PIANETA RUSSIA
LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE - I piani di ricostruzione economica 

 

L’INDUSTRIA 

VA... 

ALLE STELLE

MA I RUSSI 

VANNO...

 ALLA FAME

 di PAOLO AVANTI

Il primo obiettivo dei bolscevichi, 
una volta preso il potere, fu quello di colpire i grandi proprietari terrieri, 
l'elemento certamente più conservatore nella Russia di allora. Il Consiglio dei Commissari del Popolo, forte della investitura e della legittimazione ricevute dal Congresso dei Soviet di tutte le Russie, con a capo Lenin e Trockij, procedette immediatamente agli espropri, senza alcun indennizzo. Sempre nel novembre 1917 fu introdotta la giornata lavorativa di otto ore per gli operai dell'industria e ai Consigli degli operai fu attribuito il controllo sulle industrie in cui lavoravano. La decisione aveva conseguenze molto simili all'esproprio. Qualunque atto organizzativo e amministrativo doveva avere il placet degli operai. 

Si cominciava così lo smantellamento di quel poco di struttura capitalista esistente in Russia. Anche il vecchio apparato statale venne sovvertito. Si instaurarono i tribunali del popolo, che sostituivano quelli tradizionali. Nacquero le milizie popolari, che sostituivano le forze di polizia. L'azione dei bolscevichi trovava appoggio solo nell'ala sinistra dei socialrivoluzionari. Il resto del partito socialrivoluzionario e i menscevichi contestavano la legittimità di un potere che era stato ottenuto con un colpo di Stato e con lo scioglimento dell'Assemblea Costituente del 19 gennaio 1918. Ma l'opposizione ai bolscevichi si estendeva anche alla borghesia, che cominciava a sabotare il nuovo regime, con il sistema della resistenza passiva. Gli industriali boicottavano la produzione, gli impiegati civili lasciavano il loro posto, le banche chiudevano.

La risposta del regime, che sperava di far lavorare i ceti borghesi ai suoi ordini, fu data nel maggio 1918 con una serie di nazionalizzazioni che portò in un breve volgere di tempo tutte le imprese industriali e bancarie di una certa importanza a divenire proprietà dello Stato. Ora, però, era lo Stato a doversi creare un proprio apparato burocratico e le forze a disposizione non erano molte. Nel frattempo prendeva corpo l'opposizione al regime, anche a livello internazionale. Era l'inizio della guerra civile. Fin dal dicembre 1917, ad opera dei generali "bianchi" Alekseev, Kornilov e Denikin, aveva avuto inizio la formazione nel territorio del Don di truppe controrivoluzionarie.

RESISTENZA ANTISOVIETICA  - Un altro importante centro della resistenza anti sovietica si sviluppò in Siberia, dove legioni cecoslovacche, formate di prigionieri e disertori dell'Impero absburgico, in attesa di essere impiegate dagli alleati sul fronte occidentale, nel maggio 1918 rifiutarono la richiesta sovietica di disarmare e, attraversati gli Urali, marciarono verso l'Occidente. Con l'appoggio dei cecoslovacchi, i generali monarchici "bianchi" assunsero il controllo di quasi tutta la Siberia, sotto la guida del generale Kolcak. Intanto nell'estate 1918 truppe alleate erano sbarcate a Murmansk, Vladivostok, Archangelsk. All'intervento alleato parteciparono truppe inglesi, statunitensi, italiane e giapponesi. Ad Archangelsk, sotto protezione alleata, venne formato un governo antibolscevico della Russia settentrionale. Nel frattempo, anche a Mosca, per mano dei socialrivoluzionari di destra, scoppiarono attentati e ribellioni, ferocemente repressi. Una socialrivoluzionaria, Dora Kaplan, il 30 agosto 1918, attentò alla vita di Lenin, che venne ferito.

La risposta del regime comunista a tutte queste ribellioni si tradusse nella rottura delle relazioni diplomatiche con le potenze occidentali e nell'instaurazione del cosiddetto "terrore rosso". 

