ROMA ORIGINI
i 7 RE DI ROMA

GLI IMPERATORI

(da Tito Livio, Istorie)

nome origine inizio regno fine regno
Romolo Latino? 753 717
2°  Numa Pompilio Etrusco 715 673
Tullo Ostilio Etrusco 672 641
Anco Marcio Etrusco 640 617
L. Tarquinio Prisco Etrusco 616 579
Servio Tullio Etrusco 578 535
Tarquinio il Superbo Etrusco 534 510

 

REGNO DI ROMOLO 
(Latino - 1-37 Anno di Roma - 753-717 a.C. )
(da Tito Livio, Istorie)

Romolo prima di tutto fortificò il monte Palatino, dov’era stato allevato; sacrificò ad Ercole secondo il rito dei Greci, agli altri dèi secondo il rito degli Albani. Raccontano che Ercole, ucciso Gerione ne menasse in quei luoghi le vacche, ch’erano di meravigliosa bellezza, e che, cacciando la mandria dinanzi a sè, passato il Tevere a nuoto, ivi la fermasse in una spiaggia erbosa per ristorarla coi lieti pascoli e col riposo, e che, stanco della via, vi si coricasse egli stesso. E poichè, pieno di cibo e di vino, fu ivi oppresso dal sonno, un pastore che abitava in quei dintorni, detto Caco, di gagliardia ferina, preso dalla bellezza delle giovenche, disegnò di farle sua preda; ma, poichè, se avesse spinto l’armento in branco alla sua grotta, mandarle innanzi, le orme stesse avrebbero guidato colà il padrone in cerca; adocchiate le mucche più cospicue per bellezza, ve le trasse per la coda a ritroso. Ercole, svegliatosi sul far del giorno, riscontrato con uno sguardo l’armento, e accortosi che ne mancava una parte, si avviò alla vicina spelonca per vedere se le pedate a caso guidassero ad essa: ma, scoperto che erano tutte rivolte all’infuori e conducenti verso una stessa parte, confuso e perplesso, si consigliò di menare l’armento lontano da quei luoghi insicuri. Ma alcune vacche nell'allontanarsi mugghiarono, come succede, per il desiderio delle rimaste, e il mugghio delle rinchiuse che rispondevano dalla spelonca avverti Ercole. Caco, si provò a fermarlo con la forza, mentre quello veniva alla spelonca, ma colpito dalla sua clava e vanamente invocando il soccorso dei pastori, cadde morto.

Proprio in quel tempo Evandro, profugo del Peloponneso, reggeva quei luoghi più col credito che col comando: uomo venerabile per l’arte meravigliosa della scrittura, cosa nuova fra quei popoli ignari di ogni arte; più venerabile ancora per la creduta divinità di Carmenta sua madre, che, dicendo la sorte, aveva stupefatto molto quelle genti. Evandro medesimo, scosso allora dai pastori accorrenti in folla attorno allo straniero manifestamente reo di omicidio, poichè ebbe inteso il fatto e la cagione di esso, fissandosi in quel contegno, in quella figura aitante e maestosa ben più dell’umana, gli domandò chi egli fosse. Appena ne intese il nome, la patria e il genitore, disse: "O Ercole figlio di Giove, io ti saluto. Ben mi annunziò la madre mia, verace interprete degli Dèi, che tu accresceresti il numero dei Celesti e ti sarebbe dedicata un’ara in questo luogo, che Ara Massima avrebbe il nome un dì dal più possente popolo della terra, e di rito speciale onorata";  Ercole, portagli la destra, rispose che accettava l'augurio, e che compirebbe i destini, innalzando l’ara e consacrandola. Questo fu fra i tanti il solo rito straniero che Romolo accogliesse. 

Compiuta secondo i riti la sacra cerimonia, Romolo convocò la gente in assemblea; e, poiché non altro che le leggi potevano ridurla ad unità di popolo, gliele dettò; e, persuaso che quella razza di uomini robusti solo allora le avrebbe rispettate quando si fosse reso egli stesso più temibile con le insegne del comando, accrebbe in tutto la maestà della sua persona, ma specialmente col prendersi a guardia 12 littori. Vi è chi pensa che egli scegliesse un tal numero dagli uccelli che gli avevano annunziato il regno. Io non mi pèrito di seguire il parer di coloro che credono essere questa guardia  presa dagli usi degli Etruschi (da cui si imitò anche la sedia curiale e la toga potestà) o per le guardie e per il loro numero; certo è che questo numero ebbero anche gli Etruschi, poichè i dodici popoli che essi erano, si erano dati in comune un re, e ognuno aveva un littore. 

Si ingrandiva intanto di fabbricati la città, occupando questo e quel luogo, e si edificava più per la speranza che sarebbe cresciuta la popolazione, che non per gli abitanti che vi erano allora. Indi, perché non fosse vana l’ampiezza del gran recinto, Romolo, alfine di moltiplicar abitanti, aprì un asilo nel sito che ora a chi scende dai due luchi (luci erano chiamate le due dime del Campidoglio coperte di boschi) ) è chiuso da siepe; seguendo così l’antica usanza dei fondatori di città, che, invitando presso di loro turbe oscure, poi spacciavano che la loro città era nata spontaneamente dalla terra. 
Si ricoverarono, dai Paesi d’intorno, ogni sorta di gente avida di cose nuove, senza distinzione di libero o di servo; e questo fu il primo gruppo della incipiente grandezza di Roma. E già, non scontento delle sue forze, ad esse aggiunse un Consiglio: elesse cento Senatori, sembrando che tal numero bastasse; o che soli cento fossero atti ad esser Padri. Padri certo poi furono questi chiamati in segno di onore, e "patrizia" la loro discendenza. 

Era oramai cresciuto lo stato di Roma a tanta forza, che poteva tenersi al pari con qualunque delle città confinanti; ma tale grandezza per mancanza di donne, avrebbe forse durato non oltre l’età di un uomo, non avendo i Romani (per mancanza di donne) speranza di prole. Romolo allora, per consiglio dei Padri, spedì legati alle genti d’intorno, a chiedere alleanza e parentela con questo nuovo popolo, dicendo che le città, come tutte le altre cose, sorgono da bassi principi; m apoi quelle si levano a grande potenza ed a grande fama, cui sovvengano i Numi ed il proprio valore. 

Ben si sapeva che alle origini di Roma gli dèi presiedettero e la virtù non sarebbe mancata. Ma per il grave pericolo di mescolare, uomini con uomini, il sangue e la schiatta, non fu ben accolta in alcun luogo la legazione: tanto da un lato li disprezzavano, tanto dall’altro temevano  per sè stessi e per i loro posteri l’ingrandirsi di quel nuovo popolo in mezzo a loro. Parecchi, nell’atto di congedarli li interrogavano perché non avessero aperto un asilo anche per le femmine, così si sarebbero meglio assortite le nozze. Molto male la gioventù romana soffrì lo scherno, e la cosa cominciò a volgersi alla violenza in modo manifesto. 

