SPORT E POTERE - Dai tempi delle antiche civiltà,
organizzazione e sponsorizzazione dei "giochi"
sono mezzi per assicurarsi il favore del popolo

PANEM ET CIRCENSES

LO SPORT...
IRROBUSTISCE IL POTERE

Una curiosità: In una iscrizioni venute alla luce a Pompei, sulla facciata della Casa di Giulia Felice (documento nel Museo di Pompei CIL, IV, n. 1147) il "Palazzinaro" arricchito Aulo Vettio, mecenate dello sport, decise di "scendere in campo" anche nella politica e opportunisticamente si mise a cercare i voti presso i tifosi della squadra che lui sponsorizzava, dichiarando di essere meritevole per il lodevole e munifico piacere e il godimento che lui offriva al "popolo" con la "sua" "squadra di palla"  molto famosa.

Per ottenere questo consenso, utilizzò nella sua propaganda elettorale il nome, le insegne e i colori della squadra per farsi eleggere senatore.  (Pensando (lo abbiamo documentato) come é nato in Italia un noto Partito politico, nulla di nuovo sotto il sole. Il promotore (anche lui "palazzinaro") non ha inventato nulla.. E, anche  il "popolo", come lo chiama il nuovo "unto dal signore", non é proprio per nulla cambiato".)

Anche un "barbaro" Armeno, Varazdat, dopo aver vinto al pugilato alle olimpiadi al ritorno al suo Paese divenne addirittura Re della sua gente. Nella Storia (lui, come Vettio a Pompei) ci sono entrati (e li stiamo citando), ma non certo per le loro qualità di politici; il primo brillò con la luce riflessa delle grosse mani che menavano, l'altro con quella riflessa dei piedi che calciavano. Ma uomini opachi erano e uomini opachi rimasero. 
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"Panem et circenses" scriveva il poeta latino Giovenale, satireggiando sulla politica degli imperatori romani. Pane e gare da circo, o grandiosi spettacoli sportivi, così la plebe non si accorgeva degli imbrogli fatti a suo danno nei palazzi del potere. La frecciata di Giovenale è applicabile a tutte le culture, pre o post romane che siano. Lo dimostra questo articolo.

di CARLO SANGALLI

Se si intende lo sport come un gioco è possibile affermare che esso nasce con l'uomo come esigenza primaria dei bambini e componente importante di tutta la vita: in questa sede però ci si occuperà dello sport come fenomeno sociale e politico incentrando pertanto attenzione su quelle competizioni fisiche che si sono compiute nel corso di tutta la storia per scopi simbolicamente o manifestamente distinti dagli aspetti seri ed essenziali dell’esistenza. E' necessario premettere anche che lo sport è sempre lo specchio di alcune caratteristiche della società in cui si inserisce, quindi per poterne comprendere il valore in contesti storici diversi dal nostro occorre tener presente che molti aspetti tipici delle nostre manifestazioni sportive nel passato erano del tutto assenti: disciplina, competizione, autorità, razionalità ed organizzazione sono valori di importanza centrale nella società industriale e nelle sue discipline sportive, ma non è affatto scontato che lo fossero nella Grecia classica, nella Roma imperiale o nell’Italia dei Comuni.

Nell’antichità lo sport fu quasi sempre legato ad attività religiose o magiche in cui la componente estetica e la spettacolarità prevalevano sugli aspetti più propriamente agonistici; quasi sempre attraverso lo sport si è voluto dare un saggio della propria forza e abilità nel combattimento (quindi nella guerra) facendone un mezzo per dimostrare la superiorità delle classi dominanti. Il primo popolo che iniziò la costruzione di città furono i Sumeri (3500 a. C.) che imposero il proprio dominio su alcuni villaggi di agricoltori tra i fiumi Tigri ed Eufrate.