Il 16 luglio 1918 il governo bolscevico fece fucilare lo zar con i suoi familiari, cercando così di spegnere qualunque possibilità di restaurazione monarchica. Fu organizzata un'armata rossa per respingere gli interventi stranieri. Ma il vero caposaldo del regime di terrore fu la famigerata Ceka (Commissione Straordinaria contro la Rivoluzione e il Sabotaggio), la polizia politica bolscevica, sorta fin dal dicembre 1917 per combattere le attività controrivoluzionarie, ora con poteri quasi illimitati. La convinzione era che per mantenere l'ordine la Ceka dovesse agire come l'esercito, colpendo senza troppi distinguo oppositori e presunti tali, anche sbagliando.

La sede della Ceka, un tetro palazzo in piazza della Lubjanka, a Mosca, con le sue prigioni nel sotterraneo, divenne tristemente famosa e assurse a simbolo del terrore comunista. Arresti, giudizi ed esecuzioni sommarie furono all'ordine del giorno. Intanto, Trockij, fino ad allora commissario agli esteri, nel marzo 1918 fu nominato commissario alla Difesa e fu lui a guidare la costruzione dell'Armata Rossa e a divenire il maggiore capo militare dello Stato bolscevico nella guerra civile.

CROLLO DELLA CONTRORIVOLUZIONE (*)

Trockij reclutò i soldati tra gli operai e i contadini, ma utilizzò anche ex ufficiali zaristi, affiancati da commissari politici rossi in ogni unità combattente. L'intervento delle potenze straniere venne meno nel 1919, dopo due anni di lotte infruttuose, quando le truppe vennero ritirate. I "bianchi", abbandonati a sè stessi, persero posizioni su posizioni. A nulla servì l'attacco polacco del 1920. Il contrattacco russo portò i bolscevichi quasi alle porte di Varsavia, che si difese strenuamente. In ottobre venne firmato l'armistizio.

Nel marzo 1921 venne firmata la pace di Riga, in base alla quale la Polonia conservò zone della Russia Bianca e dell'Ucraina. Intanto, la controrivoluzione crollava sotto i colpi dell'armata rossa. La Siberia fu "liberata" dai bianchi e dalla presenza giapponese, l'ultimo dei generali bianchi, Vrangel', venne scacciato dalla Crimea. Nel corso del 1921 le truppe bolsceviche destituirono il governo menscevico della Georgia e occuparono l'Armenia, l'Azerbaidjan e il Turkestan. Alla fine del 1922 crollò l'ultimo baluardo bianco, Vladivostok.

Il capo storico del menscevismo, Martov, andò in esilio in Germania. Alla fine del 1920 il regime bolscevico era a tutti gli effetti un regime totalitario. Sul piano economico, i bolscevichi dovettero lottare contro il pericolo di un collasso generale, favorito sia dalla scarsità delle risorse disponibili sia dalla necessità di convogliare le risorse residue verso un esercito che arrivò a superare largamente il milione di uomini.

La nazionalizzazione delle imprese fu la risposta data non solo al sabotaggio borghese ma anche alla necessità di mobilitare centralmente la produzione. La guerra civile a sua volta privò le industrie degli operai migliori e più fedeli, inviati a costruire l'avanguardia dell'esercito e a formare quadri dell'amministrazione. Immensi territori agricoli devastati dalle operazioni militari o sottratti al potere sovietico privarono le città dei loro beni alimentari.

UN INIZIO DISASTROSO - A tutto ciò si aggiunse nel 1920 una carestia, proseguita nel 1921, nella regione del basso Volga, che portò, contando anche la guerra civile, alla morte di cinque milioni di persone circa. Alla catastrofe causata dalla carestia se ne uscì anche grazie all'intervento dell'Ara (American Relief Agency), dopo che Gorki aveva fatto un appello agli Stati Uniti.

L'intervento americano riuscì a contenere quella che poteva diventare una vera e propria ecatombe. I morti della carestia furono "solo" 500mila, contro i 10 milioni che si ipotizzarono se non si fosse intervenuti con aiuti massicci. Ma le condizioni economiche erano comunque terribili. Le poche fabbriche rimaste difettavano di materie prime. Iniziò la fuga dalle città. Qualche cifra: Pietrogrado passò dai 2.415.700 abitanti nel 1916 ai 740 mila del 1920, Mosca dal 1.940.000 del '14 al 1.200.000 del '20.

