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86. LE CITTA' E I PICCOLI STATI ITALIANI


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Ciò che era accaduto come abbiamo visto, dopo il periodo carolingio in Germania, in Francia, in Spagna, accadde anche in Italia. Sia nella prima come nella seconda, la disgregazione fu dovuta alle lotte interne dinastiche ma non per questo i due Paesi persero l'unità di lingua, di tradizioni, di cultura. E pure la Spagna come abbiamo visto nell'ultimo capitolo, anche se con ritardo, alla fine il problema che doveva decidere quale dinastia dovesse regnare su una Spagna andava sempre di più unendosi, fu risolto dai Castiglia e gli Aragona con un bel matrimonio tra i due sovrani nel 1469.
Ma se l'impresa in Spagna non fu facile (occorsero quasi due secoli per arrivare alla soluzione del problema) in Italia fu estremamente difficile. Proprio in un Paese che vantava una validissima e perfetta struttura sociale ancora mille anni prima, e nonostante tutte le vicessitudini, un certo orgoglio era pur sempre rimasto e sempre presente nella coscienza collettiva di appartenere a quell' aureo passato. L'unica consolazione era quella di avere a Roma il centro del cristianesimo, il papato; ma anche questo con le lotte con i patriarchi bizantini, non sempre convinse di poter conservare prestigio e autorità. E se ciò lo ottenne, fu dovuto solo alla grande abilità di alcuni grandi papi. Mentre altri, non furono all'altezza dei loro tempi e fecero più danno loro alla chiesa che non i "barbari". E oltre alla chiesa i danni li fecero all'intera penisola italiana che li ospitava. Città e regioni pagarono caro questa affettività verso Roma. E se dobbiamo dire che le radici cristiane ebbero in Italia il loro sviluppo, un certo tipo di cristianesimo creò un blocco al mondo moderno, operò nell'involuzione e nella disgregazione come in nessun altro Paese. E non solo in questi secoli medioevali, ma anche in quelli successivi fino al 1870.

La disgregazione politica che caratterizza l'Italia medioevale ebbe la sua causa principale nel fatto che la penisola fu la sede del papato ed il centro (ma solo ideale) dell'impero. Ciò impedì il sorgere di uno Stato nazionale così forte da prevalere sugli altri e rendere possibile una unificazione.
Del resto il papato, appena vedeva in un imperatore le intenzioni pacifiche o militari miranti ad una unificazione, subito chiamava in soccorso lo Stato di un altro monarca che era nemico all'altro per contrastarlo. E se poi questo con l'intervento si avvantaggiava, subito il papato era pronto a fare alleanze con quello appena fatto cacciare. Una continua altalena di alleanze per mantenere nei giusti equilibri le forze che ad ogni occasione si scatenavano.

I tentativi fatti dagli Svevi e dopo di loro dalla dinastia francese degli Anjou (Angioini) per estendere la propria supremazia su tutta la penisola fallirono; i primi naufragarono di fronte alle ostilità del papato e dei comuni dell'alta e media Italia; gli Anjou videro invece ostacolati i loro disegni dal distacco della Sicilia che fiaccò la loro potenza.

Ma a parte i maneggi, i sotterfugi, e gli espedienti disonesti che nascevano dentro le corti fuori d'Italia, e a parte gli anatemi e le scomuniche dei papi che piombavano su questo o su quel principe, re, imperatore, la popolazione si era ormai abituata a fare dell'opportunismo la sua bandiera. Non per niente che appena arrivava un imperatore subito si inchinavano per riverlirlo e applaudirlo, ma appena si allontava, s'innalzava subito di nuovo la bandiera di una repubblica o il gonfalone di una città che lottava per la propria autonomia, spesso anche con la città vicina se questa era asservita al despota di turno.
Quanto agli anatemi e alle scomuniche papali (lanciate anche a città intere) con il tempo esse non si rivelarono abbastanza forti per scuotere quelle posizioni che intere città e regioni stavano sempre di più conquistandosi.

Intanto si era venuto formando in Italia un gran numero di piccoli Stati, per lo più repubbliche cittadine. Le città italiane avevano fin dall'XI secolo cominciato ad avocare a sé i poteri pubblici, che dall'epoca carolingia spettavano al vescovo od al conte in qualità di funzionari imperiali, facendoli esercitare da consoli che esse medesime si nominavano. Nel periodo delle crociate, insieme con lo sviluppo economico delle città, crebbe anche la loro importanza politica; esse ampliarono il loro territorio assoggettandosi i minori centri vicini ed i piccoli signori feudali, cercarono al possibile di estendere la propria sovranità sui possedimenti territoriali del vescovo o del loro antecedente signore e di ridurre anche costoro alla condizione di sudditi imponendo ad essi l'osservanza degli statuti cittadini; né mancarono di appropriarsi di demani imperiali vacanti.

