-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

139. ELISABETTA TUDOR - GLI STUART - I BORBONI

ELISABETTA TUDOR

Accennando innanzitutto all'Inghilterra, questa vinta la battaglia religiosa, isolandosi dal continente, in pochi decenni con la sua politica coloniale e mercantile, scoprì la sua nuova vocazione e andò incontro al primato mondiale incontrastato.

Lo sviluppo progressivo della navigazione nelle difficili e pericolose plaghe settentrionali dell'Oceano Atlantico fu il fattore decisivo che fece acquistare alla nazione britannica, oltre l'abilità nautica, anche l'ardimento e lo spirito d'iniziativa, il sentimento di orgoglio nazionale e la ferma fiducia nella propria superiorità rispetto a tutti gli altri popoli quanto a capacità e costanza di propositi. E' nella dura lotta coi mari che andò formandosi la convinzione che nessun avversario sarebbe stato in grado di resisterle e nessuna difficoltà capace di arrestarla, e che era chiamata dalla sorte ad estendere la propria influenza sul mondo intero.

È qui che si formò pure quell'altero sentimento di sè, per cui ogni inglese non transige e non ha riguardi per nessuno quando si tratta di tutelare il proprio diritto ed il proprio interesse. Avendo Elisabetta incoraggiato e fiancheggiato con grande perspicacia e con ogni mezzo, non esclusa la forza e l'astuzia, il movimento ascensionale del suo popolo, il suo regno può considerarsi il punto di partenza della progressiva grandezza dell'Inghilterra.

Esagerate o minimizzate, le biografie che riguardano la grande regina, servono tutte per dare risalto alla sua personalità. Il suo lungo regno (45 anni) vide sorgere e l'affermarsi non solo della potenza economica inglese, ma anche di una nuova vita dello spirito.
L'invocazione "Dio salva la Regina" veniva ripetuta con piena convinzione dai sudditi di ogni classe sociale e la sincerità della loro devozione non richiedeva ulteriori prove. Poche volte nella storia una regina, aveva saputo conquistare l'affetto e la stima di un popolo, solo in virtù delle sue qualità personali e senza far leva su nessuna forma di fanatismo.
La giovane Elisabetta conobbe l'orrore della segregazione nelle tetre celle della Torre di Londra, l'esilio forzato nei castelli, le accuse infondate di complotti ai danni dello Stato e molte altre persecuzioni, compresi gli ultimi attimi di terrore che si vivono prima del patibolo.
Ma quando Elisabetta salì sul trono d'Inghilterra, non volle agire con le vendette, mai venne meno al saggio principio di non deludere il popolo, di non indietreggiare mai davanti a una decisione presa e di saper attendere fino al momento giusto per agire, o per non agire affatto. La sua vita fu interamente dedicata all'Inghilterra e mai una nazione ebbe, nella sovrana, una suddita più devota. Ella stessa amò spesso definirsi "la Regina Vergine" e non perse occasione per rammentare a tutti che si era negata le gioie dell'amore pur di appartenere sempre e solo all'Inghilterra.
Sulla giustizia, proprio lei che si era dovuta difendere dalle ingiustizie, non disdegnò di trarre insegnamenti dal popolo, anche da quello a lei ostile.
A una giovanissima scozzese che aveva tentato di assassinarla, poi condannata a morte, Elisabetta nel farle visita, mossa a pietà dalla giovanissima età dell'attentatrice, le promise la grazia a patto che non ritentasse più il suo folle gesto. La giovane fieramente rispose che una grazia cessava di essere tale se poneva delle condizioni e che quindi piuttosto che andare incontro a una vita vissuta con il peso della pietà altrui, preferiva andare incontro con leggerezza alla morte. Stupì e turbò la sovrana, che la fece liberare subito senza alcuna condizione, perché "... mai nessuno mi ha dato una lezione simile".
Non per nulla qualcuno scrisse questa frase:"L'elogio della sua grandezza non fu scolpito solo nella pietra o nel marmo di un monumento, ma fu impressa la sua impronta, su ogni palmo di suolo inglese, su ogni bandiera stagliata contro il cielo,  e nel cuore di ogni inglese sarebbe rimasta per sempre"

Da allora l'Inghilterra si sentì padrona degli oceani e cominciò a dedurre le sue colonie in ogni parte del mondo. Di questo rapido e fiorente sviluppo risentì gli effetti anche la letteratura nazionale, e sopra tutto i grandiosi successi dei due ultimi decennii del XVI secolo suscitarono un poderoso movimento intellettuale in seno al popolo inglese. Germogliò tutta una produzione letteraria, così schiettamente nazionale ed originale come non si era mai avuta prima e non si ebbe mai più in seguito. Ciò se non per la forma, che si modellò sul latino o sull'italiano, per il contenuto che non è per nulla provinciale. Questa letteratura affronta i più difficili problemi, tenta di esprimere poeticamente l'impossibile, e, se è spesso esagerata o altrimenti difettosa, è sempre vigorosa, briosa, arguta, originale e nazionale.

Nella «regina delle fate» di Edmondo Spencer si ha un quadro simbolico che caratterizza l'epoca di Elisabetta. Il poeta vi glorifica la lotta del suo popolo per «Una» che simbolizza la vera religione, contro «Duessa» ed «Orgoglio» che vogliono simbolizzare il papato e la gerarchia ecclesiastica. Spencer esalta la regina Elisabetta, l'apologia delle cui doti traspare in modo assai visibile nei tipi idealizzati della principessa delle fate Gloriana e della bella vergine cacciatrice Belphoebe. L'indubbia esagerazione degli elogi rivolti alla sovrana diviene esplicabile, se si pensa che essa agli occhi dei suoi sudditi apparve come l'incarnazione della grandezza dell'Inghilterra, della sua libertà e indipendenza religiosa.

Il regno di Elisabetta vide anche la nascita del dramma inglese, il quale d'ora in poi assunse un colorito tutto proprio e nazionale, così per il contenuto come per la forma. Questa poesia drammatica inglese fu la sola che sin dal principio ebbe il coraggio di romperla col principio aristotelico delle tre unità e di crearsi arditamente una forma propria. Essa si schierò entusiasticamente attorno alla regina che era essa medesima una ardente promotrice dell'arte drammatica ed una appassionata frequentatrice del teatro, ed aveva anzi favorito il sorgere del primo teatro stabile a Londra (1576). Col suo costante appoggio vennero poi fondati sino al principio del XVII secolo undici teatri nella capitale.