La produzione industriale era crollata paurosamente. Ma nemmeno la campagna stava bene. Nel 1921 il bestiame era ridotto a due terzi di quello del 1913, le pecore al 55%, i maiali al 40, i cavalli al 71. L'area seminata e i raccolti dei cereali e delle patate erano dimezzati. Per far fronte alla crisi, dal 1918 al 1920 fu instaurato il cosiddetto "comunismo di guerra". Fu introdotto un rigoroso razionamento. I disoccupati ricevevano un quarto della razione a loro destinata.

Squadre armate iniziarono le requisizioni forzate delle eccedenze nelle campagne per rifornire le città in ginocchio. La moneta si svalutò e le retribuzioni venivano pagate in natura. Dal 1914 al 1921, comprendendo anche la guerra mondiale e la guerra civile, morirono circa 28 milioni di persone. Per migliorare la produttività, i comunisti militarizzarono il lavoro: il controllo sui lavoratori era rigidissimo, non si poteva cambiare impiego, vennero esautorati i comitati operai di gestione. Vennero scelti dei direttori con poteri assoluti. Furono di nuovo utilizzati gli specialisti borghesi, con stipendi relativamente alti.

Era la fine della "dittatura del proletariato" vagheggiata da Lenin e l'inizio della "dittatura del partito". L'irrigidimento ulteriore del regime non poteva passare senza qualche tentativo di ribellione. Nella seconda metà del 1920 si ebbero rivolte nelle campagne, dove i contadini si opponevano alle requisizioni forzate.

MALCONTENTO NELLE FABBRICHE (*)

Anche nelle fabbriche cresceva il malcontento. Nel febbraio del 1921 scoppiarono scioperi e manifestazioni a Pietrogrado e Mosca, sanguinosamente repressi con l'impiego di truppe. Ma l'episodio più famoso, grave e emblematico fu la rivolta di Kronstadt. Kronstadt era stato uno dei baluardi della rivoluzione del 1917. Qui i marinai scesero in aperta rivolta, alla luce di un programma che chiedeva la fine della dittatura del Partito bolscevico, la restaurazione della libertà politica, la restaurazione di soviet liberamente eletti, la fine delle requisizioni forzate nelle campagne a danno dei contadini piccoli produttori. Nel frattempo, l'insoddisfazione degli operai delle città aveva trovato un referente politico in una corrente interna al Partito bolscevico, l' "opposizione operaia".

La rivolta di Kronsatdt durò dal 2 al 17 marzo. La repressione, condotta direttamente da Lenin e Trockij, fu durissima. I controrivoluzionari, senza processo, furono o fucilati o deportati. Intanto, l'8 giugno del 1922 si svolse il primo processo politico dell'éra comunista, processo che segnò la rottura con il socialismo internazionale. Sul banco degli imputati sedevano 27 socialrivoluzionari. Le udienze avevano una parvenza di regolarità che sembravano tranquillizzare i difensori giunti dall'Europa, tanto più che Bucharin a Berlino, qualche giorno prima, aveva promesso: "Niente condanne a morte". In realtà dopo i primi giorni di processo i difensori occidentali lasciarono Mosca per protesta contro l'iniquità del procedimento.

E la sentenza, nonostante le promesse di Bucharin, comminò ben 14 pene capitali. L'episodio accelerò la rottura del movimento bolscevico con i partiti socialisti europei. Proprio in quei giorni si aprì il X congresso del Pcus (Partito Comunista dell'Unione Sovietica). Due furono le grandi decisioni prese nel corso di questa assise. Furono vietate le correnti interne al partito e fu varata la Nep (Nuova Politica Economica). La prima comportò l'affermarsi del monolitismo anche interno al partito (Lenin, a proposito del dibattito interno, disse che si trattava di un lusso che "non possiamo permetterci"). Della democrazia nel regime comunista non c'era più nemmeno la parvenza.

IL PROGETTO DI LENIN 

I sindacati stessi diventarono uno strumento al servizio dello Stato. La Nep fu elaborata dallo stesso Lenin e aveva come scopo la ripresa economica, soprattutto nelle campagne. Le tasse furono ridotte del 40%. Dovevano essere pagate in natura (dal 1923 in danaro) secondo una quota fissa, il che doveva garantire ai produttori il possesso di eccedenze da vendere al mercato libero, incentivandoli alla produzione. Il commercio venne riaperto all'iniziativa privata, con la formazione della classe dei cosiddetti nepmen.