Il comune divenne uno Stato guerriero animato da spirito espansionista; si formarono delle signorie territoriali, come in Germania, rette però da magistrati cittadini. Accanto ai consoli troviamo normalmente un grande ed un minor consiglio tratto dalle famiglie più ragguardevoli; in seguito anche le classi inferiori, un tempo semi libere e poi divenute libere con la caduta dell'antico regime ed organizzatesi in corporazioni di arti e mestieri, reclamarono di partecipare al governo cittadino. E per lo più ottennero, benché a costo di più o meno lunghe lotte, o di essere accolte nel novero dei vecchi cittadini optimo iure, ovvero di organizzarsi come un comune a parte con propri magistrati.

Probabilmente per influenza, di queste lotte interne venne abbandonato, all'incirca a datare dal 1200, il sistema di reggimento a consoli e si preferì di affidare il potere esecutivo ad una sola persona, il così detto podestà, il quale di solito non fu preso dai cittadini dei comuni, ma - onde avere meno parzialità - fu chiamato dal di fuori e per lo più per la durata di un anno.

Costituitisi così entro una ristretta cerchia di territorio un gran numero di staterelli autonomi, non poteva mancare che scoppiassero tra loro delle guerre, tanto più che non vi era un potere superiore cui il singolo Stato potesse ricorrere per far valere i propri diritti o per sottrarsi ad indebite pretese.
Quindi i conflitti di vicinanza, la gelosia mercantile, e sopra tutto il reciproco bisogno di espansione, provocarono uno stato di guerra generale e continuo tra questi comuni che é quasi senza esempio nella storia.

Anche gli antagonismi politici vi ebbero la loro parte, e soprattutto l'inimicizia tra la fazione dei Guelfi, seguaci del papa, e quella dei Ghibellini, il partito imperiale; nomi questi che - come una "etichetta" - si perpetuarono in seguito in molti luoghi quando l'antagonismo di parte non aveva più nulla a che fare con la lotta tra papato ed impero. Una "etichetta" che era null'altro per dare un nome a quel "dualismo" che nella popolazione italiana non cesserà mai di esistere, anche in tempi recenti.

 

E sotto questi nomi il fuoco della discordia divampò anche in seno ai singoli comuni; sia che si trattasse realmente di lotte di classe, nel qual caso spesso il partito democratico assumeva la denominazione di partito guelfo, mentre la nobiltà cittadina si battezzava ghibellina; sia che si trattasse di conflitti provocati da cause occasionali o da antagonismi personali, ad es. da gelosia tra famiglie dominanti e rispettivi aderenti.
In questi casi avveniva talvolta che famiglie patrizie assumessero la difesa degli interessi del basso popolo contro il patriziato (tipici i cosiddetti "Cavalieri del popolo").

Quando venivano lanciate accuse di guelfismo o di ghibellinismo, queste accuse costituivano solo una forma di ricatto politico; nelle città che si vantavano guelfe gli accusati di ghibellismo perdevano in tutto o in parte i diritti politici, in quelle di tradizione ghibellina avveniva il contrario.
Quando poi una delle due fazioni cittadine riusciva a prendere il sopravvento decisivo nel comune, distribuiva tutte le cariche pubbliche fra i propri aderenti e cacciava in esilio gli avversari; costoro di solito dovevano rifugiarsi in altre città dove era al governo il loro partito e cercavano di coinvolgerle nella contesa interna del proprio comune, cosicché la lotta scoppiata in un luogo rischiava sempre di propagarsi ed allargarsi.

A causa di queste scissioni intestine le autonomie comunali andarono verso rovina. Le città cioè alla fine non trovarono altra via di salvezza che quella di assoggettarsi ad una potente famiglia, affidandole permanentemente la signoria sul comune e sul territorio.
In altri casi le città furono assoggettate con la forza alla signoria di potenti dinastie. Gli inizi di questo svolgimento risalgono al tempo degli Svevi, ma il sistema delle signorie si consolidò e divenne generale della prima metà del XIV secolo. Molte volte la signoria fu una semplice trasformazione della mansione di podestà; per non privarsi cioè del governo, sperimentato utile, le città spesso ricorsero al rimedio di conservare questa podestà ripetutamente oltre l'anno in carica; questa alla fine divenne vitalizia e persino ereditaria, se non di diritto, almeno di fatto.

Altre volte è il capo del popolo minuto, il «capitano del popolo» che, dopo avere abbattuto il predominio del patriziato, si trasforma in signore della città. Queste signorie trovarono il proprio puntello nelle schiere dei mercenari ("Capitan di ventura") che già da qualche tempo non mancavano in nessuna città e che passarono per così dire dal servizio del comune a quello del tiranno. I vari signori poi cercarono di legalizzare il proprio potere acquistato con la violenza riconoscendo nominalmente l'alta sovranità dell'imperatore o della curia ed ottenendone in compenso il titolo di vicari imperiali o pontifici.

