la
madre: MARIA CRISTINA DI FRANCIA
" MADAME REALE"
(n.1606 - m. 1663)
Il primogenito
di Vittorio Amedeo I aveva appena cinque anni, quando per
la morte del padre ebbe l'eredità ducale.
Quindi, la successione toccò in realtà alla
vedova del defunto duca, Maria Cristina di Francia, che
appena trentenne e nella pienezza della vitalità
e dell'attività mentale, assunse la reggenza dello
Stato nella quale, come vedremo, diede prova di grandi qualità.
Nell'anno seguente,
il piccolo Francesco Giacinto, che per la sua debolezza
organica aveva fatto prevedere già dai primi mesi
di vita una fine precoce, cessò di vivere, e a lui
successe, ancora sotto la reggenza della duchessa vedova,
il secondogenito CARLO EMANUELE, che allora (1638) aveva
poco più di quattro anni, e sulle cui condizioni
di salute correvano voci ben poco rassicuranti.
MARIA
CRISTINA di Borbone,
figlia di Enrico IV re di Francia, detta "MADAMA REALE"
per la sua origine regia, fu donna bellissima, affascinante,
galante, volubile, pure essendo in certe cose molto ostinata,
e diffidente, e gelosissima della propria autorità.
Il Cibrario afferma, però, che malgrado la diffidenza
che la distingueva, ella era assolutamente incapace di custodire
un segreto, « a tal segno che l'ambasciatore francese
d'Emery, stancandola con due o tre ore di colloquio ogni
giorno, finiva con lo spillarle sempre qualcosa».
Pur essendo
ancora quasi bambina, aveva nutrito un'ardente passione
per il principe di Galles, ma poi appena dodicenne andò
sposa a Vittorio Amedeo I di Savoia. In quei tempi, come
si sa, i matrimoni principeschi si combinavano senza che
alcuno si curasse della volontà degli sposi. Soltanto
la politica li consigliava, li confermava. Da ciò
naturalmente aveva origine, assai spesso, l'infelicità
di due esseri congiunti indissolubilmente senz'averlo desiderato
per reciproca simpatia.
Maria Cristina
di Francia, come tante altre principesse d'allora, fu condotta
al talamo mentre aveva nel cuore l'immagine d'un altro uomo,
e senza che neppur conoscesse il marito, i parenti, il popolo
di cui doveva diventare signora. Fortunatamente per lei,
le cose andarono nel migliore dei modi. Vittorio Amedeo
I, presto conquistato dalla straordinaria avvenenza di lei,
l'amò d'un amore esclusivo e geloso, rendendosi schiavo
dei voleri ch'ella manifestava, anche nei più gravi
affari di Stato. Ed ella, nonostante il temperamento passionale
e quella innata inclinazione alle avventure amorose che
nocquero alla sua reputazione, gli fu certamente compagna
affezionata.
Vittorio Amedeo
morì il 7 ottobre 1637, in circostanze tali da far
correre la voce che fosse stato avvelenato per istigazione
del Richelieu, che, volendo sottomettere completamente alla
Francia il Piemonte, poteva aver visto in lui un ostacolo
da sopprimere, tanto più pel fatto che lo Stato avrebbe
potuto esser retto da una principessa francese.
Fu opinione generale che la volontà di Vittorio Amedeo
I circa la reggenza da lui lasciata alla moglie, fosse interpretata
dai parenti, quasi tutti francesi, piuttosto che espressa.
« Il Duca era moribondo, dice il Cibrario, quando
nell'interesse di Cristina ed in quello di Francia gli si
propose di testare lasciando la reggenza alla moglie. Egli
non ne ebbe la forza. Allora fu interrogato dal confessore,
Padre Broglia domenicano, se non avesse intenzione di costituire
la moglie tutrice e reggente. Il moribondo mandò
fuori un sospiro che rassomigliava ad un sì; e di
quel sì fu steso un atto che venne sottoscritto da
nove testimoni. Questo fu il fondamento della reggenza di
Madama Reale ».
