-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

111. LA POTENZA TERRENA DELLA CHIESA

 

Nel precedente capitolo abbiamo spiegato che mentre si stavano formando gli Stati nazionali conquistando le proprie autonomie con aspre lotte, per quanto già merse in primo piano, le figure più significative di questo primo periodo non sono ancora degli uomini di Stato, sono invece i campioni dell'una o dell'altra confessioni religiosa, con quella cattolica referente al papato in posizione dominante da ormai dieci secoli.
Rifacciamo quindi una sintesi di questo lungo cammino.

Nella dissoluzione sociale, che seguì alla caduta dell'Impero romano in Occidente, la Chiesa costituì una grande forza ordinatrice, che piegò a maggiore mitezza il rozzo animo dei barbari, salvò gli elementi essenziali dell'antica civiltà, e preparò l'era nuova. Benché fosse nell'indole del cristianesimo un vago principio di separazione tra la vita interiore dell'uomo, diretta dalla fede, e l'attività esterna presieduta dallo Stato, tuttavia il crescente prestigio della Chiesa, col suo carattere universale, con la sua potente gerarchia, col suo ordinamento unitario, facente capo al Pontefice romano, doveva facilmente indurre l'autorità religiosa a mescolarsi alla vita terrena, guadagnandovi una formidabile potenza.

A tratti, ritornando ai suoi principi, la Chiesa seppe più volte spogliarsi degli eccessi di questa autorità terrena, e procedere a coraggiose riforme interne e disciplinari, che ne salvarono il prestigio e l'essenza; ma, sulla fine del sec. XI, dopo la grande riforma religiosa e disciplinare, che fu diretta dall'azione energica e lungimirante di Gregorio VII, allorché il Papato si presentò come l'organismo più vasto, più ordinato, più potente del mondo occidentale, allora disciolto tra lo sgretolamento feudale e il particolarismo dei Comuni nascenti, la Chiesa prese risolutamente la sua strada, come forza ordinatrice della vita anche terrena, e divenne, di fronte all'Impero, un elemento vitale e dominante dell'organizzazione civile del medio evo.

Fondata sull'azione energica del Papato, affiancata dalla doppia gerarchia del clero secolare e del monachesimo, largamente provviste di ricchezze terrene e di rendite, la Chiesa guadagnò, accanto alla sua alta autorità morale, una forte potestà materiale, che le derivava principalmente dalle molteplici funzioni da essa esercitate nella vita civile, fatte più efficaci e più penetranti per il carattere sacro della sua indole e della sua missione, che ovviamente nelle grandi masse ignorante incuteva un forte dose di soggezione.

Una serie di grandi pontefici, da Gregorio VII ad Alessandro I II, da Innocenzo III a Onorio III e a Bonifacio VIII, seppe garantire al Papato una posizione di privilegio, al culmine di una vasta piramide gerarchica ordinata e potente, e contribuì a questa grandiosa creazione; mentre i vescovi tenevano nelle città una autorità morale e materiale di primo ordine, e i conventi, soggetti direttamente alla protezione apostolica, garantivano una rete di interessi morali e materiali quasi senza confini.

In questo periodo, la civiltà occidentale compie un rapido e decisivo progresso. Tra le forze che cooperano a questo sviluppo civile, accanto al rinascimento dell'antica filosofia e del diritto romano, a Parigi e a Bologna; accanto alle energie organizzatrici dei Comuni e delle signorie; accanto alla potenza unificatrice dell'Impero, sta, nelle prime linee, la Chiesa.
La Chiesa, in questo periodo, oltre alla difesa e all'espansione del sentimento religioso, crea il diritto canonico, rinsalda la gerarchia del clero religioso e secolare, fa sentire la fondamentale unità del mondo occidentale.