Uno dei primi scrittori drammatici di quest'epoca, Peele, nella sua «Battaglia di Alcassar», si fece eco con frasi veementi dell'odio diffuso nel popolo inglese contro lo spagnolismo e il papismo. Altri autori, come Greene e Marlow, Beaumont e Fletcher, Ben Jonson e Massinger, passano tutti nell'ombra di fronte a Shakespeare, questo genio veramente superiore e il più grande fra i poeti drammatici di tutti i tempi. Shakespeare era un ardente patriota. Egli giudicò come il più bello e il più nobile dei suoi compiti quello di presentare la storia del suo paese in una collana di grandiosi ed arditi quadri drammatici. Peraltro nel tratteggiare il passato del suo popolo egli non seppe conservare la fredda imparzialità dello storico, ma recò nella sua opera tutte le prevenzioni del patriota inglese protestante del suo tempo; da questo punto di vista egli valuta e dipinge gli uomini e gli avvenimenti di epoche remotissime, pieno di pregiudizi contro le altre nazioni e assolutamente incapace di comprendere le diversità d'ambiente sociale e spirituale altrove vigenti.
Questa sua unilateralità ha contribuito molto ad esaltare lo spirito nazionale del popolo inglese a quell'epoca. E proprio i drammi storici di Shakespeare divennero subito straordinariamente popolari e suscitarono numerose imitazioni.

La febbre di attività e di opere da cui era allora invaso il popolo inglese gli instillò pure la passione per le gesta immaginarie rappresentate sulla scena. Solo in un paese come l'Inghilterra di quei tempi, riboccante di vitalità e di movimento intellettuale, potè verificarsi il fatto eccezionale che dei marinai sulla lontana costa d'Africa mettessero in scena il «Riccardo II» di Shakespeare e persino un dramma di contenuto altamente filosofico come «Amleto».

Elisabetta partecipò personalmente a questa attività intellettuale e la seguì col più vivo interesse, mostrandosi felice dell'elevazione morale del suo popolo altrettanto quanto del suo crescente benessere materiale e della influenza politica e potenza marittima sempre maggiore che andava acquistando lo stato inglese. E a dire il vero essa aspirò in generale al vanto che la potenza e la gloria dell'Inghilterra dovesse essere ed apparire principalmente come opera sua personale, e perciò volle essa medesima governare uomini ed eventi, di modo che ogni felice risultato irradiasse da lei e testimoniasse lo splendore della sua personalità.

Col favore e l'aiuto di questa regina colta, anzi erudita, l'antichità venne studiata ed imitata con lo stesso ardore degli umanisti. È un figlio di quest'epoca Bacone, che, prediletto e favorito da Elisabetta, iniziò sotto il suo regno la sua grandiosa carriera scientifica e letteraria. La regina accordò la sua amicizia all'ardito navigatore Sir Walter Raleigh, uomo di splendido e multiforme talento, erudito ed oratore, storico, poeta e cortigiano, ma di carattere depresso.
Alla sua corte furono assidui il cognato di Leicester, «Henry Sidmy», che introdusse la civiltà e le istituzioni monarchiche nel paese di Galles e si proponeva di diffonderle in Irlanda, e suo figlio Filippo, che parve incarnare l'ideale inglese del perfetto e colto gentiluomo. Ad un grande notevole talento letterario ed alla distinzione delle maniere ed abilità di tratto che lo resero idoneo a compiere una missione diplomatica egli univa una benevolenza verso gli altri spinta fino all' abnegazione ed una abilità cavalleresca nelle armi che gli procurò la generale ammirazione in patria e di fronte al nemico.

Fra gli abilissimi e intelligenti uomini di stato che si schierarono attorno ad Elisabetta, - Burgley, il figlio di costui Robert Cecil, Releigh, Bacone, Eduardo Coke -, nessuno godette i suoi favori quanto Roberto Devereux, conte di Essex, la cui fiorente giovanile bellezza aveva conquistato il cuore della ormai matura regina. Ma i suoi audaci, vastissimi progetti incontrarono le ostilità di Sir Robert Cecil, e questo perfido gobbo che non risparmiò mai un suo avversario, divenne ben presto il mortale nemico del gran maresciallo di Essex. Per sua sventura quest'ultimo aveva due gravi difetti: l'uno, che non era dotato di capacità militare proporzionata alla sua smisurata ambizione; l'altro, che la rapida e precoce elevazione ai sommi onori aveva ingenerato in lui una intollerabile boria che non smetteva neppure nei rapporti con la regina, pur così alteramente gelosa della sua dignità.

Per scongiurare una rottura con lui, altrimenti inevitabile, Elisabetta lo inviò nel 1599 contro gli Irlandesi, che da cinque anni si trovavano nuovamente in aperta rivolta. Ma la fastidiosa e ingloriosa guerriglia contro le feroci, astute e inafferrabili bande celtiche stancò presto Essex; egli decise, ad onta dell'espresso divieto della regina di abbandonare il comando dell'esercito e di recarsi a Londra per indurre la sovrana a prendere parte attiva alla guerra contro la Spagna, nella quale vi era possibilità di guadagnarsi gloria e ricchezza, senza contare che in questa guerra si decidevano le sorti dell'Europa.

Elisabetta, indignata per la sua indisciplina ed alterigia, lo confinò nella sua casa a Londra (fine settembre del 1599). Nel febbraio del 1601 poi, visto che la regina non voleva a nessun costo perdonargli, egli levò la bandiera della rivolta; ma fu ben presto sopraffatto e giustiziato il 25 febbraio 1601.
La sua morte non mancò di lasciar tracce perchè egli era stato l'idolo delle classi medie e popolari, e soprattutto dei puritani intransigenti. Ma già prima tutta l'opinione pubblica aveva cominciato a volgersi contro l'indirizzo di governo conservatore ed aristocratico della vecchia regina.
Il parlamento usò con lei un linguaggio che dimostrò chiaramente come il sentimento di umile sottomissione alla monarchia, nutrito costantemente per un secolo dalla rappresentanza nazionale, era ormai svanito, e come in particolar modo la Camera dei Comuni era animata da uno spirito nuovo di baldanza e indipendenza. Essa costrinse infatti nel 1600 Elisabetta a rinunziare per sempre ai monopolii in materia di generi alimentari di prima necessità che aveva sempre rifiutato alteramente di abolire.

Gli ultimi anni di Elisabetta furono estremamente tristi. Essa si trovò come isolata in mezzo ad una nuova generazione, imbevuta di idee ed aspirazioni diverse delle sue, ed assai più radicali. Le complicazioni di politica estera la costrinsero ad entrare nuovamente in lotta con la Spagna, vale a dire a batter la via per la quale aveva voluto metterla Essex. E ciò le fece tanto più rimpiangere la perdita dell'amico, un tempo a lei così caro. La sua malinconia si trasformò alla fine in una vera malattia nervosa, che, data la sua grave età, 70 anni, la portò alla tomba il 3 aprile 1603.

L'ultima dei Tudor fu una delle donne più eminenti che la storia ricordi e una sovrana la cui vita non poteva essere più fruttuosamente spesa. Essa incamminò l'Inghilterra sulla via decisiva della futura grandezza, portò a compimento e fece trionfare la riforma religiosa iniziata da suo padre, rese possibili le prime grandi vittorie navali del suo paese e gettò così le basi del dominio dei mari a favore del popolo brittannico, e per la prima volta con lei, dopo un secolo di debolezza impotente, l'Inghilterra esercitò una influenza vasta e preponderante sulle sorti di Europa. È infatti sotto il suo regno che l'Inghilterra fiaccò definitivamente la potenza della Spagna, e diede modo agli Olandesi, agli Ugonotti e ad Enrico IV di opporsi alle pretese spagnuole di monarchia universale.

