STATI UNITI

DA PARTE DEGLI INDIANI (leggende e realtà)
Rivisti in chiave storica, i film di John Ford sono in realtà la cronaca del genocidio che
nell' 800 sterminò milioni di indiani d'America rei di difendere la loro terra.

NARRATA DAI WESTERN...

LA PULIZIA ETNICA
DIVENTA GRANDE EPOPEA

( e tanti tanti film western )
(con tanti tanti genocidi "spettacolari")
di PAOLO DEOTTO
Un gruppo di cavalieri sta procedendo al passo in una sterminata prateria del Texas. Sono una decina di ranger, sulle tracce di razziatori di bestiame. C’è qualcosa nell’aria, i cavalli sono inquieti e gli uomini spesso portano la mano istintivamente al calcio della pistola. Ed ecco che sul crinale di una collina si iniziano a distinguere le forme di altri cavalieri: Comanches! Sono pochi, cinque o sei, ma all’improvviso ne spuntano altre diecine, e si gettano al galoppo verso il piano, spronando i cavalli con le grida di guerra. I ranger a loro volta scattano: la loro unica speranza è passare il fiume prima dei pellerossa, per poterli respingere mentre saranno rallentati dal guado. Ce la fanno, e dalla riva iniziano un fuoco micidiale contro i Comanches, che, bloccati in mezzo al fiume, indietreggiano e tornano sull’altra sponda, ma solo per riorganizzarsi. Di nuovo infatti si gettano contro i bianchi, ma il risultato è lo stesso di prima. Finalmente gli indiani, stanchi di farsi massacrare, si ritirano definitivamente. 

Vi abbiamo raccontato, molto in sintesi, una scena del film "Sentieri Selvaggi", girato nel 1956 dal più famoso regista americano di western, il signor Sean Aloysius O’ Feeney, nato a Cape Elizabeth (Maine) l'1 febbraio 1895. Questo nome non vi dice nulla? Proviamo allora a dirvi il suo nome d’arte: JOHN FORD. Detto il nome del regista, diventa quasi superfluo specificare che il protagonista era JOHN WAYNE. Già, direte voi, bella e avvincente scena, ma che c’entra? Siete andati a cercare in Internet la vostra rivista di Storia, e perché vi trovate a leggere la recensione di un film, oltretutto un po’ vecchiotto? Un attimo di pazienza, cari amici. Non vogliamo rubare il mestiere né ai critici né ai recensori di cinema. Abbiamo solo voluto introdurvi subito nel vivo dell’argomento del nostro articolo: "la storia del West" o, meglio ancora, "la storia degli Stati Uniti d’America". 
Ma vorremmo fare questo lavoro facendoci aiutare da un artista, da quel John Ford, appunto, che ha lasciato la sua firma sui più famosi film del periodo d’oro del western, creando dei canoni che sarebbero stati di riferimento per molti altri registi. Leggere la storia del West è indispensabile per capire la storia degli Stati Uniti, perché questo paese, troppo giovane per avere una sua epopea, delle figure eroiche di riferimento, se le è create in casa, mitizzando il periodo della grande espansione a Ovest, e facendone sempre, in modo più o meno conscio, un punto di riferimento dei propri valori morali. Questo non ben precisato spirito della frontiera ha informato anche le azioni di molti Presidenti, che lo hanno spesso ricordato ai propri amministrati, come sprone nei momenti difficili, dalla Grande Depressione del 1929, alla crisi di Berlino del 1948, alla guerra in Corea del 1950 (per non citare che alcuni esempi a memoria).
E chi non ricorda il generale George PATTON, comandante di truppe corazzate nella seconda guerra mondiale, che portava regolarmente sull’uniforme un cinturone da cow boy con due Colt Single Action? Ma allora, perché non approfondire lo studio, discernendo il mito dalla realtà? Spesso lo abbiamo già fatto sulle pagine di questa rivista, né mancheranno le occasioni per rifarlo; chi ci legge fedelmente ha già rivissuto assieme a noi alcuni episodi delle Guerre Indiane, o ha potuto meglio conoscere la figura controversa del Generale George A. Custer. 