Così si svolsero in particolare le cose a Milano, l'antica capitale della lega lombarda. Nel suo periodo eroico, a tempo di Federico Barbarossa, la città si reggeva a consoli, ma prima ancora della fine del XII secolo vi appare il regime a podestà. I primi decenni del XIII secolo passarono fra continue lotte di classe; il basso popolo reclama di partecipare al governo del comune e nel 1240 ottiene l'istituzione del capitanato del popolo a garanzia dei suoi diritti.

Attorno a questa carica si accentra tutto l'ulteriore svolgimento politico; i capi delle fazioni cittadine se ne impadronirono gli uni dopo gli altri quale un mezzo per esercitare con una veste ufficiale il potere cui effettivamente erano saliti come capi-parte. Questo movimento culmina nella rivalità tra i Della Torre, una antica famiglia patrizia che si era posta a capo dei Guelfi o della democrazia per farsene uno sgabello verso la conquista del potere; così i Visconti, i capi della nobiltà ghibellina.
I Della Torre furono i primi che rivestirono il capitanato del popolo e con questo mezzo dominarono per lo spazio di decenni sulla città e su gran parte della Lombardia. Inoltre essi ottennero da re Rodolfo il titolo di vicari imperiali. Nell'ultimo quarto del XIII secolo un mutamento dello stato delle cose portò alla ribalta i Visconti, ed allora vediamo anche costoro aspirare al capitanato del popolo ed ottenerlo.

All'inizio del XIV secolo tornarono poi di nuovo al potere i Della Torre; ma la sollevazione di Milano contro re Enrico VII da essi condotta nel 1311 tornò loro fatale ed inaugurò la dominazione definitiva dei Visconti a Milano.

In quest'epoca, secondo notizie contemporanee, la città di Milano contava 13.000 case, 200 chiese e da 150.000 a 200.000 abitanti, fra i quali 180-200 medici, 100 professori e 50 scrivani di professione. Fra le industrie fioriva particolarmente la fabbricazione delle armi e delle armature, cui si dedicavano più di 100 maestri assistiti da numeroso personale; le armi milanesi per il tramite dei genovesi e dei veneziani arrivarono fin nei paesi dei Saraceni e dei Tartari.
Ricercati pure erano gli oggetti di selleria milanesi; inoltre dalla Francia, dai Paesi Bassi e. dall'Inghilterra si importava a Milano grande quantità di lana che serviva qui alla fabbricazione di finissime stoffe.

Nel frattempo il primato di Milano in Lombardia si era trasformato in una definitiva dominazione sulle città e territori di Como, Bergamo, Brescia, Cremona, Crema, Lodi, Novara, Asti, Alessandria e Pavia. Ne scaturì una vasta signoria, sulla quale i Visconti imperarono da veri e propri sovrani, esercitandovi con l'appoggio dei loro mercenari un dispotismo nella realtà illimitato e talora inesorabile e crudele.

Incontriamo in questa dinastia tipi di tiranni, che fanno concorrenza ai peggiori mostri dell'antichità, come ad esempio Bernabò Visconti, che in ultimo fu ucciso da suo nipote Giovanni Galeazzo (1385). Questo stesso Bernabò fu tuttavia cnhe il fondatore di una delle più famose università d'Italia, dell'università di Pavia (1361), che ambì a dotarsi dei più celebrati dottori del tempo. A Giovanni Galeazzo dobbiamo invece l'origine dei due monumenti più splendidi della Lombardia: il duomo di Milano e la Certosa di Pavia.

In politica estera i Visconti, i quali sin dal 1311 ebbero il titolo di vicari imperiali, parteggiarono per l'impero (sempre però nella misura che loro tornò comodo), ed è alla monarchia tedesca che Giovanni Galeazzo andò debitore del titolo di duca di Milano. Egli poi estese la sua dominazione fuori di Lombardia sulla massima parte dell'Alta Italia e sul nord della Toscana. Abbiamo già visto in un altro capitolo come egli abbia preso partito per re Ruperto, lo sfortunato competitore di Venceslao.
Poco dopo a Giovanni Galeazzo lo colse la morte, mentre era sul punto di distruggere l'indipendenza di Firenze. Seguì un periodo di pericolosa crisi nello Stato milanese sotto il suo primogenito, il vile e crudele Giovanni Maria. Brescia andò perduta. Ma le sorti dello Stato furono poi risollevate a prezzo di continue guerre con Firenze, Venezia e la Svizzera da Filippo Maria, fratello di Giovanni Maria.

Una impronta essenzialmente diversa dalla storia di Milano presenta la storia delle due repubbliche marinare di Venezia e di Genova; la situazione di queste città sul mare ha contribuito molto alla differente loro evoluzione.
Venezia, una repubblica aristocratica retta da un doge nominato a vita, già verso il 1100 era la prima potenza marittima del Mediterraneo orientale, e nel corso delle crociate divenne la prima potenza marittima del mondo. Essa accentrò tutto il commercio dell'Europa con l'Oriente, e dall'Adriatico all'Asia Minore si stese la catena delle città marittime a lei soggette e piene dei suoi magazzini (fondachi) e delle sue case-aziende- società.
A questo suo cammino progressivo arrecò un grave colpo la restaurazione dell'impero greco, che danneggiò Venezia altrettanto quanto avvantaggiò la sua rivale naturale, Genova.