GLI STUART

Sul trono della grande sovrana salirono ora gli Stuart, con Giacomo VI (1567-1625 - figlio di Maria Stuarda), che come re d'Inghilterra assunse il nome di Giacomo I.
Nessuno avrebbe potuto somigliar meno alla perspicace ed astuta Elisabetta Tudor di questo dotto teologo e pedante Giacomo I, meglio paragonabile ad un maestro di scuola bisbetico che ad un re. Lunatico, incerto, benchè profondamente convinto della propria «arte regale autocrate e pur zimbello dei suoi cortigiani, pusillanime e fatto apposta per arretrare spaventato di fronte alla minima difficoltà, costui credette di potersi arrogare poteri dispotici, illimitati; e queste sue tendenze assolutiste vennero rinfocolate dalla moglie, Anna di Danimarca, che era segretamente passata al cattolicesimo. Egli schivò ogni contatto immediato coi cittadini; il che ben presto lo rese impopolare presso i suoi nuovi sudditi abituati alle maniere democratiche di Elisabetta.

Tuttavia l'assunzione al trono d'Inghilterra di questo Stuart scozzese segnò una data d'importanza storica universale. Pacificamente, senza colpo ferire e per il solo effetto di circostanze favorevoli Giacomo I aveva potuto compiere la grande opera per la cui realizzazione avevano invano lottato le poderose figure dei principi della famiglia dei Plantageneti ed Enrico VIII dei Tudor: l'unione delle due parti della Gran Brettagna, sino allora separate e nemiche fra loro. Per lo spazio di quattro secoli gli scozzesi erano stati i perenni alleati dei nemici dell'Inghilterra ed avevano impedito ai re inglesi di conseguire la vittoria sulla Francia. Essi avevano costantemente infestato le contee settentrionali dell'Inghilterra con invasioni, rapine, incendii e massacri, ostacolandone il prospero sviluppo.

Ora invece la situazione si capovolgeva completamente: l'audace, intraprendente, capacissimo popolo scozzese, invece di costituire un ostacolo perpetuo ed un perpetuo pericolo per l'Inghilterra, era destinato a diventare il suo naturale e inseparabile alleato. Per verità all'inizio avvenne anche in questo caso quel che di solito succede sempre quando vi sono unione di nazioni diverse: la personale reciproca avversione si inasprì e gli attriti pullularono senza posa. Ma si trattò di fenomeno transitorio, e di fronte ai paesi stranieri già allora l'Inghilterra e la Scozia si tennero strettamente unite. Si aprì per la Gran Brettagna la prospettiva di un nuovo e splendido avvenire.

E tutto ciò fu pure effetto della lotta intrapresa dalla contro-riforma contro la nuova fede; se il partito protestante predominante così in Inghilterra come nella Scozia non si fosse sentito minacciato dallo stesso nemico, l'unione dei due paesi non si sarebbe mai verificata.
L'inizio della nuova era fu tuttavia poco promettente a causa dell'ansioso desiderio di pace di re Giacomo e delle sue simpatie per il dispotismo spagnolo. Violando senza scrupoli i trattati esistenti con i Paesi Bassi, egli nell'agosto 1604 concluse una ignominiosa pace con la Spagna, abbandonando alla sua mercè i «ribelli», non solo, ma promettendo anche di consegnarle le città olandesi che aveva in pegno per le somme anticipate dall'Inghilterra agli stati generali; promessa vergognosa forse unicamente spiegabile con i principi dispotici dei quali si era imbevuto Giacomo che lo portavano a considerare gli olandesi in lotta per la libertà e per la loro fede come puri e semplici sleali ribelli al loro sovrano per grazia di Dio.

Con ciò era rinnegato il glorioso periodo del regno di Elisabetta e si abbandonavano definitivamente i gloriosi ideali nazionali concepiti da Essex. In Inghilterra il malcontento divenne generale e si appuntò minaccioso contro l'assolutismo della corona. Solo transitoriamente, Giacomo raggiunse una certa popolarità (o meglio simpatia di reazione) vale a dire nel 1605 allorchè fu scoperto un complotto di cattolici tendente nientemeno che a far saltare in aria mediante polvere da sparo il re e tutti i membri del parlamento, esecutore il fanatico Guy Fawkes. Conseguenze di questa «congiura della polvere» furono la emanazione di leggi più severe contro i cattolici inglesi e l'inasprimento della lotta religiosa in Gran Brettagna.

I BORBONI

A risultati completamente diversi giunse il regno dei primi Borboni in Francia. Ma pure per loro situazione fu fin dall'inizio molto difficile. Trentasei anni di guerre civili avevano assottigliata, impoverita e imbarbarita la nobiltà francese, ed il peso enorme delle imposte aveva ridotto gran parte del clero in vera e propria miseria; la popolazione agricola era diminuita di tre milioni di anime e spesso veniva spogliata dei suoi averi; l'attività industriale languiva ed il commercio erasi ridotto quasi a nulla a causa dello stato di decadenza delle strade e dei ponti e delle rapine ed estorsioni cui il commerciante andava incontro sulle vie di comunicazione.

In questa generale rovina solo gli appaltatori delle imposte, gli speculatori ed i legali si erano arricchiti. Per poter porre riparo ad un simile stato di cose era necessario che la corona restaurasse e rafforzasse anzitutto la propria autorità, domando le due correnti d'opposizione, l'aristocratica e la confessionale, che tuttora cercavano di limitarla, anzi di tenerla soggetta.

I membri dell'alta nobiltà non potevano dimenticare la parte di piccoli principi indipendenti che essi avevano rappresentata durante le guerre civili. A loro volta Ugonotti e cattolici zelanti non volevano rinunziare alla loro reciproca inimicizia ed erano d'accordo soltanto nel diffidare di un re così tiepido in materia religiosa.

Acutamente Enrico IV ravvisò che non l'attaccamento alla nobiltà egoista, ma i contrasti di sentimento e di partito religioso avevano tuttavia profonde radici nell'anima della nazione. E quindi, mentre represse inesorabilmente l'opposizione dei nobili, cercò di destreggiarsi abilmente fra i due partiti religiosi estremi in modo da non urtarli, contenendosi esteriormente da leale cattolico, ma nel tempo stesso adottando in generale verso gli Ugonotti una politica di piena tolleranza, e dimostrando loro anche una certa simpatia personale.

Dopo lunghe trattative con gli Ugonotti, Enrico emanò il famoso editto di Nantes (15 aprile 1598), che segnò l'inizio di una nuova epoca nella storia della Chiesa cristiana. Esso rappresenta il primo tentativo di collocare su un piede di eguaglianza i cittadini di uno Stato appartenenti a diverse confessioni religiose; l'editto è come l'aurora di tempi migliori, un glorioso documento della eccezionale personalità del suo autore, il quale peraltro si era spinto assai più in là di quanto consentissero le condizioni dell'epoca in cui viveva.

