-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

37. L'ANTICHITA' INDIANA - I VEDA

Per le ragioni già esposte nel precedente capitolo, l'antichità indiana o il periodo vedico, che giunge fin verso il 600 a. C., è per noi quasi «privo di storia», fatta eccezione per quei determinati avvenimenti tramandatici nel suo ambito e che ci offre - anche se poco precisa - una sua relativa cronologia.

Abbiamo anche detto della immigrazione degli Ari nella valle dell'Indo. Di là, attraverso lunghe lotte con gli aborigeni dell'India ancora in una età preistorica, sono penetrati nella regione del Gange. Ogni particolare ci é nascosto: possiamo riconoscere solo, e genericamente, lo stato di quella civiltà. Le fonti scritte dell'antichità indiana devono formare il punto di partenza per una esposizione storica.

Già nei primordi della storia indiana troviamo un grande monumento letterario, il Veda, la più antica opera letteraria di un popolo indoeuropeo, appartenente però del tutto al mondo della cultura indiana e documento di spirito indiano.
La parola «Veda» significa sapienza (intesa come scienza). Ma al pensiero appare innanzitutto come sapienza quella degli dèi e dell'attitudine che l'uomo deve tenere di fronte ad essi. Il Veda abbraccia quindi il sapere religioso.
Questo concetto non é però limitato ad un singolo libro sacro; esso comprende invece tutto l'ambito dell'antica letteratura religiosa degli Indiani, opere sacrali di carattere molto vario e formatesi in un periodo di molti secoli.
Questa letteratura é stata tramandata oralmente e in tale tradizione è di continuo aumentata di mole. Fin dal suo primo apparire il Veda è reputato libro sacro, basato sulla rivelazione divina.

Comprende un insieme di opere di carattere precipuamente religioso e rituale, suddivisibili in tre gruppi che, salvo alcune interferenze, si succedono cronologicamente: Samhitâ, Brâhmana ed Upanisad, Sûtra.
Le Samhitâ sono raccolte di inni e preghiere; i Brâhmana e le Upanisad contengono prescrizioni e speculazioni sui testi delle Samhitâ e sul rito; i Sûtra sono il succo delle regole religiose, giuridiche, morali ecc. vigenti nella società brahmanica, cioè presso gli Arii dediti al brahmanesimo, nonché delle scienze relative al sacrificio, in formulazione concisa e sentenziosa. L'insieme di tutti questi testi costituisce il Veda, cioè la «scienza» sacra e, in quanto l'intera vita è retta da norme indissolubilmente connesse colla religione, anche profana.


A questa intera raccolta di inni religiosi, preghiere, scongiuri, formule sacrificali e liturgie si congiunge un'ampia letteratura esegetica, il cui primo gruppo è formato dai Brâhmana: il nucleo di queste delucidazioni sull'essenza del sacrifizio è in prosa; il significato dei singoli riti viene esposto mediante riflessioni teologiche. Gli Aranyaka e le Upanishad, ad essi affini, sono in parte inseriti nei Brâhmana o ad essi aggiunti come appendice, in parte tramandati indipendentemente. Quelli contengono le riflessioni degli eremiti sull'essenza del mondo, dell'uomo e di Dio, cioè la speculazione bramhianica. Queste seguano il principio del pensiero filosofico nell'ambiente laico.
Tali opere letterarie si considerano unite ai Veda: tutte si ritengono rivelate dal dio Brahman.

Durante l'età e come frutto della cultura vedica sorsero ancora numerose opere, quali commenti e science ausiliari al Veda stesso. Ad esse appartengono innanzi tutto i manuali del rituale del sacrificio, i Kalpasûtra, e i più antichi libri di giurisprudenza, i Dharmasûtra. Insieme ad altre opere sulla metrica, la grammatica, l'etimologia, la matematica e l'astronomia formano i «membri» del Veda, i Vedânga. Quelle conservateci sono, letterariamente, per lo più di data recente, ma il loro contenuto è non di rado antico.

Le più antiche raccolte di inni si sono in origine formate in scuole di sacerdoti e poeti, che le hanno pure tramandate. Dalla massa di forme più antiche sono sorte quattro differenti raccolte: il Rgveda, raccolta di inni e di poesie; l'Atharvaveda, raccolta di scongiuri, molto antichi; il Sâmaveda, contenente gli inni da cantarsi durante il sacrificio del Soma e i cui testi sono per lo più identici agli inni deIl'VIII e IX libro del Rgveda; l'Yajurveda infine, tramandato in due redazioni, comprende formule sacrificali in servizio di uno speciale sacerdote officiante.
Per il contenuto, l'età ed il valore storico il Rgveda e l'Atharvaveda sono di gran lunga le opere più importanti di tutta quanta la letteratura vedica. L'Atharvaveda, o il « Veda degli incantamenti » è un vetustissimo monumento, che nelle sue parti più antiche risale alla religione primitiva della magia, sopravvissuta sempre come usanza superstiziosa, accanto a più elevate forme di fede.

Riguardo alla storia della civiltà, l'Atharvaveda è in molte parti più antico del Rgveda. Il sacerdote vi appare come medico esperto, come mago, abile a recar danno al nemico. Per tale contenuto l'Atharvaveda fu escluso dal culto sacrificale. Maggiori furono, in compenso, la sua importanza nella vita del popolo e la sua diffusione. Dalla sua patria di origine nell'estremo nord-ovest, forse nel Kashmir, si è esteso anche nel mezzogiorno dell'India ed è tramandato in più redazioni. Singoli tratti accennano alla sua origine dalla lingua e dalla poesia popolare. Nessun altro libro della letteratura religiosa indiana ci fa meglio penetrare nella vera fede del popolo indiano e nella pratica del suo culto.

La grande maggioranza dei canti del Rgveda è nata dal culto sacrificale: è poesia sacerdotale, elaborata forse nel corso di più secoli. Accanto a testi molto antichi troviamo imitazioni più recenti, che adoperano meccanicamente il tesoro tradizionale delle forme poetiche. Di gran lunga i più degli inni sono lavoro artistico della riflessione teologica; assai pochi, creazione di immediato sentimento e di facoltà schiettamente poetica. Il Rgveda non si può confrontare con i Salmi, mancando in esso il contenuto religioso e morale della fede di una comunità e l'espressione della religiosità individuale.
Rari i canti di argomento schiettamente profano, tra i quali hanno importanza i canti storici intorno ad una grande battaglia. Un encomio di un cavallo da corsa ci offre un saggio della poesia celebrante lo sport cavalleresco. Notevole una poesia in cui un giocatore di dadi lamenta la sua passione e la sua disgrazia. Un'altra, in cui gli alunni recitanti preghiere sono rassomigliati a un coro di ranocchi, ci dà un'idea delle scuole brahmaniche.

Altre ancora appartengono ai carmi magici ed agli scongiuri dell'Atharvaveda. Ma la maggior parte dei 1028 canti sono inni in onore di dèi, soprattutto di Indra e di Agni. La connessione col sacrificio è causa, e dà ragione, della uniformità del contenuto; gli dèi debbono in primo luogo compiere i desideri dei sacrificanti. Talvolta traslano nei canti antiche leggende, in specie in quelli dedicati ai gemelli divini, gli Açvin.