Dopo il Decreto di Graziano, erano venute le grandi collezioni delle Decretali pontificie, per opera stessa del Papato, e quelle grandi collezioni di Gregorio IX, di Bonifacio VIII, di Clemente V, di Giovanni XXII, avevano dato corpo al sistema del diritto canonico, invadendo arditamente il territorio del diritto civile, non soltanto nella materia del matrimonio, della filiazione o del testamento, ma anche in quella della proprietà, delle obbligazioni, delle successioni.

Si era formato così il Corpus juris canonici, contrapposto ai testi giustinianei del Corpus giuri civili; un ius poli, quasi diritto divino, di fronte ad un ius fori, diritto terrena e materiale, necessariamente inferiore; e ormai, verso la metà del secolo XIV, valeva il principio che, in caso di conflitto, il ius canonicum vincesse il ius civile, sicché la Chiesa poteva presentarsi all'apice di una gerarchia, che si dichiarava dotata di tutti i mezzi per far valere le leggi del suo ordinamento religioso e civile.

Tale gerarchia si era coordinata, sotto l'impulso direttivo della Chiesa romana, sulle basi dell'assolutismo pontificio. Bonifacio VIII aveva dato corpo alla dottrina delle due spade: la spada spirituale, che era tenuta dal Pontefice; la spada temporale, che era adoperata dalle autorità terrene, ma sotto la direttiva (ad nutum) del pontefice.

È vero che, subito dopo, all'inizio del secolo XIV, l'asservimento del Papato ai re di Francia (col cattività avignonese) aveva gravemente scossa la potestà pontificia; ma quel principio era tuttavia generalmente riconosciuto e produceva, in mille occasioni, i suoi effetti, assicurando alla Chiesa una autorità veramente larga e profonda, che valeva a dirigere l'attività umana.

Da una parte gli ordini religiosi, dall'altra la gerarchia degli enti secolari contribuivano a dare alla Chiesa romana le sue basi pratiche per una azione possente. Agli antichi ordini religiosi, dotati di grandi ricchezze e di vigorosa potenza civile, si erano aggiunti i due grandi ordini dei Francescani e dei Domenicani, anch'essi subordinati all'autorità pontificia, che avevano largamente accresciuta la potenza della Chiesa. In questi ordini ben presto la gerarchia ecclesiastica colse le potenzialità e l'utilità non soltanto nella lotta contro l'eresia, ma anche come strumento per tenere sotto il proprio controllo l'attività dei laici e delle loro associazioni.

Nella varietà dei governi, in cui si frantumava la vita civile, con le signorie, con i Comuni, con i feudi, con le giurisdizioni, di fronte all'idea ormai declinante dell'Impero, si levava, come concetto e come strumento unificatore, la Chiesa romana, forte della sua origine divina, della sua tradizione, della sua gerarchia. Il mondo civile aveva davanti una gran luce, che era il riflesso di una rivelazione divina; e quella gran luce, che veniva dalla Chiesa, sembrava la sola forza legittima capace di dare un fine alla fatica umana, di segnare una meta, di precisare le linee direttive dell'azione terrena.

Questa potenza era stata travagliata da profonde crisi. La lotta tra lo Stato e la Chiesa aveva turbato tutto il medio evo, e, in particolare, la servitù avignonese e il grande scisma d'Occidente avevano abbassato il prestigio morale del Papato e diminuito, in Roma e fuori, la sua potenza terrena. Ma, pur tra le lotte vivaci, quelle crisi erano state superate.

Il Pontefice era ritornato a Roma, e trovava ormai, saldamente organizzato, uno Stato della Chiesa, che, da Bologna e da Ancona, giungeva fino ai confini del Regno di Napoli, e quello Stato prestava una base sicura all'incolumità e alla azione del Papato.

Lo scisma d'Occidente era stato composto, non senza profonde ferite al principio assolutistico del Papato; e tuttavia, nella seconda metà del quattrocento, era stata ripresa l'opera interrotta di ricostituzione del dominio temporale della Santa Sede, e non faceva più meraviglia che il papato partecipasse alle guerre e ai trattati di quell'epoca agitata.