Essi, grazie alla particolare ricchezza del territorio della Mesopotamia e al fiorente commercio con India e con Egitto, raggiunsero presto una situazione di ricchezza senza precedenti che attrasse le numerose tribù nomadi che gravitavano nella zona e che crearono nella popolazione esigenza di difendersi.
Per conservare il proprio potere i Sumeri costituirono adeguate istituzioni politiche, religiose e militari, inasprirono la disciplina sociale e sottomisero numerosi schiavi; in generale tutta arte pubblica mesopotamica era tesa a dimostrare al mondo le capacità e la forza della classe dominante e intimidire così i potenziali nemici. Anche lo sport risentì di questa situazione di instabilità e dell’esigenza di difendersi da un pericolo sempre incombente. Infatti le testimonianze giunte fino a noi dimostrano che le discipline praticate furono improntate unicamente a scopi militari o paramilitari: la lotta, il nuoto e le gare equestri erano attività che, se svolte con maestria, potevano tornare assai utili in guerra.
Inoltre la pratica sportiva era appannaggio pressoché esclusivo delle classi dominanti ed assolveva ad una triplice funzione: mantenere la forma fisica, nonostante la condizione sociale permettesse di dedicarsi ad una vita agiata, dimostrare la propria superiorità sugli altri popoli e tenersi pronti alla guerra utilizzando la pratica sportiva come addestramento militare. Del tutto diversa era invece la situazione in Egitto, almeno fino all’invasione degli Hyskos: qui il mare ed il deserto rappresentavano delle straordinarie barriere naturali che permettevano alle popolazioni residenti di sentirsi al sicuro da qualsiasi attacco esterno.

Dal 3000 al 1670 a. C. circa l'Egitto visse una situazione di grande stabilità e di pace pressoché assoluta, se si considera la lunghezza del periodo, in cui arte la cultura e la scienza ebbero uno sviluppo senza pari. Per tutta questa fase gli uomini ricchi competevano in sfarzo ed opulenza e si dedicavano all’attività sportiva che rimase comunque di esclusivo appannaggio delle classi superiori. In questo caso si trattava però di discipline eleganti e raffinate il cui valore estetico era probabilmente di gran lunga superiore a quello agonistico; ci è giunto un affresco (2000 a. C. ca.) raffigurante due lottatori nell’atto di effettuare ben 122 prese e posizioni diverse, ma caratterizzati da estrema eleganza e complessità, che ce li fanno sembrare più dei ballerini che degli atleti; inoltre nel dipinto non vi è traccia di sangue, né di trofei, il che ci fa apparire ancor meno importante aspetto competitivo.
Altre discipline che ebbero un posto di rilievo nella società Egiziana furono quelle acquatiche, e non poteva essere diversamente vista importanza centrale che aveva il Nilo nell'economia di quel popolo; il nuoto non era solo un piacere ed un divertimento, ma una necessità, tanto che è lecito supporre che per i giovani delle classi dominanti fosse obbligatorio imparare a nuotare.

Un ruolo decisivo nella storia Egiziana, anche dal più modesto punto di vista sportivo, fu giocato dalla cosiddetta invasione degli Hyskos (1690 a. C.) che fece crollare per sempre la presunzione di godere di inarrivabile superiorità. Una volta riconosciuto che le nuove tecniche di conduzione della guerra e la sua preparazione erano diventate essenziali per il mantenimento della stabilità, nuovi e più seri divertimenti e competizioni entrarono a far parte della vita degli appartenenti alle classi agiate Egiziane.
I Re del Nuovo Regno furono continuamente impegnati a crearsi una fama di atleti supremi e grandi cacciatori e ogni nuovo Faraone doveva superare i risultati del suo predecessore. Una fonte del tempo afferma che Tutmosi III scoccò una freccia conficcandola profondamente in una lastra di metallo dello spessore di 5 cm e che tale lastra fu successivamente esposta nel tempio a imperitura testimonianza della forza inarrivabile del sovrano; ma suo figlio Amenofi II, per superarlo in destrezza, centrò da un carro in movimento quattro bersagli di rame, ognuno spesso 7 cm, e fece celebrare tale impresa in un bassorilievo. Naturalmente è molto probabile che le gesta degli atleti fossero molto enfatizzate, se non a volte del tutto false, ma ciò non sminuisce l’importanza che aveva assunto l’attività fisica nella società Egiziana.