Morto Vittorio
Amedeo, il cardinale di Richelieu concepì tutto un
piano per raggiungere quei suoi scopi politici che la presenza
del duca aveva resi difficilmente realizzabili. Nell'ipotesi
che i due figli di Vittorio Amedeo, fanciulli gracilissimi,
avessero a campare, e sfruttando la reggenza di una donna
bella, leggera, tenera e sensibile alle adulazioni e alle
lusinghe, qual'era Cristina, egli sperava di rendere la
monarchia di Savoia, se non suddita, almeno vassalla della
Francia, e di giovarsi di essa per cacciare dall'Italia
gli Spagnoli e per soggiogare la penisola. Nell'ipotesi,
invece, che i due figli di Vittorio Amedeo morissero, egli
si proponeva di escludere dalla successione il principe
Tomaso di Carignano, e il cardinale Maurizio di Savoia,
ai quali sarebbe spettata di diritto, secondo le antiche
leggi della monarchia, e di farla passare alle femmine,
per dare poi in moglie al Delfino la primogenita del duca
defunto.
Per realizzare
questi progetti, Richelieu aveva pensato di mandare presso
Maria Cristina "l'homme le plus corrompu de France",
il Particelli d'Emery, cieco strumento dei suoi voleri,
il quale, per cattivarsi gli animi nel Ducato, cominciò
col dispensare pensioni e benefizi ecclesiastici e con l'offrire
vantaggiosi matrimoni in Francia ai principali ministri
e ai personaggi più potenti. Madama Reale non lo
poteva soffrire, e cercava di resistere alla sua influenza
tenendosi vicini due uomini di provata fede: il conte Filippo
d'Agliè ed Padre Pietro Monod, gesuita. « Il
primo, scrisse il Cibrario, ne signoreggiava il
cuore; il secondo ne regolava la coscienza, e tutti e due
pretendevano reggerne la politica ».
Ma Cristina
non aveva intenzione di farsi comandare nè dirigere
da chicchessia, e di ciò diede prova per la prima
volta, immediatamente dopo esser rimasta vedova, -quando,
correndo voce che i Francesi volessero impadronirsi di Vercelli
e tenere in loro potere il duchino e lei, ad Emery e ad
un altro emissario del ministro di Francia, che le si erano
presentati per scoprire le sue intenzioni, rispose risolutamente
che intendeva conservare la propria libertà, e comandò
alle milizie piemontesi di occupare Vercelli e di impedire
che i Francesi vi entrassero.
Ma le buone intenzioni non valgono a sostituire nè
la forza, nè l'autorità morale che in certi
casi può tener luogo della potenza, e Cristina non
potè, come avrebbe voluto, rimaner neutrale tra la
Francia e la Spagna, e si vide costretta ad allearsi con
la prima.
Ella d'altronde
non dovette soltanto lottare per l'indipendenza del suo
Stato di fronte alle pretese straniere; dovette anche aver
cura della successione dei propri figli, difendendola contro
le aspirazioni
del cardinale Maurizio di Savoia, che viveva a Roma, e contro
quelle del principe Tomaso di Carignano, che militava nelle
Fiandre. Quei principi erano tutti e due devoti alla Casa
d'Austria, e tutti e due indotti dalle ragioni del sangue
e dai precedenti della famiglia a prender parte agli affari
dello Stato, in molte cose, opponendosi alla duchessa, francese
per nascita e per sentimenti, e nemica della Spagna, di
cui essi erano invece fautori. Si aggiunga che il cardinale
Maurizio era stato, un tempo, innamorato della bella duchessa,
la quale lo aveva respinto, e che egli allora si era vendicato
denunciandola come infedele a Vittorio Amedeo I. Inoltre
le popolazioni, immiserite dal continuo stato di guerra,
aspiravano vagamente all' indipendenza dagli stranieri,
e odiavano in ugual misura i Francesi e gli Spagnoli; i
primi, alleati e protettori di Madama Reale; i secondi,
amici del cardinale Maurizio e del principe Tomaso.
Il Senato proclamò
senza indugio la duchessa « tutrice e reggente
», dovendosi tenere per certo (così fu
scritto) che sotto la reggenza di lei e la protezione di
Sua Maestà il re di Francia, « il paese
sarebbe per godere intera pace e felicità ».