Nonostante queste crisi, il pontefice romano era riconosciuto, in tutto l'Occidente, come rappresentante di Cristo in terra, come interprete dei dogmi religiosi, come capo della Chiesa universale, come principe di una potenza temporale notevole, tra i numerosi principati italiani. Tra questi fastigi, erano ormai divenute immense le ricchezze del Papato; varie ed infinite le fonti di reddito; vaste e multiformi le attività temporali, che rispondevano a queste ricchezze.

Sulle proprietà ecclesiastiche e sulle sostanze dei fedeli, gravavano alcune imposte generali e speciali, che riferivano alla Santa Sede il reddito, come la quarantesima sui redditi dei beni ecclesiastici; le annate, che i titolari dei benefici ecclesiastici dovevano al pontefice; i diritti di spoglio dei benefici vacanti; la tassa apostolica per i peccati, creata da Giovanni XXII, come compenso per le indulgenze e per le dispense; il denaro di S. Pietro e le altre forme svariate delle tasse e delle offerte pagate volontariamente dai cattolici, dai pellegrini; oltre i redditi dei vasti possessi della Chiesa romana, i donativi dei principi, i tributi degli Stati e dei Comuni, garantiti dalla tradizione o dai trattati.

Allo sviluppo di questo vasto giro di pagamenti e di crediti, servivano numerosi funzionari della Chiesa, oltre che una schiera di banchieri e cambisti, che avevano i loro centri nelle principali città dell'Occidente. Già nel secolo XIII, la nota dei censi della Chiesa romana, istituita da Cencio Camerario, risultava imponente; ma questi censi e i redditi relativi divennero anche più numerosi nel corso dei secoli XIV e XV.
Visitatori apostolici, corrieri e funzionari della Santa Sede servivano a tenere in rapporto queste funzioni finanziarie col tesoro e con la casse centrali della Chiesa romana. A Siena, a Firenze, a Piacenza, a Milano erano le sedi bancarie più importanti, gli Scotti, i Buonsignori, i Tolomei, i Medici, che assumevano talora la riscossione di queste rendite e compivano le numerose operazioni di cambio e di trasporto, che si riferivano a queste ricchezze.

D'altra parte, la Chiesa romana aveva una complessa amministrazione, che provvedeva non soltanto alle spese per la Curia pontificia, e per il governo religioso della cristianità, ma anche alla difesa degli interessi cristiani in Oriente e in Africa, minacciati dai Musulmani„ ed anche per gli abbellimenti di Roma e di Avignone, per le guerre e per gli intrighi politici, per i favori ai cortigiani, ai parenti e ai fautori di ogni pontefice, ai letterati ed agli artisti.
Tuttavia era facile avvertire la decadenza progressiva del prestigio della Chiesa romana.

L'umanesimo era venuto a dare alla vita un contenuto ideale e pratico, da cui la civiltà moderna era sbocciata in pieno, non senza recare un nuovo colpo al prestigio religioso del Papato. Se tutto il medio evo era vissuto nel contrasto tra un ideale religioso sublime, forse, lontano dalla realtà, ed una vita rude e violenta, piena di odi e di risse, scarsa di elevazione civile, ora la rinascita dell'antica civiltà rivelava agli uomini attoniti il valore della vita, le infinite risorse della scienza, la possibilità di una continua e progressiva perfezione nelle forme della vita civile.

La vita contemplativa, ch'era stata per tanti secoli l'ideale più perfetto della vita umana (o almeno questo dicevano i predicatori) cedeva ora il posto, per gli spiriti eletti, alla vita dello studioso e dello scienziato, che entra nei segreti della natura e dell'uomo, ne approfondisce le leggi, ne gode le grazie, e si studia di avviare la vita umana verso le maggiori perfezioni.

