualsiasi azione compiuta da un loro funzionario, a dimostrazione che solo loro erano l'emanazione del potere e che i burocrati e i sottoposti altro non erano che semplici esecutori della loro volontà.
Allo stesso modo, la svolta autoritaria - e per certi aspetti totalitaria - del fascismo italiano si ebbe nel gennaio del 1925, quando Mussolini decise di assumersi la piena responsabilità per l'assassinio Matteotti, che era stato compiuto da due sicari per conto di un non precisato mandante. Tale assunzione di responsabilità da parte del capo unico fa parte del processo dialettico che nei regimi totalitari si instaura tra chi comanda e chi obbedisce e che non può venire meno se non si vuole mettere in crisi l'intera struttura: questo spiega perché una volta saliti al potere questi dittatori riuscirono a conservarlo senza dover combattere contro fazioni interne, perché la convinzione di tutti era che se il capo fosse caduto tutto il sistema sarebbe crollato.

In un sistema totalitario, a differenza di quanto si può comunemente pensare, il potere non viene infatti detenuto esclusivamente con la violenza, ma è frutto di una reciproca "contrattazione" tra il capo e le masse dominate. L'onnipotenza del capo fa da sfondo al desiderio da parte della massa di sottrarsi alla responsabilità della propria libertà e la consegna del proprio libero volere nelle mani del capo è il prezzo che la massa è disposta a pagare per poter riversare addosso a qualcun altro le proprie colpe e i propri errori.

Con grande acume Le Bon individuò nel particolare rapporto tra capo e folla il segreto per la conquista del potere nelle moderne società industriali. Lo psicologo francese intuì il bisogno di identità presente in forma latente in tutti i grandi aggregati umani: all'abbandono della propria specificità che si realizza nella folla deve corrispondere la creazione di una chiara identità collettiva. L'individuo è disposto a rinunciare al proprio Io in favore di un Noi a patto che questo nuovo soggetto sia dotato di una specifica personalità e questa può formarsi solo attraverso l'intervento del conquistatore delle folle. La massa è un'anima collettiva informe, che il meneur deve manipolare come argilla nelle sue mani, a cui deve dare forma attraverso il sapiente utilizzo delle emozioni più primitive e perciò più arcaiche e forti. In un'altra sua opera
"Aphorismes du Temps present" Le Bon esplicitò chiaramente questa sua idea: "la folla è un essere amorfo, incapace di volere e d'agire senza il suo meneur. La sua anima sembra legata a quella di questo meneur."

Come un mago, come una divinità, il capo politico è chiamato a dar vita alla folla, a spingerla all'azione e in questo suo compito egli trova l'alleato più prezioso nel bisogno di credere e nel bisogno di identità dei soggetti massificati. L'individuo disperso nella folla è infatti un soggetto debole, che ha perso la propria capacità di autogoverno e che è alla ricerca di uno forte a cui appoggiarsi. Il moderno capo politico, spiega Le Bon, è un conduttore di anime, che sostituisce la propria personalità a quella dell'individuo, proponendosi alla folla come un modello con cui identificarsi e come una guida da seguire. Il rapporto tra il capo e la folla, tra quest'io egemone e le identità fragili e disperse che compongono la folla è estremamente delicato e complesso e dalla sua corretta gestione dipende il successo o l'insuccesso nella lotta per il potere.
A differenza di quanto avvenuto in passato con le antiche tirannie, l'aspirante dittatore moderno non può conquistare e mantenere il potere soltanto attraverso il principio di autorità o con il puro dominio della forza. Egli non può imporre modelli di comportamento rispondenti esclusivamente alle proprie volontà senza correre il rischio di perdere il consenso della folla che si propone di comandare.
Il moderno dittatore, sostiene Le Bon, deve saper cogliere i desideri e le aspirazioni segrete della folla e proporsi come l'incarnazione di tali desideri e come colui che è capace di realizzare tali aspirazioni. Anche in questo caso l'illusione risulta essere più importante della realtà, perché ciò che conta non è portare a compimento tali improbabili sogni quanto far credere alla folla di essere capace:"nella storia - scriveva Le Bon nella
Psicologia delle Folle- l'apparenza ha sempre avuto un ruolo più importante della realtà".