Difficile problema è quello della posizione storica del Rgveda rispetto alla civiltà indiana. Non esiste alcuna tradizione intorno all'età degli inni vedici. L'opinione molto diffusa, secondo la quale il Rgveda sarebbe sorto tra il 1200 e il 1000, parte da premesse in parte infondate. Solo il punto finale della letteratura vedica è per noi accertabile.
Una corrente contro il Veda e il culto brahmanico del sacrificio culmina nella comparsa del Buddha, circa il 500 a. C. Il buddismo presuppone tutta quanta la letteratura vedico-brahmanica ; non solo i Veda, ma anche il rituale del sacrificio e la filosofia delle Upanishad.
Ma il buddismo non è la più antica setta che abbia contrastato il Veda. L'autorità di esso fu contestata anche dai Jaina, che ricordano come loro fondatore un certo Pâreva, morto, secondo notizie attendibili dei Jaina stessi, nel 776 a. C. Anche altre sètte ostili al bramhanesimo, come quella dei Bhâgavata, risalgono probabilmente molto indietro nel periodo prebuddistico.

Possiamo ammettere con sicurezza che già nell'800 a.C. esistessero moti religiosi in reazione al brahanesimo e presupponenti compiuta la sua fase. Ciò è confermato non di rado anche dalle Upanishad, innovazione spirituale spesso in contrasto col sacerdozio. Se dunque le parti più giovani della letteratura vedica appartenessero, per il loro contenuto, al 1000-800, gli inni del Rgveda, che iniziano quella letteratura, dovrebbero essere molto più antichi.

La formazione e la tradizione del Veda è da ascriversi a famiglie sacerdotali. Di varie famiglie di vati si fa menzione, come di quelle di Viçvâhitra, di Vasishtha, di Vâmadeva, cui si attribuiscono estese raccolte di canti. E' manifesta l'esistenza di scuole poetiche. Accanto a creazioni di arte elevata in canti semplici, chiari e sinceramente sentiti, altre sono messe insieme con formule tradizionali, in una lingua ampollosa. I poeti erano spesso al servizio, quali sacerdoti sacrificanti, di principi e di ricchi, come attestano i panegirici per la ricca mercede ricevuta. Però la loro poesia non è solo arte cortigiana; essa spesso attinge al patrimonio comune delle leggende e delle credenze popolari e celebra le grandi divinità, familiari a tutti gli Indiani.

In tal modo il Veda ha acquistato una posizione direttiva nella vita indiana. È divenuto la più alta autorità e come tale creata dai brahmani stessi; non composto, ha immediatamente percepito di essere una rivelazione del dio supremo. Tale reputazione ha affermato e mantenuto in tutta la cultura indiana, quantunque non siano mancati gli assalti contro la sua autorità.
Non solo é stato combattuto da altri movimenti religiosi; lo scetticismo filosofico di Cârvâka lo ha chiamato un mezzo per procacciarsi la vita e ne ha biasimato le incoerenze, le oscurità e le contraddizioni. Ma questi attacchi non hanno potuto scuotere il Veda dalla sua posizione dominante tutta la vita indiana.

Lo stato di civiltà nel periodo vedico non costituisce un'unità. Può darsi che nel tempo più antico esso variasse secondo le sedi e le condizioni di vita; poi vi fu un notevole progresso; accanto ai resti di costumi primitivi si scorgono chiare tracce di decadimento All'incirca nel VI secolo a. C. lo stato e la società, la vita intellettuale e la religione formano un nuovo strato di civiltà, quella del medioevo indiano.

Nel tempo cui appartengono gli inni antichi del Rgveda, tribù ariane risiedevano ancora nell'estremo nord-ovest dell'India, nella regione dell'Indo e de' suoi affluenti, i cui nomi sono ricordati nel Rgveda stesso.

Può essere che al tempo degli inni antichissimi vi fossero già stabiliti da qualche secolo; nella lingua e nella religione si erano già delineati i tratti fondamentali dello spirito indiano. Più tardi - verso la fine dell'età vedica - gli Ari si sono spinti verso sud ovest nella valle superiore del Gange e lungo la Yamunâ; solo negli inni più recenti del Rgveda i nomi di questi fiumi vengono menzionati separatamente.
Ed altri secoli saranno trascorsi in lotte contro gli indigeni, durante le quali fondarono nella valle superiore del Gange quegli stati, che poi apparvero come sede della civiltà Indo-ariana.

Gli Indiani non sono mai divenuti una nazione con unità politica: nel tempo più antico esiste solo una comunanza di tribù. Tale unità si divide, come presso gli antichi Germani, in "province" e "comuni". Nell'ordinamento dell'esercito ritroviamo questa spartizione politica, giacché tutto il popolo é utile e abile a portare le armi. A capo della tribù stava il «re», che é innanzi tutto il duce in guerra. Il potere dello stato, e certo anche il giudiziario, stava nell'assemblea della tribù. Forse essa eleggeva anche il re; però troviamo anche la monarchia ereditaria in una stessa famiglia.
Come donativo volontario il popolo offre al re un tributo in natura. Che a loro volta fanno conto sulla generosità del re, come sua prima virtù. Al pari del re omerico anche l'indiano protegge innanzi tutto i cantori e i sacerdoti, che devono sempre rivolgersi alla «benignità» dei possidenti.
Ammesso pure che esistessero già, accanto alla monarchia, una nobiltà di guerrieri e un ordine sacerdotale, essi non formavano ancora delle caste chiuse. Gli Indiani antichissimi appaiono ancora come un popolo robusto e valoroso. S'invocano spesso dagli déi vittoria sui nemici e preda abbondante.

La lotta riempie la vita. Le gare dei cocchi sono lo sport della nobiltà, più tardi scomparso. Al pari degli eroi, omerici, anche i nobili Indiani combattono sul cocchio; accanto al guerriero sta l'auriga. Le masse di uomini formano la fanteria. Si usano la corazza e l'elmo; l'arma principale é l'arco; si menzionano inoltre la lancia, la spada e la scure.

La famiglia dell'età vedica è monogama. La poligamia si svolse forse come usanza delle classi dominanti e finì per essere generalmente ammessa. Inoltre il Rgveda non conosce il precetto dell'immolamento sul rogo delle vedove; anzi in un passo si parla della superstite che dalla tomba del marito deve tornare fra i viventi. Il precetto del rogo é stato introdotto in questo testo mediante una falsificazione dei brahmani, i quali ebbero solo a cambiare una sillaba per dare alla frase tutt'altro senso. Però il bruciare le vedove fu certo un'usanza antichissima, praticata presso varie stirpi indoeuropee e derivata da un primitivo culto dei morti, per il quale si mettevano nella tomba del morto anche i suoi animali, i suoi schiavi, le sue donne.
Quell'usanza non può aver dominato nell'India antica, anche per il fatto che l'antica giurisprudenza indiana si occupa del diritto di successione della vedova; né ha essa mai accennato alla pira.