Gli sviluppi della Nep favorirono la ripresa delle piccole e medie aziende private, del commercio libero, dello scambio fra città e campagna. Nel 1925 i kulaki, cioè i contadini ricchi, furono persino autorizzati ad assumere mano d'opera salariata. Ma lo Stato mantenne nelle proprie mani il controllo delle "cime dominanti" dell'economia, secondo l'espressione di Lenin, vale a dire della grande industria, del settore bancario (crediti e investimenti), dei trasporti e del commercio estero. Se lo Stato manteneva un settore industriale eguale solo all'8,5, questo settore però concentrava l'84% dei lavoratori dell'industria e le imprese di maggiori dimensioni.

Il sistema che ne risultò fu, sempre secondo l'espressione di Lenin, un "capitalismo di Stato", un'economia mista statal-privatistica. Dove il "capitalismo" individuale e privatistico prese fiato fu nelle campagne: nel 1923 l'agricoltura era dominata da circa 25 milioni di piccoli produttori indipendenti. Parallelamente alla Nep, che si sforzò di stabilire nelle imprese un rapporto efficientistico fra redditività del lavoro e utilizzazione della mano d'opera, la disoccupazione andò crescendo. Da 150 mila disoccupati nell'ottobre 1921, si passò agli inizi del 1924 a 1.240.000, fino a raggiungere la cifra di oltre 2 milioni nel 1925. Il governo sovietico cercò di stabilire legami con capitalisti esteri, per attirarli in Russia a condizioni vantaggiose.
La prima fabbrica di trattori russa fu costruita a Carkov da Henry Ford, il grande capitano d'industria statunitense. Nonostante la Nep avesse stimolato la ripresa industriale e agricola, nel 1923 si fece minaccioso il divario che esisteva fra i prezzi dei beni industriali e quelli dei prodotti agricoli (la cosiddetta "crisi delle forbici"), e quindi si faceva difficile lo scambio fra città e campagna.

NEP, IL PRO E IL CONTRO (*)

 I beni industriali risultavano decisamente troppo cari. La crisi fu combattuta con la riorganizzazione monetaria e un più stretto controllo dei prezzi in generale e degli investimenti. La Nep durò fino al 1928. I suoi risultati furono contraddittori. Da un lato essa stimolò la ripresa agricola, evitando la fame cronica; ma, lasciando ampio spazio ai contadini più ricchi, i kulaki, accrebbe enormemente l'influenza capitalistica nelle campagne. Un numero di salariati agricoli che ammontava nel 1927 a oltre cinque milioni lavorava per i kulaki. Questi, che disponevano delle maggiori eccedenze agricole, erano ormai in grado di controllare i rifornimenti delle città; prestavano allo Stato, per gli investimenti, somme rilevanti a tassi assai elevati; e richiedevano un aumento crescente dei prezzi agricoli.

Nell'insieme poi la produzione agricola, nonostante l'aumento della popolazione, rimaneva al di sotto del livello 1913. I kulaki formavano un vero e proprio strato sociale borghese potente e ostile al potere sovietico. L'industria, a sua volta, ebbe consistenti successi. Nel 1927-28 la produzione complessiva superò del 19,6% quella del 1913. Anche gli operai, che nel 1913 erano 2.592.000, passarono nel 1927-28 a 2.842.000.

Gli effetti della Nep erano tali da porre in contraddizione da un lato il controllo crescente della produzione agricola da parte dei kulaki e dall'altro quello dello Stato sull'industria. Per procedere ulteriormente nell'industrializzazione era necessario che le campagne si assoggettassero allo Stato. Dalla presa del potere dei bolscevichi furono elaborate due costituzioni. La prima venne approvata nel luglio 1918 dal V Congresso dei Soviet. Questa carta sanciva la dittatura del proletariato.

Nella Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato si affermava: "Il potere deve appartenere unicamente ed interamente alle masse lavoratrici ed ai loro autentici organismi rappresentativi: i soviet degli operai, dei contadini e dei soldati". Il suffragio universale era negato. Alle elezioni, infatti, non potevano prendere parte coloro che sfruttassero il lavoro altrui in qualsiasi forma, i membri del clero, gli ex poliziotti, i condannati a pene infamanti, gli alienati, i membri della famiglia imperiale.