La società che senza dubbio più si è avvicinata al nostro concetto di sport è la Grecia classica. In Grecia esistevano delle grandi manifestazioni "internazionali", la gara divenne una competizione da tenersi in pubblico, atleta vincitore veniva ricoperto di glorie ed allori e la polis (la città) da cui proveniva era orgogliosa del suo eroe e ne faceva uno strumento di propaganda politica; per la prima volta vi furono spedizioni di veri e propri tifosi che si sobbarcavano viaggi spesso massacranti pur di sostenere i propri atleti e, sempre per la prima volta, lo sport ebbe delle proprie regole, codificate, note a tutti e uguali in tutto il territorio. Va ricordato anche che le Olimpiadi, cioè la più importante manifestazione del mondo Greco, andavano ben al di là del significato sportivo, dato che coincidevano con importantissima festa religiosa ed erano un momento di aggregazione fondamentale per lo sviluppo della cultura Greca in ogni sua forma.
In occasione dei giochi Olimpici venivano rappresentate le opere dei grandi drammaturghi, si tenevano gare di poesia e si donavano alle divinità statue votive di straordinaria bellezza eseguite dai migliori artisti di ogni polis; un elemento che può dare l’idea dell’importanza che i Giochi avevano per i Greci è il fatto che per secoli essi misurarono il tempo in Olimpiadi dando ad ogni quadriennio il nome del vincitore della gara di corsa e della sua città.

La passione sportiva dei Greci non è un fenomeno casuale, ma affonda le radici in alcuni dei capisaldi della loro cultura: innanzitutto l’attributo con cui i Greci solevano indicare l’uomo ideale era kalos kai agathos (che in greco antico significa bello e buono), quindi l’aspetto fisico era posto sullo stesso piano di quello morale e l’uno non era completo senza l’altro; questa fu una concezione diffusa in tutto il mondo antico, anche extra-ellenico, ma che trovò in Grecia la sua massima espressione e rivestì importanza eccezionale in quel contesto.

Lì la forza, la bellezza e l’armonia erano qualità capaci di dar lustro ad una persona almeno quanto l’intelligenza e la bontà d'animo, tanto che tutti gli eroi epici, da Omero in poi, vengono presentati come kaloi kai agathoi e in ogni poema sono presenti gare sportive la cui vittoria dà ai protagonisti lo stesso prestigio di una vittoria in una battaglia o di una trovata geniale. Per esempio nell’Iliade (libro XXIII) Achille organizza alcuni giochi atletici come tributo per la morte di Patroclo; Omero ce li descrive con dovizia di particolari mettendo in particolare risalto l’abilità di Ulisse. In particolare nella gara di corsa Odisseo instaura un avvincente testa a testa con il giovane nobile Aiace, che sembra destinato ad avere la meglio; ma Ulisse, rendendosi conto di non essere in grado di vincere con le sue sole forze, invoca aiuto della dea Atena, la quale fa scivolare Aiace in vista del traguardo e permette al suo protetto di arrivare primo.

E' utile precisare che quello che a noi sembra un colpo di fortuna o un intervento scorretto, agli occhi dei Greci era un motivo di pregio ancora maggiore per Ulisse che aveva saputo meritarsi il favore degli dei; infatti lo stesso Omero ci narra di come la folla reagì divertita e con gesta di scherno alla protesta del giovane sconfitto.