Nelle cerimonie funerarie degli Indiani si trovano ancora avanzi di costumi barbari, quali erano praticate dai nomadi dall'Iran orientale. Come presso i Massageti, anche in India i vecchi venivano uccisi e anche mangiati. Su territorio ariano esisteva il costume di abbandonare i morti nel deserto, lasciandoli preda ai cani e agli avvoltoi: così fecero anche gli Indiani. Tale uso ebbe sanzione religiosa nell'Iran e nell'India: là esponendo i cadaveri nelle note «torri dei morti», qua gettandoli nel Gange, fiume sacro.
La cremazione era già nota agli Ari e fu praticata dagli Indi dell'età vedica, accanto alla inumazione. Solo più tardi la cremazione prende il sopravvento e l'inumazione si pratica talvolta per i soli bambini.

Il defunto va nel regno del dio dei morti. di Yama. L'esistenza post-mondana è una sublimazione della vita terrena: felicità dei sensi e assenza di dolore, non già un sopravvivere dell'anima a mo' di fantasma. Il defunto vive laggiù in un corpo perfetto, senza malattia né malanni. L'idea dell'inferno non si é ancora del tutto formata. Ma non bisogna disconoscere che la fede nella vita ultraterrena appare connessa con la evoluzione morale.
Infatti, solo chi ha vissuto secondo giustizia, chi ha offerto abbondanti sacrifici ed ha ricompensato generosamente i sacerdoti, é accolto nel regno dei beati. Le pene dell'inferno si minacciano ai malvagi, in primo luogo a quelli che non offrono sacrifici e che offendono i brahmani.
L'esaltazione del sacrificio e la posizione speciale assegnata ai brahmani, mostrano che il sacerdozio già si serviva delle idee religiose come mezzo per affermare la propria potenza. È già sensibile la posizione eccezionale che il brahmanesimo esigeva per sé nella vita indiana.

La civiltà materiale dell'età vedica si basa sull'agricoltura e sull'allevamento del bestiame. La coltivazione del riso, oggi così importante per l'India, era allora sconosciuta. L'allevamento del bestiame veniva ancora prima dell'agricoltura; il bue, animale sacro, vien tenuto sempre in maggior pregio. Il possesso di numerosi vitelli é il desiderio più alto dell'Indiano vedico. Le similitudini più sublimi che il poeta possa immaginare, si rapportano ai tori ed alle vacche. Perfino la guerra vien chiamata «bramosia delle vacche», cioè il bottino più agognato.
Il progresso da condizioni primitive é attestato via via dal formarsi di vari mestieri tecnici, che in parte risalgono all'età indoeuropea, come quello del pentolaio, del fabbro, del legnaiolo, che é soprattutto carradore. Si pratica anche il tessere, il cucire, l'intrecciare; il commercio era solo, come pare, scambio di prodotti.

Una più elevata vita intellettuale si rivela nella poesia vedica. Sono già perfette tanto le facoltà di rendere evidenti i pensieri e di formarne immagini, quanto l'arte delle forme poetiche, nella struttura del verso e nello stile. Gli elementi lirici ed epici non sono ancora nettamente separati, sebbene vari inni debbano considerarsi come poesia lirica. Ancora ignota la scrittura: la trasmissione dei canti nell'età antichissima ci spiega il precetto dell'età posteriore, che i testi sacri debbano essere tramandati solo oralmente.

La poesia primitiva non può vivere disgiunta dalla musica; specialmente il culto religioso e la guerra creano gli strumenti musicali. Il sacrificio, i funerali, le danze del culto sono accompagnate da strumenti a corda, da flauti, cembali e nacchere: alla vita guerriera appartengono i corni e i tamburi.
Le condizioni morali dell'età vedica non corrispondono gran che all'immagine che amiamo farci di un popolo di pastori, pacifico ed innocente. Accanto a precetti morali stabili, assicurati dalla religione e dalle norme giuridiche, perdurano non pochi avanzi di barbarie primitiva; ma non mancano anche i vizi della civiltà.
Il contrasto tra le norme teoretiche, gli ideali morali e la realtà é nell'India forse straordinariamente profondo, se si considera la classe brahmanica nel suo complesso. Elemento decisivo é la religione, da cui la vita quotidiana é compenetrata, e il diritto basato su di essa. I manuali del diritto domestico [grhyasûtra] offrono un sistema di cerimonie per ogni caso della vita, elaborato fin nei minimi dettagli.

Accanto a tale sistematizzazione rituale e morale della vita, sussistono però nell'età vedica avanzi di barbarie, come il sacrificio umano, l'abbandono o l'uccisione dei vecchi e dei bambini malaticci. Tutte le passioni dell'uomo allo stato di barbarie sono ancora vivaci. I banditi rubano e ammazzano. L'ubriachezza e il gioco dei dadi sono i veri vizi nazionali dell'India. Specialmente il gioco dei dadi, per il quale si adoperavano 53 coccole dell'albero vibhidaka, poteva spingere l'Indiano, a perdere casa e famiglia.
Si fa spesso menzione della frode, della calunnia, della menzogna e del furto: né si tacciono le violenze, l'adulterio sì dell'uomo che della donna; perfino l'etéra appare già nel Veda. Non mancano però alcuni bellissimi passi: la concordia fra coniugi vien tenuta in alto pregio: né la posizione della donna può esser stata del tutto subordinata, giacché essa offre il sacrificio insieme al marito.
Ha egualmente torto chi idealizza l'incivilimento del periodo vedico col celebrarlo come un'antica età di innocenza, e chi lo dipinge con troppo nero scetticismo. Chi osserva spassionatamente vede innanzi a sé una elevata civiltà, con i suoi lati favorevoli e sfavorevoli, svolta da uomini buoni e cattivi. come ce ne sono stati in tutti i tempi.

Tutta la civiltà di un popolo, la sua opinione e concezione del mondo, la sua esistenza spirituale e condotta morale, sono visibilmente espresse nella religione. Qui non possiamo certamente esporre le molte varie idee religiose e la multiforme mitologia dell'età velica: potremo solo rilevare i tratti principali del suo carattere storico. Innanzi tutto é bene ricordare che nella religione vedica non si può cercare un'intima unità: idee e pensieri di fasi di civiltà, molto varie sono in essa sovrapposti e riaccostati.

Il più antico patrimonio religioso, riconoscibile ancora in avanzi di credenze popolari, è un culto primitivo animistico e spiritico. L'azione del mondo circostante, alla quale l'uomo si sente sempre soggetto, é riferita a forze misteriose, e per lo più pericolose, della cui attività il mondo é pieno. Vi sono mezzi magici coi quali si può agire sugli spiriti: la magia è la forma di culto propria del feticismo, con la quale l'uomo si mette in rapporto con gli spiriti e cerca di dominarli. Nello stato di estasi lo stregone, che é il sacerdote primitivo, acquista forze misteriose, le forze degli spiriti da cui é posseduto.