Da un certo punto di vista, l'aspettativa del Senato non
ebbe a rimanere delusa, poichè la duchessa emanò
delle disposizioni tendenti a diminuire i pubblici aggravi.
« Ma come scrisse un contemporaneo, sul
finire del regno di Carlo Emanuele II, la nobiltà
nel tempo di Madama Cristina, con l'occasione delle guerre
civili, era divenuta così altiera e signoreggiante
che strapazzava i suoi sudditi, e da vassallo ognuno la
voleva far da duca, come se fosse stato unico padrone. Di
più, sotto pretesto di quartier d'inverno, i nobili
avevano comprato dagli ufficiali delle quietanze sopra le
comunità, comprando a dieci quello che valeva quaranta,
e le comunità si trovavano aggravate al maggior modo
».
Una delle prime
cure della duchessa fu di adoperarsi a tenere lontani dal
Piemonte i cognati, cardinale MAURIZIO e principe TOMASO,
e di far togliere i sequestri che erano stati messi sui
loro appannaggi. Ma il cardinale Maurizio (cardinale senz'esser
stato iniziato agli ordini sacri, bell'uomo, letterato,
protettore di letterati, fondatore di accademie, ben voluto
e desiderato dal popolo), appena informato della morte del
duca, da Roma dove risiedeva si era recato a Savona, ed
aveva inviato a Madama Reale un abate (l'abate Soldati)
per chiederle un colloquio, dichiarando che intendeva recarsi
da lei per obbedirle e per rimettersi in ogni cosa ai voleri
di lei. Forse gli balenò nella mente la speranza
«di poter
sposare finalmente la vagheggiata cognata»,
come dice uno storico, ma più probabilmente fu mosso
soltanto da ragioni politiche.
Ad ogni modo,
Cristina, consigliata dal gesuita Monod suo confessore a
ricevere il cognato, esortata invece a respingerlo dal cardinale
Richelieu, che le faceva intendere com'egli dovesse esser
venuto soltanto per toglierle il potere, e che insisteva
per avere da lei facoltà di arrestarlo, mandò
a dire a Maurizio di ritornarsene a Roma, dato che la sua
presenza in Piemonte avrebbe potuto esser causa di gravi
inconvenienti. Il cardinale di Savoia le oppose delle condizioni,
volle essere pubblicamente pregato, e non ricevere l'ordine,
di ritornarsene a Roma. Pretese delle somme non indifferenti,
a titolo di appannaggi arretrati, e delle grazie per alcuni
suoi amici piemontesi, e poi s'indugiò per un certo
tempo a Genova, a brigare con gli Spagnoli per non ritirarsi
scornato. Ma allora la Corte di Madrid non gli diede retta,
ben sapendo che in quel momento egli pensava sopra tutto
a se stesso, senz'essere in realtà fautore della
Spagna più di quanto potesse esserlo della Francia.
Il principe
Tomaso di Carignano, dal canto suo, aveva saputo tardi,
nelle Fiandre, della morte del duca Vittorio Amedeo suo
fratello, e aveva scritto che se il cardinale Maurizio avesse
avuto una parte nel governo, non si sarebbe mosso, ma che
in caso contrario sarebbe accorso a liberare dall'ingerenza
francese la cognata reggente e la sicurezza dello Stato.
Ma per allora non ne fece nulla. Il cardinale Maurizio,
essendosi persuaso che non avrebbe trovato aiuti per entrare
in Piemonte, si rassegnò a ritornare a Roma, mentre
a Torino, intorno alla duchessa, gli agenti francesi facevano
tutto il possibile per allontanare i fautori dei cognati
di lei, primo fra tutti il gesuita Monod, che infatti venne
confinato a Cuneo.
Le complicazioni
gravi, però, vennero più tardi quando, morto
il piccolo duca Francesco Giacinto, cominciò il secondo
periodo della reggenza di Madama Reale, che continuò
a governare per conto di Carlo Emanuele II. Questo principe
prima della morte del fratello, aveva costituito un gradino
intermedio fra il successore del duca defunto e il cardinale
Maurizio. Ormai quel gradino non esisteva più, ed
il fastoso prelato si era avvicinato di più alla
corona ducale, che sarebbe toccata a lui qualora anche Carlo
Emanuele II fosse morto senza lasciar figli come si prevedeva.