Ma ora ci è sembrato interessante chiedere aiuto, come dicevamo sopra, al regista di western per eccellenza, John Ford, perché ci sembra che abbia raccolto nelle sue opere, pur con la poca sistematicità, classica dell’artista, aspirazioni, contraddizioni, sogni di un popolo, assieme a una ricerca della verità, inevitabile in qualsiasi spirito sensibile, spesso resa più difficile dalla difesa di quel mito, da cui non poteva totalmente prescindere. Perché, non scordiamocelo, pur nella grandezza dei suoi affreschi, John Ford resta un americano che cerca la verità dell’America e di sé stesso. John Ford e gli indiani: binomio pressoché inscindibile. Gli indiani rappresentano il fantasma che ha sempre agitato la coscienza degli americani e che probabilmente non scomparirà mai. Il rullo compressore della conquista dei territori dell’Ovest, spinto anche dalle enormi potenzialità economiche della scoperta dell’oro in California e dello sviluppo delle ferrovie, non ebbe pietà di quel popolo che, pur nelle mille sfaccettature di tante tribù e famiglie, aveva come comuni caratteristiche un rapporto intenso con la Natura, un concetto dell’onore assoluto, e un’assoluta indifferenza verso la ricchezza concepita come accumulo di danaro, di beni materiali, di potere.
Lo sterminio del popolo rosso, che non intendeva integrarsi in un modello di vita che non era suo e non poteva comprendere, resta senza dubbio la macchia più grave nella storia del popolo americano. Il cinema western ha cercato per anni di cancellare questa macchia, presentandoci una verità manichea, fatta di rossi selvaggi e di bianchi civilizzatori, costretti loro malgrado a sparacchiare un po’ contro i rossi selvaggi. Poi è arrivata l’inevitabile onda di riflusso: chi non ricorda il celebre "Piccolo Grande Uomo" di Dustin Hoffman, dove la situazione è semplicemente capovolta? John Ford ha il suo momento più intenso nei confronti del dramma indiano in un film del 1947, "Il Massacro di Forte Apache", dove all’inevitabile John Wayne, nella parte del capitano che comanda il reggimento in attesa dell’arrivo del nuovo comandante, si affianca Henry Fonda, che interpreta la parte di un colonnello complessato, in cerca di gloria a qualsiasi costo. Su questo film varrà la pena tornare più avanti, per esaminarne un altro aspetto; qui ci preme sottolineare come il capitano (John Wayne) tenti invano di ricordare al colonnello la dignità degli Apache, che si sono ribellati ad un agente indiano, più occupato a contrabbandare whisky che a fornire agli indiani l’assistenza loro promessa, in cambio del confinamento nelle riserve. Il colonnello ovviamente non ascolta i consigli del capitano, e conduce i suoi uomini ad un inutile massacro.
A questa visione di comprensione delle ragioni della parte più debole, si oppone anni dopo uno dei film più celebrati di Ford, quel "Sentieri Selvaggi" del 1956, di cui vi fornivamo in apertura una piccola scena. Ethan Edwards (John Wayne), reduce sudista della guerra di secessione, per cinque anni segue, tra le più diverse avventure, le tracce della tribù  Comanche che ha sterminato la famiglia di suo fratello, rapendo la giovane nipote, che alla fine, dopo uno spettacolare attacco al campo indiano in cui agiscono ranger e soldati, verrà liberata dalla schiavitù in cui era ridotta. In questo film, nulla si salva della figura del pellerossa, selvaggio, brutale e anche un tantino stupido, mentre Ethan Edwards, che non nasconde il suo odio assoluto per gli indiani, che spara ai bisonti solo perché i Comanche abbiano meno carne per nutrirsi, che arriva a desiderare la morte della nipote perché "ormai, dopo tanto tempo, sarà più indiana che bianca", viene presentato come l’eroe positivo. Nel finale del film vediamo il profilo di John Wayne, che si allontana solo, dopo aver riconsegnato la ragazza ad una famiglia di coloni amici. La bellissima canzone The searcher e lo sfondo della prateria si dissolvono pian piano sul dramma felicemente concluso. 