Già l'età indiana più antica ha oltrepassato questa opprimente credenza negli spiriti. La parola indiana deva-s corrispondente al latino deu-s (dio), risale al periodo indoeuropeo e designa gli dèi come i «celesti». Sopra le forze tenebrose s'innalzano le luminose figure dei nuovi déi, nei quali sono idealizzate la vita e le facoltà dell'uomo. Come nel mondo si avvicendano i più svariati fenomeni e le più svariate forze, così il mondo delle divinità vediche é multiforme; ma alle alte cifre, occasionalmente menzionate, non corrispondono figure percepibili come individui. Anzi, il numero degli dèi in realtà presenti alla fede religiosa e venerati nel culto, era di molto inferiore alle cifre fantastichi della teologia indiana. È notevole il fatto chi negli inni del Rgveda il dio via via invocato, Indra soprattutto, non solo é esaltato come il più alto e più potente, ma anche come l'unico dio. Questo fenomeno, che si suole chiamare Henoteismo, non deve però spiegarsi da una tendenza al monoteismo. Non vi é ancora traccia in esso del monoteismo speculativo, raggiunto poi dalla filosofia indiana.

Non é sempre possibile di determinare nettamente la natura degli déi vedici. Ad una stessa divinità si attribuiscono spesso caratteri e funzioni di altri déi, cosicché é difficile percepire chiaramente i tratti essenziali delle singole figure. La religioni vedica non é mai pervenuta, mediante un'idea dominatrici, ad un'intima coesione; essa rappresenta il risultato di secolari processi della fede, cui hanno cooperato, nel loro particolare sviluppo, differenti tribù e strati di popolazione.

Secondo il loro aspetto esterno e in tutta la loro esistenza, tutti gli déi più alti appaiono come uomini: mangiano e bevono, sono sottoposti alle passioni né sono liberi da varie debolezze. Le più antiche rappresentazioni popolari degli déi sono sempre indiscutibili, sebbene non siano pervenute, o quasi, ad una plasticità individualizzante. Quanto più va crescendo la speculazione, tanto più le loro figure s'intorbidano, i contorni svaniscono nell'illimitato, soffocati da un simbolismo mostruosamente fantastico.

Anche l'essenza psichica delle divinità vediche é incerta. Si attribuiscono loro le qualità più sublimi di immortalità, onnipotenza ed onniscienza, che poi nello stesso tempo appaiono limitate. Ordinariamente sono considerate come forze benevole all'uomo; ma talvolta sono anche irascibili a maligne. Innanzi tutto sono molto facili a lasciarsi influenzare dall'uomo: cedono facilmente alle preghiere ed alle libagioni. Accanto ai tratti robusti si nota una certa debolezza di carattere. La natura molle, e talora indolente, dell'indiano riappare ne' suoi dèi. Scarso é il contenuto etico della religione vedica: essa ha carattere del tutto pratico e ritualistico.

La questione della natura originaria delle singole divinità é spesso resa difficile dalle molteplici trasformazioni interne da esse subite. Per vari di essi dovremo ammettere un fondamento originario naturalistico, di cui rimangono ancora tracce nel Veda. In questi déi sono personificati fenomeni naturali importanti per l'uomo; Agni per es. é il fuoco, il lampo e nella religione sacerdotale il fuoco del sacrifizio; Ushas (gr. 'Ha;) é l'aurora e Sûrya il sole. Gli inni in onore di questi déi sono figurazioni poetiche di fenomeni naturali. Mentre però la poesia intreccia alle forme divine una ghirlanda di miti, gli déi stessi, a causa delle vicende loro attribuite, si fanno più personali, distaccandosi non di rado dal loro fondo naturalistico. Ciò si dica soprattutto per la figura più vivace del pantheon indiano, per Indra, il dio più popolare dell'India.

Originariamente egli é certo il dio della tempesta, che in fiera lotta ha abbattuto col fulmine il dragone Vrtra, liberando le acque da lui tenute prigioniere. Così Indra diviene colui che elargisce la fertilità. Il mito naturale si basa sul contrasto tra la siccità e il tempo delle piogge, contrasto più che altrove spiccato nel nord-ovest dell' India. Il dio della tempesta é poi diventato il possente eroe e guerriero, che protegge in battaglia i suoi amici; il tipo della nobiltà guerriera indiana, della quale egli ha pure i pregi e i difetti. Non vi é in lui scolorimento di pensiero: vi sopravvive l'antica e grossolana gioia di vivere. Indra è un grande bevitore né ha maggior ritegno nel mangiare; appare violento ed iracondo, ma anche bonario e facile a placarsi e la sua sensualità non é gran che limitata da tratti essenziali di moralità, benché appaia anche come vendicatore di misfatti.

Ma più d'ogni altra cosa é significativo l'umorismo con cui si ama ritrarlo nei canti in suo onore; egli era il dio col quale l'Indiano aveva più confidenza.
Accanto ad Indra appare una divinità del tutto etica, la nobile figura di Varuna. A lui sono indirizzati gli inni del Rgveda in cui il pensiero é più profondo; Vasishtha, il poeta, vi rappresenta il dio come un alto ideale religioso e morale. Forse Varuna era, stando al suo carattere naturalistico, un antico dio lunare; come tale, vedeva anche attraverso le tenebre e scorgeva tutte le male azioni. Egli conosce anche i pensieri del cuore umano e nessuno può sfuggire al « re » Varuna.
Varuna, la figura più sublime e più pura del pantheon indiano, sottratto alla natura sensuale di esso, si eleva molto al disopra degli altri déi, con la sua superiorità intellettuale e morale. Egli é davvero onnisciente. Ne' suoi lacci egli prende i malfattori. Ma appare anche come il dio dispensatore di grazie, che guida gli uomini al bene e perdona i peccati. La coscienza religiosa dell' India antica trova in Varuna la sua espressione più indipendente e più pura, coscienza che scompariva sempre più dal culto sacerdotale, per rigermogliare, nel medioevo indiano, dalla religiosità dei laici.

Ogni religione consiste nei rapporti dell'uomo con forze e con esseri che riempiono il mondo e che possono nuocere o giovare all'uomo. Solo la facoltà del pensiero astratto spiritualizza gli esseri divini, li innalza oltre i limiti dell'esistenza naturale e umana e dà forma al mondo trascendentale.
Sempre però l'uomo cerca di agire su quelle forze, di guadagnarsene l'aiuto o il favore, di allontanare da sé la loro potenza nefasta. A tutta prima tali provvedimenti servono ad interessi del tutto materiali della vita reale: difesa dalle malattie, protezione contro forze ostili, prosperità delle méssi e del bestiame, successo nella caccia e ricco bottino in guerra, lunga vita e figliolanza - ecco il contenuto e lo scopo della coscienza religiosa primitiva.

È innanzi tutto importante di trovare i mezzi per costringere gli déi a soddisfare i desideri degli uomini. Ogni religione primitiva ha il proprio centro nella magia, che si evolve poi nel sacrificio, in quanto esso viene impiegato come mezzo per influenzare le forze divine. Con un incivilimento più elevato, in particolare presso popoli di dimora stabile, ordinati politicamente e di più profonda morale, il sacrificio può sorgere da tutt'altra ragione; come vediamo per es. nel culto sacrificale dei Semiti. Per gli Indiani invece é significativo che il sacrificio sia prevalentemente un mezzo efficace usato dagli uomini per imporsi agli déi, rivelando in ciò la sua connessione con la magia, connessione tuttora chiara per quanto la speculazione sacerdotale abbia steso il suo velo sul sacrificio stesso.