Ciò che però decise il predominio di Genova fu il suo trionfo su Pisa, la quale, allora più vicina che non oggi al mare con cui poteva comunicare mediante la navigazione sull'Arno, era stata sino allora la prima potenza marittima occidentale d'Italia. Ma dopo la sconfitta inflittale dai genovesi alla Meloria (1284) la stella di Pisa tramontò; la Corsica e la Sardegna dalle sue mani passarono nelle mani di Genova, che inoltre assoggettò alla sua dominazione le regioni litoranee da Ventimiglia a Portovenere.

Peraltro anche a Genova le lotte interne partigiane, che assunsero un carattere di particolare veemenza e non cessarono ad onta della trasformazione del regime in senso democratico e dell'istituzione di un doge (1339), avrebbero condotto a decadenza la repubblica se la rivalità con Venezia non avesse costantemente tenute deste le energie genovesi. Per Genova era questione vitale non lasciarsi tagliar fuori dal commercio con l'Oriente. Per questa ragione essa aiutò la restaurazione dei Paleologhi, i quali poi favorirono in tutti i modi il commercio genovese.

Da allora la vecchia gelosia fra le due repubbliche si tramutò - con vari pretesti o ragioni più o meno valide) in aperta inimicizia, e questa prima ancora del finire del XIII secolo provocò a sua volta una guerra condotta con estrema violenza. In essa i Genovesi ebbero per lo più il sopravvento; la loro flotta arrivò sino a Malamocco, cioè quasi sotto Venezia; ma non furono in grado di vincere definitivamente la repubblica di S. Marco.
Poi il reciproco indebolimento di forze, portò alla pace del 1299.

Ottanta anni dopo però la vecchia gelosia mercantile riprese furiosamente. La sorte delle armi si mostrò all'inizio ancora una volta favorevole ai genovesi. Essi nel 1379 catturarono presso Pola la flotta dei loro rivali e sbarcarono, fortificandovisi, presso Chioggia all'ingresso delle lagune. L'esistenza di Venezia era sospesa ad un filo. Ma l'abnegazione di tutte le classi della popolazione che non si sottrasse ad alcun sacrificio per salvare la repubblica ed il talento militare di Vettor Pisani valsero a mutare la fortuna delle armi; i genovesi furono costretti ad arrendersi a Chioggia, e la pace di Torino del 1371 non solo consolidò la signoria di Venezia sui suoi vasti dominii, ma segnò l'inizio di nuovi progressi.

L'isola di Corfù infatti nel 1386 si assoggettò spontaneamente alla repubblica, la quale verso la stessa epoca acquistò per denaro dei territori anche nel Peloponneso orientale. Già da tempo Venezia aveva messo alla sua dipendenza le coste dell'Istria e della Dalmazia; sul continente italiano il suo primo tentativo di espansione, diretto contro Ferrara, era fallito di fronte all'ostilità del papa (1308); ma nel 1338 furono conquistate Bassano e Treviso, e in questo modo Venezia mise piede sulla terraferma.
All'inizio del XV secolo il distacco delle parti orientali dell'Alta Italia dal dominio dei Visconti le fece cadere sotto la sua influenza e ben presto diventarono effettivo dominio di Venezia; prima vi passarono Rovigo, Padova, Vicenza, Verona, Feltre e Belluno col Friuli, poi Bergamo e Brescia (1428); finalmente la repubblica nel 1441 acquistò in grazia del tradimento anche Ravenna, e con ciò si chiuse il ciclo delle sue conquiste.

La maggior parte di queste città passò sotto la dominazione veneziana dopo aver percorso un periodo di svolgimento storico particolare in parte notevole sotto il governo di propri signori, come i Polenta di Ravenna che si acquistarono fama imperitura per avere accolto ospite l'esule Dante. Anche più importante è sotto questo aspetto Verona, verso il 1250 cittadella del tirannico Ezzelino da Romano, del quale furono poi successori i Della Scala (Scaligeri). Fra questi ultimi emerge Cangrande (1312-1329), il quale conquistò Vicenza, mise in serio pericolo Padova, e come capo dei Ghibellini del nord-est della penisola costituì il principale sostegno della politica italiana di Ludovico il Bavaro.