L'editto tenne fermo al principio che la vera e propria religione dello Stato era la cattolica, ma concesse ai riformati piena parità di diritti politici. Essi anzi ottennero anche di più, giacchè conservarono duecento luoghi fortificati, la cui guarnigione composta di soli riformati doveva essere mantenuta a spese della corona, e conservarono pure la loro organizzazione politica e religiosa funzionante mediante assemblee provinciali e generali, le cui sessioni però dovevano svolgersi sotto la sorveglianza della corona. Con ciò veniva stabilito il principio della supremazia dello Stato sulla comunità ugonotta; ma praticamente questa supremazia avrebbe avuto ben scarsa possibilità di imporsi proprio nei momenti critici, quando cioè le assemblee ugonotte avessero avuto l'intenzione di rinnovare la guerra civile di religione.

Gli Ugonotti non rimasero affatto contenti della situazione loro creata dall'editto, in particolare per la circostanza che dovevano subire la sorveglianza della corona; tuttavia, siccome non potevano fare a meno di riconoscere che avevano nel re un vecchio amico ed un immutabile protettore, mormorarono sì contro di lui, ma non passarono mai a vere e proprie ostilità. Essi sentivano che Enrico di Francia era in fondo ancora Enrico di Navarra, carne della loro carne, sangue del loro sangue.

Più risoluti e aggressivi, si dimostrarono invece i capi dell'opposizione aristocratica. La condotta di costoro rispetto alla monarchia non va del resto giudicata alla stregua della morale politica dei nostri giorni. Bisogna infatti pensare che la scomparsa delle sovranità locali autonome e la subordinazione di tutti i poteri territoriali alla suprema ed unica autorità dello Stato non era allora cosa di antica data, consacrata dal tempo, dalla tradizione e dall'ordinamento giuridico, ma era cosa recente e di carattere rivoluzionario.
E la stessa monarchia, e con essa lo Stato, si era appena allora svincolata dalle concezioni di diritto privato dominanti nel Medio-Evo per le quali il territorio veniva considerato come una specie di vasto possedimento della corona e con questo preconcetto veniva amministrato, lasciato in eredità e rivendicato.

Ma Enrico IV si eresse energico assertore del nuovo concetto pubblicistico del potere supremo dello Stato e della corona sorto sotto l'influenza del diritto romano e ne fece sentire le conseguenze agli oppositori. Il benemerito maresciallo Biron, avendo ordito con l'aiuto della Spagna e della Savoia una congiura di grandi, fu mandato al patibolo (1602). I suoi compagni vennero incarcerati, banditi dal regno, spogliati dei loro beni o altrimenti puniti con estremo rigore. L'ondata del malcontento della nobiltà si infranse contro la salda scogliera della restaurata autorità regia, senza destare alcun seguito, perchè il popolo francese era ormai arcistufo di essere obbligato a dilaniarsi in lotte civili per il beneplacito di nobili ambiziosi o di preti fanatici ed era ben felice di trovare protezione contro il perpetuarsi di simili tentativi in una potente monarchia.

Enrico IV fu quindi il fondatore della monarchia assoluta francese, in quanto riuscì a conferire alla corona, nei riguardi interni ed internazionali, una tal pienezza di poteri quali essa non aveva in nessun altro Stato sull'inizio del XVII secolo. E la sua politica rivela il preordinato disegno di procedere verso il dispotismo. Dopo la pace di Vervins egli non convocò più gli stati generali e, pur lasciando funzionare gli stati provinciali, li ridusse al modesto ufficio di ripartire le imposte e fargli conoscere i loro desiderata in forma ossequiente di supplica.
Nelle città le libertà comunali furono conservate soltanto di nome, e le cariche cittadine vennero riservate ad un ristretto numero di famiglie patrizie più facili a tenerle osservanti alle direttive del governo. Salvando il più che possibile le apparenze, ma con metodo tenace e continuo, Enrico si impegnò di ridurre in ogni campo a veri e propri fantasmi tutte le autorità politiche indipendenti dalla corona, conservandole di nome ma trasferendo la sostanza dei loro poteri a funzionari del governo centrale.


Enrico IV, dopo avere ottenuto nel decembre 1599 dal papa il divorzio dalla sua prima moglie Margherita di Valois, la cui infedeltà coniugale era stata altrettanto rilevante quanto la sua, sposò nel decembre 1600 Maria dei Medici, nipote del granduca di Toscana, che sembrava indicata per la eccezionale energia di carattere, la devozione alla fede cattolica, per la ricca dote e per l'amicizia della Santa Sede che portava con se.
Nel settembre dell'anno seguente essa aveva già regalato al sovrano un erede legittimo ed alla Francia un successore al trono, il futuro Luigi XIII. Ma, nonostante le nuove nozze e la sua età matura (47 anni), re Enrico continuò a mantenere numerose relazioni estraconiugali, in certi casi amorazzi indecorosi.

Quel risveglio spirituale e morale che aveva diffuso nella Francia del XVI secolo il movimento della riforma religiosa sparì superato da una sempre più dilagante corrente materialistica. I grandi caratteri di quel secolo sono ormai fuori d'uso; le parole d'ordine dell'epoca sono ricchezza, potenza e godimenti. Indubbiamente l'indole e le tendenze personali di Enrico IV hanno contribuito molto a provocare un simile mutamento. Come egli spianò la via alla monarchia dei Luigi XIV e XV e le servì d'esempio nel campo politico, così le offerse un insuperabile modello di abbandono d'ogni freno morale nella soddisfazione dei piaceri dei sensi.
Di modo che il bene e il male che si può riscontrare nella monarchia francese dei tempi posteriori risale alla personalità di questo principe.

Assai più confortante si presenta invece il governo di Enrico IV sotto l'aspetto dell'amministrazione interna del regno. Egli possedeva la principali virtù del buon amministratore; quella di mettere a ciascun posto l'uomo adatto e di saper vedere distintamente ogni buona proposta e adottarla con tale impegno che l'idea e l'attuazione appaiono una personale opera sua. Non si tenne mai pago di provvedimenti frammentari e sporadici, ma la sua mente chiara e sistematica concepì l'azione amministrativa come un tutto coordinato, connesso ed armonico, e la sua energica volontà non indugiò mai a tradurre nei fatti quanto aveva riconosciuto opportuno con misure decise e di vasta portata.

Nella Francia di quel tempo esistevano in ogni campo delle energie sopite, latenti, ma vitali e capaci di svilupparsi sotto l'abile impulso di un accorto e perspicace monarca e di maturare col tempo buoni frutti. Se la Francia alcuni decennii dopo divenne il primo paese d'Europa per ricchezza, splendore ed elevata cultura, essa lo deve alla spinta ed all'avviamento verso questa mèta impressole da Enrico IV.