Dove la religione consiste in un rapporto pratico degli uomini con gli déi, essa non si esprime all'inizio con miti o con dottrine di una concezione mondiale e nemmeno con precetti stabilenti la condotta morale dell'uomo, ma col culto.

L'esercizio del culto, però, dipende dalla conoscenza dei procedimenti giusti ed efficaci. Il mago può esercitare la sua potenza solo in grazia della sua scienza superiore; nello stesso modo il sacrificio richiede il suo conoscitore tecnico, il sacerdote.

Già nella prima età ariana esiste un sacerdozio professionale, che ha il possesso delle formule magiche, che esercita la sua potenza mediante la conoscenza dei vari sortilegi e si acquista una posizione influente. Nessun sacrificio può riuscire efficace se non é compiuto sotto la direzione del sacerdote e in maniera tecnicamente perfetta.
Il capo della tribù ha prima di tutto tutto bisogno di un rappresentante del culto. L'istituzione di un culto di stato ha preso forma nel Purohita indiano, sacerdote sacrificale e cappellano domestico. Quanto più complicato diviene il rituale, quanto più estesi i testi liturgici, tanto più procede avanti la suddivisione del ceto sacerdotale in singole caste.

All'inizio si formano due gruppi importanti: al primo spetta il compito di accendere conforme al rito il fuoco sacrificale. Questi sacerdoti si chiamano Atharvan, «accenditori del fuoco» e in India si indicano anche con l'antico nome degli incantatori, Brahman.
Nell'Iran si chiamavano col nome gentilizio di «Magi». Accanto ad essi sta l'invocatore» o «cantore» (Hotar, pers. Zaotar), che durante la libagione invoca gli déi con formule fisse o con inni. Qui é l'origine della poesia religiosa. Certo il «cantore» era spesso tutt 'uno col poeta degli inni sacrificali.

Il Rgveda presuppone già l'esistenza di una classe sacerdotale ereditaria, tenuta insieme dal fatto che solo la discendenza da determinate famiglie autorizzava a compiere atti religiosi, in specie il sacrificio. In tal modo il sacerdozio si organizzò come classe chiusa, come casta dei brahmani.

Il tenore di vita brahmanico realizza l'ideale di un ceto ecclesiastico che, senza esercitare una professione pratica, si dedica alla propria educazione ed al culto. La reputazione di questo ceto dipende dal compimento del sacrificio; esso si é acquistato la sua dominazione netta con le sue norme mediante la "educazione scientifica" necessaria a tale scopo. I difficili compiti dello studio del Veda hanno innanzi tutto resa necessaria la vita segregata.
A sette anni l'alunno brahmanico cominciava ad imparare a memoria il Veda, solo per tradizione orale. Il testo viene impresso nella memoria parola per parola, mediante una particolare tecnica mnemonica. Anche oggi si trovano nell' India dei brahmani che recitano con la massima precisione i versi dei quattro Veda, che sono all'incirca centomila.

Il discepolo restava a scuola dodici anni, spesso molto di più; e nel frattempo doveva prestare al maestro tutti i servizi domestici. Compiuto il tirocinio, il brahmano entrava nel secondo stadio, di padre di famiglia. Come tale doveva compiere il dovere verso gli antenati, assicurando loro la continuità dei sacrificio ai Mani mediante la procreazione di un figlio maschio. In questo periodo egli funge anche da sacerdote sacrificale. Fondata la famiglia ed educati i figli, egli ha compiuto la sua missione mondana; si ritira allora nella solitudine delle selve. Quale «abitante delle selve», cioè eremita, il brahmano si consacra alla meditazione filosofica, considerata come un sacrificio di genere più elevato. Qui può anche raccogliere intorno a sé discepoli.

La vita nelle selve è, infine, l'avviamento al quarto e supremo stadio, della rinunzia e del distacco da ogni oggetto dei sensi, cui si cerca pervenire mediante una tecnica speciale di ascesi.
Secondo la teoria brahmanica la società indiana si divide in quattro «caste», a ciascuna delle quali sono assegnate professioni determinate. Gli appartenenti alla prima casta, i brahmani, sono sacerdoti: devono studiare e insegnare il Veda. Gli Kshatriya, o guerrieri, costituiscono la nobiltà; debbono proteggere il popolo ed essere caritatevoli. I Vaiçya praticano l'allevamento del bestiame e l'agricoltura, il commercio e l'industria. Queste tre prime classi, dei « binati » [dvija], hanno il dovere d'imparare il Veda, possono offrire sacrifici e debbono elargire elemosine.
Accanto ad esse stanno i Çûdra, cui toccano tutti i servizi inferiori. Ultimi vengono i Pârya, disprezzati da tutti e posti fuori di ogni casta.

Ma tale teoria non ha hai trovato perfetto riscontro nei fatti reali. Il sistema delle caste, col suo severo isolamento e molteplice differenziazione, é un prodotto della teoria brahmanica, che ha così accomodate le cose via via che la sua propria cultura s'imponeva. D'altra parte la teoria non sarebbe sorta se il popolo non fosse stato diviso per classi e per mestieri. La teoria delle caste trovò il suo fondamento reale nelle classi della popolazione effettivamente esistenti e formatesi così presso gl'Indiani come presso gli Irani.
Il fatto di fissare i limiti con maggior rigore, di aumentare la distanza tra casta e casta deriva innanzi tutto dalla pretesa del sacerdozio di essere la prima casta. Quanto più si rafforzava la posizione speciale del brahmano e diveniva eccezionalmente favorevole per una quantità di regole e provvedimenti, tanto più la teoria si affermava e s'imponeva in tutto l'ambito della vita del popolo.

Nella teoria delle caste furono in origine formulate le pretese del brahmanesimo e fu esso a dargli la sua organizzazione. In realtà la preminenza della casta si è affermata a poco a poco. Nell'India antica la classe dominante era veramente la nobiltà, il ceto laico cavalleresco e colto, che teneva in pregio la purezza del sangue ed aveva piena e netta coscienza della dignità della propria casta anche contro ai brahmani.

Può essere dunque che la teoria sociale del brahmanesimo, partendo da un dato ordinamento del popolo in classi e mestieri, cioè dalla divisione del lavoro, ed intensificandolo, abbia teoreticamente preparato le caste ed introdottele nella vita indiana.
Però la formazione delle caste può essere forse germogliata anche da altre radici: può in parte riattaccarsi anche al contrasto fra gli Ari conquistatori e gli indigeni assoggettati. La parola indiana per «casta», varna, significa «colore» e designa in origine il contrasto tra la popolazione aborigena nera e gli Ari dalla pelle bianca.
La casta dei Çûdra si formò forse con la mira di assegnare anche agli assoggettati un posto nel sistema sociale. Questo ordinamento in quattro caste distinte secondo la professione, non corrispondeva affatto al vero stato delle cose. Ma la teoria delle quattro caste era così irrigidita che non si poteva formarne una quinta. La teoria vi sostituì una serie infinita di caste miste. Le classi sociali intermedie e i passaggi e le perturbazioni dell'ordinamento teoretico si danno come risultato di matrimoni misti. In maniera significativo si è tentato di spiegare la formazione delle caste indiane come uno sviluppo ulteriore della costituzione dell'antica famiglia ariana. Ma l'elemento decisivo é certo la parte presa dal brahmanesimo alla formazione delle caste. La troviamo all'inizio limitata a una regione ad occidente, considerata come terra dei brahmani.