Volendo Romolo procurar luogo e tempo opportuno, dissimulando il rancore, allestì, con il proposito, i giuochi annuali di Nettuno Equestre, e li chiamò Consuali. Fece indi bandire lo spettacolo ai popoli confinanti, e vi si pose il maggior apparato che si sapesse o si potesse fare a quei dì, per far la cosa molto pomposa e degna di aspettative. Gran folla vi attrasse e in modo particolare i più vicini, come i Ceninesi, i Crustumini, gli Antennati, mossi anche dalla curiosità di vedere la nuova città. Ed ecco tutto il popolo dei Sabini con le mogli e coi figli. Invitati ospitalmente per le case, veduto il sito, le mura e la città fitta di fabbricati, non si davano pace del come in così breve tempo Roma si era così tanto ingrandita. Venuto il momento dello spettacolo, mentre gli animi e gli occhi erano ad intenti a queli, scoppiò, di concerto, la violenza; e, dato un segnale, i giovani romani correvano chi qua e chi là a rapir le donzelle. Le più ambite furon rapite dal primo cui s’avventava su di esse; di rara bellezza, destinate ai più autorevoli fra i Padri,  condotte alla loro casa da uomini della plebe a ciò comandati. Scompigliato lo spettacolo dalla paura, fuggiti mesti i genitori delle donzelle, imprecando alla violazione dei diritti di ospitalità ed invocando il dio, alla cui festa e ai giuochi erano intervenuti, perché traditi sotto il manto della religione e della fede. Nè avevano le rapite uno sdegno minore o una speranza di sè; se non che Romolo girava intorno di persona, dicendo a loro che per l’alterigia dei padri questa spiacevole cosa era avvenuta; che i loro padri avevano negato di apparentarsi con i vicini; ma promettendo a esse che sarebbero quando fatte spose la comunione di tutti i beni, di tutti i diritti, e (ciò non ha l’umano genere più dolce cosa) della figliolanza; purchè mitigassero l’ira, e concedessero il cuore a coloro, alla cui la sorte aveva concesse le persone. Si era visto  sovente amore nascer da ingiuria, ed esse avrebbero mariti tanto migliori in quanto che ciascuno, compiuta la parte del dover suo, si adoprerebbe per essere buon genitore e buon uomo di patria. Si aggiunsero a queste parole le carezze degli sposi, che scusavano il fatto con la passione e l’amore, un modo questo di pregare efficacissimo a un cuor di donna. E già le rapite si erano del tutto rassegnate; se non che i loro genitori in arnese di lutto, piangenti  eccitavano i concittadini. Nè contenevano in patria gli sdegni loro, ma d’ogni parte si stringevano intorno a Tito Tazio re dei Sabini, e a lui, che altissima fama aveva in quelle contrade, convenivano ambascerie. I Sabini, subito  nulla fecero cedendo ad ira o a passione, ma assalirono prima di darne avviso o indizi. Si aggiunse all’accorgimento anche l’inganno. Spurio Tarpeo aveva in custodia la rocca di Roma. Tazio corruppe con l’oro sua figlia giovinetta, che per caso uscita fuor della cinta ad attingere acqua per i sacrifizi:  la convinse che accogliesse i suoi in armi entro la fortezza. Appena introdotti, essi poi fecero finta di soffocarla sotto gli scudi,  per far credere di aver presa la rocca con la viva forza e non con il tradimento della fanciulla..
 Si aggiunge al racconto che, usando i Sabini portare nel braccio maniglie di oro di gran prezzo, ed anelli gemmati di grande bellezza, la donzella avesse pattuito ciò che portavano nella sinistra, e ch’essi, invece degli aurei doni, le gettassero addosso gli scudi come ingrato ringraziamento. Comunque sia, tennero i Sabini la rocca, e il dì seguente, avendo l’esercito romano in ordinanza occupato tutto il piano tra il colle Palatino e il Capitolino, tardando quelli a scendere a valle,  i Romani, stimolati dall’ira e dalla voglia di ricuperare la rocca, incominciarono a salire l’altura. 
Mettio Curzio, condottiero dei Sabini, si mise a correr giù dalla rocca, e incalzava i Romani per tutto quanto era lo spazio del Foro, e non lontano dalla porta del Palatino, gridando: "Abbiamo vinto gli ospiti perfidi, i nemici imbelli; che non conoscono altro che rapir donzelle, altro che combattere come veri guerrieri".
 Mentre così Curzio e i suoi si magnificavano, Romolo gli fu sopra con un manipolo di giovani dei più baldi e in breve fu l'iniziò di un acceso scontro di armi 
Allora le donne sabine, il cui oltraggio aveva fatto nascere la guerra, con i capelli sparsi e stracciandosi le vesti, vinta la femminile timidezza, entrate dal fianco dei combattenti, osarono lanciarsi in mezzo ai giavellotti, a spartire le squadre nemiche, a spartire gli sdegni, scongiurando sia i padri sia i mariti a non imbrattare suoceri e generi di sangue, e non macchiare di parricidio il frutto in grembo, figli degli uni, e nipoti degli altri. "Se tanto vi rincresce di avere fra di voi parentela con loro, allora volgete le vostre ire contro di noi: noi siamo la cagione della guerra, la cagione delle ferite e della morte degli sposi e dei padri. Meglio per noi morire che vivere senza l’uno o l’altro, come vedove oppure come orfane".  
La scena commosse i soldati e i capi: si fece silenzio e una quiete improvvisa. Poi si alzarono i comandanti a stringere alleanza, nè solamente conclusero la pace, ma di due fecero un popolo solo, accomunarono il regno e trasferirono a Roma tutta la sovranità. Cresciuta così del doppio la città, per concedere pur qualcosa ai Sabini, si chiamarono [Curiti o] Quiriti i Romani, dal nome di Cure.

 Pace sì lieta, uscita impensatamente da una sì triste lotta, rese le Sabine più care ai padri ed agli sposi, e a Romolo sopra tutto; poi avendo diviso il popolo in trenta curie, queste le chiamò con il loro nome. Ma poiché, senza dubbio, il numero delle donne fu ben maggiore a quello delle curie, non si sa se quelle che diedero il nome siano state scelte secondo l’età o la dignità che avevano esse o quella dei loro mariti, oppure se tratte a sorte. 
Nello stesso tempo si arruolarono tre centurie di cavalleria, una dei Ramnesi, così chiamata da Romolo, l’altra Tiziesi da Tito Tazio; incerta è la ragion dell’origine e del nome di quella dei Luceri. Da qui in poi ebbero i due re un comando non comune, ma concorde. 

In seguito Romolo, rimasto, dopo la morte di Tito Tazio solo re di Roma, condusse guerre fortunate contro i Fidenati ed i Veienti.  
Mentre un giorno Romolo teneva adunanza del popolo nel Campo presso la palude della Capra, per passare in rassegna l’esercito, scoppiò all'improvviso un temporale con grande fragore di tuoni, che fra dense pioggia e nuvole ravvolse il re, fin da levarlo alla vista degli astanti; Romolo non fu più visto nemmeno in terra. Calmata finalmente la paura e risorto da un così torbido giorno la luce tranquilla e serena, poichè la gioventù vide vuoto il seggio reale, benché non negasse fede ai patrizi che gli stavano prima a fianco, che dicevano essere stato Romolo rapito in alto dalla procella. Pur colpiti da questa disgrazia e resi orfani del re, si tenne un mesto silenzio. Indi cominciarono prima pochi, poi tutti insieme a salutar Romolo dio nato di dio, re e padre di Roma; poi pregarono per la pace e a propiziarsi la sua stirpe. 
Credo che fin d’allora alcuni abbiano sospettato in cuor loro che il re fosse stato fatto a pezzi dai patrizi; e questa voce ebbe corso, anche se bene occultata; l'altra voce invece acquistò credito dall’ammirazione del grande uomo, oppure dalla paura del momento. 
Dicesi pure che valse a dare fede alla cosa l’astuzia di un tale Proculo Giulio, il quale, poichè la città da giorni era in grave affanno per la perdita del re e mal disposta contro i patrizi, si presentò al popolo e disse: “Romolo, o Quiriti, il fondatore di questa città, oggi sul far del giorno, subito sceso dal cielo mi si fece innanzi; e mentre io stavo pieno di raccapriccio e di venerazione, pregandolo a concedermi di poterlo fissare in viso: "Va’, mi disse, annunzia ai Romani esser decreto degli dèi che la mia Roma diventi capo di tutto il mondo; attendano quindi all’arte militare, e sappiano e così tramandino ai posteri che nessuna umana forza potrà mai resistere all’armi di Roma". Detto ciò, aggiunse Proculo, si levo in cielo e disparve.
 Non può dirsi quanta credenza si dessero alle parole di quell’uomo, e quanto si calmasse nella plebe e nell’esercito il rimpianto di Romolo per la persuasione della sua immortalità. 
(Da Tito Livio,  Istorie, I,)

________________________________

REGNO DI NUMA POMPILIO
( Latino - 38-71 Anno di Roma - 715-673 a.C. )
(da Tito Livio, Istorie)

Era a quei tempi famosa la giustizia e la religiosità di Numa Pompilio. Abitava egli la città di Cure dei Sabini, uomo versatissimo, quanto si poteva esserlo in quell’età, in tutte le divine leggi e in quelle umane. 
Udito il nome di Numa, i Padri di Roma, benchè, traendo il re dai Sabini vedessero calar la bilancia della potenza a pro di questi, pur, non osando alcuno preferire a tal uomo nésè,  né altri del suo partito, né alcuno dei Padri o dei cittadini, tutti quanti si accordarono nel conferir il regno a Numa Pompilio. 

Egli, chiamato a Roma, ordinò che, siccome Romolo, dovendo fondare la città, prima prese gli auguri e poi il regno, così per sé pure si consultassero gli Dei. Quindi Numa, condotto sulla rocca da un augure (cui fu poi a titolo di onore, conceduto in perpetuo questo pubblico sacerdozio), sedette su di un sasso rivolto a mezzodì. L’augure prese posto alla sua sinistra, con il capo velato, tenendo nella sua destra un bastone senza nodi, ricurvo in cima, che chiamavano lituo. Poi, misurata con l’occhio la città e la campagna intorno, invocati gli Dei, determinò in cuor suo dinanzi a sè, fin dove l’occhio poteva mai portare la vista, un punto; segnò da oriente ad occidente le parti del cielo, e disse che al destro lato era il mezzodì, al sinistro la tramontana. Allora, passato il lituo nella sinistra, imposta la destra sul capo di Numa, così pregò: "O Giove padre, s'è tuo volere che questo Numa Pompilio, di cui tengo il capo, sia re di Roma, deh tu dichiaracelo con certi segni dentro i confini da me or or divisati ! „. Poi proferì quali segni bramava che fossero mandati; e mandati che furono, Numa dichiarato re, scese dal tempio.

Avuto il regno in questo modo, Numa Pompilio si accinse a rifare, col diritto, le leggi ed i costumi, la nuova città già fondata con la violenza delle armi. E, vedendo che male vi si potrebbe assuefare in mezzo alle guerre, e che anzi più s'inferocivano gli animi nella milizia, deliberato di ammassare la fierezza del popolo col divezzarlo dalle armi, stabilì che il tempio di Giano, in fondo all'Argileto, fosse indice di guerra e di pace, e che aperto significasse che lo Stato era in armi; chiuso, che tutti intorno i popoli erano con esso in pace. Fu chiuso dopo il regno di Numa quel tempio due volte: una sotto il consolato di Tito Manlio, dopo la fine della prima guerra punita; l'altra dopo la battaglia d'Azio (il che gli Dei concessero di vedere all'età nostra), quando da Cesare Augusto imperatore fu fatta pace per terra e per mare.