Il tiranno moderno deve però prestare la massima attenzione nell'evitare il confronto con la realtà, perché a parere di Le Bon la massa, per essere controllata, devono essere mantenute in questa scena onirica priva di precisi contorni. Procedendo in tale direzione non sarà quindi sufficiente proporsi come il realizzatore di determinati desideri ma occorrerà prestare la massima attenzione anche alla forma in cui tali aspirazioni e progetti vengono presentati. Secondo l'autore della Psicologia delle Folle il meneur deve far ricorso soprattutto al mito, che per la sua particolare natura è capace di catturare l'emotività delle folle e di sottrarsi ad una verifica razionale.
Il mito risulta particolarmente adatto a catturare l'attenzione della folla perché è linguaggio arcaico, appartiene alle fasi iniziali dell'umanità proprio come la folla rappresenta una regressione agli stadi più primitivi dell'organizzazione umana e ha una forza persuasiva molto forte perché si basa principalmente su contenuti inconsci. A differenza di un qualsiasi progetto razionale il mito non prevede nessun controllo a posteriori della sua validità, perché il suo contenuto è sempre abbastanza indefinito da non poter essere verificato e in questo senso fornisce una serie ininterrotta di alibi ai conduttori di folle, che possono continuamente trasformarne i contenuti o modificarne le sfumature potendo sempre evitare di confrontarsi con la realtà.

Il mito, spiega Le Bon, non necessita di alcuna coerenza logica, perché esso si basa esclusivamente sulle fantasie e sulle necessità degli uomini e funziona quanto più è in grado di rappresentare le esigenze di riscatto e le aspirazioni della folla. Ancora una volta il discorso di Le Bon trovò una sua applicazione tanto precisa quanto spietata nei totalitarismi del novecento, che proprio sui miti- la razza ariana, la romanità imperiale per fare qualche esempio- fondarono buona parte del proprio potere. Tutti i dittatori totalitari mostrarono sempre un estremo disprezzo per i fatti, costruendo una propaganda priva di qualsiasi fatto dimostrabile, che porterà Kruscev a descrivere Stalin come un uomo che manifestava una estrema "riluttanza a considerare le cose della vita….indifferente allo stato reale delle cose".

La realtà fu effettivamente messa a dura prova dai regimi totalitari, che cercarono di imporre l'onnipotenza della volontà e del desiderio sui fatti e sulla oggettività del mondo. In un regime totalitario pienamente realizzato come quello sovietico degli anni trenta, risultava spesso difficile distinguere il vero dal falso e la fantasia dall'illusione, perché più nulla veniva misurato con questo metro di giudizio. Dato che l'unico elemento importante di un avvenimento era la sua funzionalità per il partito e la rivoluzione, non importava più nulla che un determinato fatto fosse realmente avvenuto o che un certo discorso fosse stato pronunciato: l'unica domanda a cui il mondo era chiamato a rispondere era la fedeltà o meno alle direttive del regime.

Per quanto potesse apparire folle - ed effettivamente si trattava di episodi di follia collettiva - in Unione Sovietica si portarono avanti processi a migliaia di persone sulla base di complotti semplicemente presunti o immaginati da Stalin, che sempre si conclusero con la condanna a morte o la deportazione degli imputati. In un simile regime totalitario, che aveva annullato la differenza tra vero e falso anche grazie all'attiva collaborazione della massa che si lasciava sedurre dalle lusinghe della fantasia e della volontà onnipotente, circolavano le ipotesi più improbabili su continue congiure contro la rivoluzione e queste diventavano spesso capi d'accusa contro soggetti totalmente innocenti. La polizia segreta sovietica riusciva anzi a convincere molti imputati innocenti della loro colpevolezza, spesso senza ricorre all'uso di torture fisiche, perché formulava le accuse senza far mai riferimento ad alcun fatto concreto. Essa costruiva un processo generico alle intenzioni, isolando l'individuo dalla realtà circostante e convincendo chi gli era attorno a confermare le accuse, di modo che l'imputato finiva per arrendersi alla coerenza della storia proposta dalla polizia, arrivando infine a confessare i crimini mai commessi.