Anche alla corte di Cangrande dimorò il grande esule fiorentino. Transitoriamente gli Scaligeri riuscirono ad estendere la loro influenza anche su Brescia e perfino fino a Parma ed a Lucca; ma da quando nella loro dinastia cominciò a penetrare il fratricidio e l'assassinio tra parenti, la loro potenza decadde ed alla fine si sottomise ai Visconti di Milano (1387).
Testimoni dei tempi dello splendore degli Scaligeri sono però tuttora a Verona le loro tombe, che vanno annoverate fra i monumenti più perfetti dell'arte gotica italiana.

Nella vita politica interna della repubblica di Venezia l'influenza delle ricche famiglie patrizie, dalle quali venivano tratti i funzionari civili più elevati ed i generali, aumentarono al punto che l'autorità del doge ne rimase sempre più indebolita; e soprattutto da quando (nel 1162) venne istituito, come organo esecutivo della sovranità popolare, il « Gran Consiglio », che fece prendere alla costituzione veneziana una impronta spiccatamente aristocratica. Questo consiglio si componeva di 480 membri, 80 per ciascun sestiere della città, e ad esso spettava di nominare a tutte le cariche dello Stato.

Accanto a tale assemblea sorse un Senato, in seguito portato a 300 membri, cui appartenevano i capi della maggior parte degli uffici pubblici nonché coloro che avevano rivestito le più alte cariche dello Stato. A capo del senato stava la signoria o minor consiglio, una giunta di dieci membri, composta del doge, di un rappresentante di ciascun sestiere e dei tre capi (capi superiori) del tribunale penale della Quarantia. Coll'aggregarsi poi alla signoria dei sei savii che fungevano da delegati del Gran Consiglio, dei cinque savii degli ordini (periti in materia militare e navale) e dei cinque savi della terra ferma, istituiti nel 1420, sorse il consiglio di Stato segreto, il così detto Collegio, che preparava tutto il lavoro da presentarsi alle discussioni del senato.

Un più perfetto carattere oligarchico assunse la costituzione veneziana in seguito ad una legge del 1297, per lo più conosciuta sotto il nome di "serrata del Gran Consiglio" perché restrinse il diritto di farne parte, prima non sottoposto a limiti, alle sole famiglie rappresentate nel consiglio negli ultimi tempi ed ai discendenti di coloro che all'atto della legge vennero chiamati in seno al consiglio medesimo.
Le ripetute congiure contro la repubblica provocate da questa legge di casta furono scoperte a tempo e frustrate ovvero sanguinosamente soffocate. Il male fu però che, avendo ristretto la partecipazione al governo a circa 200 famiglie (elencate nel 1315 in quello che venne posteriormente chiamato il Libro d'oro
), queste scambiarono sempre più il loro interesse di conservare la posizione dominante usurpata con l'interesse generale della repubblica ed in questa penetrò un generale spirito di sospetto e di diffidenza.

Non solo il doge, di cui si cercò di limitare ancora di più l'autorità e l'influenza, fu oggetto di perpetua diffidenza, ma le singole corporazioni ed i singoli dignitari pubblici non credettero mai di averne abbastanza in reciproci controlli e sorveglianza. Frutto di tale spirito di diffidenza fu l'istituzione, dapprima in via straordinaria, e poi dal 1335 in via definitiva, di una suprema commissione inquisitoria, il « Consiglio dei Dieci », il quale, fornito di poteri eccezionali, era chiamato a vegliare alla difesa dell'ordine di cose costituito. Ciò nonostante nel 1355 il doge Marino Faliero tentò un colpo di stato, ma glielo mandò a vuoto la vigile sorveglianza dei dieci.

Da questo momento l'ordinamento oligarchico rimase incrollabile; il popolo era completamente escluso dal governo, ma tutelato anche dagli arbitri. Tutto considerato la costituzione veneziana era valida a dare i massimi frutti finché nell'aristocrazia dominante (i « nobili ») avesse regnato capacità politica e di governo, amor di patria e spirito di abnegazione e di sacrificio; e queste qualità non le mancarono fin a buona parte del XVI secolo.

Tuttavia con Venezia non abbiamo ancora esaurita la copiosa serie di signorie dell'Alta Italia. Nell'estremo nord-ovest sussistevano tuttora vecchie famiglie di dinasti, tra i quali primeggiano i marchesi di Monferrato, audaci figure cavalleresche, che si erano coperti di gloria soprattutto nell'epoca delle crociate. Verso la fine del XIII secolo il « gran marchese » Guglielmo VII fu sul punto di fondare un vasto principato; ma le sue mire espansioniste provocarono una lega fra i vicini, cui Guglielmo si sottomise nel 1290; il marchesato però continuò a sussistere come Stato indipendente fino alla fine del Medio-Evo.

Un più grande avvenire arrise ai conti di Savoia, di origine burgunda, i quali nell'XI secolo, in seguito all'acquisto del marchesato di Susa arrecato in dote dall'ereditiera, misero piede in Italia. Impegnandosi ad espandersi da ogni lato, essi acquistarono poi il cantone di Vaud, Ginevra e Nizza; nel 1417 Sigismondo elevò il conte Amedeo VIII a duca di Savoja. L'indivisibilità del territorio ed il sistema di successione al trono per diritto di primogenitura, prestissimo stabiliti per legge, assicurarono e consolidarono l'integrità e la conservazione dello Stato, ad onta della pericolosa vicinanza di Milano e di Genova; inoltre verso la fine del Medio-Evo la potenza della Francia cominciò sempre più a premere sulla Savoia.