Numa, dopo averlo chiuso, ed essersi con alleanze e con trattati uniti in amicizia tutti i confinanti intorno, aflinchè i suoi, già tenuti a freno dal timor dei nemici e della militare disciplina, cessati i pericoli esterni, nell'ozio non insolentissero, pensò anzi tutto d'infondere in essi il timor degli Dei, cosa efficacissima sulla gente semplice e ancor rozza di quei tempi. Ma, non potendo scendere questa tema nei loro cuori, se non fingeva qualche prodigio, simulò di avere abboccamenti notturni con la dea Egeria, e che ella gl'insegnasse ad istituire i sacrifizi ch'eran più grati agli Dei e ad assegnare a ciascun nume i suoi sacerdoti.
E prima di tutto prescrisse l'anno di dodici mesi secondo le lunazioni. Introdusse anche la distinzione dei giorni fasti e dei nefasti, perchè sarebbe stato utile talvolta non trattare col popolo. Indi si applicò a creare i sacerdoti, sebbene facesse da sè molte funzioni, quelle specialmente che ora toccano al Flamine diale. Ma, prevedendo che in città più bellicosi sarebbero stati i re simili a Romolo che simili a Numa, e che sarebbero andati alla guerra in persona, perchè non si avessero a trascurare le cerimonie di spettanza del re, creò il flamine, sacerdote di Giove, lo adornò di abito speciale e di regia sedia curale; al quale altri due ne aggiunse, uno a Marte, uno a Quirino. Scelse pure le vergini per il tempio di Vesta, sacerdozio questo originario di Alba, nè straniero alla famiglia del fondatore; assegnò loro stipendio del pubblico, perchè fossero preposte alla custodia del tempio; e col voto di verginità e con altre cerimonie le pose in venerazione di sante. Ed elesse dodici Salii a Marte Gradivo; diede loro una tunica ricamata per distintivo e sopra questa una corazza di bronzo sul petto; e li faceva andare per la città portando gli scudi detti ancili ch'eran caduti dal cielo, e cantando inni, con saltellamenti e danze rituali.
Indi scelse fra i Padri e fece Pontefice NUMA MARCIO, figlio di Marco, affidandogli l'ispezione di tutte le sacre funzioni minutamente descritte e dichiarate: con quali vittime, in quai giorni, in quali templi si dovesse sacrificare, e donde trarre il denaro per tali spese. Sottopose pure all'autorità del Pontefice ogni altra cerimonia sia publica che privata, sicchè avesse la plebe a chi ricorrere per consiglio, e affinchè, trascurando i patri riti o accogliendone di stranieri, non si turbasse minimamente il divin culto; nè solo i riti degli Dei celesti, ma volle anche che insegnasse l'esequie e il modo di placar le ombre dei morti e come i prodigi annunziati per via di fulmini o di altre apparizioni si riconoscessero ed espiassero. E per trarne il significato dalle menti celesti, dedicò un'ara sull'Aventino a Giove Elicio, e lo consultò con augùri, per sapere quali prodigi fossero da riconoscere per tali.

Dalla violenza dunque e dall'armi tutto si volse il popolo a consigliarsi di tali cose e ad espiarle con sacrifizi: così aveano gli spiriti di che occuparsi, e l'assiduo e fisso pensier degli Dei, per la persuasione che celeste nume vegliasse sui fatti umani, avea di tanta pietà gli animi tutti compresi, che, posponendo il timore delle leggi e dei castighi, la città si reggeva con la fede e il giuramento. E non solo informarono i cittadini i loro costumi a quelli del re, quasi ad unico modello; ma i popoli confinanti, che prima vedevano in Roma non una città, ma un campo di guerra piantato in mezzo ai loro per inquietar la pace di tutti, giunsero a tanto di rispetto, che avrebbero creduto sacrilegio violare una città tutta rivolta al culto degli Dei.

Vi era un bosco, bagnato per mezzo con rivo perenne da una fontana uscente da opaca spelonca; e, perchè Numa vi si recava spesso soletto, quasi a conferire con la dea, lo dedicò alle Muse, perchè (affermava) venivano qui a intrattenersi con Egeria sua sposa. Alla Fede istituì una festa particolare; ordinò che i sacerdoti fosser condotti al santuario di lei in una biga chiusa, e che facessero i sacrifizi con la mano velata sino alle dita, per significare che la fede vuol essere custodita e che le destre sono pur sede consacrata di lei.
Stabilì molti sacrifizi e luoghi da farveli, i quali dai pontefici furono detti Argei. Ma la più grande di tutte le opere sue fu la cura ch'ebbe, per tutto il corso del suo governo, della pace insieme e del regno. Così successivamente due re, l'uno per una via, l'altro per l'altra, quegli con la guerra, questi con la pace, migliorarono lo stato. Romolo regnò trentasett'anni, Numa quarantatrè, e il popolo, quanto era forte per l'esercizio della guerra, tanto divenne moderato per l'uso della pace.
(Da Tito Livio,  Istorie, I, )

_______________________________

REGNO DI TULLO OSTILIO
( Latino - 72 - 104 Anno di Roma - 672-641 a.C. )

(da Tito Livio, Istorie)

Morto Numa, si ebbe un interregno. Indi Tullo Ostilio, nipote di Ostilio, che aveva gloriosamente combattuto contro i Sabini a piè della rocca, fu eletto re dal popolo, e confermato dai Padri. Questi fu non solo dissimile dall'ultimo re, ma fiero più di Romolo stesso: l'età, le forze a un tempo e la gloria dell'avo lo stimolavano. Ora, parendogli che il popolo nell'ozio imbecilisse, cercava in ogni parte un pretesto di muover guerra. Avvenne per caso che alcuni contadini romani depredassero le terre degli Albani e questi a vicenda quelle dei Romani. Signoreggiava allora in Alba GAIO CLUILIO. L'una parte e l'altra quasi nello stesso tempo mandò legati a chiedere soddisfazione. Tullo aveva ordinato ai suoi che s'affrettassero a fare prima degli altri l'ambasciata: era ben sicuro che l'Albano avrebbe negato soddisfazione, per modo che senza scrupolo si sarebbe potuto intimargli la guerra.
(E così avvenne).
Già da ambo le parti si allestiva la guerra con ogni sforzo, simigliantissima a guerra civile, quasi tra padri e figliuoli, poichè tutti erano Troiani di razza.
Gli Albani furono i primi ad assaltare con un grosso esercito il territorio di Roma, piantando campo non più di cinque miglia lontano dalla città. In seguito Mezio Fufezio, dittatore degli Albani, propose a Tullo Ostilio di cercare qualche ispediente per cui, senza grandi stragi, senza tanto sangue dei due popoli, si potesse decidere quale delle due città dovesse all'altra comandare. Non dispiacque a Tullo la proposta, quantunque, e per indole e per lusinga di vincere, ei fosse più fiero; sicchè, gli uni e gli altri cercando, trovarono un partito cui la fortuna stessa offrì occasione.
V'erano allora per avventura in ciascuno dei due eserciti tre fratelli pari anche di età e di forze. Non c'è dubbio che si chiamassero Orazi e Curiazi, e non vi è forse avvenimento fra gli antichi più celebre. Pure in tanta evidenza di fatto resta l'incertezza rispetto ai nomi, cioè a qual popolo appartenessero gli Orazi, a quale i Curiazi. Gli scrittori sono divisi fra l'una e l'altra opinione; vedo tuttavia che i più dicono romani gli Orazi, e ad attenersi a questi s'inchina il mio pensiero.

Trattano i re coi fratelli trigemini, perchè voglia ciascuno combattere con l'armi per la sua patria: ivi sarà, la signoria, dove sarà la vittoria. Nessuno ricusa: si conviene del tempo e del luogo. Prima del combattimento fu stretto accordo fra i Romani e gli Albani con questo patto, che quel popolo, i cui cittadini fossero stati vincitori nella tenzone, avrebbe avuto sovranità sull'altro senza contrasto.

Stretto l'accordo, i sei fratelli, giusta il convenuto, impugnan l'armi. E, mentre ciascun esercito conforta i suoi, ricordando loro che i patri numi, la patria, i genitori e quanti sono cittadini a casa, quanti al campo, tutti in quel punto han volto lo sguardo all'armi loro, alle lor destre, essi, già fieri per indole, e inanimiti dalle voci incoratrici, si fanno innanzi nel bel mezzo, fra le due schiere. Gli eserciti s'eran dall'una parte e dall'altra fermati davanti gli alloggiamenti, fuori di personale pericolo, ma non di affanno, perciocchè si trattava della signoria affidata al valore e alla fortuna di così pochi.
Or dunque, intenti e in grande aspettazione, accesi, aveano gli animi al non piacevole spettacolo. Si dà il segnale, ed i sei giovani, recando in petto l'ardire di grandi eserciti, come due schiere, s'affrontano con l'armi brandite; nè a questi o a quelli s'affaccia, in mente il proprio rischio, ma la supremazia o la servitù e la condizione della patria, che tal sarebbe quale essi l'avrebbero fatta.
Come, al primo urto, subito risonaron l'armi e i ferri guizzanti lampeggiarono, alto orrore compresero gli spettatori e, non piegando nè di qua nè di là la speranza, non facevano motto, non fiatavano. Poichè vennero alle prese, e già son solo il destreggiare dei corpi e il dubbio agitarsi delle spade e degli scudi, ma le piaghe ancora e il sangue offrironsi alla vista, due dei Romani, (erano gli Albani tutti e tre feriti), caddero spirando l'un sovra l'altro. Alla loro caduta levò un grido di gioia l'esercito d'Alba; avevano ogni speranza ornai perduta le legioni di Roma, ma non ancora l'ansietà, disanimate essendo dal pericolo di quello che i tre Curiazi (Albani) avevano attorniato. Egli era per sorte affatto illeso; e, se da solo non bastava contro tutti, contro ciascuno ardito era gagliardo. Or dunque, per dividerli nel conbattimento, prese la fuga, ben prevedendo che i Curiazi l'avrebbero
inseguito come ad ognuno le membra inferme per le ferite avrebber concesso.

