Analisi e contributi critici allo studio della storia italiana
di F. R. (Francesco Rossi) e  L. M. (Luca Molinari)

(per "Storiologia" e "Cronologia" )

 
L’ITALIA UNITA - 1861 - 2000     Analisi del sistema politico italiano

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* CATTOLICI IN POLITICA O PARTITO DEI CATTOLICI (di F.R.)
(*) IL FANTASMA DI VIA FANI (di L.M.)
(*) RICORDANDO LA NOSTRA STORIA (di L.M.)

 

(*) CATTOLICI IN POLITICA O PARTITO DEI CATTOLICI 

La politica è “la forma più alta di carità” (Papa Giovanni XIII), è l’impegno di ciascuno in un contesto pubblico per rendere migliore la società in cui vive. Tutti gli uomini devono sentirsi chiamati in causa in quanto parte di una società che li comprende e, quindi, ha bisogno del loro contributo. Poiché abbiamo detto che la politica è impegnarsi per gli altri, ogni cattolico è chiamato in prima persona a dare il suo contributo. 
La recente storia del nostro paese mostra il ruolo egemone che il “partito dei cattolici” ha esercitato, fino agli anni ’90, quando il sistema partitico della Prima Repubblica si è frantumato, rendendo possibile l’edificazione di un nuovo sistema, nel quale componenti cattoliche sono presenti lungo tutto l’arco partitico. Questo sistema non si è ancora stabilizzato, tanto è vero che, oggi, è soggetto a spinte contrapposte: l’una volta a restaurare il vecchio centrismo con un partito dominante attorniato da possibili alleati, l’altra tesa a costruire un sistema bipolare compiuto, con un’alternanza tra due blocchi distinti e contrapposti. 

Partiti come il Cdu di Buttiglione e buona parte di Forza Italia percorrono in maniera più o meno velata la strada centrista, nella speranza di poter diventare, appunto, il centro, ossia i dominatori incontrastati della scena politica del domani. 

Questa scelta rimetterebbe in campo, inevitabilmente, i difetti della Prima Repubblica, in primis l’irresponsabilità derivante dall’impossibilità di trovare gli autori di una determinata politica (sempre pronti ad adottare la pratica dello scaricabarile) e di avere una reale alternativa a chi detiene il potere.

 A questa voglia di restaurazione si contrappongono tutte quelle forze politiche che vogliono fare dell’Italia un paese compiutamente bipolare, con un centrosinistra coeso e contrapposto ad una destra moderna (anche un’opposizione matura e responsabile è importante: sostiene, infatti, un illustre politologo che “la qualità del governo dipende dall’opposizione”). Ritengo che questo sia l’esito auspicabile della transizione politica italiana: così si potrà realizzare, finalmente, quell’alternanza in vista della quale governo e opposizione dovranno operare per il bene del paese, dal quale verranno giudicati e, se del caso, sanzionati. 

Pensando, dunque, ad una Italia bipolare o, quantomeno, in cammino verso il bipolarismo, passo ad analizzare il ruolo dei cattolici in questo sistema. Cattolico non è una categoria politica (anche se a lungo è stata confusa con l’appartenenza ad un partito): si può essere cattolici ed aderire ad una ricetta di sinistra, oppure essere cattolici e pensare che il bene della nazione lo realizzi la destra. In questo senso, dunque, si può capire la presenza di persone cattoliche nei diversi schieramenti politici: il cattolico è un cittadino che opera nella società con lo stile della gratuità e della carità, non è un integralista che dall’alto della sua torre d’avorio cerca di combattere gli eretici. Non essere relegati in un partito unico, contrapposto agli altri (gli “eretici”) è una grande ricchezza per i cattolici: non già nel senso che possono fare così trionfare in qualunque modo oscuri interessi lobbistici, ma per essere “sale della terra”, per dare una testimonianza di fede che si tramuta nell’operare per il bene del prossimo e del proprio paese, qualunque sia la ricetta che si decide seguire. 

Così viene a cadere la dicotomia cattolici – laici, intesa come i buoni contro i cattivi: colui che milita nello schieramento opposto non è un nemico da annientare, ma un fratello da amare e da rispettare, che la pensa diversamente da me. Questo è il grande insegnamento che un cattolico impegnato in politica può dare, questa è la testimonianza autentica dell’essere cristiano. Va da sé, quindi, che ciascuno ha un’idea politica ed è bene che la esprima, ossia prenda parte all’agone politico. Un’eccezione a ciò, però, dovrebbe essere costituita dai ministri del culto, ossia i preti e, soprattutto, i vescovi. Questo non significa che in una parrocchia la politica sia un argomento tabù: la parrocchia è composta da laici aventi come guida nel parroco e sono proprio questi laici che possono, anzi devono, impegnarsi in politica. Se un mio fratello ha idee politiche differenti dalle mie, la cosa non mi turba, anzi, si può creare un proficuo confronto. 