Accenneremo finalmente ancora alle dinastie dei Gonzaga e della casa d'Este. Di fronte al pericolo da cui era minacciata per la calata in Italia di Ludovico il Bavaro, la guelfa Mantova si decise nel 1329 a conferire il capitanato del popolo a Luigi Gonzaga. Il governo della città, assumendo via via forma sempre più monarchica, si conservò poi nella sua famiglia. Ed i Gonzaga difesero con fortuna l'indipendenza della città e del territorio contro le assai più potenti vicine Venezia e Milano.

A sud del territorio dei Gonzaga si estendeva la signoria degli Este, una antica famiglia principesca, che aveva rappresentato una parte importante nell'Alta Italia già al tempo degli imperatori salii. Notoriamente la famiglia tedesca dei Guelfi (Welfe) si fa derivare dagli Este. Ma il ramo principale di questa casa rimase in Italia ed all'inizio del XIII secolo gli Este, chiamati a coprire la carica di podestà a Ferrara, vi acquistarono influenza preponderante, pur riconoscendo l'alta sovranità feudale dei papi sulla città.
Nel 1288 poi Obizzo II d'Este, dopo fiere lotte partigiane, ottenne la signoria a Modena che rimase ereditaria nei suoi discendenti; Obizzo III (m. 1352) stabilì da ultimo la dominazione estense sopra ambedue le città cui aggiunse Reggio Emilia.

Se ora ci volgiamo all'Italia centrale, vi vediamo primeggiare in Toscana Firenze. Morta nel 1115 la grande marchesa cui era soggetta e venuta alla diretta dipendenza dell'impero, Firenze al pari di altri comuni acquistò l'autonomia interna. Ebbe alla sua testa dapprima dei consoli, poi un podestà. Ben presto, in grazia dello spiccato spirito mercantile dei suoi abitanti, la città divenne un fiorente centro industriale; soprattutto l'industria tessile della lana e la fabbricazione delle stoffe fu per fonte di ricchezza e di rinomanza all'estero. Si aggiunga il commercio bancario; la sua moneta d'oro, il fiorino, coniato a partire dal 1252, nella generale confusione del mercato monetario dell'epoca, acquistò l'importanza di una unità di misura. Anche gli estesi affari finanziari della curia finirono in gran parte nelle mani dei banchieri fiorentini. Quest'ultima circostanza, unita al naturale antagonismo della città contro le città vicine, per lo più ghibelline, spinse Firenze nel campo dei guelfi.

La costituzione politica di Firenze si svolse in senso democratico. Una sollevazione popolare fece giustizia nel 1250 di tutti i privilegi nobiliari. Accanto ai podestà fu nominato un capitano del popolo circondato da dodici anziani, rappresentanti dei sei quartieri della città. Nell'anno dei Vespri Siciliani la repubblica poi mise alla sua testa un «difensore delle arti», nome che ora assunse il capitano del popolo, e sei «priori delle arti», rappresentanti delle grandi corporazioni delle arti, che erano quelle dei cambisti, tessitori, setaiuoli e pellicciai, nonché degli elementi più autorevoli della media borghesia: medici, speziali, notai e giudici. Queste classi nel loro insieme costituivano quello che era chiamato il «popolo grasso».

Formavano invece il nucleo principale del « popolo minuto » i veri e propri artigiani. L'aristocrazia cittadina manteneva tuttora una condotta ambigua e talvolta si rivelò pericolosa; perciò nel 1293 furono emanati i così detti «ordinamenti di giustizia» che la esclusero da tutte le cariche pubbliche, salvo che entrasse nelle corporazioni; contemporaneamente fu creata nel «gonfaloniere della giustizia» una nuova carica, che ben presto divenne la maggior carica suprema della repubblica.

L'ulteriore svolgimento della costituzione fiorentina risentì l'influenza delle condizioni politiche generali della Toscana. Qui dopo la caduta degli Svevi era penetrato quasi dappertutto il guelfismo. Ma verso la fine del XIII secolo si produsse in seno allo stesso partito guelfo uno scisma, dovuto più che a cause politiche alle rivalità tra famiglie potenti. Il germe di questa scissione fu la lotta scoppiata tra due famiglie pistoiesi, ma il movimento si propagò ben presto a Firenze, dove trovò esca in antagonismi personali e di classe già esistenti, e divise la città, come il resto della Toscana, nelle due fazioni dei «Bianchi» e dei «Neri», delle quali la seconda rappresentava in sostanza l'elemento aristocratico, mentre il nucleo principale della prima era costituito dal ricco ceto commerciante.