Omero ci descrive anche le altre gare che si tennero in quell’occasione, la lotta e la corsa delle bighe, e questa precisa narrazione è importante perché ci permette di osservare come tutte queste discipline fossero ancora presenti al tempo delle Olimpiadi e che le sole modifiche riguardarono l’aggiunta di due sport, il pancrazio (una sorta di pugilato dal regolamento molto complesso) e il pentatlon. Se si pensa che Omero scrive più o meno nel 700 a. C. e che le gare rimasero le stesse fin dopo la conquista Romana, ci si rende conto di quanto lo sport fosse parte importante della tradizione Greca e con quale timore reverenziale gli ellenici si accostassero ad esso.

Ciò si deve anche al fatto che l’Iliade e l’Odissea godevano di unanime prestigio in tutta la Grecia politicamente divisa, ma culturalmente unita al punto da poter organizzare dei giochi cui partecipavano tutte le poleis , sospendendo se necessario le guerre. Questa sospensione è quella che noi chiamiamo ancora oggi "pace Olimpica", ma in realtà è un fenomeno assai ingigantito da una certa cultura Europea del secolo scorso; i Greci non parlarono mai di "pace" quanto di "immunità" e non bisogna credere che interrompessero tutte le guerre per consentire lo svolgimento delle Olimpiadi. Piuttosto è vero che esisteva un tacito accordo per cui nel mese precedente i Giochi gli atleti ed i tifosi al loro seguito potevano raggiungere Olimpia attraversando tutti i territori che fosse necessario godendo di una sorta di immunità.

Va anche detto che patti di questo tipo vigevano per tutte le manifestazioni religiose. L’eccezionalità delle Olimpiadi stava nel fatto che erano l’unico appuntamento per il quale questa sorta di tregua era riconosciuta in tutta la Grecia. Il territorio di Olimpia invece era considerato sacro e questa inviolabilità fu allargata a tutto il territorio dell’Elide, la regione di Olimpia, in cui viveva il "sacro popolo di Zeus" cui l’oracolo di Delfi, secondo la leggenda, aveva concesso di tenersi lontano dalle guerre e di dedicarsi soltanto al tempio e all’organizzazione dei Giochi. In verità gli Elei conquistarono tale riconoscimento solo nel 570 a. C. dopo l’aspra lotta con i Pisati, ma in quella data vi fu anche il riconoscimento panellenico dei Giochi e da allora in poi questo privilegio non fu più messo in discussione.

Olimpia comunque era considerata un luogo sacro già dai Micenei e le prime Olimpiadi risalgono a ben prima del 776 a. C., cioè della data dei primi giochi di cui noi conosciamo il vincitore, ma proprio l’elenco dei vincitori ci aiuta a farci un quadro della partecipazione a questa manifestazione; i primi di essi provenivano tutti da Olimpia e dalle città più vicine, ma molti dei trionfatori delle edizioni svoltesi dal V secolo in poi venivano da colonie anche molto lontane, soprattutto dall’Italia meridionale.

Si organizzavano imponenti pellegrinaggi al seguito degli atleti e sappiamo che il gran numero di avventori rendeva caotica la vallata, ma costituiva una fonte di ricchezza di enorme importanza per tutte l’Elide. Inoltre ogni delegazione portava quintali di doni, per ingraziarsi gli dei, che creavano parecchi problemi per l’inadeguatezza delle strutture destinate a raccoglierli, ma nonostante ciò nessuno voleva rinunciare a partecipare alle Olimpiadi, perché anche il solo fatto di assistervi era considerato uno degli onori più grandi che potessero capitare a un Greco. I Giochi si tenevano tra la metà di Agosto e la metà di Settembre e duravano cinque giorni, di cui il primo e l’ultimo completamente dedicati alle preghiere e ai sacrifici per ingraziarsi gli dei e per ringraziarli. Nei tre giorni di gare si tenevano un giorno le gare equestri ed il pentatlon, un altro le gare di corsa e l’ultimo quelle di lotta ed il pancrazio.