Ma se il capo deve saper cogliere i desideri delle folle e proporsi come la figura messianica capace di realizzarli, c'è ancora un altro aspetto centrale nel rapporto con le masse che Le Bon seppe benissimo individuare nella sua Psicologia delle Folle. Oltre che essere un
realizzatore dei desideri della massa, l'Io del capo deve infatti diventare, dice Le Bon, un oggetto di identificazione per le folle. Emulazione e assoggettamento, spiegava lo psicologo francese, vanno infatti di pari passo, nel senso che l'una è la condizione necessaria per l'altra. Nelle moderne dittature non è infatti consigliabile accontentarsi dell'ubbidienza passiva - che può da un momento all'altro venir meno - ma occorre suscitare la partecipazione entusiastica e volontaria al potere. La massa è perciò invitata continuamente non solo ad obbedire ma ad imitare il capo, ad atteggiarsi come se essa stessa fosse il capo, un comportamento che troverà la sua espressione nella agghiacciante interpretazione nazionalsocialista della morale kantiana: "Agisci in modo che se il Führer ti vedesse approverebbe la tua azione".

I regimi totalitari misero in pratica questi insegnamenti di Le Bon, organizzando continuamente cerimonie atte a facilitare questa immedesimazione tra capo e folla, come le grandi adunate di Norimberga, le sfilate sulla piazza rossa a Mosca e i discorsi di Mussolini da piazza Venezia. Lo scopo di tali celebrazioni era quello di far sentire le masse partecipi della potenza e dei progetti del capo, di fornire loro l'impressione di poter magicamente assorbirne la forza, di vedersi riconosciuto un ruolo nella costruzione dello stato totalitario.


Nelle grandi celebrazioni l'individuo massificato, privato della propria identità, veniva coinvolto in un rituale di unione sacrale e mistica con il suo capo e viveva l'ebbrezza di innalzarsi quasi al suo stesso livello. Allo stesso tempo però quest'esaltazione derivante dall'unione mistica con il capo contribuiva ad assoggettare sempre più la massa al capo, perché ciascun esponente della folla sperimentava l'insignificanza della propria esistenza in rapporto con quella del condottiero. Più il capo era ritenuto una persona eccezionale più il NOI, composto di tante soggetti con un IO debole, poteva essere sacrificato alla sua causa.
La vita di un anonimo appartenente alla massa non solo era sacrificabile per realizzare il progetto del capo, ma addirittura la morte volontaria per la causa era considerata la più grande delle virtù: non a caso quindi il fascismo impose un modello di virtù in cui si lodava principalmente la disciplina, l'obbedienza, il senso del dovere e della necessità di raggiungere uno scopo, l'eroismo, il sacrificio di sé.

A Le Bon va dunque il merito di aver dimostrato come per governare in modo dittatoriale una società di massa un capo debba in primo luogo proporre come Io forte alla molteplicità di soggetti deboli prodotti da una società massificata. (e non aveva visto l'oggi!!) Lo psicologo francese ha inoltre dimostrato nella Psicologia delle folle quanto sia importante per un capo proporre una missione di vita ai suoi sottoposti, uno scopo anche irrealizzabile ma che abbia la capacità di riattivare le energie intorpidite e il loro bisogno di credere.
Sempre a Le Bon ha per primo riconosciuto il bisogno delle masse di essere inserite in un mondo condiviso di simboli e di speranze, in una comunità- anche folle quale quella nazionalsocialista- ma in cui forti siano i legami con gli altri uomini e che siano retti da una forte ideologia comune. Infine, ma questa forse è la scoperta più importante e più abusata dai regimi totalitari, Le Bon aveva preannunciato il bisogno delle folle di trovare un proprio rappresentante che sapesse dar vita alle loro speranze e realizzare il loro bisogno di crudeltà e vendetta. All'opera di Le Bon si devono tutte queste scoperte, ai dittatori totalitari la colpa di aver usato con brutalità atroce queste suggerimenti teorici. E l'unico paragone che è possibile fare con altre storie è quello con gli inventori della bomba atomica, ricercatori che non avrebbero sganciato l'ordigno ma l'avrebbero creato: anche Le Bon fornì le basi teoriche per realizzare il totalitarismo, ma lasciò ad altri il compito di applicarle.