Gli studiosi cercavano affannosamente i libri dell'antica sapienza, e ne distribuivano intorno i tesori; gli artisti si rivolgevano allo studio della natura, abbellendola con le grazie dell'arte antica; i filosofi e gli scienziati derivavano da Platone, dagli antichi matematici, dagli scienziati e dai dotti i segreti per il perfezionamento della vita e dell'anima umana.

In questo sviluppo nacque così il problema "fede e ragione", che non era affatto nuovo. Volendo contestualizzare l’argomento è doveroso mettere in evidenza la rilevanza del problema. Ci troviamo infatti in un epoca in cui si introducono "nuove" riflessioni filosofiche, e ci è possibile constatare come i maggiori pensatori del periodo si siano dovuti confrontare con la questione. 

Il contrasto esasperato fra fede e ragione non ebbe molta fortuna nella filosofia medioevale poiché si pensò sempre ad una loro armonia. L’analisi infatti è volutamente limitata ad alcuni filosofi poiché, a causa della vastità e complessità del problema non è possibile trattarli tutti. Un filosofo che ha avuto una notevole rilevanza è S. Agostino di cui si tratta il modo di concepire il rapporto fra fede e ragione. Una famosa citazione del santo "crede ut intelligas et intellige ut credas" è quantomai opportuna in questa analisi. Essa sintetizza infatti la sua teoria: credi per capire e capisci per credere, significa che per trovare la verità (cioè capire) è necessaria la fede (credere appunto), ma al tempo stesso, per avere una fede consapevole è necessario l’uso dell’intelletto. Si viene quindi a creare fra regione e fede un rapporto di stretta e diretta connessione, e si configurano come due aspetti di quella realtà esistenziale che è il rapporto fra uomo e Dio. 

Per Agostino, la filosofia non cerca tanto la "verità" in quanto tale, quanto piuttosto cerca di spiegare la verità Cristiana. E’ così che la filosofia assume quella che viene detta la finalità apologetica, cioè ha un suo scopo ben preciso, infatti quello di Agostino non è un pensiero sistematico come quello di Plotino o Aristotele, ma il suo filosofare nasce dall’esigenza di dare delle risposte sul piano ‘culturale’ a questioni e problematiche inerenti la dottrina Cristiana.

Si è parlato di evoluzione del rapporto, e una vera e propria evoluzione emerge dal confronto di Agostino con Anselmo d’Aosta. Una sua frase significativa "credo ut intelligam" evidenzia una ‘precedenza’ della fede rispetto alla ragione. I termini sono già differenti rispetto ad Agostino, non si può capire se non si ha fede; tuttavia essa deve essere dimostrata e confermata con motivi razionali. L’accordo tra ragione e fede è essenziale, ma se ci fosse un contrasto, bisognerebbe mettere in discussione la ragione e basarsi sulla fede. In questo caso c’è quasi una subordinazione, ma Anselmo asserisce che tale contrasto non ci può essere poiché la ragione e la fede hanno la stessa natura, cioè derivano entrambe dalla illuminazione divina. E’ interessante considerare Anselmo anche sotto la prospettiva storica, in quello che è il suo contesto, cioè l’XI secolo d.C.. 

Si comincia a pensare che la ragione possa integrare verità che sono date e sono solo da accettare. Si consideri che questa nuova concezione non è mossa solo dalla nuova prospettiva del rapporto, infatti è opportuno considerare anche la prova ontologica cioè il fatto che Anselmo portò a pensare che fra intelletto e realtà ci fosse connessione. Tuttavia la critica di Gaunilone (abilmente evitata da Anselmo) mette in evidenza come sia diverso il piano del pensiero e delle possibilità da quello della realtà effettiva, pertanto dalla possibilità concettuale non deriva una convincente prova ontologica. 