Diverso è se il parroco, o addirittura il Vescovo, si vale della sua posizione di “guida” per appoggiare una parte politica. Se io do la mia benedizione e il mio appoggio ad un candidato, la cosa non ha risonanza, o al massimo, chi si fida di me in quanto politicamente impegnato e condivide le mie posizioni politiche potrà seguire il mio consiglio al momento del voto. Cosa assolutamente differente, invece, è se il Vescovo di una Chiesa locale (che è il pastore e la guida religiosa di quella Chiesa, ossia di quei credenti) appoggia, più o meno esplicitamente, un candidato: come minimo, questo provoca sconcerto in quei credenti che, pur nutrendo rispetto e fiducia nel proprio Vescovo, si trovano su posizioni politiche differenti. 
La dimensione spirituale e quella politica finiscono inevitabilmente per essere confuse, soprattutto in un paese, come l’Italia, in cui per oltre mezzo secolo molta gente ha votato Democrazia Cristiana perché era il “partito del Signore”

Il bipolarismo dovrebbe annullare queste deformazioni culturali, ma servono anni e, nel frattempo, l’appoggio di un Vescovo ad una parte politica porterà inevitabilmente i consensi di quei ceti più sprovveduti e “bigotti”, incapaci di distinguere tra la sfera politica e quella spirituale. Chi chiede a me come votare, condividendo le mie posizioni politiche, mi rende, in un certo senso, mediatore politico tra lui ed il candidato, ossia la richiesta si inquadra in un contesto eminentemente politico, mentre chi vota un candidato perché “benedetto” dal Vescovo, così come un tempo votava per “il partito del Signore”, fa una tanto dannosa quanto deprecabile commistione fra religione e politica. 

In conclusione, è vero che “l’azione della Chiesa si svolge su un piano diverso da quello politico (cfr. Paruolo, Il silenzio non è equidistanza, La Repubblica del 9/11/1999) ”, ma, se non altro per motivi storico-culturali, è estremamente necessario che gli esponenti della Chiesa non generino confusione nei fedeli, specialmente nei più sprovveduti, fra il magistero (che un credente deve rispettare e seguire) e loro idee politiche! 
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(*)  IL FANTASMA DI VIA FANI 
  
In una calda primavera di oltre vent’anni fa si consumò l’evento più tragico della storia della Repubblica italiana: un gruppo di terroristi composto da brigatisti rossi, dopo averne trucidato la scorta, rapì l’on. Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, e, dopo più di un mese di prigionia, lo uccise causando una ferita nel tessuto democratico del Paese che non è stata più sanata.

 Non è intenzione del seguente articolo analizzare la vicenda Moro dal punto di vista giudiziario e non si vuole nemmeno formulare giudizi morali sul comportamento dei differenti attori della vicenda. Le righe che seguiranno hanno come obiettivo una breve e sintetica analisi storica-politica degli eventi precedenti all’omicidio del leader Dc e delle conseguenze che tale atto ebbe nella vita del Paese.

Le elezioni del 1976 avevano visto l’affermazione del Pci di Enrico Berlinguer che era giunto a sfiorare il sorpasso sullo storico avversario, la Dc in quel momento guidata dal moroteo Benigno Zaccagnini: furono le elezioni dei due vincitori.

 I comunisti si facevano portavoce di richieste di rinnovamento della politica nazionale e furono i primi ad affrontare la denuncia della “questione morale”, ossia della disinvoltura con cui molti politici agivano. All’inizio degli anni ’70, a seguito del colpo di stato reazionario effettuato in Cile dal generale Pinochet, Berlinguer si era fatto promotore di un accordo di sistema tra le grandi culture politiche di massa: comunisti, cattolici e socialisti; il “compromesso storico”. I principali interlocutori del leader comunista furono Moro ed il leader repubblicano Ugo La Malfa, anche loro sostenitori di un forte rinnovamento del sistema politico italiano. Il “compromesso storico” doveva servire alla legittimazione del Pci potendo rendere possibile un’alternanza ed una alternativa anche nella vita politica italiana. Si prospettava una soluzione di tipo tedesco: negli anni ’60 in Germania (RFT) vi era stata una “grande coalizione” tra democristiani e socialdemocratici la cui conclusione fu una serie di governi a guida socialdemocratica. 