 

MARCO UNIA
BIBLIOGRAFIA Aphorismes du Temps presents, di G. Le Bon - Paris, 1987
Psychologie des foules>, di G.Le Bon - Paris 1998
Le origini del Totalitarismo, di H. Arendt - Edizioni Comunità, Torino 1999
Destini Personali, di R.Bodei - Feltrinelli,Milano, 2002

 Ringraziamo per l'articolo
(concesso gratuitamente) 
da Gianola direttore di Storia in net

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Leggiamo cosa scriveva Hitler nel suo Mein Kampf. Come intendeva avvalersi degli espedienti della propaganda: "Le masse non sanno cosa farsi della libertà e, dovendone portare il peso, si sentono come abbandonate. Esse non si avvedono di essere terrorizzate spiritualmente e private della libertà e ammirano solo la forza, la brutalità e i suoi scopi, disposti a sottomettersi. Capiscono a fatica e lentamente, mentre dimenticano con facilità. Pertanto la propaganda efficace deve limitarsi a poche parole d'ordine martellate ininterrottamente finchè entrino in quelle teste e vi si fissano saldamente. Si è parlato bene quando anche il meno recettivo ha capito e ha imparato.. Sacrificando questo principio fondamentale e cercando di diventare versatili si perde l'effetto "perchè le masse non sono capaci di assorbire il materiale, nè di ritenerlo".

Per imporre i suoi programmi Stalin cosa scriveva?: "La Libertà? solo gli illusi e i forti vivono in questa fede. Ma l'umanità è debole ed ha bisogno di pane e autorità". Notevole corrispondenza con le parole di Dostoievsky, quando il Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov si rivolge al Cristo reincarnato "E gli uomini furono felici di essere di nuovo condotti come un gregge e che il loro cuore era stato infine alleggerito d'un dono così terribile (della libertà) che aveva loro causato tanti tormenti".

"Qualsiasi bugia, se ripetuta frequentemente, si trasformerà gradualmente in verità". (Hitler-Goebbels). - "Hanno quasi ragione; la massa - dirà Amann - ha sempre bisogno di un certo periodo di tempo per essere pronta ad apprendere una cosa. La sua memoria si mette in moto soltanto dopo che per mille volte le sono state ripetute le nozioni più semplici".
"Hitler era capace in un discorso di 40 minuti, di ripetere 26 volte, la stessa frase semplice; che strappava gli appalusi, eccitava gli animi e proiettava su di lui i propri latenti desideri cui aveva tolto il "coperchio". La frase, anzi la parola era sempre quella: il "Popolo" vuole, il "Popolo mi ama", Il "Popolo brama", il "Popolo aspetta", il "Popolo è impaziente", il "Popolo pretende", il "Popolo desidera", il "Popolo è pronto", il "Popolo lotterà fino alla morte".
Tutti i dittatori con il delirio di onnipotenza hanno sempre imbottito i loro discorsi  con la parola "Il Popolo" e non con la parola "i Cittadini".  Questi ultimi amano le persone serie, mentre i primi (la storia ne è piena) sono in sostanza solo dei ciarlatani. 
"... e questi affabulatori sanno che basta apostrofare la folla chiamandola "il popolo" per indurla a malvagità reazionarie. "Che cosa non si è fatto davanti ai nostri occhi, o anche non proprio davanti ai nostri occhi in "nome del popolo"." Parafrasiamo T. Mann.

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UNA CURIOSA PAGINA DI ROBERT MUSIL

IL  SIGNOR COMESIDEVE

IL SIGNOR COMISIVUOLE

Un deputato! 

Ci si aspetta che sia intelligente, abbia vasta cultura, in più sia ferratissimo in un certo campo per potersi distinguere nelle sedute parlamentari. 
Deve essere un abile oratore e un buon scrittore, compenetrato dalla salutare idea del parlamentarismo, cioè che un deputato collabora alla costruzione dello Stato ed è stato scelto dai cittadini per armonizzare l'opera delle autorità con i bisogni dello Stato. 