Per lungo tempo si è ritenuto che il merito principale di questa opera spettasse al suo ministro Sully, ma a torto, perchè Sully anzi si oppose con tutte le sue forze alle più importanti riforme volute dal suo sovrano. A Enrico in persona dunque che va restituita la gloria di aver posto le fondamenta della futura grandezza del suo regno e del suo popolo.

Solo nel campo finanziario e nel riordinamento dell'artiglieria, e soltanto in ciò, egli ebbe realmente un collaboratore in Massimiliano de Rosny, dal 1606 duca di Sully, il quale con una accurata e coscenziosa gestione delle pubbliche finanze e con la personale onestà provvide alla restaurazione del bilancio.
La possibilità di un rapido risanamento delle finanze dello Stato rovinate si ebbe allora, come di sovente in seguito, in grazia della fertilità del paese, della laboriosità e intelligenza dei suoi abitanti e di un abbastanza lungo periodo di pace.

Nella condotta della politica estera, che avocò a sè solo, Enrico IV si avvalse del solerte e svelto Villeroy, esperto conoscitore delle cose d'Europa e anche dell'abile negoziatore Jeannin. Ambedue erano stati leghisti ed erano ferventi cattolici e simpatizzanti per la Spagna, ma intelligenti com'erano non ebbero problemi di sorta a subordinarsi alla volontà ed all'intelligenza superiore del re.

Del rimanente Enrico scelse con grande accortezza i suoi collaboratori e ausiliari dai più vari partiti; ciò gli serviva per conciliarli tutti e dominarli tutti. Ma ciascuno a seconda della sua attitudine ebbe un compito limitato e ben preciso; nessuno di essi possedeva un talento vasto e multiforme, nessuno era di natali così elevati da poter godere una posizione indipendente dal favore del re. Così Enrico si procurò degli ottimi servitori, ma l'unico padrone rimase lui.

Con mezzi efficaci la nobiltà, e specialmente l'alta nobiltà, ancora così tracotante, venne costretta a rinunziare ad ogni indipendenza politica. Ai fianchi dei governatori provinciali, fino allora paragonabili a dei piccoli re locali, Enrico mise dei propri rappresentanti (luogotenenti generali), uomini di provata fedeltà. Fu abolita l'ereditarietà delle cariche di governatori ed a costoro venne vietata la leva di truppe senza ordine del re e il mantenimento di proprie artiglierie. Le armi dovevano essere solo in mano al governo!

Una polizia onnipresente e pronta ad ingerirsi in ogni cosa soffocò qualsiasi velleità di insubordinazione, tuttavia fu compiuta una benefica riforma degli ordinamenti giudiziarii e sottoposta a maggiore sorveglianza l'azione della magistratura a garanzia della legalità e correttezza dei procedimenti.
Inoltre Enrico IV consolidò il sistema della vendibilità degli uffici giudiziari d'ogni grado, già in uso dai tempi di Francesco I, e ne favorì la diffusione per quanto abbia cercato di circondarlo di migliori garanzie condizionandolo all'accertamento delle qualità scientifiche e morali degli acquirenti.

Su proposta del suo consigliere alle finanze Carlo Paulet egli concesse espressamente ai titolari di quegli uffici di trasmetterli in eredità o di alienarli, a patto di corrispondere allo Stato un canone annuo dell'1 e mezzo per cento dell'ultimo prezzo pagato per l'acquisto dell'ufficio. Questa «Paulette», come venne chiamato comunemente il menzionato canone, partorì i peggiori effetti, come tutti i monopoli e privilegi. I prezzi degli uffici, data la maggior sicurezza di questi, salirono enormemente e divennero oggetto di vera e propria speculazione. E i compratori cercarono di rifarsi del considerevole dispendio subìto coll'aumentare le sportule (tariffe), trascinare in lungo i processi e persino col prendere sottomano denaro dagli interessati (vendita in nero).
Non più quindi la tutela degli interessi generali, ma la tutela del proprio tornaconto, o al più quello della propria consorteria, guidò l'opera della magistratura.

Oltre a ciò la carriera giudiziaria restò preclusa a tutte le intelligenze appartenenti alle classi meno abbienti. Nè tutti questi gravi inconvenienti potevano dirsi compensati dalla completa indipendenza della magistratura dalla corona, la quale non si era riservata neppur la nomina formale agli uffici giudiziarii.
Incontestabili furono i meriti di Enrico IV e di Sully nel campo finanziario. Alla fine delle guerre civili il debito pubblico era cresciuto sino al punto da esser quasi dodici volte superiore alle entrate complessive annue. Sully, con la parsimonia nelle spese, con la correttezza nel maneggio delle imposte, aumentò le entrate pubbliche senza eccessivo aggravio dei contribuenti, ridusse di un terzo circa il debito pubblico, riscattò i demand e le rendite andate perdute per lo Stato e formò un fondo cospicuo di guerra.

Questi grandiosi risultati non potevano essere raggiunti se non accrescendo la capacità produttiva del popolo francese. «Agricoltura e allevamento del bestiame sono le due mammelle che alimentano la Francia, sono i veri tesori e miniere del Perù», diceva Sully; e il re aggiungeva con pari ragione: «Uno dei principalissimi mezzi di trarre i nostri sudditi dalle calamità e dalle rovine lasciate dalle guerre civili è l'impianto di industrie e manifatture».
Enrico IV agì in conseguenza. Le sue idee economiche erano assai più progredite di quelle correnti ai suoi tempi. Lo si intravede dal fatto che in un periodo nel quale per tener basso il prezzo del grano se ne vietava l'esportazione, non solo da Stato a Stato, ma da provincia a provincia dello stesso Stato, Enrico IV non soltanto acconsentì l'esportazione in tutto il regno, ma la esentò da quasi tutti i dazi che la gravavano. Ne derivò una più attiva e redditizia esportazione dei cereali francesi.

Cure anche maggiori Enrico IV dedicò, contrariamente alle vedute più unilaterali di Sully, allo sviluppo delle industrie, nelle quali egli scorgeva il principale mezzo di sollevare il popolo dall' imperversante miseria e dalla disoccupazione. Infatti nelle classi più diseredate delle città, in conseguenza delle guerre civili, era dilagata spaventosamente l'indigenza, l'avversione al lavoro e l'immoralità.

Dal 1° gennaio al 10 febbraio 1596 in un solo ospedale di Parigi morirono 416 persone, la più parte a causa di malnutrizione e privazioni varie. In uno solo dei sedici quartieri di Parigi si contavano 7769 poveri, senza alcuna risorsa.
Occorse raddoppiare la tassa dei poveri. Per contro l'alta nobiltà ed i banchieri sfoggiavano un lusso smodato alle cui esigenze bisognava in gran parte sopperire con costose importazioni dall'estero. E così somme notevolissime passavano il confine annualmente per le seterie ed altre stoffe importate mentre l'esportazione francese nel 1598 era quasi pari a zero.