Il nuovo giovanissimo
duca era anch'egli gracile e malaticcio, ed era diffusa
la voce a cui abbiamo accennato, secondo la quale, morto
lui, il cardinale Richelieu, sopprimendo la consuetudine
e la regola per cui le donne di Casa Savoia erano escluse
dalla successione, avrebbe fatto sì che venisse chiamata
a succedergli la sorella Luisa, alla quale avrebbe dato
per marito il Delfino. Così i territori della Savoia
e del Piemonte sarebbero divenuti, di fatto, possedimenti
francesi.
È inutile dire di quanta inquietudine fossero causa
al cardinale Maurizio queste possibilità, che furono
le ragioni per le quali, deciso ad agire risolutamente,
egli si recò a Chieri ad aspettare che una congiura
ivi ordita gli aprisse le porte di Carmagnola e della cittadella
di Torino.
Ma quella congiura
venne scoperta, e il cardinale allora si ritirò in
certe sue terre di Lombardia, dove lo raggiunse il fratello
Tomaso. Ben sapendo che le forze di cui potevano disporre
non sarebbero bastate a sostenerli o a difenderli, i cognati
della Reggente di Savoia invocarono ed ottennero aiuti spagnoli.
Invano la duchessa cercò di opporsi a questa intesa
dei due fratelli con la Spagna; gli avvenimenti precipitarono,
e il 27 marzo 1639 il principe Tomaso, alla testa di duemila
dragoni comparve davanti a Chivasso, i cui abitanti, favorevoli
ai fratelli Sabaudi in quanto erano ostili alla duchessa
francese, si affrettarono ad aprirgli festosamente le porte.
Il principe
Tomaso riportò rapidamente altri successi. Occupò,
oltre a Chivasso, Biella, Aosta, Asti e Trino, ed infine,
negli ultimi giorni di agosto, s'impadronì anche
di Torino. Frattanto, suo fratello, il cardinale Maurizio
aveva occupata la contea di Nizza. In tutti questi luoghi,
gli abitanti non esitarono a giurar fedeltà ai due
principi, riconoscendoli come soli Reggenti dello Stato
e soli tutori del duca fanciullo Carlo Emanuele II.
Ma le popolazioni di tutto il Ducato si divisero poco dopo,
in due partiti: quello dei Madamisti, che portavano al cappello
nastri bianchi e celesti, e quello dei Cardinalisti, che
adottarono un nastro azzurro. Gli animi s'accesero, e la
guerra civile non tardò a scoppiare. «
Chi potrebbe dire, scrive il Ricotti, che cosa divenne allora
il Piemonte, dove gli stranieri combattevano con gli stranieri,
i cittadini coi cittadini, i parenti coi parenti? Si vedeva
Chivasso armato contro Torino, Vercelli contro Santhià,
Trino contro Casale, Cuneo contro Savigliano, Saluzzo contro
Pinerolo, Asti contro Alba, e su questa città le
bandiere di Spagna, su quella i vessilli di Francia. Nè
solo nelle città, ma anche nelle campagne imperversava
la rabbia omicida, e agli odi pubblici s' intrecciavano
i rancori privati. Preti e frati partecipavano al terribile
sconvolgimento, e di essi i più parteggiavano per
i due principi fratelli, uno dei quali era cardinale di
Santa Chiesa».
In mezzo a
tanto subbuglio, Richelieu consigliò al re di Francia
di recarsi a Grenoble, di chiamarvi Madama Reale ed il piccolo
duca, di trattenere questi presso di sé col pretesto
di garantirne la sicurezza, e di farsi consegnare dalla
sorella duchessa la fortezza di Monmeliano per occuparla
con soldati francesi. Ma Cristina, comprendendo che il cardinale
mirava ad impadronirsi irrevocabilmente dei domini della
Casa di Savoia, seppe sfuggire all'insidia. Rinchiuse il
figlio nel castello di Monmeliano, ordinando solennemente
al comandante della piazza di non consegnare ad alcuno nè
il duchino nè la fortezza, quand'anche gli venisse
presentato un ordine scritto da lei e a meno che ella venisse
in persona a revocare quegli ordini. Poi si recò
direttamente a Grenoble, dove, aiutata dal suo fedele conte
d' Agliè, seppe resistere con mirabile costanza,
e non inutilmente, alle abilissime lusinghe
ed alle minacce del cardinale di Richelieu.