Nell'oriente dell'India, nei territori di Magadha e Videha, è ancora ignota nel sesto secolo a. C. Solo con la diffusione della cultura e religione brahmanica in India, anche la teoria delle caste ha acquistato influenza nel plasmare la vita reale e solo nel medio evo indiano si è aperta del tutto la strada.
Nel secondo stadio il brahmano é soprattutto sacerdote sacrificatore. Col raffinamento della tecnica del culto sacrificale sorgono forme speciali di sacerdozio. Chi vuole offrire un sacrifizio, ne affida il compimento al sacerdote. Quindi egli dirige il rituale come « sacerdote domestico » di un nobile o del re, ovvero ha il posto di « sacerdote sacrificale » e serve come tale. Il sacerdote di corte o Purohita é sorto da una professione sacerdotale già ereditaria.

Ai sacerdoti sacrificali (Rtvijas) ci si può rivolgere per ogni sacrificio o per determinate operazioni rituali. Si tratta di sette uffici tecnicamente fissati, accresciutisi col tempo. Altri uffici sorsero da sacrifici speciali, soprattutto dal sacrificio del Soma, il cui culto ha gran parte nella religione indiana, come già nella iranica. È un "succo" inebriante, ottenuta pestando gli steli di una pianta, finora non identificata (*), che cresceva sui monti della Battriana e nel Himâlaya occidentale. Il culto del Soma ci mostra un tratto della religione primitiva praticata dagli Ari nelle loro sedi antichissime. Accanto al fuoco, in cui appare Agni, il Soma è pure una divinità, sebbene quella bevanda sia preparata dall'uomo.

(*) Probabilmente è la "esclepias acida" - pianta che forniva una bevanda inebriante, il "succo" capace di conferire la comunione col mondo divino. - non dimentichiamo che "succo" in indiano è anche opis, poi in greco opion - ci sembra chiaro il riferimento all'Oppio - Chiamato anche soma Himalaiano "il cibo degli dei" .
I
n un laboratorio di San francisco al Langley Porter Hospital, all'EEG e sulla PET, sono stati analizzati i cervelli di alcuni monaci trascendentali del Tibet. Digiuni, meditazioni, monotonie, resistenza al freddo, ipoglicemia, ritmi cardiaci rallentati, sono i segreti della filosofia trascendentale, e sono oggi perfettamente riproponibili in laboratorio con psicofarmaci appropriati. Ormai così diffusi.

Gli indo-ariani della zona - dove nascono moltissime queste piante - ne abusarono così tanto del “succo” , che col tempo il cervello si fabbricò dei recettori specifici per assorbire questi alcaloidi; che sicuramente, alteravano una realtà scomoda e ostile, e quindi la facevano apparire migliore. Non è andato molto lontano dalla verità colui che ha definito che "le religioni sono l'oppio dei popoli".

Per creare e dialogare col suo interiore il soggetto, ha bisogno di silenzi con l'esterno, ha bisogno di quella che chiameremo poi ascesi, misticismo, contemplazione, viaggi nell'interiore. Ma qualcuno di loro voleva entrare nel modo piu' breve nel mondo degli spiriti eletti, e ha scoperto il "succo". E gli eredi che ci hanno lasciato pretendono anche loro di sentire l'alleluia facendosi un "buco" o bevendo falsi "succhi"come le "predicazioni". Molti in seguito hanno approfittato di questi deboli, ad ogni latitudine. La maggior parte di certi insegnamenti mistici sfruttano questi stati di coscienza particolari alterati. Un terreno fertile dove molti predicatori ciarlatani ci sguazzano, o meglio si sono costruiti la loro forza e le loro ricchezze. "Saranno magari anche non vere le "storielle", ma lasciamo che ci credono fin quando a noi che le raccontiamo ci permettono di campare bene" disse un famoso rappresentante religioso.

Non abbiamo dubbi, che il nostro soggetto sta imparando che esiste qualcosa al di la' del mondo reale, infatti ognuno di noi, in determinate situazioni va oltre questo confine, lo avverte come bisogno in modo chiaro, anche se lo vede in una forma indefinita e astratta. Si è scettici solo quando l' esistenza è positiva e ci si crede immortali, ma quando si è deboli e tutto appare caduco, ci si rivolge al cielo e si adotta il più pernicioso atteggiamento: la rassegnazione; che viene inculcata dal predicatore illudendo il poveretto che verrà ricompensato con una giusta ricompensa nell'aldilà.

Ma ha fatto anche un'altra cosa il cervello, ha imparato a prodursele da solo certi oppiacei, in casi di astinenza non vuole rinunciare all'euforia, all' estasi; cioe' ha imparato a fabbricarsele queste sostanze.
Grande fu nel mondo la sorpresa, quando Kosterlitz-Hughes e Snyder nel 1978-1984 scoprirono che non c'erano nel cervello solo e semplici recettori di oppiacei (come utenti) ma aveva il cervello "messo su fabbrica". (Candace Pert fece poi il resto - fu lei a scoprire le Endorfine - e la sorpresa fu grande.)
Alcune di questi oppiacei (modificanti la ns. realtà che ci è in certi casi scomoda, affliggente, dolorosa, depressiva, e la vogliamo fuggire questa realtà con i pensieri trascendentali , è appunto il cervello stesso a fabbricarseli; chiamate oggi encefaline o endorfine (acronimo di endogeno=nate insieme, e da morfina).
Noi tutti tendiamo a pensare che gli eroinomani (i drogati) vivano in un paese artificiale di fumi, mentre il resto di noi vivrebbe in un "mondo reale", cosciente, in nulla contaminato, una inossidabile proba esistenza invece la verità scomoda è che non esiste una realtà libera da una "contaminazione chimica", perché il massimo produttore e utente di droghe è proprio "LUI" il nostro cervello umano che sa cosa fabbricarsi in certe situazioni e come mantenere certi livelli di alcune sostanze, una per eccellenza è la serotonina. A ciascuno di noi in particolari situazioni di disagio psichico (mancanze di certezze, il grande bisogno di ricorrere al divino) è LUI che va a modificare più o meno la realtá di ciascuno di noi, a soddisfare la speranza e l'illusione di come la desideriamo.