Gli affreschi spettacolari, le interpretazioni perfette, fanno da cornice all’apologia di un eroe che comunque rappresenta i lati peggiori dell’animo umano. Allora John Ford era razzista? Difficile dirlo. I fatti dimostrerebbero il contrario. Pochi sanno che il grande regista adottò, fin dai tempi di Ombre Rosse, girato nel 1939, una tribù Navajo del Colorado che viveva nell’indigenza. I protagonisti indiani dei suoi film, che all’occorrenza venivano presentati come Comanche, o Apache, o Sioux, erano sempre questi Navajo che poterono risollevarsi dalla loro miseria proprio grazie agli aiuti e al lavoro procurato da John Ford. A questo punto qualcuno potrebbe legittimamente obiettare che stiamo procedendo in modo confuso, non rispettando un ordine cronologico. Non è forse "Ombre Rosse", del 1939, il film che rese celebre la coppia John Ford - John Wayne, il film, considerato un capolavoro, che viene spesso citato come archetipo del western? Verissimo. Ma noi non abbiamo l’intenzione di tracciare una cronologia dei film di John Ford, ma piuttosto, come dicevamo in apertura, di cercare attraverso di essi di comprendere meglio la storia del West e la storia quindi del popolo americano. E Ombre Rosse, senza dubbio un film che potrete rivedere dieci volte di fila senza annoiarvi, rappresenta soprattutto un sogno, quasi che l’artista, con il disordine che può permettersi proprio perché artista, anticipi ciò che potrebbe essere a un tempo la presentazione di una visione ideale, oppure la sintesi di un travaglio spirituale. 
Ombre Rosse. (tit. orig. "Stagecoach")
In questo film, che mandò in visibilio anche la critica cinematografica fascista (dopo un paio d’anni tutto ciò che era americano sarebbe stato severamente vietato), si narra del viaggio di una diligenza che da un’imprecisata cittadina dell’Arizona deve raggiungere Lordsburg, nel Nuovo Messico. Ognuno dei passeggeri ha dei buoni motivi per andarsene: il medico ubriacone, scacciato dalla padrona di casa perché moroso; la prostituta, scacciata dal comitato per la moralità, il banchiere (marito della presidentessa del comitato), che ha sottratto 50.000 dollari della banca; una signora altezzosa, che intende raggiungere il marito, capitano dell’esercito impegnato nei territori al confine messicano; un timido rappresentante di commercio, che vuole tornare a casa. All’ultimo momento si aggrega alla comitiva un gambler (giocatore di professione), colpito dalla bellezza della signora altezzosa, mentre dopo qualche miglio la diligenza carica il giovane Ringo (John Wayne), evaso dal carcere in cui era stato rinchiuso ingiustamente, in base alla testimonianza dei fratelli Blommer. 
C’è notizia che il peggiore di questi tre fratelli, Luca, pluriricercato (e sospettato anche dell’assassinio del fratello di Ringo), sia a Lordsburg, e quindi lo sceriffo stesso fa da scorta armata alla diligenza. Gran parte del viaggio, (che si prolunga oltre il previsto perché la signora altezzosa partorisce una bimba proprio durante una sosta per il cambio dei cavalli) si svolge sotto l’incubo dell’attacco degli Apache di Geronimo, che è uscito dalla riserva ed ha dissotterrato l’ascia di guerra. Quando ormai mancano poche miglia alla meta e tutti si sentono più sollevati, una freccia colpisce nel petto il timido rappresentante. Inizia l’attacco degli Apache, in una scena che dura pochi minuti, ma che resta senza dubbio di una spettacolarità inimitabile, anche per l’abilità dei cavalieri indiani, tutta da vedere. Quando ormai gli occupati della diligenza, a corto di munizioni, sembrano spacciati, l’arrivo della cavalleria mette in fuga gli indiani. Lieto fine? Non ancora; il finale vero si consumerà a Lordsburg. E cercheremo quindi di spiegare perché definivamo Ombre Rosse come un sogno di un ideale oppure la sintesi di un travaglio spirituale.