IL VOTO DIFFERENZIATO - Per dare, in un paese a maggioranza contadina, un maggior peso ai proletari, in quanto classe più progressista e rivoluzionaria, si stabiliva un voto differenziato. L'organo massimo del potere, il Congresso panrusso dei soviet, veniva costituito dai delegati dei soviet locali, per l'elezione di ciascuno dei quali era necessario il voto di 25 mila abitanti delle città e di 125 mila abitanti delle campagne. Ad esso spettava il potere legislativo e costituzionale. Questo eleggeva il Comitato Esecutivo panrusso di 200 membri che a sua volta eleggeva il Consiglio dei Commissari del Popolo, il governo.

Lo Stato sovietico era una federazione. Nel dicembre 1922 il X Congresso panrusso dei soviet approvò la formazione di una Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss). La struttura costituzionale dell'Urss venne fissata dalla nuova costituzione approvata dal II Congresso dei Soviet dell'Unione nel gennaio 1924. Essa rimase in vigore fino al 1936. Rispetto alla prima costituzione, le novità più importanti erano quelle che sanzionavano il carattere federale dell'Unione e quindi anche le competenze del governo centrale.

Questo aveva competenza sugli affari esteri, sul commercio estero, sulle questioni militari, sui trasporti, sulle comunicazioni, sulla direzione politica, sulla pianificazione dell'economia nei suoi aspetti generali. Organi supremi dell'Unione erano: 1- il Congresso dei Soviet dell'Unione; 2- il Comitato centrale esecutivo dell'Unione; 3- il Presidium del comitato centrale esecutivo e il consiglio dei Commissari del popolo, il primo direzione politica suprema e il secondo dotato del potere esecutivo. In realtà, al di là delle formalità costituzionali, il potere effettivo lo deteneva il partito comunista, l'unico ammesso.

L'assise suprema del Pcus era il Congresso, che a sua volta eleggeva il Comitato centrale quale organo di direzione fra un Congresso e un altro, cui spettava a sua volta l'elezione dell'Ufficio politico. Al di là della struttura federale, il Pcus e lo Stato apparivano fortemente centralizzati, sotto il controllo dei vertici della struttura di comando. L'autonomia federale costituiva essenzialmente, nei fatti, una articolazione burocratico-amministrativa del centro.

LENIN VICINO ALLA MORTE 

Il 26 giugno 1922 Lenin soffre di un primo colpo apoplettico. Nel settembre il carismatico capo storico della rivoluzione d'ottobre torna al lavoro. Ma nel dicembre subisce un altro colpo apoplettico e un terzo nel febbraio del '23. All'XI Congresso del Pcus del 1922 Lenin aveva nominato Josif Vissarionovic Stalin, un georgiano, che si era distinto come studioso della questione delle nazionalità e per le sue provate capacità organizzative, segretario generale. Egli era entrato nel governo bolscevico quale commissario alle nazionalità fin dal primo governo, e durante la guerra civile aveva svolto un ruolo importante in campo militare. L'autorità di Stalin come capo bolscevico era notevolmente inferiore non solo a quella di Lenin e di Trockij, ma anche a quella di Bucharin, Zinov'ev e Kamenev.

Tuttavia in quanto segretario generale, Stalin acquistò una posizione che gli consentì di accrescere rapidamente la sua influenza sui quadri. Ma i suoi criteri autoritari di gestione del partito e la sua linea nel campo della delicata questione dei rapporti fra i russi e le altre nazionalità allarmarono a tal punto Lenin (che a conseguenza dei colpi apoplettici ricevuti potè solo saltuariamente, fino alla sua morte, agire in modo diretto), da indurlo a raccomandare nel suo Testamento politico (dicembre 1922-gennaio 1923) l'allontanamento di Stalin dalla carica di segretario generale, poichè questi non era in grado di usare con equilibrio il potere enorme che aveva concentrato nelle sue mani.

"Il compagno Stalin - scriveva Lenin -, divenuto segretario generale, ha concentrato nelle sue mani un potere immenso, ed io non sono sicuro che egli sappia sempre usare questo potere con sufficiente prudenza. (...) Stalin è troppo rude, e questo difetto, del tutto tollerabile nei rapporti fra noi comunisti, diviene intollerabile nell'incarico di segretario generale. Perciò io propongo ai compagni di pensare al modo di rimuovere Stalin da Quell'incarico". Lenin raccomandava infine di sostituire Stalin con un segretario "più leale". Durante la malattia di Lenin si scatenò una vera e propria lotta per il potere all'interno del gruppo dirigente del partito.