Facciamoci caso: nella forma cosi' deviata sia nel mondo arcaico che nell' attuale ne usufruiranno poi 3 mondi diversi: i deprivati mistici, i deprivati schiavi e infine traslato, i deprivati che hanno (che paradosso!) il benessere (è ben noto che nei ceti alti è abbastanza diffuso l'uso di narcotici)

In tutti questi casi, il comune denominatore è la deprivazione dei desideri (azione costrittiva), l'impedimento per conquistarli (azione punitive del più forte) o l'insoddisfazione (se si sono appagati questi desideri senza lottare).
Il primo rinuncia alla lotta, il secondo è soccombente perche' è costretto a rinunciare alla lotta (si sente sconfitto con se stesso) mentre il terzo e' soccombente perche' sa di non aver conquistato nulla (é umiliato innanzitutto con se stesso e non accetta la sconfitta)

Ed e' tipico che ai succedanei della felicitá vi ricorrano sia quelli che non possiedono nulla (gli schiavi di una volta) sia quelli che hanno tutto, onori, soldi; bellezza, successo (gli schiavi moderni). Entrambi devono far tacere tutte le spinte, che provengono da un mondo arcaico lontanissimo (di lotte) e per farlo, illudendosi, partecipano all'eccitazione generale senza averne i meriti. Ma alcuni inetti, apatici, anche se partecipano alla "festa" sanno di partecipare a un' euforia fasulla, e cessata la festa, zitto l'ultimo tamburo, arriva lo stato di angoscia, di vuoto, di inquietudine: E' il confronto con i propri simili che agita l'anima.

MORFINA - Venne scoperta nel 1805 dal chimico tedesco Friedrich Serturner (1783-1841) isolandola dal laudano (un preparato a base di oppio) molto più efficace del preparato stesso per lenire il dolore e nell'indurre al sonno; proprio per quest'ultima caratteristica fu chiamata "morfina" dal termine greco che significa "sonno".
Nota: in una forte depressione (che è un forte calo del livello della serotonina il 5-hiaa (angoscia persistente), il ciarlatano non può darci nessun razionale rimedio, il neurologo sì! conosce il meccanismo chimico.

Con Agni e Soma comincia un processo religioso, che culmina nella teoria indiana del sacrificio (inteso come funzione sacra, offerta di prodotti vegetali, animali o anche umani alla divinità) . Così facendo non solo l'uomo può, nel culto, mettersi in rapporto con gli dèi; può farli persino soggetti alle sue azioni. In ciò sta prima di tutto il punto di partenza per la speculazione indiana sul sacrificio; nel rapporto tra gli uomini e gli dèi vien concepito il problema dell'essenza del mondo, foggiato nelle religioni dell'India con grandissima forza di pensiero ma anche con sfrenata fantasia (alterazione dovuta al soma).

Nel rituale più antico non figuravano, a quanto pare, se non i due sacerdoti cui spettava la recitazione e l'offerta del sacrificio. Solo il periodo vedico meno antico conosce l'ufficio del Brahman, che sorveglia in silenzio le operazioni del culto e può annullare tutti gli errori commessi contro le regole del rituale. Con lui é penetrata nel rituale la concezione indiana della potenza del pensiero.

II sacerdozio sta in origine al servizio della religione popolare. Ma quanto più la religione è esercitata da un ceto sacerdotale, tanto più profondamente l'efficacia del pensiero sacerdotale si fa sentire sulla religione stessa.

Non solo esso riplasma gli déi della fede popolare, ma crea nuovi aspetti di divinità. Nel Veda si trovano già divinità sorte dal pensiero brahmanico. La potenza del sacrificio e della preghiera, e quindi dei brahmani, si rispecchia in Brhaspati; a lui, come al sacerdote celeste, anche gli dèi debbono la loro parte di sacrificio. Se in lui si esprime la coscienza della casta, altre figure attestano il pensiero filosofico degli ambienti brahmanici.

All'inizio della speculazione indiana troviamo problemi cosmologici. L'idea di una forza creatrice del mondo vien personificata in Prajâpati e Viçvakarman. La rappresentazione di questa forza suprema non può ancora liberarsi del tutto dalle forme mitologiche. Eppure con ciò il pensiero crea delle forze ben superiori agli dèi. Questo architetto del cielo e della terra, cui tutte le creature debbono la vita e la forza, è il DIO UNICO.
Solo in grazia a lui sono sorti anche gli déi. Ma la sua essenza è imperscrutabile. Brahman è un'altra creazione della speculazione. Il brahman (neutro) è in origine la formula magica, mediante la quale il mago primitivo esercita il suo potere. La forza misteriosa in essa nascosta viene individualizzata e divinizzata.
La stessa concezione determina la preghiera, che non consiste solo in parole, ma agisce innanzi tutto nella forma della meditazione, dello sprofondarsi nel divino. L'afferrare col pensiero l'infinito è la potenza suprema, il brahma. Questo é il punto di partenza della filosofia brahmanica.

In ogni tempo l'uomo ha agito da essere pensante col mettere in rapporto con sé stesso e tra di loro i fenomeni del mondo e i fatti dell'esperienza. Ma il pensiero ingenuo non sa riconoscere che quella relazione si effettua puramente mediante le condizioni della vita intellettuale. Gli Indiani sono pervenuti al pensiero scientifico in quanto videro un problema nel rapporto del mondo all'infuori di noi col mondo che è oggetto della nostra rappresentazione.
(corrisponde in occidente la filosofia di Arturo SCHOPENHAUER - Il mondo come volontà e rappresentazione).

L'indagare il processo stesso di questa cognizione è il presupposto della considerazione scientifica del mondo. Nella mente indiana si compì il passaggio dal pensiero ingenuo e rivestito di forme mitologiche alla considerazione scientifica del mondo. Ma la loro filosofia muove dalla religione e in India non se ne è mai distaccata del tutto. Perciò anche le opere più alte del pensiero indiano risentono della loro impostazione mitologica.

La storia del pensiero indiano indipendente si può dividere in tre capitoli. L'età vedica mostra i primi accenni alla psicologia nei canti meno antichi del Rgveda, e perfino i primi accenni di scetticismo riguardo ad ogni cognizione. Si è quindi compiuto un rivolgimento negli ambienti brahmanici con la elaborazione, in senso profondamente speculativo, della credenza primitiva alla metampsicosi.

Nelle Upanishad le classi colte laiche appaiono come la maggior forza creatrice del movimento filosofico. Infine, all'incirca dal VI secolo a. C. in poi, la filosofia scientifica crea sei sistemi che passano per «ortodossi» in quanto si richiamano anch'essi al Veda come fonte rivelata di cognizione.
Parallelamente si trovano indirizzi eretici in scettici e materialisti notevolissimi. Tutto quanto il mondo del pensiero indiano, però, si basa sull'antichissima credenza popolare nella metampsicosi e svolge quest'unica idea: mediante la cognizione filosofica del mondo e dell'anima si effettua la liberazione dal cerchio eterno delle nascite e delle morti.

Le grandi creazioni filosofiche dell'India sono comunemente considerate opera del brahmanesimo. Ma la partecipazione dei brahmani alla vita intellettuale costituisce un problema difficile. Anche qui dobbiamo risalire alle fasi anteriori, per intendere i grandi contrasti che riempiono il brahmanesimo. La professione del sacerdote si esplica nella celebrazione dei sacrifizi; su ciò si fondano e la sua posizione materiale e la sua reputazione ed influenza. È umano che le pretese crescano. L'avidità dei sacrificatori vedici ha esigenze spesso veramente terribili e la posizione che l'ambizione sacerdotale richiama per sé passa ogni misura.
Nella letteratura rituale e giuridica ambedue le tendenze sono messe a nudo. Questo indirizzo del sacerdozio non poteva aver la forza di produrre creazioni né di alto pensiero né di alta fantasia; il che é dimostrato dall'irrigidirsi della religione nelle formule fisse dalla liturgia dall'Avesta, non meno che nel rituale brahmanico del sacrificio, così povero d'idee. Ma questa è solo una delle vie, quella determinata tecnicamente, che ha preso l'evoluzione del sacerdozio.