Enrico cercò anzitutto di ravvivare le industrie tuttora esistenti in Francia agevolando loro il reclutamento delle maestranze, facendo venire abili operai dall'estero e fondando camere di commercio. In seguito senza lesinare nelle spese creò nuovi rami di industria, in particolare quello, che nell'avvenire doveva assurgere a tanta importanza, della coltivazione dei bachi e della fabbricazione della seta. Del pari promosse la fabbricazione dei tessuti fini, il cui principale centro fu Rouen, e numerose altre specie di manifatture.

Durante i dodici anni di pace seguiti al 1598 la situazione industriale della Francia si trasformò completamente. Dall'essere prima industrialmente dipendente dall'estero, essa non solo si emancipò da tale soggezione, ma arrivò ad avere una sovraproduzione che potè esportare all'estero.
Certamente risultati simili non si ottengono per esclusiva opera e merito di governi. Ma lo sviluppo industriale del popolo francese ricevette un grande impulso dal re e fu favorito dalle sue idee relativamente moderne in materia di commercio e di industria.

All'uno come all'altra arrecarono grandi vantaggi le splendide strade maestre di cui fu dotato il regno e le vie d'acqua in parte costruite e in parte almeno cominciate. Una serie di trattati di commercio assicurò lo smercio dei prodotti francesi all'estero, che venne altresì protetto e favorito dall'istituzione di consolati nelle principali piazze straniere. Il movimento di esportazione si accentrò precipuamente nel porto di Marsiglia, che da allora cominciò a superare Venezia e a divenire l'emporio di tutto il Mediterraneo.
Nella sua vasta e sicura rada si potevano per lo più contare oltre 300 grosse navi mercantili, e il guadagno netto risultante dal traffico saliva annualmente ad una somma assai cospicua. Anche altre città francesi col rapido aumento della loro popolazione e con la bellezza delle nuove costruzioni edilizie testimoniarono il rapido incremento del benessere generale.
Parigi alla morte di Enrico contava già 400.000 abitanti, più di qualsiasi altra città del mondo.

Tutta l'Europa partecipava allora al movimento coloniale iniziato dai Portoghesi e dagli Spagnuoli. In Olanda ed in Inghilterra venivano fondate le due grandi compagnie delle Indie orientali, l'olandese nel 1594, l'inglese nel 1600. Nel marzo 1607 sorse a Jamestown nella Virginia la prima colonia inglese in territorio nord-americano, avvenimento di immensa importanza storica, per quanto neppur presentita a quei tempi. E con esso infatti che cominciò l'opera inglese di colonizzazione che nel corso di tre secoli doveva stendere la sua rete su tutto il mondo.

Enrico IV volle che anche la Francia prendesse parte a questa gara colonizzatrice; fondò anch'egli una compagnia delle Indie orientali, e ad opera del fervido ed intrepido Champlain fece fondare nel Canadà la città di Quebec in una posizione molto favorevole.
E, come della colonizzazione francese, così Enrico gettò le basi della potenza militare francese. Soprattutto fu il creatore della fanteria nazionale che sostituì alle fanterie mercenarie svizzere e tedesche di cui si erano avvalsi i suoi predecessori.
Ma in generale creò tutti gli elementi adatti a costituire il primo nucleo di un esercito di prim'ordine: soldati il cui naturale spirito militare venne elevato con una accurata istruzione e con un buon trattamento; ufficiali ben addestrati; un valente corpo di ufficiali e soldati del genio; una numerosa e ben equipaggiata artiglieria.

Minor fortuna ebbe il re nel campo delle arti, un territorio nel quale non poteva necessariamente fare egli stesso, ma soltanto incitare e favorire. Vari edifici, soprattutto a Parigi, risalgono a lui; ma rispecchiano le non felici condizioni dell'arte architettonica ai suoi tempi. L'architettura dalla rinascenza francese aveva toccato il suo apogeo sotto Enrico II, allorchè fiorì Filiberto de l'Orme che ideò per Caterina dei Medici lo splendido e grandioso progetto del palazzo delle Tuileries. Da quel momento però era rapidamente decaduta ed aveva cercato nelle forme massicce e portentose un vago compenso alla povertà o addirittura mancanza di idee veramente artistiche e feconde.

Nè miglior sorte toccò alla scultura e alla pittura. L'epoca movimentata delle guerre civili ebbe ancora un uomo di genio, Bernardo Palissy (nato nel 1510), il quale, cominciando da povero vasaio, dopo privazioni e sforzi indicibili, scoperse nuovamente il segreto dello smalto policromo delle ceramiche ed in seguito applicò alle scienze, in luogo del metodo deduttivo teoretico, il metodo sperimentale e dell'osservazione naturalistica, fondò la geologia, ed in breve riassunse in sè le qualità di grande indagatore e di grande artista. Ma già lo scultore degli ultimi Valois, Germain Pilon, ad onta della innegabile maestria di esecuzione, della inventiva molto fine e ingegnosa, mostra la tendenza alla ricercatezza e l'amore per l'effetto sorprendente, sbalorditivo.
I suoi successori poi segnano nettamente il passaggio al barocco; tutto diviene in loro manierato, ampolloso e le forme innaturali gonfie ed a curve sporgenti mirano all'unico intento di ottenere l'effetto pittoresco. Lo stesso avvenne nella pittura, nel cui campo il solo Martino Freminet rimase fedele alla tradizione michelangiolesca.

Invece migliori frutti arrecò il fervido interessamento del re per il progresso degli studi. Venne ricostituito il Collège de France, completamente decaduto, e fu dotato di venti cattedre fornite di tutti i mezzi necessari; allo stesso modo fu ricostituita la regia biblioteca. I filologi francesi Giuseppe Scaligero, Mercier des Bordes, Casaubon, ottennero il primato in Europa. Fra i numerosissimi storici emersero principalmente: l'intollerante, arrischiato, ma sincero Teodoro Agrippa d'Aubigné con la sua raccolta di fatti memorabili da lui intitolata «Histoire universelle», scritta con linguaggio vigoroso, personale, eloquente, benché talora arrogante e licenzioso; e la sua antitesi, cioè il dotto, spregiudicato e tollerante Jacopo Augusto de Thou con le sue «Histoires», opera imparziale, condotta con sentimento di verità e basata su materiali autentici accuratamente vagliati. Il de Thou, come lo stesso Enrico IV, era allievo di Michele de Montaigne (1533-1592), i cui «Saggi», dando prova di una profonda conoscenza del cuore umano, analizzano con arguta franchezza e con garbo tutta la vita umana dal punto di vista di un brioso scetticismo. Montaigne è il fondatore di quella scuola di uomini politici e scrittori indifferenti in fatto di confessione religiosa, che sorse per naturale reazione agli orrori e le distruzioni delle guerre civili provocate dagli scismi confessionali ed acquistò sempre più numerosi proseliti, i precursori dei «filosofi » scettici del XVIII secolo.