I governi Andreotti (Dc) che si formarono dopo le elezioni del 1976 ebbero, in un primo momento l’astensione di tutti i partiti dell’arco costituzionale (Dc, Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli) che successivamente, tranne i liberali che si espressero contro, tramutarono tale voto in voto favorevole. A tale esperimento si opposero numerose forze, sia palesi, sia occulte, tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale. La morte di Moro comportò la fine dell’esperienza della solidarietà nazionale e si assistette alla trasformazione dello scenario politico italiano. Il ruolo riformatore dei comunisti italiani venne di molto ridimensionato (il Pci venne rimandato all’opposizione) e si affacciò nel panorama politico italiano l’on. Bettino Craxi il cui ruolo di “ago della bilancia” fruttò per tutti gli anni ’80 una notevole rendita di posizione. 
Chi scrive, anche per ragioni anagrafiche, non può essere iscritto tra i nostalgici del compromesso storico ed è ben conscio dell’impossibilità e della difficoltà di avanzare ipotesi storiche postume, ma è altrettanto convinto che se la sorte dello statista Dc, non avesse interrotto il dialogo tra i cattolici ed i social-comunisti, all’Italia ed agli italiani si sarebbero risparmiati i rampanti anni ’80, gli anni del craxismo imperante, della “governabilità craxiana” e del “successo senza moralismi”, alla fine dei quali gli Italiani si sono trovati pieni di debiti e con forti lacerazioni nel rapporto fiduciario tra cittadini ed istituzioni.
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(*) RICORDANDO LA NOSTRA STORIA 
  
Da alcuni anni stiamo assistendo ad un fastidioso e sempre maggiore revisionismo storico non sempre (anzi quasi mai) basato su fatti e su dati non solo veritieri, ma neanche controllabili e, quindi, assolutamente inattendibili. Dapprima, anzi precisamente dopo la morte dell’ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini (coincidenza che non pare casuale!), è iniziato un dannoso e alquanto infido attacco alla Resistenza, non più presentata come uno scontro tra i fautori di un mondo libero e democratico (socialista o capitalista che fosse) e gli alleati della Germania nazista a cui consegnavano ebrei e italiani antifascisti che vennero deportati (e in massima parte assassinati) nei lager, ma come una guerra civile tra italiani senza distinzione alcuna tra le diverse ideologie delle parti in causa. 

In poche parole come se l’essere stati complici di Hitler fosse la stessa cosa (per alcuni forse addirittura meglio!) che aver combattuto a fianco delle grandi democrazie mondiali per ridare dignità e libertà ad un’Italia martoriata dalla ventennale dittatura di Mussolini e l’aver permesso alle nuove generazioni di vivere in un mondo di pace e di progresso in cui, a venti anni, possono studiare, lavorare o divertirsi e non essere mandati a morire assiderati a Stalingrado o di sete a El Alamein.

 Cercato, ma per fortuna ha ragione E. Wiesel nel dire che “Il passato non è così lontano. Molti si ostinano a ricordare. E non dimenticheranno mai”, di sminuire l’alto valore morale e civile della guerra partigiana, si è passato a cercare di riscrivere altre pagine della storia patria (dal terrorismo alla corruzione diffusa dell’ultima degli anni ’80) fino, e non poteva che essere così, a voler riscrivere in chiave papalina e borbonica, lo stesso momento costituente del nostro civile convivere unitario: il Risorgimento che, tra tanti limiti ed errori (chi scrive non è affatto un simpatizzante della retorica conservatrice filosabauda, ma un estimatore del “Risorgimento senza eroi” di gobettiana memoria) ha comunque rappresentato, con l’unificazione della penisola avvenuta nel 1861 e la successiva annessione di Roma divenuta capitale dell’Italia unita, la fine di oltre un millennio di frantumazione e divisione della nostra terra.
 
Fin dalla caduta dell’Impero romano la penisola italica era stata trasformata in un grande campo di battaglia. Mentre si andavano formando le principali nazioni europee l’Italia stentava a riconoscersi in un’unica realtà etnica, culturale e, soprattutto, territoriale in quanto continuavano ad esistere le rivalità tra i principi italiani, continuavano ad esserci una forte influenza straniera e, come aveva evidenziato in modo lungimirante Machiavelli fin dal XVI secolo vi era un esorbitante potere temporale detenuto dalle gerarchie ecclesiastiche che a partire dal IX sec. con il pontificato di Leone III (che aveva chiamato in proprio soccorso i Franchi di Carlo Magno di cui fu mentore e sostenitore) non avevano mai esitato a impedire, anche e soprattutto grazie all’appoggio straniero, una unificazione della penisola sotto un unico governo. 