I Neri nel 1302 con l'aiuto della curia e degli Angiò presero il sopravvento e cacciarono in esilio i capi del partito avversario. Ma nel 1343 fu restaurata la democrazia in modo anche più completo. A capo del comune subentrarono otto «priori», due soli dei quali erano tratti dalle corporazioni maggiori, mentre le minori ebbero gli altri sei posti; la carica di gonfaloniere, cui era inerente la presidenza del collegio dei priori, fu gestita a turno.

Dopo ciò i Fiorentini impresero ad assoggettarsi una parte notevole della Toscana. Nel 1389 comprarono Arezzo e nel 1411 Cortona; ma molto più importante fu l'acquisto di Pisa, la quale, caduta in mano di capi di mercenari, venne ridotta dai Fiorentini in loro potere nel 1405 in parte con il denaro, in parte con la forza. Nel 1421 si aggiunse Livorno, col cui possesso la repubblica raggiunse il mare. Rimasero invece indipendenti le due piccole repubbliche di Siena e di Lucca, l'ultima delle quali nella prima parte del XIV secolo pesò transitoriamente come un fattore rilevante nelle lotte partigiane d'Italia sotto la signoria del prode Caststuccio Castracane degli Interminelli.

Il resto dell'Italia centrale era occupato dal così detto Stato della Chiesa, il quale, consolidato all'inizio del XIII secolo in grazia delle concessioni dell'imperatore Ottone IV, verso la fine del secolo aumentò il suo territorio con la Romagna, una regione da lungo tempo ambita dai papi, e concessa alla curia da re Rodolfo.
Ma queste regioni caddero in preda alla generale dissoluzione ed al perpetuo disordine ed in nessun altro paese la nobiltà si mostrò così insubordinata e brutale. Quando poi all'inizio del XIV secolo la curia trasferì la sua sede ad Avignone lo Stato della Chiesa si spezzò addirittura in una serie di comuni di fatto indipendenti e di signorie particolari governate da signori propri ereditari.

Nella sola Roma non si ebbe la prevalenza assoluta di una sola famiglia, ma la lotta tra le fazioni aristocratiche sembrò eternarvisi. A capo della città stavano due senatori, tratti dalla nobiltà; la carica era annuale. Lo scarso sviluppo in Roma dei commerci e delle industrie fece sì che alla cittadinanza romana venisse meno quella salda forza economica per cui avrebbe potuto assurgere ad importanza politica. Tanto più la popolazione vide come una iattura, una vera e propria disgrazia, la diserzione della curia, la cui presenza era per Roma una fonte di molteplici guadagni, specialmente per il gran numero di forestieri che richiamava la capitale cristiana.

A questo punto i romani prestarono ascolto alle parole di Cola di Rienzi, il quale tutto pervaso dall'entusiasmo per l'antico splendore del nome romano, se ne volle fare il restauratore. E la folla fu stregata dal fascino che emanava la bella persona e la trascinante eloquenza, figlia di una ardente fantasia, di questo giovane. Già ad una riforma interna che nel 1345 portò al governo della città tredici cittadini, rappresentanti dei tredici rioni di Roma, sembra non sia stato estraneo Cola di Rienzi. Due anni dopo egli era tanto sicuro dei proprio prestigio che il 19 maggio 1347 convocò il popolo, deplorò l'indecorosa schiavitù in cui vivevano Roma ed i Romani e fece proporre una serie di decreti destinati a metter fine all'anarchia nella città ed agli arbitrii della nobiltà.

Il popolo approvò tutto per acclamazione ed affidò a Cola di Rienzi la signoria, vale a dire l'illimitato potere di riformatore e conservatore della repubblica romana. E nei fatti il Rienzi, usando questi pieni poteri, restaurò l'ordine e la sicurezza, attuò rigorosamente la giustizia e riformò l'amministrazione e le finanze. La nobiltà si era fin dall'inizio allontanata da Roma, ma poco dopo preparò una vera e propria spedizione di guerra punitiva per riconquistare la città; se non che Cola di Rienzi uscì incontro agli assalitori con i suoi popolani ed il 20 novembre 1347 fuori la porta di S. Lorenzo inflisse ai nobili una così sanguinosa disfatta che essi non si rifecero mai più completamente.

Il vincitore dopo questo successo assunse il titolo di tribuno del popolo romano e proclamò che, come tale, il suo potere era al di sopra di ogni autorità terrena. È la stessa idea che campeggia nella «Monarchia» di Dante, e che fu per così dire tradotta in pratica in occasione dell'incoronazione di Ludovico il Bavaro.

Rienzi citò poi l'imperatore ed il suo rivale dinanzi a sé per decidere come giudice la loro contestazione; inoltre invitò tutte le città ed i principi d'Italia a mandare delegati ad un parlamento nazionale da tenersi in Campidoglio sotto la sua presidenza. In Rienzi dunque vediamo fusi gli ideali universali con gli ideali nazionali; il tribuno può in certo senso essere caratterizzato come il primo italiano.