Già nella prima età ariana esso si era messo a capo anche della vita intellettuale. Dall'ambiente di interessi puramente materiali il pensiero si volgeva agli esseri ed alle forme cui esso serviva. Il problema di comprendere l'essere interiore era un mezzo per aumentare le forze intellettuali. Il pensiero si trovava davanti al problema di comprendere il mondo, di afferrare il rapporto tra l'esperienza umana e la sensazione.

Gli dèi vengono spinti dentro a questo rapporto e sottomessi alle idee che si approfondiscono, svolgendo la religione dal di dentro dell'uomo.

Lo stesso mondo degli déi si riempie di figure etiche, nelle quali solo da pochi accenni traspira ancora la connessione con divinità naturali elementari; talvolta sorgono a tutta prima come forze morali.

L'ultimo passo porta ad un concetto di dio del tutto spirituale, a forme che sono puri simboli di astrazione. Zarathustra vi é pervenuto. Ma non mancano inni vedici che attestano già lo spiritualizzarsi ed approfondirsi della religione.

I primi frutti riconoscibili del pensiero indiano sono già contenuti in singoli canti del Rgveda ed Atharvaveda. Accanto alle concezioni religiose vi troviamo speculazioni filosofiche. I primi accenni ad una psicologia si trovano in una poesia sull'«organo del pensiero» (manas), descritto come «cognizione, coscienza e volontà, luce immortale nelle creature, senza del quale niente si fa... che abbraccia ogni cosa immortale, passato, presente e futuro... come un buon auriga i cavalli, guida esso qua e là gli uomini; sta fermo nel cuore e pure é mobile, di tutte le cose il più veloce».

Gli Indiani hanno rivolto assai presto l'attenzione al difficile problema psicologico del pensiero. Cercano di risolverlo coll'ammettere l'esistenza di un organo formato di materia sottilissima, che agisce nell'uomo e le cui funzioni costituiscono i processi del pensiero. Questo organo interno (manas) occupa un posto importante nella filosofia indiana posteriore.

Già per il pensiero mitologico il mondo è oggetto di riflessione. E già nell'età vedica dalla cosmologia mitologica si svolse una cosmogonia, che cerca di afferrare in via speculativa la creazione e l'esistenza dal mondo e che, soprattutto, comincia a porre domande, con dubbio audace. Nel profondo inno della creazione (Rgveda X, 129) questo movimento trova la più grandiosa espressione.

«Non il Non-Essere vi era, non l'Essere vi era allora; non v'era l'aria, non il cielo eccelso. Che cosa si mosse ? dove ? e per spinta di chi ? l'acqua esisteva e l'abisso profondo? - Non Morta vi era, nè immortalità: né fra notte e giorno vi era divario. Respirava, senza vanto, per sua propria forza quell'Uno; a all'infuori di Esso altra cosa non vi era ».

Descritto così lo stato anteriore alla creazione, il poeta dice come sorse il mondo:
«Nacque esso dalla forza del «Tapas» (cfr. il latino tep-or)), dal «Calore o Fervore», cioè dall'ardente, intimo desiderio di creare.
Quest'«Uno», pensato già come un essere spirituale, viene afferrato dalla potenza di «Amore», prima manifestazione dal suo pensiero. Questo « Amore» (Kâma) non è altro che l'impulso dalla procreazioni, la spinta a creare sentita dall'essere primordiale.
«Il legame dell'Essere col Non-Essere trovarono nel cuore, meditando, i vati sapienti».
Nel desiderio sta dunque l'origine di ogni esistenza. E allora si comprende l'ascetica indiana, che cerca di togliere di mezzo l'origine del dolore mediante la soppressione di tutti i desideri, prima fonte di questa miserabile esistenza.

Ma già qui accanto alla speculazione filosofica si affaccia la domanda se tali cognizioni siano propriamente sicure. Ed ecco criticati, negli ultimi versi, i risultati dalla riflessioni:
«Chi sa certamente, chi può qui spiegare donde è nata, donde questa creazione? (Se) gli dèi vennero dopo questa creazione, chi sa donde essa è venuta ? - Questa creazioni donde é venuta, se fu creata ovvero increata? Colui cha la vede dall'alto dal cielo, Egli invero lo sa? oppure non lo sa ? ».

In questo inno appare nello stesso tempo un concetto filosofico di Dio, per il quale gli déi della fede popolare impallidiscono di fronte a questo dio supremo e personale. Già nell'età vadica si comincia a dubitare dell'esistenza degli déi popolari. In un antico inno in lode di Indra (Rgvada, II, 12) si parla di gente che domanda « Dov'è ? » e che dice che « non esiste ».
Non vi era dio così vicino al sentimento popolari come Indra; eppure un altro inno (VIII, 100, 3-4) afferma che molti dicevano: « Indra non esiste ! Chi mai lo ha visto? Chi è colui che noi celebriamo? ».

Il poeta ricorre allo stesso mezzo adoperato dall'autore dal libro di Giobbe: Indra stesso appare in tutta la sua potenza e grandezza a risponda con superba parola: «Eccomi qui, o cantori ! guardami! tutti quanti gli esseri io supero in grandezza ».

Dinanzi all'approfondirsi dal pensiero dileguava soprattutto la molteplicità degli déi. In un inno del Rgveda (X, 121) si dice apertamente cha tale molteplicità di esseri divini non esiste.
Uno solo può essere creatore e conservatore del mondo.

Dalla speculazione cosmologica si é svolto il pensiero di quest'unico dio personale e creatore. I nomi che gli si dànno (Prajâpati, Brahmanaspati, Viçvakarman) mostrano che non deriva dalla rozza e caotica religione popolare, ma da un concetto filosofico della divinità.
Infine il creatore dell'universo diventa un principio creatore puramente intellettuale, impossibili a designarsi con alcun nome. Nell'inno cosmologico é chiamato semplicemente « l'Uno ».
Siamo con questo pervenuti agli inizi della massima opera del pensiero indiano, la profonda dottrina dell' Uno universale. Insegna essa che la molteplicità dei fenomeni, riflessa nei numerosi dèi dalla credenza popolare, non é in realtà se non la evoluzione dell'Uno, dall'Eterno, del principio mondiale.

Quest'idea informa la dottrina upanishadica dell'anima dal mondo. In un verso del Rgveda (I, 164, 46) questa dottrina dall'unità é chiaramente espressa:
«Lo chiamano Indra, Mitra, Varuna, Agni; [per altri é] l'augello divino dalle belle ali; quello che é Uno, i poeti dicono in più modi: Agni, Yama, Mâtariçvan ».

Con ciò é preparata la grande evoluzione di pensiero
rappresentata dalla Upanishad.

IL MEDIOEVO INDIANO; FINO AL COMPARIRE DEL BUDDHA > >

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