Dicevamo questo perché Lordsburg diviene il luogo in cui si realizza, dopo essere riusciti a superare la prova del viaggio, quella giustizia sostanziale che esiste solo nei sogni. Il banchiere disonesto viene ammanettato, il rappresentante si salva perché il medico ubriacone l’ha soccorso presto e bene, la signora altezzosa esce semplicemente di scena. Ma soprattutto interessa vedere cosa succede a Ringo. Lo sceriffo lo ha dichiarato in arresto; non poteva fare altrimenti, con un evaso. Ma lo sceriffo sa che Ringo è innocente, sa che Luca Blommer è un farabutto e lascia a Ringo dieci minuti e tre cartucce per il fucile. Ovviamente Ringo affronta i tre fratelli Blommer e li elimina; poi si riconsegna allo sceriffo. Questi lo fa salire su un calesse, dove consente alla prostituta (che nel lungo viaggio aveva dimostrato grande umanità assistendo la partoriente assieme al dottore, e che si era innamorata di Ringo) di sedergli al fianco per fargli ancora un attimo di compagnia. Ed ecco che lo sceriffo, aiutato dal dottore, anziché salire a sua volta sul calesse, dà una frustata al cavallo, lasciando liberi i due innamorati di andarsene oltre la frontiera messicana, dove Ringo aveva una fattoria. E il gambler? A lui non è stato concesso di arrivare a Lordsburg. Unica vittima degli Apache, ha ritrovato la sua dignità battendosi valorosamente durante l’attacco alla diligenza.
Ecco perché parlavamo di sogno. E’ il sogno di un luogo dove si può arrivare solo dopo un viaggio periglioso, e dove finalmente si realizza la giustizia, non quella formale e spesso fallace dei tribunali e dei codici, ma quella vera, che realmente premia i buoni e punisce i malvagi. E’, in fondo, il sogno di tutta l’avventura della frontiera. La realtà era diversa, ma il sogno deve vivere, perché senza sogni l’uomo è morto. John Ford girerà il suo ultimo grande western nel 1962. Il titolo: L’uomo che uccise Liberty Valance. Valance (Lee Marvin) è un ladro e assassino, che spadroneggia nel paese di Shinbone, in Arizona, intimorendo anche lo sceriffo, pavido e incapace. Il delinquente rispetta solo Tom Doniphon (John Wayne), allevatore duro ed esperto pistolero, che però si fa i fatti suoi, preoccupato soprattutto di corteggiare la cameriera del ristorante. Le cose cambiano quando in paese arriva il giovane avvocato Stoddard (James Stewart) che, rapinato e picchiato da Liberty Valance, vuole a tutti i costi ottenere giustizia a termini di legge. Ma lo sceriffo non si muove, mentre Valance sfida il giovane avvocato a duello, ben sapendo che Stoddard non ha mai impugnato un’arma. Eppure Stoddard riesce ad uccidere Valance, e sull’onda della popolarità conseguita per aver liberato il paese dall’incubo, inizia una carriera politica che lo porterà fino al Senato di Washington. Solo nel finale si svela ciò che era realmente accaduto: da un vicolo Tom Doniphon aveva ucciso con una fucilata il criminale, per impedire che questi uccidesse il giovane avvocato. Perché lo aveva fatto? Perché aveva capito che la sua fidanzata era ormai innamorata dell’avvocato, e che quindi avrebbe troppo sofferto se Valance fosse riuscito nel suo intento. La vera storia viene narrata da Doniphon, che si è dato all’alcol dopo l’abbandono della fidanzata, che la rivela brutalmente all’avvocato Stoddard, che si poneva problemi di coscienza.
Sarà poi l’avvocato, ormai senatore, che la rivelerà a sua volta al direttore del giornale di Shinbone, stupito nel rivedere il noto uomo politico, che era tornato al paese per i funerali di Tom Doniphon, morto nell’anonimato e nella miseria a cui si era autocondannato dopo aver perso la fidanzata, che aveva sposato Stoddard. Qui abbiamo un West dove non c’è più nulla di eroico; John Wayne, protagonista di tante cavalcate, di tante imprese, così spesso eroe per antonomasia, è qui un menefreghista che, pur essendo l’unico che potrebbe liberare il paese dal criminale, si preoccupa solo dei propri interessi e si decide a far giustizia solo come ultimo atto di amore per la fidanzata ormai persa. Abbiamo un ex eroe abbruttito dall’alcol, abbiamo i politicanti americani retorici e un po’ buffoni (splendida è la scena della convenzione per eleggere i candidati alle cariche senatoriali, con confusione, bande musicali, cow boy che reggono i cartelli dei candidati, ecc.), abbiamo, in fondo, la menzogna come filo conduttore. Sono passati ventitré anni dal sogno di Ombre Rosse. Lordsburg, luogo della Giustizia, è sostituito da Shinbone, luogo della vigliaccheria. Ma nel finale la versa sintesi viene data dal direttore del giornale, al quale il senatore Stoddard, da tutti ritenuto l’uomo che uccise Liberty Valance, ha narrato la verità per rendere finalmente giustizia al vecchio amico-rivale. Il direttore straccia i fogli su cui ha scritto la storia e li getta. E alla domanda del senatore: "Non pubblicherà quello che le ho raccontato?", risponde: "No, senatore.