Lo sport ha dunque raggiunto il suo apice nella Grecia del V sec. a. C., ma dopo questo periodo ha conosciuto un tramonto lento ed inesorabile che l’ha portato ad essere più o meno bandito al principio del Medio Evo. L’inizio del declino della concezione greca dello sport è fatto risalire ai tempi della guerra del Peloponneso; da allora e fino alla conquista definitiva da parte dei Romani, avvenuta quasi 300 anni dopo, la politica Greca fu in continua agitazione, le poleis aumentarono di numero a seguito della massiccia colonizzazione dell’Asia e dell’Africa, e si perse di conseguenza quello spirito di "grecità" che rappresentava la vera anima dei giochi olimpici antichi. Già nel V secolo la figura dello sportivo-dilettante-aristocratico di omerica memoria era scomparsa per lasciare spazio ad atleti professionisti attentamente reclutati ed addestrati nelle province.

La presa sul pubblico rimaneva forte, ma quando si passò da un sistema di poleis divise e unite nello stesso tempo, che ogni quattro anni si confrontavano nelle gare atletiche, ad uno Stato unico che organizzava una festa per divertire il suo popolo, la tradizione sportiva greca tramontò definitivamente. A questo va aggiunto che già nel 300-250 a. C. il centro politico e militare più importante era diventato Roma, e a Roma avrebbe dovuto imporsi la tradizione greca per sopravvivere. Vi furono numerosi tentativi in questo senso durante tutto il corso della storia Romana, ma i nuovi dominatori guardarono sempre ai greci con l’ammirazione pari solo al distacco che volevano conservare.

I greci erano un popolo eminentemente contadino, in intima unione con i propri dei, che guardava alla realtà con vivo senso del concreto, che agiva con grande devozione alla Res Publica ed educato dalla famiglia e dallo Stato. I ludi Romani erano manifestazioni agonistiche cittadine volute dal autorità, ma prive dell’individualismo esibizionista greco, bensì ancorate all ideale collettivo che consacrava l’individuo allo Stato. Alcuni di essi avevano origini antichissime, altri vennero istituiti nel periodo repubblicano, mentre le feste al tempo dell’impero erano frequentissime ed organizzate per celebrare le più svariate ricorrenze.

Il ludus (il gioco) romano ha attinto molti elementi dagli agones (giochi) greci, ma non ha mai abbandonato la matrice etrusca che era alle sue origini.
Gli spettacoli etruschi, dei quali facevano parte i danzatori, i clowns e i giocolieri, presentavano delle manifestazioni più cruente il cui scopo era lo spargimento di sangue e, alla fine, la morte dei protagonisti, che naturalmente appartenevano ai ceti più bassi; le lotte gladiatorie, la battaglie tra belve feroci e altri spettacoli di questo tipo, saranno presenti nelle società Romana di ogni epoca.

I Romani furono sempre e solo spettatori pronti ad applaudire atleti professionisti e a farne degli idoli, ma incapaci di vedere gli aspetti educativi e morali dell’esercizio fisico che vanno al di là della spettacolarità. I ludi più che come competizioni erano visti come cerimonie ufficiali legate a feste religiose, commemorazioni, adorazioni di divinità. Se la gioventù greca amò la palestra, lo stadio e l’atletismo puro, quello romano preferì il circo, l’anfiteatro e lo spettacolo; questa realtà è testimoniata dalla "pompa", la sfilata che apriva i ludi e che dimostrava tutta la mondanità e l’esteriore spettacolarità di queste cerimonie. Anche l’equitazione, che in Grecia fu lo sport aristocratico per eccellenza, a Roma fu per molto tempo solo un elemento coreografico inserito nel contesto di manifestazioni militari insieme a caroselli, volteggi e altri spettacoli che di sportivo non hanno niente. Fino al termine del periodo repubblicano lo sport fu un aspetto del tutto marginale della società romana, una società impostata su saldi principi militari, protesa verso la sobrietà e rigidità dei costumi e per questo sempre pronta ad esaltare la vivacità culturale ed artistica dei Greci, ma attenta ad evitare la "mollezza dei costumi orientali" che tanto poco si addiceva ad un popolo così battagliero e concreto.