Già s'era scostato alquanto dal luogo ove si era combattuto, quando, voltatosi a guardare, vide che i Curiati lo inseguivano a grandi intervalli, e che un di essi non era da lui lontano. Contro questo si volse con grande impeto, e intanto che l'esercito albano gridava ai Curiazi che soccorressero il fratello, già Orazio vincitore, uccise il nemico, e veniva al secondo scontro. Allora i Romani con grida, quali esser sogliono di chi applaude a cosa che più non sperava, incoraggiano il loro campione, ed egli si affretta di por fine alla sfida. Prima pertanto che il terzo, il quale non era molto discosto, potesse sopravvenire, finisce anche il secondo Curiazio. E già, pareggiata la battaglia, n'era rimasto uno per parte, ma di fiducia non pari nè pari di forze.
L'uno il corpo non tocco dall'armi e la dupplice vittoria portavano baldo al terzo cimento; l'altro, strascinando il corpo rifinito dalle ferite, rifinito dal corso, già vinto per la strage dei due fratelli uccisigli sotto gli occhi, cade in mano ad un nemico trionfante.
Nè questa veramente fu zuffa., Il Romano imbaldanzito: " Due, disse, ne immolai all'ombre dei miei fratelli; immolerò il terzo all'oggetto di questa guerra, perchè Roma comandi ad Alba. Ed al Curiazio, che a stento reggeva l'armi, immerse profondamente il ferro nella gola e, caduto, lo spogliò. I Romani acclamanti e festosi accolgono Orazio, con gioia tanto più grande, quanto la cosa aveva dato a temere. Indi si volsero a seppellire ciascuna parte i suoi, ma con animo ben diverso; chè gli uni eran cresciuti in signoria, gli altri fatti loro soggetti. Sussistono ancora i sepolcri nel sito dove cadde ciascuno; i due Romani nello stesso luogo verso Alba, i tre Albani verso Roma, l'uno però dall'altro distante, proprio come si combattè.

Andava Orazio innanzi a tutti, portandosi le spoglie dei tre gemelli. Gli si fece incontro, fuor della porta Capena, la sorella nubile e promessa ad un dei Curiati; la quale, riconosciutone sugli omeri del fratello il paludamento che ella stessa aveva lavorato, si disciolse il crine, e, lagrimando, chiamò per nome il morto sposo. Tanto irritarono il fiero animo del giovane i lamenti della sorella in mezzo alla sua vittoria e a tanta pubblica gioia, che, snudato il ferro, rampognandola, trapassò da parte a parte la fanciulla. "Vanne, diss'egli, allo sposo con cotesto amor tuo intempestivo, dimentica dei fratelli morti e del vivo, dimentica della patria! Così perisca ogni romana che rimpiangerà un nemico!"
Parve atroce il delitto ai Padri e alla plebe, ma con la colpa contrastava il merito recente. L'Orazio fu tuttavia tratto in giudizio dinanzi al re. Tullo, per non prendere sopra di sè una sentenza così trista, ed odiosa al volgo, nè la condanna conforme alla sentenza, radunato il popolo: "Nòmino, disse, secondo la legge, i duumviri che imputino Orazio di parricidio".

I duumviri condannarono Orazio, e un d'essi pronunziò: "Publio Orazio, io t'imputo di parricidio. Va', o littore, e legagli le mani". E s'appressò il littore per mettergli le ritorte; ma Orazio con licenza di Tullo, clemente interprete della legge: "Mi appello „ disse, e fu portata la causa in appello innanzi al popolo.
Mosse sopratutto gli animi in quel giudizio Publio Orazio padre, che altamente affermava essere stata a buon diritto uccisa la figlia; se ciò non fosse, egli, valendosi della patria potestà, avrebbe punito il figliuolo. Indi scongiurava che non volessero privarlo affatto dei figli, lui, che poco innanzi avea veduto superbo di bella prole; e in così dire il vecchio, abbracciando il figliuolo, e mostrando le spoglie dei Curiazi là nel sito appese, che ora si chiamano Trofei di Orazio: "Questi dunque, aggiunse, o Quiriti, il quale poco fa veduto avete passare adorno e glorioso della vittoria, ora veder potreste legato sotto la forca, fra le battiture ed i tormenti, spettacolo orrendo, che appena gli occhi degli Albani potrebbero sostenere? Va', o littore, lega quelle mani che poc'anzi, armate, conquistaron la signoria al popolo romano; va', copri il capo al liberatore di questa città; l'appendi ad albero sterile, battilo dentro delle mura, purchè sia fra quell'aste che reggono le spoglie nemiche; o fuor delle mura, purchè sia fra i sepolcri dei Curiazi. In qual luogo ornai potete trar questo giovane, dove le sue glorie non lo salvino dall'onta di un tal supplizio? ". Non resse il popolo nè alle lagrime del padre, nè all'intrepidezza del figlio, sempre eguale ad ogni cimento, e lo assolse, più per ammirazione del suo coraggio, che per giustizia della sua causa.
(Avendo Mezio col suo esercito albano disertato il posto assegnatogli in una battaglia contro quelli di Fidene e di Veio, il re Tullo Ostilio lo condannò ad atroce morte, decretò la distruzione di Alba ed ordinò di trasportare in Roma il popolo albano, il quale vi avrebbe goduto di diritti pari a quelli dei cittadini romani).

Frattanto s'erano già mandati ad Alba i cavalieri che ne trasportassero a Roma gli abitanti: poi vi si condussero le legioni a smantellar la città. Appena furon essi dentro dalle porte, non vi fu nè quel tumulto, nè quel terrore, quale esser suole alla presa di una città, quando, infrante le porte, o atterrate dagli arieti le mura, o avuta d'assalto la rocca, si levano le grida dei nemici e gli armati scorrazzanti per la città mettono tutto a ferro e a fuoco; ma tristo silenzio e tacita mestizia costernò in guisa gli animi tutti, che, dimenticando in quello smarrimento ciò che aveano da lasciare o portar seco, non sapendo che si fare, interrogandosi l'un l'altro, or s'arrestavano sulle soglie, or andavano errando per le lor case, per dare a quei luoghi l'ultimo addio.
Ma, poichè la cavalleria stava, gridando di uscire, e già s'udiva dall'estreme parti della città il fragore degli edifizi che diroccavansi, e il polverio, sollevatosi da luoghi distanti, stendendosi a guisa di nube, avea già tutto ricoperto, ciascuno si pigliò in fretta ciò che poteva, e se ne uscì lasciando i Penati, i focolari e le case ov'era nato, ov'era stato cresciuto; e già gli esulanti avevano in fitta schiera ripiene le strade. E il vedersi l'un l'altro destava vicendevole compassione e rinnovava il pianto. E si udiano anche voci lamentevoli, di donne specialmente, nel passar che faceano dinanzi ai santi templi assediati da uomini armati, quasi abbandonassero prigionieri i loro Numi. Usciti gli Albani dalla città, i Romani spianarono a mano a mano tutti i pubblici e i privati edifizi; e in brevissima ora fu ridotto a un mucchio di rovine il lavoro di quattrocent'anni che Alba era durata. Si risparmiarono per altro (poichè tale era stato l'ordine del re) i templi degli Dei.

Dicesi che Tullo Ostilio, riandando i commentari di Numa, vi scoprisse certi occulti e solenni sacrifizi da farsi a Giove Elicio, e che nascostosi per praticarli, avendoli senza facoltà impresi e non bene eseguiti, non solo non se gli offrisse visione alcuna celeste, ma che, corrucciato Giove di essere invocato con cerimonie non rituali, lo colpisse di fulmine ed egli con tutta la reggia divampasse. Tullo regnò trentadue anni, con grande riputazione di guerriero.
(Da Tito Livio,  Istorie, I,)

_________________________________________

REGNO DI ANCO MARZIO
( Latino - 104-128 Età di Roma - 640-617 a. C.)

(da Tito Livio, Istorie)
Morto TULLO OSTILIO, il governo tornò nelle mani dei Padri, com'era l'usanza primitiva, ed essi nominarono il reggente. Questi tenne i comizi, nei quali fu creato re dal popolo ANCO MARZIO, e confermate dai Padri. Anco Marzio era nipote di Numa Pompilio, nato da una figlia di lui. Non prima ebbe egli il trono, che memore della gloria dell'avo, poichè l'ultimo regno, in tutto il resto lodevolissimo, per un solo rispetto non era stato felice, per aver trascurato o mal praticato il culto, persuaso che la cosa più importante da farsi fosse il compiere le pubbliche cerimonie al modo stesso che Numa aveva ordinato, volle che il Pontefice le ricavasse tutte dai commentari del re e, trascrittele sull'albo, le esponesse al pubblico.

Quindi, nei cittadini desiderosi di quiete, e nelle città confinanti nacque speranza che il re si volgesse ai costumi ed alle usanze dell'avo. Ma Anco Marzio aveva un carattere di mezzo che ricordava Romolo non meno che Numa; e, credeva che rispetto a quegli avi fosse più necessario la pace fra un popolo nuovo insieme e feroce, credeva ancora che egli non avrebbe facilmente, senza danno, goduto quel riposo toccato a Numa; che si sarebbe prima tentata, indi avuta in dispregio la sua tolleranza; che infine le circostanze richiedevano piuttosto un re come Tullo Ostilio che non come Numa. Tuttavia, volendo istituire le cerimonie della guerra, come quelle ordinate da Numa per la pace, cioè che s'intimassero con qualche rito le guerre, copiò dall'antica gente degli Equicoli le formule per chiedere quelle soddisfazioni, che tuttora usano i Feciali.