Perché qui siamo nel West, e se la realtà supera la leggenda, è la leggenda che dobbiamo difendere". Ombre Rosse; Il massacro di Forte Apache; Sentieri Selvaggi; L’uomo che uccise Liberty Valance. Dal sogno alla realtà, con un contrastato sentimento verso le vere vittime dell’avventura della frontiera, gli indiani, ora presentati come persone degne di rispetto, ora come selvaggi. Nell’ultimo film gli indiani non ci sono neanche più.
C’è un West brutto e brutale, ma c’è la chiara affermazione della volontà di difendere la leggenda, di credere a qualcosa di migliore anche contro ogni evidenza. E forse proprio in questo sta il vero dramma del popolo americano, visto con l’animo sensibile dell’artista, quale Ford era. La realtà è brutale, la stessa giustizia, anche quella sostanziale di Lordsburg, la meta in Ombre Rosse, si raggiunge comunque solo con la violenza. Allora, diamo un mito onorevole a questa violenza, trasferiamola su un piano superiore; dobbiamo crederci, se non vogliamo smarrirci. 
Prima di chiudere vorremmo tornare un attimo sul Massacro di Forte Apache. In questo film del 1947, ispirato alla figura di Custer (anche qui abbiamo infatti un colonnello, già generale onorario nella guerra di secessione, smanioso di affermarsi sui selvaggi) il comandante (Henry Fonda) viene chiaramente presentato come un incosciente, al quale il capitano (John Wayne) tenta invano di opporsi. Quando lo stesso comandante trova la morte, insieme a tanti suoi uomini, nell’assurdo attacco che ha ordinato contro un numero enorme di pellerossa, dei quali ha sottovalutato le capacità guerriere, sembra che giustizia sia fatta. Del resto, lo stesso capitano lo aveva definito pazzo da legare. Ma nel finale del film, c’è da stupirsi non poco. Sono passati alcuni anni, il capitano è divenuto a sua volta colonnello comandante e si appresta a partire per una missione contro le tribù indiane; parla con alcuni giornalisti che verranno al seguito, e definisce il defunto colonnello come un soldato eccezionale, che vivrà sempre perché "gli uomini passano, ma il reggimento sarà sempre vivo". 
In altre parole: il colonnello era un incosciente, un pazzo da legare, ma va comunque difeso, perché va difesa l’istituzione. E che è ciò, se non militarismo del più scadente conio? John Ford morì il 3 febbraio del 1973 e comunque tutti quelli che hanno cavalcato con lui, tra cui chi scrive, nelle sconfinate praterie, non possono che ricordarlo con gratitudine perché ha consentito loro di sognare, di vivere un’avventura che non è mai esistita e che, proprio per questo, è così bella. Gli eroi e la giustizia dei primi film hanno dovuto fare spazio, a un certo punto, a una narrazione di una realtà molto più cruda e poco edificante. Ma in fondo, l’ultimo messaggio dell’ultimo film, "Qui siamo nel West, e se la realtà supera la leggenda, è la leggenda che dobbiamo difendere", possiamo intenderlo in due modi. O come un’ipocrisia, o come un messaggio di speranza: se riusciamo ancora a difendere una leggenda, forse un giorno riusciremo a trasformarla in realtà.

Articolo di PAOLO DEOTTO, 

Questa pagina (per Storiologia)
è stata offerta da Franco Gianola
direttore di http://www.storiain.net

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