Anche nel campo della poesia l'epoca di Enrico IV inaugurò quell'indirizzo che rimase dominante nella letteratura francese durante l'intero XVII secolo. Col Malherbe infatti si inizia la nuova scuola che si afferma vittoriosa in confronto agli scrittori che, come l'arguto e pungente poeta satirico Mathurin Regnier, seguivano le orme di Marot, Rabelais e Ronsard. Alla poesia del XVI secolo, spesso ruvida e licenziosa, ma sempre fresca e vivace, subentra una maniera cortigiana ed elegante, misurata, studiosa della bella forma e per lo più piena di buon gusto; ma priva di originalità, di vigore, di vero sentimento e di sincerità. Con ciò si preannuncia l'epoca di Luigi XIV.

Enrico lasciò che poeti e scrittori si sbizzarrissero a modo loro; e, se anche non li favorì direttamente, pure rese loro indirettamente il massimo dei servigi: quello di non limitare in alcun modo la libertà di parola e di stampa. Egli potè usare tanta indulgenza, del tutto inusitata ai suoi tempi, anche perchè era quello che meno d'ogni altro aveva da temere la critica, dal momento che con occhio sicuro e con mano ferma aveva realmente poste le basi della grandezza e potenza della Francia.

Più che il «buon re», come si amava comunemente di dipingerlo, egli fu un gran re, un amministratore di prim'ordine, un eminente uomo di stato ed un segnalato capitano.
Enrico IV aveva sempre accarezzato il disegno di procedere, dopo aver sistemato le cose interne del suo regno, a regolare i conti con la fin allora strapotente rivale della Francia, la casa d'Absburgo, che da un secolo aveva politicamente e militarmente sconfitto la Francia, le aveva tolta l'Italia, aveva seminato nel suo interno l'insurrezione e la guerra civile.

Non è forse immaginabile un contrasto più profondo di quello che si riscontra nelle condizioni della Spagna e della Francia a quei tempi. La Spagna, smisuratamente vasta quanto ad estensione di territorio, ma internamente slegata e debole; la Francia relativamente assai più piccola, ma compatta e concentrata; la prima, già naturalmente resa inaccessibile ad ogni influenza vivificatrice esterna dallo sbarramento dei Pirenei, situata per di più all'ultimo limite dell'Europa; la seconda collocata nel cuore dell'occidente europeo e pronta ad accogliere attraverso i suoi aperti confini tutti gli elementi di civiltà delle altre nazioni; la Spagna colpita da un processo di graduale esaurimento d'ogni energia vitale; la Francia piena di fresche energie in via di sviluppo; la Spagna tenacemente attaccata allo statu quo ante; la Francia in cammino quale pioniera di un generale rivolgimento politico: la Spagna rappresentante di una fanatica intransigenza religiosa, la Francia della maggiore possibile tolleranza. Tutte queste circostanze rendevano inevitabile l'urto tra le due nazioni e la guerra.

QUANTO ALLA SPAGNA...

... il successore di Filippo Il era un principe bonario, onesto, amante della buona tavola e del passatempo della caccia, incapace di avere una opinione propria e tanto meno una volontà propria. FILIPPO III abbandonò tutti i poteri della sua illimitata ed assoluta regalità nelle mani del suo favorito, duca di Lerma, uno scaltro intrigante, ignorante, corto di ingegno e privo di ogni programma determinato, avido e ladro, che giunto povero all'alta sua posizione aveva già in breve tempo messo insieme un reddito di 700.000 scudi ed un patrimonio di 6 milioni di ducati. Quanto più egli si arricchiva ed arricchiva i suoi favoriti, tanto più si impoveriva lo Stato. Il governo si ridusse a chiedere l'elemosina ai sudditi, a vender il perdono per delitti civili e religiosi, a falsificare la moneta, non pagò più nè gli impiegati nè i soldati e nel 1607 fece nuovamente parziale bancarotta.

Era naturale che in simili condizioni lo Stato non potesse adempiere alla sua prima e principale funzione: quella di garantire la sicurezza pubblica all'interno; e così avvenne che nel popolo immiserito pullularono i masnadieri, i «bandoleros», che uniti in manipoli di 50 o 100 uomini saccheggiavano intere carovane e rendevano malsicure persino le città, favoriti e compatiti dalle classi inferiori. La popolazione spagnuola a causa delle continue guerre e della penuria materiale decrebbe rapidamente e nei venti anni seguiti alla morte di Filippo II discese da 8 a 6 milioni di anime.

Malgrado tutto ciò gli spagnoli si ritenevano pur sempre invincibili e si consideravano il primo popolo del mondo. Orgoglio nazionale, fanatismo religioso e spirito bellicoso si alleavano strettamente nel loro animo. Oltre alle rappresentazioni teatrali ammaliavano tuttora questo popolo i tornei cavallereschi sfarzosi, mentre altrove essi erano già da lungo tempo scomparsi, e soprattutto lo attraevano gli autodafé. Da lontane contrade questa gente, mossa dalla passione fanatica, accorreva ai luoghi di supplizio per veder strozzare e bruciare gli eretici aborriti.


Filippo III per quanto incapace non operò secondo il suo buon senso, ma certamente in conformità del sentimento della grande maggioranza dei suoi sudditi, quando nel periodo dal 1609 al 1611 scacciò dal suo regno tutti i residui della popolazione moresca che da tanti anni non aveva mai dato alcun fastidio, ma solo operato abilmente diligentemente nei settori produttivi che davano lavoro anche agli spagnoli; con questo atto Filippo III arrecò un nuovo e formidabile colpo al benessere della Spagna, la quale secondo i calcoli più moderati le conseguenze ricaddero su almeno mezzo milione dei suoi più solerti, laboriosi ed utili abitanti.
Quasi tutta l'industria laniera di Toledo, esercitata fino allora in più di 50 fabbriche, insieme coi mori emigrò a Tunisi. Così pure scomparvero all'improvviso molte piccole industrie, nelle cui officine trovava lavoro e si era formata la maggior parte delle maestranze spagnole; e così nelle tessiture di seta il lavoro volò in Africa.
L'esportazione di prodotti spagnoli in America discese dalle 27.500 tonnellate annue a 15.000 tonnellate, vale a dire si ridusse a poco più della metà. In numerosi piccoli centri, un tempo densamente popolati, non rimase anima viva, ond'essi caddero in rovina.
Tutto questo fece scoppiare una grave crisi monetaria. La Spagna, povera di uomini, di industrie e di denaro, era condannata a decadere ben presto dal rango di grande potenza. Non si riprese più.