Siamo agli inizi di un risveglio filosofico in cui la ragione ha tutta la dignità per essere praticata e la formula fede-ragione comincia ad essere considerata come una formula che ha conclusioni positive. Radicalmente opposto al "credo ut intelligam" di Anselmo d’Aosta troviamo "intelligo ut credam" di Abelardo. Non si può credere se non a ciò che si conosce e si deve in ogni caso discutere se si debba o no avere fede. Si deve credere all’autorità fintanto che non si è compreso la dimostrazione di ciò che essa vuole insegnare, ma la fede stessa diventa inutile nel momento in cui la ragione ha la possibilità di accertare in modo autonomo la verità. 
Se non si dovesse discutere nemmeno di ciò che si deve o non si deve credere, non avrebbe differenza credere il vero o credere il falso. A differenza di Anselmo in cui la maggiori implicazioni partivano dalla prova ontologica, in questo pensatore è proprio la nuova prospettiva del rapporto fede ragione che ha le più rilevanti conseguenze. La ricerca di Abelardo è infatti impiantata su nuove basi, si rileva infatti come egli vuole mostrare la necessità di adoperare la ragione per risolvere i contrasti e trovare la soluzione. 

Questa nuova metodologia di indagine consiste nell’enunciare argomenti che si adducano pro e contro la risposta positiva e quella negativa, e infine nello scegliere una della due soluzioni, confutando quindi l’altra. Ciò è il concetto principale dei una delle sue opere maggiori, il "Sic et non". Successivamente questo metodo sarà proprio di tutti gli scolastici e si manterrà fino alla fine della scolastica stessa, proprio dopo Guglielmo di Ockham. 

Fino ad ora l’evoluzione del rapporto fede ragione non si è considerata nella sua totalità. E’ un complesso ed articolato processo che, nel caso specifico di Abelardo, si integra anche in un contesto ben più ampio che è la disputa sugli universali.
(UNIVERSALE: sono universali quei concetti che per la loro generalità sono predicabili di più entità individuali: p.e. è universale il concetto di "uomo", perché è predicabile di singoli individui. Nel corso del XII sec. si accese una disputa intorno alla reale natura di questi concetti: alcuni (Anselmo, Guglielmo di Champeaux) ritengono che agli universali corrisponda una reale struttura ontologica, che trascende il mondo sensibile e gli fa da modello (Realismo); altri (Roscellino) sostengono invece che non hanno alcuna realtà, ma sono puri nomi, segni convenzionali, e hanno la loro esistenza solo nella voce che li pronuncia (Nominalismo); a queste tesi si oppose Abelardo, sostenendo che gli universali non sono né entità trascendenti, né puri nomi, ma semplici significati logici.)

La concezione di fede e ragione ci permette di definire la metodologia di indagine, ma non è possibile ignorare le conseguenze nell’ambito delle dottrine teologiche come il modalismo, il necessitarismo e l’ottimismo metafisico.
(OTTIMISMO: "E’ la dottrina secondo la quale il bene, sia nel significato naturale, sia in quello morale, predomina sul male, che sarebbe soltanto relativo e apparente." -
Dal "Dizionario di filosofia e scienze umane" Emilio Morselli)

La connessione fra fede e ragione è meno rilevante nell’analisi delle filosofie islamiche ed ebraiche. In particolare in Avicenna ed Averroè si parla di necessità dell’essere, della dottrina dell’intelletto, dell’ordine necessario del mondo, del concetto di eternità dell’universo e della doppia verità, ma tutte queste tematiche non presentano al loro interno riferimenti alla fede. C’è come una prevalenza assoluta dell’intelletto che, nell’azione combinata di quello potenziale e quello attivo, astrae dalle rappresentazioni sensibili i concetti e le verità universali (quest’ultimo è un riferimento ad Averroè).