Giunto il Feciale sul confine di coloro cui si domandano le cose tolte, con il capo ricoperto di un velo, che deve esser di lana: " Odi, o Giove, dic'egli, udite, o confini (e qui nomina il popolo che confina), oda la giustizia del Cielo! Io sono il pubblico messaggero del popolo romano; vengo ambasciatore secondo il diritto umano e divino, e si presti fede ai miei detti". Poi fa le sue domande. Indi chiama Giove in testimonio: "Se io chiedo contro il diritto umano e divino che si rendano a me, messaggero del popolo romano i tali uomini, le tali cose, non lasciare che io più mai riveda la patria".
Così dice quando trapassa il confine, così al primo uomo che incontra, così varcando le porte, così all'entrata nel foro, solo mutando poche parole alla formula delle invocazioni e del giuramento. Se non gli si rende ciò che domanda, trascorsi trentatrè giorni (e tanti sono stabiliti) intima la guerra in questo modo: "Odi, o Giove, e tu, Giano Quirino, e voi tutti udite, o Dei celesti, terrestri ed infernali; io vi chiamo testimoni che questo popolo (e dice qual è) è ingiusto e nega il diritto: ma di questo noi consulteremo in patria i seniori per trovar modo di rivendicare i nostri diritti".
Ciò detto, il messaggero tornava a Roma a consultare. E il re consultava i Padri; e, quando la maggior parte di quelli che erano presenti convenivano nello stesso parere, la guerra s'intendeva decisa. Allora il Feciale usava portar sui confini del nemico un'asta ferrata o riarsa in punta e tinta in rosso, e dire alla presenza almeno di tre uomini maturi: "Avendo (per esempio) Prischi Latini mancato contro al popolo romano dei Quiriti, ed avendo il popolo romano dei Quiriti decretato la guerra contro i Prischi Latini, io a nome del popolo romano intimo ed incomincio la guerra ai Prischi Latini. Detto questo, lanciava l'asta dentro i loro confini.

Anco Marzio, affidata la cura delle cose religiose ai Flamini ed agli altri sacerdoti, fatta una nuova leva, si mosse e prese d'assalto Politorio, città dei Latini; e, seguendo gli esempi dei re precedenti, che avevano ingrandito lo Stato, comprendendo i nemici fra i cittadini, trasportò a Roma tutta la gente. E, poiché intorno al Palatino, nello stanziamento dei primitivi Romani, avevano i Sabini occupato tutto il Campidoglio e la rocca e gli Albani il monte Celio, si assegnò l'Aventino alla nuova popolazione. In seguito Anco Marzio, vinte altre città latine, carico di bottino se ne tornò a Roma, accogliendo nella città moltealtre migliaia di Latini, cui si diede un luogo di stanziamento presso il tempio Murcia, per unire al Palatino l'Aventino.

Fu compreso anche il Gianicolo, non per ristrettezza di luogo, ma perché quello non diventasse una fortezza nemica; e si volle unirlo alla città non solamente con un muro, ma, per agevolare il passaggio, anche con un ponte di legno che fu il primo gettato sul Tevere. Cresciuta così grandemente Roma, e smarritasi in tanta moltitudine di gente ogni distinzione di bene e di male, e commettendosi misfatti che restavano occulti, si fabbricò un pubblico carcere nel bel mezzo della città, a ridosso del Foro, per incutere terrore alla crescente malavita.

Né sotto a questo re diventò grande soltanto la città di Roma , ma si allargarono pure i confini del territorio. Portata via ai Veienti la selva Mesia, fu esteso il dominio fino al mare e fu fondata alla foce del Tevere la città di Ostia; ed intorno le saline e, per le imprese guerresche serenamente compiute, fu ampliato il tempio di Giove Feretrio.

(Da Tito Livio,  Istorie, I,)

______________________________________

REGNO DI TARQUINIO PRISCO
( 129 - 167 Anno di Roma - 616-579 a.C. )

(da Tito Livio, Istorie)
Sotto il regno di Anco Marzio venne a stabilirsi a Roma Lucumone, uomo di grande attività e di ricchezze, potente, mosso da ardente desiderio e dalle speranze di grandi onori, che non aveva potuto conseguire a Tarquinia, essendo pure là d'origine forestiera. Era figlio di Damarato da Corinto, il quale, fuggito dalla patria per sconvolgimenti, si era fermato a Tarquinia. La moglie sua Tanaquilla, donna d'alto lignaggio, era tale da non soffrire che la casa dov'era entrata, fosse da meno di quella da dov'era uscita. Ma gli Etruschi disprezzando Lucumone, come uomo nato da profugo forestiero, la donna non poté soffrirne l'affronto; e, dimentica del rimpianto amore verso la patria,
pur di vedere il marito onorato, prese la decisione di abbandonare Tarquinia. Roma le parve il luogo più a suo genio. In mezzo a un popolo nuovo, dove la nobiltà sorge improvvisa dal merito, non doveva mancar posto ad un uomo di valore e risoluto come il suo. Non aveva regnato Tazio che era di origine sabina, non era stato chiamato Numa al trono dalla città di Cure, e non era Anco Marzio di madre Sabina, senz'altra prova di nobiltà che l'effigie di Numa? Tanto più facilmente lo persuase poiché il marito era avido di onori; inoltre Tarquinia non era la sua patria, lo era solo dal lato di madre.
Presero dunque i loro averi e migrarono a Roma. Erano omai giunti al Gianicolo, quando, sedendo egli in cocchio con la moglie, un'aquila, abbassatasi adagio adagio con le ali tese, gli tolse il cappello, e, svolazzando di sopra al cocchio con grande schiamazzo, quasi mandata dal cielo per tal ufficio, glie lo ripose acconciamente sul capo; indi, levandosi in alto sparì.
Si sostiene che Tanaquilla, donna, come sono comunemente tutti gli Etruschi, pratica dei segni del cielo, accogliesse lietamente l'augurio. Abbracciando il marito, l'invitò ad alte e sublimi speranze, dicendogli quale era 1'uccello, di qual parte del cielo era venuto, di qual dio messaggero mandato, e che aveva fatto l'augurio intorno al vertice dell'uomo, levandogli l'ornamento soprapposto al capo e restituendolo per volontà del dio.
Con tali speranze, con tali pensieri nell'animo entrarono in città, e prendendovi domicilio, l'uomo prese il nome di Lucio Tarquinio Prisco. Ragguardevole lo resero presso i Romani la novità e le ricchezze; ed egli stesso aiutava la fortuna col benigno parlare, con la cortesia degl'inviti e conciliandosi con benefizi quanti più poteva, finché ne giunse voce anche alla reggia; né molto andò, che, sostenendo presso il re incarichi senza mercede e con destrezza, già aveva mutato le sue conoscenza in rapporti di intimità, sicché assisteva abitualmente ai pubblici e ai privati consigli di pace e di guerra; e, data di sé in ogni occasione buona prova, fu finalmente lasciato per testamento tutore dei figli del re.
Anco Marzio regnò ventiquattr'anni, pari a qualunque dei re precedenti nell'arti e nella gloria della guerra e della pace. I suoi figli, quand'egli morì, erano quasi vicini all'età di maggiorenni; n'approfittò Tarquinio, e subito si tennero i comizi per la nomina del re.
Come furono banditi, allontanò da Roma i due ragazzi con il pretesto di mandarli a caccia. Dicesi che egli era il primo che intrigasse per esser fatto re, e che pronunciò un discorso tutto volto a conciliarsi gli animi della plebe: non era una cosa nuova, né era il primo, onde potesse qualcuno meravigliarsi e dolersi, ed era il terzo straniero che aspirava a regnare in Roma. Tazio non solo era straniero, ma era anche di nemico eppure era stato creato re; Numa, ignaro di Roma, e senza che lo chiedesse, era stato chiamato al trono. E così lui appena fu arbitro di sé stesso, era venuto a Roma con la moglie e con tutti gli averi; quella parte di età in cui gli uomini occupano gl'impieghi civili, lui l'aveva vissuta più a Roma che nella vecchia sua patria; aveva imparato nella città e nel campo le leggi e i riti romani sotto un non spregevole maestro, ma sotto lo stesso re Anco Marzio; in ossequio, e lealtà verso il re aveva gareggiato con tutti, e col re stesso in cortesia verso gli altri. Non erano false le cose che Tarquinio rammentava, e perciò il popolo di comune consenso lo elesse re.
Conseguito il trono, Tarquinio, dopo una vittoria sui Latini, celebrò dei giochi i più ricchi e i più fastosi di quelli dei re precedenti. Si segnò allora per la prima volta lo spazio per il circo che ora è detto Massimo, ed ai senatori e ai cavalieri furono assegnati posti da dove su palchi sorretti da sostegni, alti da terra dodici piedi potessero vedere. Lo spettacolo era di cavalieri e pugilatori, chiamati i più dall'Etruria. Questi giochi rimasero poi stabili e si facevano ogni anno, detti, secondo i casi, Romani o Magni. Lo stesso re ripartì tra privati alcuni spazi presso il foro, per innalzarvi edifici e vi fece costruire logge e botteghe.
[In seguito il re Tarquinio, aumentato l'esercito, condusse importanti guerre vittoriose contro Sabini e Latini].
Poi con più maggior sforzo di come aveva condotte le guerre, si diede alle opere di pace, affinché il popolo non stesse a casa inoperoso dopo essere stato al campo. Prese dunque a cingere la città, là dove non era ancora fortificata, di alte mura di pietra; all'inizio questo lavoro era stato interrotto dalla guerra coi Sabini. Tramite cloache condotte in pendio che sboccavano poi nel Tevere, asciugò i luoghi più bassi intorno al Foro e gli altri avvallamenti che erano frapposti alle colline, e che non potevano agevolmente scaricar l'acqua stagnante. Voleva edificare sul Campidoglio un tempio a Giove, che era un voto fatto durante la guerra con i Sabini, e già presagendo nell'animo quale sarebbe stata un dì la grandezza di quel luogo, preparò lo spazio delle fondamenta.