Significativo in questo senso è il pensiero di Catone che visse nel momento in cui la cultura greca iniziava ad approdare nei circoli di Roma e che fu il più feroce fustigatore di quelle abitudini antitetiche rispetto alla sua mentalità conservatrice e contadina (passò infatti alla storia col soprannome de il censore). Ma la stessa ostilità verso le pratiche provenienti dalla Grecia la ritroviamo in un autore di mentalità più aperta e vissuto quando alcuni elementi della cultura ed educazione greca iniziavano ad essere accettati, Cicerone: per lui l’unica educazione valida è quella oratoria, e l’allievo più bravo per il suo maestro è quello che sa meglio parlare.

Cicerone non condanna aprioristicamente l’esercizio fisico, ma dimostra avversione per molte delle pratiche che a questo si accompagnavano in Grecia, in particolare l’abitudine di allenarsi ed esibirsi nudi. Nel de Republica afferma: "Com'è assurdo il sistema dei greci di esercitare i giovani nei Ginnasi! Quanto lungi dall’essere rigoroso il loro metodo di addestramento militare degli Efebi!" E nel de Senectute racconta episodio in cui l’atleta greco Milone entra nello stadio reggendo sulle spalle un bue e lo commenta in maniera assai significativa: "Preferiresti che ti dessero queste forze del corpo o quelle dell’ingegno di Pitagora?". Il vero tentativo di trapiantare a Roma la cultura sportiva Greca fu però compiuto in epoca Imperiale a cominciare proprio da Augusto: questi tentò di consolidare le tradizioni degli avi da un punto di vista etico e religioso, ma con mezzi pratici innovativi; riservò particolare attenzione all’addestramento militare dei giovani dando grande impulso ai collegia juvenum, vale a dire dei collegi dove si curava l’educazione dei giovani appartenenti alle classi sociali più alte e in cui si organizzavano degli spettacoli in cui i ragazzi davano dimostrazione di quanto appreso ai familiari, agli altri giovani e qualche volta allo stesso Imperatore.

Questo doveva anche essere un modo per far entrare nella mentalità romana la competizione atletica. Lo stesso Augusto tentò di introdurre a Roma manifestazioni simili agli agones Greci, come già avevano fatto senza successo Silla, Pompeo e Crasso, ma queste gare non entrarono mai nel cuore dei romani, schiacciate dalla grande popolarità dei ludi circensi. Questi ultimi da un lato ruotavano intorno a un fitto programma di corse di cavalli, ma dall’altro il vero piatto forte, ciò che rendeva un ludus migliore degli altri, era il contorno di giocolieri, acrobati, domatori di belve e spettacoli di questo tipo. Peraltro Augusto fu pronto a comprendere che i suoi amati agones greci non avrebbero attecchito e cambiò presto rotta organizzando sontuose e frequentissime feste più vicine al gusto dei suoi cittadini.

Questa grande attività derivava da un preciso calcolo politico fatto da un Imperatore conscio della necessità di mantenere il più possibile l’ordine pubblico in una città in cui vivevano 150.000 disoccupati a carico dello Stato; Augusto era convinto, e forse aveva ragione, che un popolo ozioso ed annoiato può minacciare intrighi e rivolte più di uno a cui i suoi governanti offrono talmente tante possibilità di svago da non lasciargli il tempo di pensare. Inoltre lo stesso Augusto presenziava ai ludi il più spesso possibile stabilendo così un contatto diretto con i suoi sudditi che rendeva più popolare la sua autorità e accresceva la sua popolarità.