Si suppone che oltre all'intelligenza gli sia necessario un tatto particolare per subordinare la volontà spesso turbolenta dei suoi elettori, privi per la maggior parte di capacità di giudizio, alle necessità più generali. Non deve guardare in faccia a nessuno ed essere abituato ai contatti sia con i potenti che con gli umili. Non scambiare la politica per una professione, così da non rendersene dipendente, ma nemmeno ridurla a uno sport, come capita facilmente a gente troppo importante e ricca che finisce per non sbrigare il molto lavoro anonimo e faticoso che pure deve essere sbrigato.
 Si dovrebbe pensare che non promette a vanvera e respinge subito tanto le richieste irrealizzabili quanto le dimostrazioni di riconoscenza per quelle realizzate; chè considera la sua carica un dovere rispetto ai suoi elettori e allo Stato.
 Abbiamo tracciato qui un quadro ideale, ma non vogliamo dire che non trovi mai riscontro nella realtà. Solo osservare l'aspetto purtroppo frequente di questa realtà.

Le difficoltà iniziano subito, quando si tratta di far passare una candidatura, nel dibattito del comitato ristretto. Chi si potrebbe prendere in considerazione? 

Il signor COMESIDEVE? 
 Certo è intelligentissimo, colto, onesto e indipendente, sarebbe il migliore - nel comitato infatti siedono assennati esponenti di un partito - ma come politico è troppo intransigente e nella circoscrizione elettorale non è molto amato; quindi offre agli attacchi degli avversari punti deboli che si prestano ad essere sfruttati e c'è da aspettarsi una dura opposizione; inoltre è troppo intelligente per la massa degli elettori, e la cosa non piace a moltissimi di loro. Infine, ha troppi soldi e quindi è troppo invidiato. Dunque dovremo ripiegare sul signor COMESIVUOLE.

E' vero, lui purtroppo non ha le qualità del COMESIDEVE, però tutti lo amano ed è molto popolare; quindi è presumibile che venga appoggiata la sua candidatura. Inoltre lui smania da anni per avere un mandato, mentre COMESIDEVE è piuttosto recalcitrante e lo accetterebbe solo per amore del suo Paese.

Adesso viene convocata una riunione di tutti gli uomini di fiducia in cui COMESIVUOLE fa la sua comparsa e per la prima volta espone il suo programma: Cioè, non proprio il suo programma, dato che lui su molti punti la pensa diversamente; però si risolve a pronunciare esattamente le parole che tutti si aspettano: COMESIDEVE non ne sarebbe stato capace e probabilmente avrebbe fatto fiasco già in questa riunione.

Ma COMESIVUOLE ha altre frecce al suo arco, la sua faccia tosta. Si presenta alle riunioni delle singole categorie professionali e dalle sue parole sembrerebbe che la categoria a cui in quel momento sta parlando sia la prima e la più necessaria dello Stato.
Promette mare e monti, aggiungendo che sì, non può garantire ogni realizzazione, ma ricorre poi a un abile giro di parole che suscita nel suo uditorio l'impressione della massima energia.

Insomma, in tutte queste riunioni viene considerato come l'uomo che ci vuole. Poi arriva finalmente la grande adunata degli elettori, in cui la sua candidatura deve essere ufficialmente accettata. Qui naturalmente il nostro
COMESIVUOLE dà fuoco a tutte le polveri, secondo il detto di Goethe "chi porta molto, porta qualcosa a parecchi, e tutti  se ne tornano a casa contenti". Quest'ultima è la cosa principale, perchè chi ride di più sarà eletto.

Adesso è deputato. Si potrebbe pensare che ora, rafforzato nella mente e nel corpo in vista dei cinque anni sicuri di potere politico, ceda al suo impulso interiore che lo chiama a un impetuoso attivismo per il bene dello Stato. Ma quando mai! E' un politico di professione e deve pur vivere anche dopo lo scadere dei cinque anni; conseguenza: un continuo corteggiamento del corpo elettorale.