LA LOTTA PER LA SUCCESSIONE 

Sostanzialmente la lotta era tra Trockij e un triunvirato composto da Zinov'ev, Kamenev e Stalin. Trockij, che pure fino ad allora si era distinto come uno dei più tenaci centralizzatori, ora si preoccupava della "degenarazione burocratica" che si dilatava nel partito e nello Stato. E chiedeva che si procedesse ad una revisione dei criteri di gestione. Trockij venne attaccato e criticato duramente.
Si iniziò ad utilizzare contro di lui il fatto che egli soltanto nel 1917 si era unito ai bolscevichi, dopo avere fino ad allora tenuto posizioni ostili o differenti. Lenin morì il 24 gennaio 1924 e dopo la sua morte, la lotta all'interno del gruppo dirigente si inasprì ulteriormente. Il potente apparato burocratico, minacciato dalle posizioni di Trockij, si raccolse compattamente intorno a Stalin, fornendo a questo tutta la base di potere necessaria a rafforzare la propria posizione.

Oltre alla questione della burocratizzazione, un altro problema bruciante era quello della possibilità o meno di "costruire il socialismo in un paese solo". Anche qui la contrapposizione fra Trockij e Stalin era netta. Trockij era convinto che un paese arretrato come la Russia sovietica non avrebbe potuto, se rimasto isolato, arrivare a quel grado di ricchezza sociale necessario per dare un contenuto concreto al regime socialista, regime che poteva porre le basi dell'eguaglianza unicamente su un grande sviluppo della produzione.

L'isolamento avrebbe costretto l'Urss non solo a subire il peso della propria arretratezza, ma anche a dedicare enormi risorse alla difesa. Il socialismo invece poteva nascere solo dalla rivoluzione internazionale, da un mercato unico mondiale, dalla pace. L'Urss doveva quindi agire al fine di potenziare i germi di rivoluzione nel mondo capitalistico; e, in attesa della rivoluzione internazionale, cercare di assicurare all'interno una più netta supremazia del proletariato industriale sui contadini. Bisognava compiere il massimo sforzo per accelerare l'industrializzazione; e abbreviare i tempi della Nep, che, dando fiato agli elementi capitalistici, minacciava il potere sovietico. La teoria di Trockij di un ininterrotto processo rivoluzionario, interno ed esterno, costituiva uno sviluppo della sua concezione della "rivoluzione permanente".

IRRESISTIBILE ASCESA DI STALIN (*)

Per contro Stalin, appoggiato da Bucharin, seguiva posizioni opposte. Egli nel 1924 ruppe decisamente con la teoria, che fino ad allora era stata patrimonio comune dei bolscevichi, secondo cui la Russia con le sue sole forze non avrebbe potuto costruire un regime socialista; e nell'ottobre del 1924 diede la seguente formulazione della teoria della costruzione del socialismo "in un paese solo": "La vittoria del socialismo in un solo paese, anche se questo paese è capitalisticamente meno sviluppato e il capitalismo continua a sussistere in altri paesi, sia pure capitalisticamente più sviluppati, è perfettamente possibile e probabile".
Questa posizione corrispondeva pienamente alle esigenze dei quadri del partito e dello Stato. Questi non credevano più ad una imminente rivoluzione internazionale, desideravano sviluppare il proprio paese, farne uno stato potente e industrialmente avanzato. Volevano incrementare all'interno il peso del proprio ruolo direttivo utilizzando la forza degli organi statali.

Dopo la morte di Lenin il potere di Stalin aumentò rapidamente. Indebolitasi la posizione di Trockij, che era stato considerato, vivente Lenin, il suo naturale successore nella guida del partito e del paese, anche Zinov'ev e Kamenev, a loro volta preoccupati del sempre maggiore potere personale di Stalin, si accostarono a Trockij. Ma ormai il georgiano aveva in mano tutte le leve del potere e cominciò ad utilizzare le maniere forti per liberarsi dei rivali. Nel 1925 Trockij viene estromesso dal governo, nel '27 espulso dal partito, nel '28 deportato e nel '29 espulso dall'Urss. Anche i seguaci di Trockij, Zinov'ev e Kamenev vennero deportati. Stalin era ormai il capo incontrastato dell'Urss. Al suo fianco, tra i capi storici del bolscevismo, rimase solo Bucharin, in posizione defilata. Il primo obiettivo di Stalin fu l'industrializzazione dell'Unione Sovietica e per questo scopo aveva bisogna di una rigida organizzazione del lavoro, che realizzò a costo di violenze inaudite. Il compito storico del georgiano era quello di fare dell'Urss una potenza in grado di resistere militarmente in una guerra moderna, mondiale, e dare ai russi una coscienza nazionale che ne seppellisse il senso di inferiorità di fronte all'Occidente progredito.