(Da Tito Livio,  Istorie, I, )

___________________________________

REGNO DI SERVIO TULLIO
( Etrusco 167-211 Anno di Roma - 578-535 a. C. )

(da Tito Livio, Istorie)
[Regnava già da 38 anni Tarquinio quando i due figli di Anco Marzio, nella speranza di ricuperare il regno che ritenevano fosse stato loro usurpato da Tarquinio, lo fecero assassinare da due pastori, che avevano ottenuto il permesso di essere ammessi alla presenza del re, perché questi definisse una loro contesa].
Tanaquilla in quel frangente fece chiudere le porte della reggia, e mandò fuori tutto coloro che non avevano a che fare, e nel tempo stesso sollecitamente preparò quanto occorreva per medicare la ferita, come se vi fosse speranza; e per il caso che questa mancasse, meditò ben altri provvedimenti.
Chiamato Servio [un giovane di modesta origine, ma allevato come figlio dal re, che gli aveva data in sposa la propria figlia], e mostratogli il marito ormai dissanguato, tenendogli la destra, lo scongiurò a non lasciare invendicata la morte del suocero, né la suocera oltraggiata dai nemici. "Tuo è il regno, diss'ella, o Servio, se d'uomo hai cuore, e non di coloro che per mano altrui hanno commesso il peggiore dei misfatti. Noi pure fummo stranieri e regnammo; pensa chi sei, non da chi sei nato; e se nel caso ti manca consiglio, tu segui il mio". Non potendosi omai più frenare le grida e l'impeto della folla, Tanaquilla, affacciatasi alle finestre del piano superiore che davano sulla via nuova (il re abitava dalla parte del tempio di Giove Statore), arringò il popolo. Disse che rimanessero calmi e di buon animo; che il re era rimasto solo stordito per un colpo improvviso, che la ferita non era profonda; che era già rinvenuto; che, esaminata la piaga e fermato il sangue, tutti i segni erano buoni; che aveva fiducia e che forse lo avrebbero rivisto quel giorno stesso. Ordinava intanto che il popolo prestasse obbedienza a SERVIO TULLIO, il quale amministrerebbe la giustizia e supplirebbe alle altre competenze del re. Servio uscì in pubblico con i littori, e, sedendo sul seggio reale, alcune cose già lì le decise, per altre finse di doversi consigliare con il re. Così, già spirato Tarquinio, e celatane la morte per alcuni giorni, Servio, mentre faceva finta di tenere le sue veci, consolidava la sua potenza.

Allora soltanto si levò nella reggia il lamento funebre, e la morte del re fu fatta conoscere. Servio fu il primo che, circondato da una forte guardia, e senza l'elezione del popolo, né per volontà del Senato, riceveva in mano il regno di Roma. I figli di Anco Marzio, fin dalla cattura degli esecutori del delitto, inteso che il re viveva e che Servio aveva grandi forze, erano andati in esilio a Suessa Pomezia.
Né Servio, per consolidarsi sul trono, fece maggior uso sia dei mezzi pubblici sia dei privati; e affinché i figli di Tarquinio non fossero ostili verso di lui, come erano stati i figli di Anco verso Tarquinio, unì in matrimonio le due sue figlie con i giovani reali Lucio ed Arunte Tarquini.

Dopo avere combattuto vittoriosamente contro alcune città etrusche, si pose alla più grande opera di pace che fosse mai stata fatta, e siccome Numa era stato istitutore dei riti religiosi, così Servio voleva dai posteri essere celebrato come il fondatore di ogni distinzione fra le classi dei cittadini, dove esisteva fra questi certa differenza di ceto di dignità e di fortuna.

Istituì dunque il censo, salutare cosa per uno Stato che doveva diventar così grande, e per cui i carichi della pace e della guerra venivano a sostenersi non più, come prima, per testa, ma secondo gli averi di ciascuno. Quindi, giusta il censo, stabilì le classi e le centurie e l'ordinamento che dura ancora ed è confacente alla pace ed alla guerra.
Di quelli che possedevano un censo di centomila assi o più, fece ottanta centurie, quaranta di vecchi e quaranta di giovani, detti tutti insieme de....

La prima classe; i vecchi dovevano badare alla custodia della città, i giovani guerreggiare al di fuori. Questi ebbero l'ordine di armarsi di elmo, di scudo, di gambali e di corazza, tutte armi di bronzo e schermo della persona; ad offesa poi del nemico, di asta e di spada. Si aggiunsero a questa classe due centurie di fabbri che militassero senz'armi: era loro competenza attendere alle macchine da guerra.

La seconda classe fu formata di quelli che possedevano dai centomila assi ai settantacinquemila, e di questi si fecero venti centurie tra vecchi e giovani; l'armi comandate furono lo scudo invece di targa, e fuorché la corazza, tutto il resto.
La terza classe volle fosse di quelli che avevano dai settantacinque ai cinquantamila assi; e se ne fecero pure venti centurie, con la medesima distinzione di età, né si fece alcun cambiamento rispetto all'armi, salvo i gambali, che furono tolti.
La quarta classe fu di quelli che avevano venticinquemila assi, divisa pure in venti centurie; l'armatura fu mutata, né si permise loro che l'asta ed i giavellotti. Fu più numerosa la quinta classe, di cui si fecero trenta centurie; portavano seco le fionde e le pietre da scagliare; fra questi furono annoverati dei cornatori e trombettieri, distribuiti in tre centurie; questa classe era di coloro che avevano un censo di undicimila assi. Il censo minore di tal somma comprendeva tutta la restante moltitudine, di cui si formò una sola centuria esente dalla milizia. Così armata e ripartita la gente a piedi, istituì Tullio dodici nuove centurie di cavalleria fra i principali della città; mentre il numero delle tre centurie istituite da Romolo elevò a sei. Per comperare i cavalli furono assegnati del pubblico denaro diecimila assi; e per mantenerli furono tassate le donne nubili del pagamento di due mila assi l'anno. Così tutti questi carichi dal povero passavano al ricco.
Poi s'aggiunsero distinzioni di onore. Pertanto non fu permesso ad ogni cittadino, com'era stato istituito da Romolo ed osservato dagli altri re, di votare per testa promiscuamente, con lo stesso effetto e diritto; ma si fecero tali differenze, che non sembrasse ad alcuno di esser escluso dal votare, ma in realtà tutto l'effetto del voto era nelle mani dei principali cittadini. I cavalieri furono chiamati per primi, poi le ottanta centurie della prima classe; se vi era discordia, il che accadeva di rado, si chiamava la seconda classe; né avveniva quasi mai di dover scendere tanto da giungere sino agli infimi.

Compiuto il censo, che Tullio aveva affrettato con la legge pubblicata contro i non censiti con minaccia di prigione e di morte, pubblicò un editto che tutti i cittadini romani, o fanti o cavalieri, si trovassero sul far del giorno, ciascuno nella sua centuria, in Campo Marzio. Qui, schierato tutto l'esercito, lo purificò, sacrificando un maiale, una pecora ed un toro (suovetaurile); e questa cerimonia fu detta lustro compiuto, perché con essa si era posto fine al censo. Dicono che a quella funzione vi fossero ottantamila censiti. Fabio Pittore, il più antico dei nostri scrittori, aggiunge che tal numero fu dei soli abili a portare le armi.

Parve anche necessario ingrandire la città in ragione di tanta moltitudine, e Servio vi aggiunse i due colli Viminale e Quirinale; poi incluse 1'Esquilino, dove volle lui medesimo abitare, per dar prestigio al luogo. Cinse la città di argini, di fosso e di muro, allargando il pomerio. A badare al solo vocabolo, pomerio significa spazio dopo il muro; ma significa piuttosto "circamerio o attorno al muro", luogo che un tempo gli Etruschi, fabbricando le città consacravano, dopo presi gli auspizi, fra certi limiti, là dove intendevano innalzare il muro; sicché dal di dentro gli edifici non si dovevano appoggiare al muro, e al di fuori restasse alquanto terreno intatto per le coltivazione.
Questo spazio dunque, cui non era lecito né abitare, né arare, i Romani chiamarono "pomerio", non tanto perché fosse dopo il muro, quanto perché il muro fosse dopo quello; e sempre nell'ingrandirsi della città, man mano che si dovevano allargare le mura, anche questi sacri limiti si portavano innanzi.

(Da Tito Livio,  Istorie, I, )

__________________________________________

REGNO DI TARQUINIO IL SUPERBO
(Etrusco - 212-244 Anno di Roma - 534-510 a. C. )

(da Tito Livio, Istorie)