Questi fattori hanno fatto si che l’unificazione italiana sia stata tardiva e frutto della volontà di una delle monarchie già esistenti, i Savoia, e non di un moto “nazionalpopolare”. Il nuovo Stato fu prontamente condannato e non riconosciuto dal Pontefice regnante, Papa Pio IX, vietando ai cattolici la partecipazione sia attiva, sia passiva alle vicende della politica del Regno (opposizione venuta meno solo con il “Patto Gentiloni” in epoca giolittiana più che altro frutto della paura per il nascente movimento socialista), creò non pochi problemi al progresso della democrazia nazionale. Un’importante parte della popolazione non si sentiva, e in certi casi non si sente tuttora, parte dello Stato che vive come un’alterità di cui diffidare o a cui chiedere regalie e protezione invece che diritti e doveri: ciò ha, senza dubbio alcuno, rallentato l’affermazione di una moderna borghesia, classe sociale di cui l’Italia è in gran parte priva. 

Nel 1861 l’Italia smetteva di essere soltanto quell’entità che Metternich aveva definito “un’espressione geografica”, ma non era ancora divenuta quell’unica realtà “una d’arme, di lingua, d’altar/di memorie, di sangue e di cuore” auspicata da Manzoni in Marzo 1821. Ciò avverrà soltanto grazie alle trincee insanguinate della Grande Guerra, ai diciotto mesi di guerra partigiana e, anche se ciò può sorprendere o risultare paradossale, soprattutto grazie alla televisione negli anni ‘50-’60 del XX secolo e, soprattutto, grazie all’impegno di tutte le forze democratiche di progresso, cattoliche riformatrici e liberaldemocratiche, e, in primo luogo, in virtù dell’impegno delle donne e degli uomini (comunisti e socialisti) del movimento operaio dei lavoratori la cui affermazione, da Turati a Lama, ha rappresentato, non senza l’assenza di limiti ed errori, la sintesi dello sviluppo stesso della democrazia e del benessere dell’Italia. 

Il voler mettere in discussione il Risorgimento partendo da dati non sempre attendibili o anche contrastanti come l’affermare una superiorità dei briganti rispetto al binomio Cavour – Garibaldi (per non parlare del democratico e mistico Mazzini!), rappresenta una violenza alle origini della nostra storia comune che non può che destare preoccupazione e rammarico. Da alcuni anni, a partire da una sentenza della magistratura che giudicava non stupro un atto di violenza sessuale compiuto ai danni di una giovane che indossava jeans stretti (quindi ritenuta, in maniera non troppo velata, “consenziente”), si sta assistendo ad una ventata reazionaria con accenni di clericalismo integralista (che nulla ha a che vedere con la Fede e con la giovannea Chiesa dei “segni dei tempi”) che tende a condannare tutto ciò che, anche lontanamente, abbia a che fare con la dottrina illuministica della libertà e dei diritti-doveri dell’uomo. 

Alcuni autorevoli intellettuali lo hanno detto anche apertamente: ciò che si vuole colpire è l’illuminismo e la dottrina da esso (e dalla Rivoluzione francese del 1789) derivata. Questa ventata reazionaria è minoritaria nel Paese, ma si fa forza di un senso di apatia e di disinteresse alimentato da molti mass media, in primis le televisioni. Come tutti i pensieri reazionari tende a minare il principio per cui gli uomini, per natura e per scelta liberi, siano in possesso di diritti e di doveri. La vera libertà, come insegna Cesare Beccaria, prevede anche una serie di doveri, primo fra tutti il porre a limite della propria libertà il rispetto e la tutela di quella altrui, perché se così non fosse non si tratterebbe di libertà ma di arroganza e di arbitrio.

 Non è la prima volta che nella storia si presentano situazioni simili. È di grande auspicio che la mentalità reazionaria, ricca più di pregiudizi che di idee, non abbia il sopravvento. L’antidoto è contenuto nella seconda strofa della Marsigliese, inno della Francia repubblicana: “Libertà, cara libertà/Combatti con i tuoi difensori sotto le nostre bandiere/Affinché la vittoria accorra ai tuoi maschi richiami”. Queste bandiere non possono che essere quelle di un’Europa “civile della ragione” (N. Bobbio) in cui troneggino il rispetto della persona umana, la democrazia e la giustizia sociale, i cui difensori sono tutti coloro che credono nella dignità e nel valore dell’uomo e della civile convivenza.

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