VIA ALL’INDUSTRIALIZZAZIONE (*)

Era l'affossamento della rivoluzione, almeno nei suoi propositi ideali e teorici. Nel febbraio del 1931 Stalin affermò a tutte lettere l'urgenza dell'industrializzazione per far fronte alla minaccia delle grandi potenze capitalistiche contro l'Urss. "La Russia - disse - fu sempre battuta a causa della sua arretratezza. Lo fu dai khan mongoli, dai bey turchi, dai Pan di Polonia e Lituania, dai capitalisti anglo-francesi, dai baroni giapponesi, da tutti, e questo a causa della sua arretratezza. (...) Siamo da cinquanta a cento anni indietro rispetto ai paesi più progrediti. Dobbiamo colmare questa differenza. O lo facciamo o ci schiacceranno".

La prima mossa di politica economica del dittatore fu quella di porre fine alla Nep. La Nuova Politica Economica nel biennio 1927-28 aveva ridato fiato alla produzione, soprattutto agricola, creando però un sistema misto, dove ricompariva il mercato e una classe capitalista, quella dei kulaki. Stalin aveva di fronte a sè due alternative: o lasciare sussistere la Nep e lasciare al mercato il compito di aumentare la ricchezza nella campagne e quindi anche della domanda di beni industriali; oppure, chiudere con quella esperienza e scegliere la via del dirigismo e del controllo diretto dello Stato sul sistema economico, confiscando e collettivizzando le terre. Stalin scelse questa seconda linea. Con la sua svolta, venne a scontrarsi con Bucharin, fino ad allora suo alleato, il quale era stato il teorico della Nep e si opponeva ad una politica di industrializzazione e collettivizzazione agricola forzate, che avrebbero a suo avviso portato il paese a tensioni insopportabili e minacciato uno sviluppo economico promettente. Bucharin diventò così un oppositore "di destra".

Stalin era deciso a sfruttare l'agricoltura senza limiti e senza badare ai costi umani a favore dell'industria; a mantenere bassissimo il tenore di vita di tutti i lavoratori per aumentare la quota da destinare agli investimenti; a fronteggiare le tensioni con la repressione e il terrore; tutto questo al fine di costruire in pochi anni una grande industria di ampie dimensioni. Per quanto riguardava le campagne, poichè nel 1928 si profilava una caduta dei rifornimenti agricoli preoccupante, egli decise l'eliminazione dei kulaki come classe.

L’ELIMINAZIONE DEI KULAKI (*)

Nell'ottobre del 1928 fu elaborato il primo piano quinquennale. Nel frattempo, nel XV Congresso del Pcus era stata elaborata una nuova politica verso le campagne. La possibilità di affittare terre e assumere mano d'opera da parte dei kulaki fu limitata e venne affermata la necessità di procedere verso la collettivizzazione delle terre. I kulaki reagirono limitando le consegne dei prodotti, il governo rispose con le confische. I kulaki cominciarono ad essere perseguitati e imprigionati.

Al XVI Congresso del Pcus del 1930 fu condannato il deviazionismo di "destra" di Bucharin. Poichè i kulaki risposero alla politica staliniana con il saboraggio aperto (macellavano in massa il bestiame e riducevano le aree seminative), Stalin lanciò, fra il 1929 e il 1930, la linea generale della collettivizzazione delle terre, esortando i contadini poveri e medi a costituire fattorie collettive che sarebbero state tecnicamente aiutate dallo Stato e reprimendo in modo generalizzato i kulaki. Il terrore fu scatenato nelle campagne contro gli oppositori e a favore della collettivizzazione. La classe dei kulaki fu sterminata.