[Servio Tullio aveva sposato le sue due figliuole a due principi, non si sa bene se figli o nipoti di Tarquinio Prisco. Delle due figlie del re una, era ambiziosa e perversa, e aveva un ottimo marito, l'altra invece mite e buona, aveva uno sposo violento e prepotente. Ora avvenne che i due perversi, finissero per accordarsi fra loro e, sbarazzatisi con un duplice delitto dei rispettivi coniugi, si unirono in matrimonio.
Poi LUCIO TARQUINIO, per incitamento della perfida moglie, si accinse a privare del regno il suocero; atteggiandosi già a re, sedendo sul trono, convocò i Senatori, ai quali tenne un forte discorso, per convincerli delle colpe da lui attribuite a Servio Tullio].
Servio, avvertito da un trafelato messo, sopraggiunse durante il discorso, e improvvisamente dal vestibolo della Curia gridò a gran voce: "Che vuol dire cotesto, o Tarquinio? E con quale audacia osasti, me vivo, adunare i Padri e sederti sul mio seggio? Avendo quello risposto fieramente che occupava il seggio di suo padre, che lui, essendo figlio del re, aveva maggior diritto di uno schiavo ad essere erede del trono.
L'arrogante servo aveva a lungo audacemente insultato il suo padrone; i sostenitori dell'uno e dell'altro, iniziarono a levare alti schiamazzi, e già il popolo inondava la Curia, ed era ormai sicura la lotta e che il regno sarebbe andato di chi la vinceva.
Tarquinio, stretto omai dalla necessità di fare anche la cosa più estrema; lui molto più robusto per età e per forze, afferrò Servio a mezzo il corpo, e sollevatolo da terra, lo scaraventò e lo fece rotolare giù fino in fondo ai gradini della Curia, e rientrò per riprendere la presidenza del Senato. Fuggirono i servi ed i seguaci del re. Questi, ferito, ritirandosi a casa con il solo seguito reale, giunto a capo del borgo Cipro, Servio Tullio fu ucciso da gente che Tarquinio aveva spedito ad inseguirlo mentre fuggiva. Ma si crede che il delitto sia stato commesso su istigazione di sua figlia Tullia.
Certo è, o almeno è molto verosimile, perché, lei recatasi in cocchio nel Foro, non facendosi riguardo di tanti uomini radunati, chiamò fuori dalla Curia il marito, dandogli ella per prima, il titolo di re. Ordinatogli da lui di ritirarsi dal tumulto, mentre tornava a casa, poiché fu giunta a sommo del borgo Cipro, là dove fu sino a poco fa il tempio di Diana, fece voltare il cocchio a destra verso il poggio Virbio, per salire al colle delle Esquilie: qui chi guidava i cavalli, con raccapriccio, si arrestò tirando il freno e alla padrona indicò disteso in terra Servio Tullio assassinato. Quindi a Tullia venne la fama di aver commesso l'orribile e mostruoso delitto, di cui fa fede il luogo che chiamano ancora "Vico scellerato".
La forsennata, invasa dalle furie della sorella e del marito, si racconta che spingesse i cavalli sopra il corpo del padre, e che col cocchio insanguinato, contaminata essa stessa e lorda, riportasse parte del sangue dell'ucciso genitore ai Penati suoi e del marito, che, corrucciati, dovevano fra non molto fare una fine conforme a quest'inizio di regno.
Prese tuttavia a regnare LUCIO TARQUINIO, cui le azioni sue imposero il soprannome di "Superbo", per avere come genero, negata sepoltura al suocero, sostenendo che anche Romolo era perito insepolto; per avere fatto trucidare i più ragguardevoli senatori che credeva avessero favorito Servio;
per essersi finalmente attorniato di armati, conscio che da lui stesso e contro di lui si poteva prender l'esempio di usurpare il trono, non avendo egli altro titolo al regno che la forza, come quella che usava per stare sul trono, senza l'assenso del popolo e senza 1'approvazione del Senato.
Si aggiunga che, non potendo avere garanzia nell'amore dei cittadini, gli abbisognasse guardarsi la corona col terrore; per incutere ai più possibile, volendo fare tutto da solo, senza consiglieri; così le istruttorie delle cause capitali con le quali gli era facile mettere a morte, mandare al bando, spogliare di beni non solamente i sospetti e gli odiati, ma anche quelli da cui altro non poteva sperare se non essere la loro preda.
Scemato specialmente con questi mezzi il numero dei senatori, altri non volle sceglierne, affinchè il loro basso numero rendesse più autoritario il suo potere. Infatti, fu il primo re che si allontanò dall'usanza, tramandata dai precedenti, di consultar sopra ogni cosa il Senato; governò lo Stato con i suoi privati consiglieri; guerre, paci, alleanze, trattati fece o sciolse da sé solo, con chi gli piacque, senza intervento del popolo né del Senato.
Carezzava specialmente la nazione dei Latini, per viver più sicuro fra i suoi anche per assistenza straniera; e stringeva non solamente ospitalità, ma parentela con i più ragguardevoli fra di loro.
Tarquinio, se fu in pace ingiusto re, non fu in guerra tristo capitano; anzi avrebbe pareggiato nell'arte militare i re precedenti, se, degenerando nel resto, non avesse offuscato anche questo genere di gloria. Fu egli che iniziò contro i Volsci quella guerra che durò dopo di lui duecento e più anni; e prese loro con la forza Suessa Pomezia. Ed avendo ricavati dalla preda venduta per quaranta talenti d'argento, concepì l'idea di edificare il tempio a Giove con tale magnificenza, che degno fosse del re degli Dei e degli uomini, della potenza di Roma e della stessa maestà del luogo. Destinò pure all'erezione di questo tempio il denaro tratto dalla vendita dei prigionieri.
Poi fu tutto occupato in una guerra più lunga che non si pensava, nella quale, poiché ebbe dato inutilmente l'assalto alla vicina città di Gabio, e, respinto dalle mura, ebbe perduta anche la speranza di assediarla, l'assaltò alla fine con l'inganno e con la frode, sistemi per nulla romani.
Mentre egli simulava d'essere tutto intento alla costruzione del tempio e ad altre opere civili, come se avesse deposto il pensiero della guerra, Sesto suo figlio, il minore di tre, d'intesa con il padre, andò come disertore a Gabio, dolendosi dell'intollerabile crudeltà del padre.
Quelli di Gabio, credendo sincero il suo furore contro il padre, benignamente l'accolsero, rispondendogli che non doveva meravigliarsi com'era sprezzante Tarquinio con i cittadini, con gli alleati, e in ultimo anche con i figli. Gradita a loro era la sua venuta, e si lusingavano che con il suo aiuto si sarebbe in breve portata la guerra dalle porte di Gabio a sotto le mura di Roma.
Tarquinio cominciò ad esser ammesso ai consigli pubblici. Quivi soleva dire che si rimetteva per tutto il resto ai più esperti Gabini che avevano maggior pratica in cose di governo, tuttavia consigliava la guerra e si assumeva in questa la principale direzione, essendo a lui ben note le forze dei due popoli, e ben sapendo quanto i Romani avevano in odio la superbia del re, che si era fatta intollerabile perfino agli stessi suoi figli.
Così incitava a poco a poco i principali Gabini a riprendere le armi, e usciva con i giovani più risoluti a depredare e far escursioni, e con le parole e con i fatti, diretti sempre ad ingannare, accresceva ogni giorno di più la loro fiducia, finché fu eletto condottiero della guerra.
Allora ignorando la moltitudine di cosa si trattasse, e facendosi scaramucce fra Roma e Gabio, con vantaggio per lo più dei Gabini, questi eran convinti che Sesto Tarquinio fosse stato mandato a loro come capitano per grazia degli Dei. Presso i soldati poi, affrontando lui gli stessi pericoli, facendo le medesime fatiche e dispensando largamente la preda, tanta affezione si accattivò, che Tarquinio padre non era più potente a Roma, come il figlio a Gabio.
Quando dunque si avvide di avere raccolte molte forze, da poter osare ogni cosa, spedì a Roma uno dei suoi fidati uomini per sapere dal padre che cosa intendeva fare, poiché il Cielo a lui aveva concesso di poter fare a Gabio ogni cosa e da solo.
Al messo che sembrava di dubbia fede, Tarquinio non diede subito alcuna risposta a voce e, molto pensoso, passò nel giardino del palazzo, seguito dal messo del figlio. Qui passeggiando in silenzio, si dice che abbattesse con il bastone i capi dei più alti papaveri. Stanco il messo d'interrogare e di aspettar la risposta, credendo di aver concluso nulla, tornò a Gabio e riferì
ciò che aveva visto; ma che, o per ira, o per odio, o per innata superbia dell'animo, il re non aveva aperto bocca.
Ma Sesto comprese ciò che il padre bramava ed ordinava con quei taciti segnali, e tolse la vita ai principali cittadini gabrini, alcuni accusandoli davanti popolo, altri approfittando dell'odio in cui c'era tra di loro; molti furono evidentemente uccisi; mentre altri, parecchi, contro i quali meno credibile poteva essere una imputazione, furono lasciati fuggire, se volevano, o cacciati per bando; ma i beni dei fuorusciti come quelli degli uccisi furono oggetto di spartizione. Questi fatti portarono a far diminuire i mali pubblici, fino a tanto che il governo di Gabio, perso ormai sia gli uomini del consiglio come quelli per la difesa, fu senza più alcun contrasto dato in mano al re di Roma.
Diventato anche signore di Gabio, Tarquinio fece la pace con gli Equi e rinnovò l'accordo con gli Etruschi. Poi rivolse il pensiero alle opere civili, di cui la prima fu il tempio di Giove sul Tarpeo, per lasciarlo quale memoria del suo regno e del suo nome. Avendolo dei due re Tarquini, il padre promesso come voto, fu poi il figlio che lo condusse a termine.
E affinché l'area fosse libera da ogni altro culto, e che il tempio in costruzione fosse dedicato tutto a Giove, impose di sconsacrare molti tempietti e tutte quelle cappelle che, costruiti prima dal re Tazio, proprio nel momento della lite contro Romolo, in quell'aerea erano stati edificati, dedicati e consacrati.