Questa politica fu poi reiterata dalla maggior parte degli Imperatori e non mancarono nuovi tentativi di introdurre manifestazioni improntate al modello greco, ma non ebbero successo neanche quando la cultura Ellenica si affermò a Roma in molti suoi aspetti.
Nerone istituì dei giochi, da tenersi ogni quattro anni, molto simili alle Olimpiadi, ma anche questa manifestazione non sopravvisse al suo creatore. Durante tutta la storia Romana l’educazione fisica, soprattutto a scopo militare, ebbe una grande importanza, ma di sport, nell’accezione che qui interessa, non si può mai parlare: prevalsero sempre spettacoli in cui la competizione era solo un pretesto per dare sfogo ad una sanguinosità e violenza assai distanti dal nostro modo di pensare. Manifestazioni come le lotte gladiatorie non sono paragonabili neanche alla moderna corrida, che è il migliore esempio di "sport" odierno in cui il rischio della vita è parte integrante della competizione. Infatti in essa, benché il toro parta da una situazione di svantaggio tutt'altro che marginale, rimane una parte di rischio per il torero che può teoricamente venire sconfitto; ma nelle lotte contro i leoni la "gara" terminava solo al momento della morte dell’"atleta", che non a caso apparteneva ad una categoria perseguitata dal potere (i Cristiani, ma non solo), e l’unica possibilità di salvezza era legata alla capricciosa generosità del imperatore o chi per lui.

Le invasioni barbare e l’avvento del Cristianesimo, pur spinte da motivazioni diverse, misero fine a questo tipo di manifestazioni. Da un lato l’avvento di una cultura assai primitiva rispetto a quella romana e l’insediamento di popolazioni votate principalmente alla guerra, segnarono la fine delle manifestazioni pubbliche imperiali, prime fra tutte quelle sportive; dall’altro il Cristianesimo abolì le manifestazioni cruente che tanto successo avevano riscosso in precedenza, e spostò l’attenzione sullo spirito mettendo in secondo piano l’educazione fisica. La stabilità e la cultura sopravvissero solo ad Oriente, dove l’imperatore Giustiniano istituì un ordine politico su tutta l’Europa orientale che fece di Bisanzio (poi chiamata Costantinopoli) il centro del potere in Eurasia fino alla conquista dei Turchi nel 1453.
Qui sopravvissero le gare sportive ed in particolare le corse delle bighe ebbero un successo enorme fino al 512: in quell’anno durante una gara all’ippodromo le tensioni tra le opposte tifoserie, divise da motivi religiosi più che sportivi, esplosero dando vita ad una serie di tumulti che si allargarono presto a tutta la città provocando più di 30.000 vittime. Quell’episodio costituì un grave momento d'arresto anche per lo sport e, anche se le gare furono organizzate ancora per molti secoli, non tornarono più allo splendore di un tempo. In Europa occidentale invece, in seguito alla disgregazione dell’esercito e della burocrazia Romani, il cavaliere armato divenne il fondamento militare, e quindi politico, del mantenimento del ordine.

I soldati, gli unici cui era permesso portare armi, possedere un cavallo e di conseguenza viaggiare, offrivano ai contadini protezione contro i predoni, che periodicamente li saccheggiavano, in cambio di un lauto compenso. Nacque così la suddivisione fondamentale del mondo feudale: quella tra gli aristocratici portatori di armi e possessori di cavalli e gli agricoltori sedentari che li sostentavano con il loro lavoro. Anche se ci è stata tramandata la mitica figura del cavaliere che partiva per combattere contro i pagani o gli altri cavalieri, in realtà i nobili, quando potevano, evitavano accuratamente la battaglia, perché essa poteva significare, oltre che la morte, la perdita del proprio cavallo o del armatura e, quindi, della propria posizione sociale. Così, per rendere esplicita la loro minacciosa forza alle popolazioni locali o per accrescere il proprio prestigio tra i loro pari, i membri del aristocrazia crearono, più inconsapevolmente che altro, degli sport paramilitari nuovi e in grado di farli distinguere: la caccia, la giostra, il duello. Le giostre permettevano ai contendenti anche di risolvere le proprie controversie individuali limitando il rischio di perdere l’equipaggiamento.