Andò di male in peggio. Infatti essa fu ben presto costretta a rinunziare alla lotta nei Paesi Bassi. Qui un ricco banchiere genovese, il marchese Spinola, un generale nato, alla testa di un esercito da lui reclutato, la cui geniale condotta gli aveva poi procurato il comando supremo su tutte le truppe spagnuole, aveva restituito le sorti militari della causa cattolica ottenendo il sopravvento su Maurizio d'Orange.
Ma i vantaggi conseguiti dallo Spinola sui campi di battaglia vennero vanificati, neutralizzati dai danni inflitti dalla marina olandese alle flotte ed alle colonie spagnole. I marinai olandesi tolsero ai portoghesi le preziose Molucche e le isole della Sonda. L'intelligente governatore generale delle Indie, Jan Pieterszoon Koen (1618-1623) fondò nel 1618 Batavia ed in genere fece di Giava il centro dei possedimenti olandesi in Asia. Tutti i mari furono coperti di navi olandesi, una flotta di più di 3000 grandi unità. con 40.000 marinai.

Più tristi erano le condizioni delle provincie meridionali dei Paesi Bassi, le così dette province ancora «obbedienti», soggette al governo dei fanatici arciduchi Alberto ed Isabella. La guerra aveva trasformato in un deserto la parte settentrionale del Brabante e le Fiandre; e in tutto iI Belgio l'agricoltura giaceva abbandonata e il commercio marittimo era press'a poco stato annientato dalle navi da corsa e dalle navi da guerra olandesi. La costa delle Fiandre, e sopra tutto Anversa, ove un tempo si erano dato convegno i mercanti e le flotte mercantili di tutta Europa, erano deserte e derelitte.

In simile situazione la Spagna si vide costretta, dopo lunghe trattative, a concludere il 9 aprile 1609 con gli Olandesi, se non una pace definitiva, un armistizio di dodici anni a condizioni umilianti; più che un armistizio era una vera e propria resa. La Spagna dovette riconoscere l'indipendenza delle Provincie unite, dovette rinunciare a che fosse consentito solo il libero esercizio del culto cattolico, impegnarsi a non porre alcun ostacoli alle province unite e quindi libere di poter comunicare con tutte le regioni d'oltre mare non soggette direttamente alla dominazione spagnola.

Questo armistizio fu un avvenimento di importanza massima. La vittoria degli Olandesi significò pure una vittoria del principio di libertà politica e religiosa sul tetro duplice dispotismo che la Spagna di allora faceva pesare sul corpo e l'anima dei suoi sudditi, e costituì una efficace barriera al progresso della controriforma.

E' evidente che la Spagna con la vergognosa capitolazione risentì del gravissimo contraccolpo. Inoltre rivelò all'Europa la sua debolezza, e tale rivelazione costituì un grave pericolo. Infatti fece sparire le incertezze che avevano finora ancor trattenuto Enrico IV dallo scatenare una guerra in grande stile alla Spagna. La guerra del resto lui l'aveva da tempo accuratamente preparata. Aveva cominciato col mettere a posto l'irrequieto ed avido alleato della Spagna, il duca Carlo Emanuele di Savoia, costringendolo alla pace di Lione (17 gennaio 1601), in seguito alla quale il duca, in cambio del piccolo marchesato di Saluzzo, dovette cedere alla Francia parte della Savoia con una estensione sei volte superiore a quanto ricevuto. Ma non poteva fare diversamente, il duca perduta ogni speranza dalla parte spagnola ormai con l'acqua alla gola, per stare tranquillo dovette pure allearsi con la Francia.

In seguito Enrico IV si assicurò pure l'amicizia degli Svizzeri, di Venezia, Toscana e Mantova. Intromettendosi poi nella politica interna della Germania, concepì e si impegnò a realizzare il disegno di riunire in una salda e ben organizzata lega gli stati evangelici, la quale naturalmente si metteva contro il fervente cattolico imperatore Rodolfo II e contro la Spagna sua stretta alleata.

Quando vide in effetto costituita nel 1608 l'«Unione» evangelica, re Enrico decise di sferrare con il suo aiuto in Germania l'offensiva principale contro il grande ma sconquassato edificio della potenza absburgica.

Gliene offrì l'occasione la contesa che nel marzo 1609 (nell'aprile c'era stata la capitolazione della Spagna in Olanda) scoppiò tra i principi protestanti di Brandenburgo e Neuburg da un lato e l'imperatore dall'altro per la successione nel dominio vacante delle città di Jülich e di Cleve. Allorchè per incarico dell'imperatore suo fratello arciduca Leopoldo si impadronì della piazzaforte di Jülich, Enrico dichiarò immediatamente e energicamente che non avrebbe tollerato tale arbitrio da parte della casa d'Austria. E per impedirlo strinse alleanza con l'Unione evangelica a Schwabisch-Hall; alcune settimane dopo si accordava a Brosolo con il duca di Savoia per procedere alla conquista del ducato di Milano tenuto ancora dagli Spagnoli. Si delineava così il disegno di una guerra in grande stile.

A tal punto però intervenne una catastrofe che mutò di punto in bianco lo stato delle cose. Il 14 maggio 1610, cinque giorni prima della annunciata partenza per raggiungere l'esercito, mentre Enrico IV verso le quattro del pomeriggio transitava lentamente in una carrozza aperta lungo la stretta via de la Ferronnerie ingombra di carri, Francesco Ravaillac lo uccise sul colpo con una pugnalata.
Ravaillac era un fanatico, avvelenato dalle teorie regicide di alcuni scrittori gesuiti ed esaltato dalle infiammate prediche che per l'appunto in quei giorni tuonavano qua e là in Francia dai pulpiti contro la spedizione militare che Enrico voleva intraprendere a vantaggio degli eretici tedeschi.

Enrico IV aveva 57 anni. Regnato per 21. Compiuto il rivolgimento politico.

Gli successe sul trono un fanciullo di 9 anni, Luigi XIII (1601-1643), sotto la reggenza di una donna di limitata capacità, la madre Maria de' Medici. Il grande disegno politico-militare di Enrico IV rimase quindi inattuato e non potè essere ripreso che quindici anni più tardi dall' abile Richelieu (1585-1642). Una creatura creata come segretario di Stato dalla Medici, ma poi Luigi XIII raggiunta l'età per salire sul trono, messa da parte la madre, in pieno accordo con il re, Richelieu guidò la politica francese per 18 anni come primo ministro plenipotenziario. E fu lui ad attuare il progetto di Enrico IV. Anche se con metodi implacabili. Proseguiti dal suo successore Mazarino (1602-1661).
Ma il fatto stesso che il grande cardinale fu capace di riannodare in ogni punto le fila là dove erano sfuggite dalle mani del morente Enrico IV è la prova più evidente dell'alto grado di saggezza politica di questo intelligente ed energico sovrano.

Alcuni in Francia affermano che nessun re fu più grande di Enrico IV.
Come per Elisabetta in Inghilterra, il cuore dei francesi è vicino a quello di Enrico IV, anche perchè il suo cuore e lì al Louvre dentro un urna
sostenuta dalle tre virtù teologali: fede, speranza e carità.


Di Richelieu ne parleremo ancora in un successivo capitolo
ora prima dobbiamo dare uno sguardo all'Italia
all'epoca della controriforma.

ITALIA: EPOCA DELLA CONTRORIFORMA > >

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