Finalmente,
nel 1642, quando le popolazioni piemontesi furono stanche
delle prepotenze francesi, e quando i principi fratelli
si furono persuasi che la Spagna, intervenendo nelle cose
del Piemonte, agiva molta più nel proprio interesse
che non nel loro, le due parti contendenti, oramai decise
a far cessare la guerra civile, che ancora insanguinava
il paese, iniziarono dei negoziati che furono assai lunghi,
ma che ebbero per conclusione dei giusti accordi.
A Madama Reale
rimase la reggenza, ma i suoi cognati vi ebbero qualche
partecipazione; e per ottenere che la Francia restituisse
le fortezze occupate, essi dovettero abbandonare la bandiera
spagnola e mettersi sotto l'egida di quella francese. Intanto
la duchessa attendeva ansiosamente il 20 giugno 1648, termine
della minorità del duca Carlo Emanuele II, che ormai
avrebbe assunto direttamente il potere. « È
vero per altro - così un biografo - che
il duca giovinetto, sebbene mostrasse una grande vivacità
di spirito, non aveva nè forza, nè mente,
nè finanche statura corrispondenti all'età
sua, cosicchè molti speravano, mentre molti altri
temevano, che la Duchessa. pur ritirandosi apparentemente,
avrebbe continuato in realtà a tenere la reggenza.
Così infatti ella fece, attraverso fortunose e talvolta
drammatiche vicende, fino al 1662, anno nel quale Carlo
Emanuele II sposò Francesca d'Orléans ».
Madama Reale
non prese parte alcuna al nuovo tentativo di pacificazione
dei Valdesi fatto da Carlo Emanuele II nel 1657, dopo che
essi ebbero ancora una volta resistito alle armi ducali.
Da parecchio tempo ella aveva cessato d'occuparsi delle
cose dello Stato e conduceva vita ritiratissima, dedicandosi
con ardore alle pratiche religiose. Faceva gli esercizi
spirituali quattro o cinque volte all'anno, in questo o
quel convento, per quattro giorni e tre notti di seguito,
« battendosi con la disciplina, portando ai fianchi
il cilicio, sulle carni, e una corda al collo e sul capo
una corona di spine, e recando sulle spalle una pesantissima
croce. Ascoltava, sempre in ginocchio, quindici messe di
seguito, poi si gettava a terra sulla soglia della chiesa,
e voleva che tutte le monache le passassero sul corpo in
processione e che ciascuna coi piedi le premesse la gola
».
Quale e quanta
trasformazione, fosse dunque avvenuta nella bellissima,
orgogliosa, elegante e galante Madama Reale, è dunque
facile pensare, e quanto grande debba esser stata in lei
l'alterazione della mente e del fisico negli ultimi anni
della sua vita è pure evidente.
Morì il 27 dicembre del 1663, forse appunto per effetto
de' suoi eccessi di mortificazione.
«Madama
Reale Cristina - dice il Cibrario - ebbe alcune
qualità veramente regie: coraggio, grandezza d'animo,
liberalità, anzi quasi prodigalità, non mediocre
ingegno, labbro facondo, con cui passando fra le squadre
arringò talora i soldati. Serbò fede al Piemonte
ed ai figliuoli; fu di tempra amorosa leggera ed incostante;
diede troppo favore e lasciò prendere troppa baldanza
ai nobili, i quali al suo tempo inventarono genealogie favolose,
origini poetiche e documenti mai più veduti. Cristina
può appuntarsi di errori propri del suo sesso, non
di crudeltà e lascivie, come ne divulgarono, anche
per le stampe, bugiarde voci i satelliti di Richelieu e
alcuni principi focosi ».
Madama Cristina
fu splendida anche nel far costruire monumenti religiosi.
Per volere suo e secondo le sue disposizioni vennero edificati
in Torino i conventi di San Francesco da Paola e di Santa
Teresa, come pure la chiesa e il monastero di Santa Cristina.