Sotto questa spinta, la percentuale delle aziende collettivizzate, che nel 1928 era dell'1,7%, nel marzo 1930 arrivò al 58%. Nel 1932 oltre la metà dei contadini erano ormai organizzati nelle fattorie collettive. La lotta per la collettivizzazione danneggiò paurosamente il patrimonio zootecnico. La struttura aziendale delle campagne si divise in kolchozy, imprese agricole nelle quali i partecipanti usavano collettivamente la terra (di proprietà statale) e i mezzi tecnici per la coltivazione; era lasciata a ciascun membro la proprietà individuale dell'abitazione e l'uso di una piccola area di terra e di qualche bestia. E i sovchozy, interamente statali, nelle quali i contadini erano degli operai agricoli.

Lo Stato si impadroniva di una quota fissa di quanto producevano i kolchozy. Nel 1940 il processo di collettivizzazione si poteva dire terminato: il 96,9% delle aziende erano collettive. Nel 1928 partì il primo piano quinquennale per l'industria, mentre il privato del commercio e dell'industria andava progressivamente sparendo. Il commercio passò alle cooperative o direttamente allo Stato.

IL DURO PREZZO DELLA POTENZA L'industria fu interamente nazionalizzata. Nel 1929 la produzione quadruplicò e la disoccupazione, in virtù delle deportazioni e del lavoro forzato, scomparve. Il piano quinquennale prevedeva lo sviluppo dei mezzi di produzione e quindi uno stimolo a lavorare carbone, ferro, acciaio, petrolio, macchine industriali. L'Urss si caratterizzò da subito per la sua industria pesante. A prezzi spaventosi, con una produzione aumenta enormemente ma anche con il razionamento dei beni di consumo e una spremitura senza precedenti della mano d'opera, con Stalin l'Urss divenne una grande potenza.

Il II Piano quinquennale (1933-'37) continuò lo sviluppo enorme della produzione industriale, che alla fine della sua realizzazione aumentò del 121% rispetto al 1932. Enormi risorse furono investite per il riarmo. Con il secondo piano si allargò l'area di produzione agli Urali, la Siberia e la Transcaucasia.

Tra i molti prezzi che l'Urss dovette pagare per l'industrializzazione forzata voluta da Stalin, ci fu anche quello di una fortissima disciplina nel mondo del lavoro. Per prima cosa il dittatore georgiano rese impotenti i sindacati, subordinandoli allo Stato. Venne inoltre drasticamente contenuto il monte salari, al fine di mantenere bassi i consumi e favorire la disponibilità massima di capitali per gli investimenti e quindi per l'allargamento ulteriore dell'industria. Michail Tomskij espresse preoccupazione per il basso livello di vita degli operai e fu eliminato. L'eliminazione degli oppositori, con purghe, deportazioni e uccisioni, era diventato il metodo abituale della politica di Stalin, che cominciò anche la deportazione di massa di intere etnie, allo scopo di concentrare mano d'opera dove servisse e di eliminare qualsiasi rigurgito nazionalista.
La disciplina nel lavoro era resa ancor più necessaria con gli operai provenienti dalle campagne, non abituati ai ritmi e alle rigidità del lavoro in fabbrica. Veniva inoltre impedito agli operai di cambiare occupazione. Una piccola svolta avvenne nel 1929 quando Stalin fece dell'emulazione un principio permanente e strategico. Ogni proposito di livellamento retributivo venne denunciato, a partire dal 1930, come sabotaggio.

L’INVENZIONE DELLO STACHANOVISMO (*)

In un discorso ai dirigenti industriali Stalin disse apertamente: "Il livellamento ha come risultato che l'operaio non qualificato non è interessato a passare nella categoria degli operai qualificati ed è in tal modo privo della prospettiva di avanzamento. (...) Per eliminare questo male bisogna sopprimere il livellamento, bisogna spezzare il vecchio sistema delle tariffe". I lavoratori più produttivi vennero elevati ad eroi del lavoro socialista, premiati, additati a modello, e pagati in misura corrispondente. nel 1935 si diffuse il movimento "stachanovista", che prese inizio dalle prestazioni di un minatore, Aleksej Stachanov, il quale aveva in un solo turno di lavoro prodotto 102 tonnellate di carbone, superando di quattordici volte la norma. Ma non mancarono le tensioni, all'interno di una classe operaia che soffriva di diseguaglianze maggiori che non quelle del mondo capitalista.

 di PAOLO AVANTI

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