Dov'è il nobile compito del deputato di dare leggi allo Stato? Lui non può staccarsi gli elettori dalle gonnelle. Deve mettere a disposizione delle ore di udienza in cui accoglie richieste e lamentele dalle circoscrizioni, deve tenersi dei segretari per sbrigare la corrispondenza giornaliera con gli elettori, insomma si trasforma in una specie di avvocato tanto più insistentemente ricercato in quanto la sua attività non richiede pagamenti. In breve, onori e oneri. E cosa non gli tocca difendere! A volte faccende addirittura nocive per il bene, superiore all'interesse del singolo, di una comunità, di una regione, persino dello Stato. Un certo elettore vuole una concessione; la richiesta viene respinta dal comune, perchè in loco non se ne vede la necessità: il deputato deve intervenire (l'interessato è, guarda caso, un fidato uomo di partito - e a che scopo altrimenti lo sarebbe?) e far passare la cosa alla seconda istanza. Se non è abbastanza influente o temuto, si nasconde dietro a un collega di partito più in vista, di fronte al quale l'autorità in questione è costretta a cedere.

Dunque, non solo il deputato COMESIVUOLE non dà vita a nessuna legge, ma in più interviene nei procedimenti amministrativi e inceppa le leggi esistenti. Si aggiungano poi le innumerevoli richieste economiche del territorio che egli rappresenta! Ferrovie, strade, canalizzazioni, tutta roba da costruire. Lui fa approvare una cosa o l'altra e viene esaltato come padre della patria, cioè della sua parrocchia.
Si può star certi che il  pensiero se i costi di quella ferrovia o strada o altro siano compatibili con la loro importanza all'interno del loro organismo statale, non l'ha neppure sfiorato. Lo stesso giorno, un altro Tizio vuole un impiego, anche se non ci è affatto portato. Caio desidera un avanzamento, Sempronio vuole un titolo, un altro ancora un'onorificenza. E il deputato interviene di nuovo non in base a considerazioni obiettive, ma personali. Nel frattempo gli vengono trasmesse delibere di circoli e assemblee politiche, le cui ingenuità lo fanno sorridere. Ma che importa, è tenuto a rispondere e a darsi da fare per questioni che considera, a ragione, del tutto insensate e dannose per lo Stato. Laddove succede una cosa qualsiasi, lui spedisce telegrammi di saluto, va a tutte le riunioni, a tutti gli spettacoli, e non è tranquillo fin quando non legge il suo nome nel giornale tra gli "ospiti d'onore presenti".

D'accordo si dirà, ma questi sono aspetti secondari, fastidi che un deputato deve assumersi, però in compenso ha l'occasione di spiegare il volo dei suoi pensieri nelle aule del tempio legislativo. Qui deve anzitutto associarsi a un club, e lo fa con gioia, vi trova amici con cui scambiare le idee, e lavoro fecondo a bizzeffe. 
Ma non è esattamente così. Nel club dominano i pezzi grossi del partito che non lasciano spazio a nessuno. La politica si fa nei corridoi e in salette riservate dove quelli si incontrano e prendono le loro decisioni nella massima segretezza. L'onorevole Comesivuole girella a vuoto e si annoia, una volta scomparso il primo brivido di riverenza. Sì, certo che COMESIDEVE si sarebbe trovato meglio, avrebbe potuto far pesare la propria influenza, là dentro sono tutti soltanto dei COMESIVUOLE; e i COMESIDEVE sono purtroppo pochi, perchè non vengono eletti. Ma il nostro COMESIVUOLE si consola pensando: verrà anche la mia volta e terrò un bel discorso, dirò cose nuove e importanti, diventerò famoso. Intanto é solo un COMESIVUOLE e ben difficilmente avrà qualcosa di importante da dire, e poi anche tenere un discorso non sarà così facile.

E' già tutto stabilito in precedenza, tanto che i discorsi in parlamento non sono necessari, al massimo si tratta di dichiarazioni che ovviamente possono essere pronunciate solo dai pezzi grossi. Però può accadere che una volta tanto gli si offra l'opportunità di parlare. Il nostro COMESIVUOLE presenta - naturalmente su richiesta dei suoi elettori - una mozione d'urgenza. Adesso potrà spaziare sulla tastiera della sua eloquenza; ma toh, la sala è vuota, le gallerie sono deserte, il presidente siede  con l'aria annoiata e di tanto in tanto ricorda all'oratore meccanicamente che dovrebbe parlare di questioni urgenti. Il tentativo di diventare famoso è fallito. COMESIVUOLE prova persino un po' di vergogna e viene deriso come un pivello dai vecchi che in proposito la sanno lunga.