La preparazione dei tornei occupava buona parte della vita di molti nobili e ne consumava le ricchezze, ma la loro organizzazione era motivo di grande prestigio per colui che se la sobbarcava. I tornei erano quasi sempre sfarzosi e smisurati, accompagnati da cerimonie rutilanti di ornamenti e banchetti luculliani; le grandi tenzoni potevano essere ricche e opulente perché ricca e cosmopolita era la classe sociale che vi si dedicava.

Questa tradizione durò molti secoli, le regole ed i modi di comportamento erano noti all’aristocrazia di tutta l’Europa e in più l’esito di una battaglia rituale era visto come un giudizio di Dio (anche se i teologi Cristiani hanno sempre bollato tali manifestazioni come "feste pagane"). Dopo il 1500 diventa impossibile fare un discorso unitario sia sulla storia dell’Europa che su quella dei suoi sport. Nascono in questo periodo numerose discipline a carattere regionale, se non comunale. Alcune di esse possono essere considerate le progenitrici degli sport moderni, di altre si è persa ogni traccia. Nascono i primi sport di squadra (diffusi soprattutto tra i ceti inferiori), ma non esiste alcuna grande manifestazione che vada al di là del valore folkloristico.

In ogni caso si ha enorme diffusione della pratica sportiva che favorirà la nascita dello sport moderno avvenuta in Inghilterra tra il XVII e il XVIII secolo. Molte attività ricreative dotate di alcune caratteristiche dello sport moderno sono comparse ed hanno trovato ampio sostegno proprio in quella nazione. Queste discipline e soprattutto l’atteggiamento nei confronti dello sport, successivamente ebbero evoluzione con più rapidità in America e più tardi ancora conquistarono il mondo.

Quasi tutte le gare dei raduni di atletica sono state inventate dagli studenti universitari inglesi e furono ancora una volta loro a fissare le distanze standard per le gare di corsa, di nuoto, di canottaggio ed equestri. Gli inglesi inventarono anche, nel senso che per primi misero per iscritto, le regole dei giochi fino ad allora praticati in modo informale, introdussero i cronometri, le porte nel calcio e nel rugby, i guantoni nel pugilato e molte altre attrezzature sportive.
Mentre la società inglese veniva trasformata dall’industrializzazione, le caratteristiche della razionalizzazione, della standardizzazione, del calcolo e della misura si affermarono in ogni aspetto della vita. Inevitabilmente queste stesse impostazioni caratterizzarono anche i passatempi popolari inglesi. Lo sport divenne sempre più diretto al raggiungimento dell’efficienza, esso fu codificato e civilizzato da funzionari addetti alla sua supervisione e ben presto questa certezza nello stabilire i risultati diede il via ad un giro di scommesse vastissimo. L’Inghilterra fu la culla del giornale sportivo prodotto in massa, a partire dai bollettini di informazione diffusi in tutta l’isola perché gli appassionati potessero essere informati sulle gesta degli atleti e gli scommettitori controllare le loro giocate.

Lo sport fu presto introdotto nelle scuole, anche pubbliche, e questo portò ad un aumento esponenziale dei praticanti, oltre a permettere che ognuno conoscesse le regole di tutte le manifestazioni che si tenevano. Naturalmente le scuole, soprattutto le università, diedero poi vita a nuovi sport o a nuovi modi di praticare quelli già noti, formarono delle squadre e dei circoli e costituirono una base di appassionati entro cui scegliere gli atleti migliori. Da allora in poi, grazie anche alle maggiori possibilità di comunicazione e di trasporto, lo sport conoscerà l’escalation di popolarità inarrestabile che lo porterà ad assumere gli aspetti attuali. Una popolarità che inevitabilmente finisce per essere strumentalizzata dagli scalatori o dai gestori del potere. I quali hanno perfetta coscienza del "ritorno" politico e di fama dato dalla conquista della presidenza o dalla sponsorizzazione di una squadra sportiva.

di CARLO SANGALLI

 Ringraziamo per l'articolo 
il direttore di Storia in Network
 

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