Procedendo con l’analisi troviamo Tommaso d’Aquino la cui filosofia ha come fine determinare in modo rigoroso il rapporto fra la religione e la rivelazione. In questa visione la ragione è subordinata alla fede, essa non può dimostrare ciò che è di pertinenza specifica della fede, altrimenti la fede stessa perderebbe di significato. Tuttavia può servire alla fede in tre diversi modi: può dimostrare i preamboli della fede, cioè quelle verità la cui dimostrazione è necessaria alla fede stessa; la filosofia può essere adoperata a chiarire mediante similitudini le verità della fede; la ragione può controbattere le obbiezioni che si fanno alla fede dimostrando che sono false o che non hanno forza dimostrativa. La fede e la ragione non possono trovarsi in contraddizione: la ragione ha una sua verità, dei principi intrinseci che sono verissimi ed è impossibile pensare che siano falsi dal momento che Dio stesso è l’autore della natura umana. La verità di ragione non sarà perciò in contraddizione con la verità rivelata poiché la verità non può contraddire la verità. La ragione può indurre all’errore ed in quel caso la fede deve essere la regola del corretto procedere della ragione. 

Questa parte della filosofia tomistica è riscontrabile soprattutto in "Somma contro i Gentili".Successivamente si "assiste" a quella che viene definita la fine della scolastica, con particolare riferimento a Guglielmo di Ockham. Nella teoria della conoscenza, vengono posti notevoli limiti alla possibilità da parte dell’uomo di comprendere la realtà. La conoscenza è infatti limitata a ciò di cui si ha esperienza, ed è particolarmente significativo il processo di astrazione conoscitiva.
(ASTRAZIONE: Questo termine passa per due fasi principali: 1. Fase logico-metafisica: per Aristotele è il procedimento che, omessi i caratteri accidentali di una cosa, ne rivela le qualità essenziali e le considera per se stesse; quindi sono astratte le forme separate della materia, come le grandezze matematiche, l'idea della statua separata dal masso di marmo. Nello stesso senso è intesa nel Medioevo: abstrahere formam a materia intellectu = separare la forma dalla materia mediante l'intelletto. Nella logica astrarre consiste generalmente nel passare, mediante la soppressione di una o di più note di un concetto, a un concetto più generale.
2. Fase psicologica: è l'operazione spontanea per cui il pensiero isola progressivamente, nella massa dei fenomeni, le qualità comuni ai singoli oggetti e le esprime mediante un nome comune, un concetto, un'idea generale, trascorrendo dall'osservazione dei singoli individui, alla specie e al genere, grazie a quell'altra operazione spontanea che è la generalizzazione, per cui si estende a tutta una classe, a una specie, a un genere ciò che si osserva in uno o più individui.)

Volendo confrontare S. Tommaso con Ockham si nota come mentre nel primo il processo consiste nell’isolare ed astrarre ciò che è "in re", per quanto riguarda Ockham il discorso è più complesso. Si deve infatti introdurre la teoria della supposizione. Quella di Ockham è una posizione nominalista...
(NOMINALISMO: Una delle soluzioni date nel medioevo al problema degli universali suggerito da un passo dell' Isagoge di Porfirio alla logica aristotelica, il quale aveva lasciato in sospeso la questione se i genera e le species, cioè i concetti universali, esistono in natura come sostanze o siano solo oggetti della mente. Quelli che ritennero che gli universali non esistessero nella realtà, ma fossero solo segni verbali significanti i caratteri comuni ad un determinato gruppo di realtà singole, furono detti nominalisti).

... per comprendere ad esempio la parola uomo, ogni individuo, anziché fare riferimenti ad enti empirici, considera uomo come segno dell’universale. Se si pensa all’universale di uomo, si pensa ad un uomo specifico dal quale poi si astraggono gli elementi che ne caratterizzano la sua specificità.