Mentre si metteva mano al lavoro si dice che gli scavatori delle fondamenta del tempio scoprissero una testa d'uomo con la faccia intera. Tale apparizione prometteva inequivocabilmente che quella era la rocca dell'impero, il "capo del mondo"; così vaticinarono tutti gli indovini che erano a Roma, e quelli che si erano fatti venire dall'Etruria per interpretare la cosa.
Chiamati costruttori e artisti da ogni parte dell'Etruria, Tarquinio si adoperava tutto per completare il tempio, e non solo con il pubblico danaro, ma usando l'opera della plebe.
E, sebbene questa non fosse piccola aggiunta alle fatiche militari, tuttavia il popolo non si doleva di innalzare con le proprie mani i tempi degli Dei rispetto ad altri lavori poco importanti e spesso più faticosi cui era costretto, come fare i palchetti del circo o scavare sotto terra la Cloaca massima, ricettacolo di tutte le immondezze della città: due opere tuttavia non meno importanti alle quali ben poco la moderna magnificenza ha saputo agguagliare.
In mezzo a tali occupazioni apparve al re una terribile visione: un serpente sbucò fuori da una colonna di legno, portando lo spavento e la fuga per tutta la reggia. Tarquinio fu invaso anche lui da una grande paura, e iniziò ad avere l'animo pieno d'agitati pensieri.
Quindi, benché nei pubblici prodigi non altri si adoperassero che indovini etruschi, atterrito da questa quasi domestica apparizione, risolse il dilemma chiedendo lumi all'oracolo di Delfi, il più famoso del mondo.
Non osando affidare ad alcun altro la risposta della sorte, mandò in Grecia due dei suoi figli, per terre a quei tempi ignote, e per mari ancora più ignoti. Partirono TITO ed ARUNTE; e fu aggiunto come compagno ENCIO GIUNIO "BRUTO", nato da Tarquinia sorella del re, giovane di ben altra indole da quella che simulando aveva rivestita.
Costui, quando aveva saputo che suo zio aveva fatti morire i primi cittadini della città, fra quali un suo fratello, aveva stabilito dì non lasciare nel suo carattere trapelare cosa che il re potesse temere, o cosa da vagheggiare; e, poiché con l'innocenza si faceva scudo, aveva cercato nell'avvilimento la sicurezza. Però, a forza di fingere parendo veramente stordito, abbandonando se stesso e le cose sue alla rapacità di Tarquinio, non aveva ricusato nemmeno il nomignolo di "bruto", Celando così sotto quel velo la grand'anima liberatrice del popolo romano, aspettava solo il suo momento.
Condotto dunque a Delfi dai due Tarquini, TITO ed ARUNTE, più come zimbello che come compagno, si dice che portasse in dono ad Apollo un bastone d'oro nascosto dentro un altro bastone di corniolo, bucato a tale scopo, figura simbolica del suo genio. Giunti colà e compiute le commissioni del padre, venne ai giovani una propria curiosità d'interrogare l'oracolo, per sapere a chi di loro sarebbe toccato regnare a Roma. E si dice che dal profondo della caverna uscisse fuori una tal voce: "Avrà in Roma il sommo impero chi primo, o giovani, di voi bacerà la madre". I due Tarquini si impegnarono con ogni argomento di tacere la cosa, affinché SESTO, che era rimasto a Roma, ignorasse la risposta e fosse escluso dal regno, e convennero di rimettere alla sorte chi primo di loro, tornando a Roma, dovesse baciare la madre.
"BRUTO", avendo inteso che ben altro doveva essere il significato del responso della Pizia, fece apposta di scivolare e cadendo bocconi, baciò la terra come quella che è madre comune di tutti i mortali. Poi tornarono a Roma, dove si stava preparando con ogni sforzo la guerra contro i Rutuli, padroni di Ardea.
Si tentò l'impresa, provando se era possibile prendere Ardea al primo assalto; ma, poiché questo non ebbe buon esito, si cominciò a stringere i nemici con le opere d'assedio. [Protraendosi così la guerra], i giovani della famiglia reale se la passavano spesso convitandosi e gozzovigliando tra loro. Stavano essi bevendo una sera presso Sesto Tarquinio, dov'era a cena anche Collatino Tarquinio, figlio di Egerio: il discorso cadde sulle mogli, ed ognuno esaltava la sua, dicendone meraviglie. Infiammatasi sull'argomento la disputa, disse Collatino che le parole erano vane: potersi in poche ore sapere di quanto la sua Lucrezia superasse tutte le altre. "Siamo giovani e forti, soggiunse; perché non montiamo a cavallo e andiamo noi stessi a conoscere la condotta delle nostre donne? Di modo che, all'improvviso arrivo del marito, cadrà sott'occhio per tutti quale sia la prova migliore".
Erano ebbri di vino, e gridarono tutti: "Andiamo"; e volarono a Roma al gran galoppo. Vi giunsero al primo calar della notte: di là passarono a Collazia, dove trovarono la bella Lucrezia, non come le regie nuore, a perdere il tempo con le compagne fra i conviti e delizie, ma a tarda notte era seduta nel mezzo dell'atrio fra le ancelle veglianti, intenta al lavoro della lana. Lucrezia ebbe la palma di questa gara coniugale. Il marito ed i Tarquini furono accolti con gran festa; e lo sposo vincitore invitò cortesemente i giovani reali a cena.
Ma qui Sesto Tarquinio s'invaghì della virtuosa e bella Lucrezia.
Pochi giorni dopo, Sesto Tarquinio, all'insaputa di Collatino, andò a
Collazia con un solo compagno. Accolto affabilmente da chi non poteva sospettare delle sue intenzioni gli fu offerta la cena e poi fu condotto all'appartamento degli ospiti per trascorrervi la notte. E poiché gli parve che intorno era tutto quiete e tutti dormienti, si recò nella stanza dove dormiva Lucrezia e le recò oltraggio.
L'indomani Lucrezia mandò a chiamare il padre, SPURIO LUCREZIO, ed il marito, COLLATINO il quale giunse [accompagnato da Giunio Bruto]. Denunziata la colpa di Sesto Tarquinio, Lucrezia, tratto un pugnale che teneva celato sotto la veste, se lo immerse nel cuore, cadendo bocconi sul ferro, e all'istante morì. Alte grida levarono il marito ed il padre.
Mentre questi si abbandonano al dolore. Bruto, estratto il coltello dal petto a Lucrezia e tenendoselo innanzi stillante di sangue: " Giuro, disse, giuro per questo sangue, e voi chiamo, o Numi a testimoni, che io perseguiterò d'ora innanzi con il ferro, con il fuoco e con ogni altro mezzo che mi sia dato, Lucio Tarquinio Superbo, la scellerata sua moglie e tutta la stirpe dei suoi figli". Indi porse il coltello -per giurarci sopra anche loro- prima a Collatino, poi a Lucrezio, che stavano lì attoniti per l'impressionante fatto, ma stupefatti pure da dove mai sorgesse quella nuova anima che veniva fuori ora dal petto di Bruto.
Giurano entrambi come a loro suggerito, poi tutti avvolti dal pianto e dall'ira, seguono Bruto, che si è fatto da quel momento duce e banditore dello sterminio dei re. Levano la salma di Lucrezia, la portano nel Foro e iniziano ad eccitare gli animi con lo spettacolo dell'ultima orrenda novità.
Ognuno detesta questa scellerata violenza di Tarquinio come se fosse stata fatta a sé stesso; e a muoverli non é solo la mestizia del padre; ma è Bruto, nemico del pianto e di inutili lamenti; è lui a muoverli, ad esortatore a cosa degna di uomini, degna dei Romani di prender le armi contro chi osò simili atti. I giovani più animati brandirono le armi volontari, ma ben presto tutti gli altri seguirono l'esempio. Indi, lasciato alle porte di Collazia un sufficiente presidio e messo guardie affinché nessuno portasse ai Tarquini l'avviso di quel movimento, gli altri armati seguendo Bruto, marciarono alla volta di Roma. Giunti in città, dovunque passava la banda in armi metteva paura e grande confusione; ma poi, vedendo in testa i più autorevoli cittadini, la plebe pensò che qualsiasi cosa l'avesse provocata, non doveva essere senza una valida ragione.
Infatti, l'atroce caso non fece meno impressione che a Collazio; quindi da tutti gli angoli della città si corre al Foro. Qui Bruto fece un discorso uscito non da quella mente e da quell'indole che avevo simulata fino a quel giorno; ma parlò della violenza di Sesto Tarquinio, e della tragica morte di Lucrezia. Aggiunse la superbia del re, le miserie e le fatiche della plebe sepolta a scavar fosse e cloache; cittadini di Roma vincitori di tutti i popoli intorno, da guerrieri divenuti muratori e scalpellini. E rammentò l'indegna uccisione del re Servio Tullio e la figlia passata con l'infame cocchio sul corpo del padre, ed invocò i numi vendicatori dei genitori. Dette queste ed altre cose, credo, più atroci ancora, cui l'indegnità del fatto sul momento suggeriva, non però facili a riferirsi dagli scrittori, Bruto sospinse la moltitudine infiammata ad abolire il governo regio e a mettere al bando Lucio Tarquinio, sua moglie e i figli.
Poi Bruto scelto ed armato un corpo di giovani che si offrivano volontari, si mosse da Roma alla volta di Ardea, per sollevare contro il re 1'esercito che vi era accampato, e lasciò al governo della città Lucrezio, che era stato prima eletto prefetto dal re stesso. In mezzo a così grande tumulto Tullia fuggì di casa, maledetta dovunque passava da uomini e donne, che invocavano contro di lei le furie iettatrici dei genitori.
Recate al campo notizie di questi fatti, mentre il re, sgomento si avviava a Roma per reprimere i moti, Bruto, previsto il suo arrivo, cambiò direzione per non incontrarlo, di modo che giunsero quasi nello stesso tempo, per vie diverse, lui ad Ardea e Tarquinio a Roma. Qui a Tarquinio furono chiuse in faccia le porte ed intimato il bando; mentre ad Ardea il campo accolse felice il liberatore della città e subito furono cacciati i figli del re; due di loro seguirono il padre, e andarono in esilio a Cere nell'Etruria. Mentre Sesto Tarquinio, si era rifugiatosi a Gabio, quasi un suo regno personale; ma che per le inimicizie che si era tirato addosso con le rapine e con le uccisioni, era semmai il posto meno sicuro, ed infatti fu ben presto assassinato.
A Roma il prefetto della città creò nei comizi centuriati, due consoli: LUCIO GIUNIO BRUTO e LUCIO TARQUINIO COLLATINO.

(Da Tito Livio,  Istorie, I, )

________________________________________

RITORNO ALL'INDICE DI STORIA UNIVERSALE