Il nostro COMESIVUOLE, peraltro, ha il suo ben da fare. Deve correre nei vari ministeri per occuparsi delle incombenze affidategli dai suoi elettori. Allungando una mancia al portiere viene introdotto - con sollecitudine e dopo lunga attesa a seconda della consistenza della mancia; dal capodivisione, talvolta persino da Sua Eccellenza il Ministro, viene quasi sempre interpellato con un "onorevole" e trattato con cortesia. E' soddisfatto, altrettanto quanto il capodivisione che lo ha felicemente accompagnato alla porta. Anche qui un COMESIDEVE sarebbe stato più indicato, perchè avrebbe fatto colpo sul capodivisione presentando in maniera intelligente e risoluta la sua richiesta.

Tutto il parlamentarismo odierno è disgregato in una sequela di interessi particolari di sconfinata irrilevanza. Può darvi un'apparenza di dignità e il potere reale che ne consegue, essi vengono associati a interessi di partito o subordinati a quelli già esistenti. I partiti considerano loro compito primario superarsi a vicenda, e a pagarne le conseguenze sono ovviamente l'obiettività e lo Stato. 
Questo vale sia per i partiti di maggioranza che per le opposizioni. La maggioranza siede accanto alla fonte del potere e in tutto quello che dovrebbe fare, si chiede, per prima cosa, se sia idoneo a rafforzare la sua posizione.

La minoranza, se è meno pericolosa per l'attività legislativa, lo è molto di più per l'andamento regolare dell'amministrazione, che cercherà di disturbare in tutti i modi pur di attirare l'interesse su di sè; tanto, la responsabilità di tutto ciò che avviene ricade sulla maggioranza. Questa a sua volta, sarà pronta a respingere l'attacco a mettere il partito avversario dalla parte del torto. Insomma, è un continuo giocare con le cose che ai rappresentanti dei partiti sembrano enormemente importanti, l'alfa e l'omega della loro esistenza politica, ma che considerate obiettivamente sono del tutto infruttuose. 
L'interesse dello Stato, anzi tutto ciò che esula dall'interesse partitico, viene così completamente ignorato.

Poichè associarsi in partiti non potrà mai essere impedito, il rimedio contro le innegabili degenerazioni del parlamentarismo può venire solo da due parti; dall'elettore, che al momento di scegliere deve considerare la persona  e eleggere non dei COMESIVUOLE, ma solo autentici COMESIDEVE, senza però pretendere poi dal suo deputato ciò che questi non può dargli, - e dalle autorità, che dovrebbero sbattere la porta in faccia ai deputati occupati solo a sbrigare le faccende dei loro elettori. 


Il deputato non può e non deve mai ingerirsi nell'attività amministrativa, per quanto importante e necessario sia il controllo che su di essa esercita la totalità dei deputati, la camera.

Deve combattere implacabilmente la corruzione in ogni forma, non deve mai diventare lo strumento per la realizzazione di esigenze particolari. 
Deve essere al servizio di tutto il popolo e dello Stato, e solo il bene del popolo e l'interesse dello Stato devono guidare le sue parole e le sue azioni.

 ( era il 1916 ! )

 

di Robert Musil (*)
L'Autore di "L'UOMO SENZA QUALITA'"

Bibliografia
 (*) Herr Tuchting und Herr Wichting, di Robert Musil -
Soldaten Zeitung, n.12 (27 agosto 1916, pp.3-4
(Tutta la "serie" del famoso giornale di guerra di Robert Musil
pubblicato durante il suo servizio a Palù in Valsugana
è conservata alla Biblioteca di Bolzano).
Un'altra versione è stata pubblicata in Musil-Forum, .4, n.2 (1978) pp.187-193.
E un'altra ancora su "La guerra parallela" pubblicata da Reverdito Editore, Gardolo(TN) 1987 


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