Un sistema conoscitivo basato esclusivamente sull’esperienza empirica pone come già detto dei limiti alla conoscenza; si viene a creare un problema che sembra privo di soluzione: l’indimostrabilità degli argomenti teologici. L’uomo infatti non può raggiungere niente che trascenda l’esperienza. Non è possibile quindi provare ontologicamente l’esistenza di Dio. Tuttavia la fede non deve essere negata, ma un conto è l’oggetto di fede, altra cosa è l’oggetto di scienza. A differenza di Tommaso, non c’è in Ockham una diretta connessione fra fede e conoscenza. Si crea anche un’altra problematica, infatti è vero che non è possibile, ontologicamente parlando, dimostrare l’esistenza di Dio, ma allo stesso modo non è possibile dimostrarne il contrario, cioè la non esistenza. 

In definitiva, il reale è indagabile solo entro certi limiti, la conoscenza diversa da quella empirica è solo illusoria: è proprio su questo concetto che si basa la critica alla metafisica tradizionale. 

 

Ora i progressi civili, che si diffondevano rapidamente per tutto l'Occidente, davano alla religione un altro contenuto, forse difficilmente apprezzabile dalle menti rozze, che non erano ancora liberate dalle nebbie del medio evo.
La religione era una forza sublime dell'anima umana; ma essa non impediva, né condannava l'esame, l'approfondimento e la pratica di una vita più rispettosa delle forme e più perfetta. In questo nuovo contenuto, non da tutti apprezzato, si nascondeva il pericolo dei malintesi e delle deviazioni.

Nel frattempo veniva meno anche il prestigio, fino allora quasi incontrastato, del sacerdozio. Altri sacerdoti sorgevano, ed erano i sacerdoti delle lettere e della scienza, che meritavano devozione e rispetto. In secondo luogo, era facile, una volta incamminati su questa via, dimenticare quel sublime ideale religioso, e dedicarsi interamente al gusto del lusso, al piacere, ai divertimenti.

Finalmente, la passione delle ricchezze e della potenza, facilmente accesa con i nuovi insegnamenti dell'arte della vita, poteva rappresentare una tentazione ed una rovina per molti spiriti sfrenati. I grandi, incommensurabili progressi della vita sociale, tra la fine del secolo XIV e i primi anni del secolo XVI, non corrisposero certamente ad una elevazione della vita religiosa.

Da queste varie circostanze, la potenza del Papato riuscì profondamente scossa. Le antiche basi della religione, fondate sulla tradizione e sulla gerarchia, restavano integre; ma era venuta meno quella concezione del Papato come potenza superiore ad ogni sovranità temporale, che aveva sorriso alle menti dei grandi pontefici della teocrazia medioevale.

Il Papato rientrava verso fini più limitati: la formazione di un forte e sicuro Stato della Chiesa, e la difesa degli interessi religiosi della Chiesa romana in tutto l'Occidente.

Tuttavia, nemmeno per questo, si poteva dire vuotata di contenuto la funzione mondiale della Chiesa romana, che serviva, oltre tutto, a legare la società civile al suo grande centro, storico e a divulgare tutti i progressi della fede, della scienza, dell'arte.
Gli stessi abbellimenti edilizi, che si compivano in Roma, uscita a nuovo splendore, dopo il lungo travaglio del medio evo, rappresentavano una affermazione della potenza umana, diretta dalla fede, che doveva riscuotere ammirazione e rispetto.

L'autorità terrena della Chiesa romana, per quanto incline alle deviazioni e agli errori, manteneva tuttavia la sua forza, per quanto decaduta, nello sviluppo della vita civile; e tutti i partecipi di quella potestà, cardinali e nunzi, legati e visitatori apostolici, metropoliti e capi di ordini generali, vescovi e abati, sparsi per tutto l'Occidente, ridestato a civiltà, rappresentavano una potenza effettiva, su un fondamento religioso e disciplinare, che si adoperava incessantemente, anche tra le deviazioni e gli errori, a spingere verso una maggiore perfezione la vita della società umana.

Di questi cosiddetti errori e deviazioni all'interno della Chiesa
parleremo appunto nel prossimo capitolo...

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