Ma Rienzi non era un uomo di Stato ed in generale una mente positiva. Egli si abbandonò sempre più a sogni fantastici, il potere lo inebriò e perdette ogni chiara visione della realtà delle cose. Ciò gli alienò il popolo. Rienzi dovette egli stesso accorgersi subito che il terreno gli mancava sotto i piedi; ma era troppo tardi. E quando il papa gli si dichiarò contrario, si perdette d'animo; depose spontaneamente il potere, abbandonò la città e si ritirò sui monti nella solitudine.
Già abbiamo visto in un altro capitolo, per quali circostanze ed in che modo sette anni dopo Cola di Rienzi riacquistò l'antico potere in Roma per andare poche settimane dopo incontro ad una drammatica e penosa fine.
Caduto il Rienzi, il già ricordato cardinale Albornoz, legato pontificio, restaurò nello Stato della Chiesa la sovranità dei papi, almeno esteriormente, conservando nei rispettivi dominii i signori locali venuti fuori dappertutto, ma mettendoli alla dipendenza del papato in qualità di suoi vicari. Ma nella realtà costoro rimasero indipendenti, ed alcuni salirono ad una certa potenza, come i Montefeltro ad Urbino, i Malatesta a Rimini ed i Bentivoglio a Bologna.

Il mezzogiorno d'Italia era occupato dal regno di Napoli, su cui, anche dopo la perdita della Sicilia (1282), continuò ad imperare la casa d'Angiò. A Carlo I successero, prima suo figlio Carlo II (nel 1285), il cui regno fu sostanzialmente speso nei vani tentativi di riprendere la Sicilia, e poi suo figlio Roberto (nel 1309), un principe oculato ed amante delle scienze e delle arti (m. 1343).
La dinastia angioina, come baluardo del guelfismo, si ingerì costantemente nelle cose dell'Italia centrale, senza riuscire peraltro ad estendere durevolmente l'influenza sua fuori del reame. Le riuscì invece ad insediarsi con uno dei suoi rami in Ungheria, dove all'estinguersi della dinastia degli Arpadi un nipote di Roberto, Carlo Roberto (nato da Carlo Martello figlio di Roberto ed a lui premorto) ottenne il trono.

Questo acquisto ebbe però conseguenze funeste per ambedue le line della dinastia angioina. L'erede del reame di Napoli, Giovanna I, concesse la propria mano al secondogenito di Carlo Roberto, Andrea; ma quando, morto Roberto, questi pretese di esercitare la signoria sul regno di Napoli per diritto proprio, cioè come rappresentante della linea principale angioina, la moglie venne a rottura con lui ed i partigiani della regina nel 1345 lo uccisero.
Giovanna dopo si unì in seconde nozze con suo cugino Luigi di Taranto, cui aveva già prima concesso i suoi favori. Se non che re Luigi d'Ungheria, per vendicare il fratello, si mosse con un esercito, e nel 1348 si impadronì della corona di Napoli. Ma la sua dominazione, aborrita come dominazione straniera, fu di breve durata, perché Giovanna, che era fuggita col marito nel mezzogiorno della Francia, poté tornare con l'aiuto della curia; ed in grazia dell'avversione che regnava contro il re le fu facile riacquistare il trono.

Ben presto però scoppiarono nuove discordie in seno alla famiglia reale e nuove lotte nel paese, e la regina, donna di ingegno non comune ed amica delle scienze e delle arti, ma depravata di costumi e dedita alla crapula, era poco adatta a dominarle. Per di più la successione al trono rimaneva incerta, perché Giovanna, ad onta che dopo la morte di Luigi di Taranto avesse preso un terzo e poi un quarto marito, non aveva mai avuto figli. Finalmente essa adottò il fratello minore di re Carlo V di Francia, Luigi; ma vivevano ancora dei membri della casa d'Angiò per nulla disposti a rinunciare ai proprii diritti.

Un discendente del quarto ed ultimo figlio di Carlo II, Carlo di Durazzo, si levò a pretendente al trono e spodestò la regina (1381); essa mori l'anno successivo in carcere di morte violenta. Carlo III di Durazzo nel 1385, dopo la morte di Luigi d'Ungheria che aveva lasciato soltanto figlie femmine, poté porsi sul capo anche la corona di S. Stefano; ma già nel 1386 la sua vita si spegneva sotto il pugnale di un assassino. Con ciò la corona d'Ungheria andò definitivamente perduta per la casa d'Angiò, la quale del resto doveva ben presto estinguersi. Infatti i suoi ultimi rappresentanti furono i due figli di Carlo III, Ladislao, che morì senza discendenti nel 1414, e Giovanna II, con la quale la famiglia si estinse nel 1435.

Anche il regno di Napoli, specie durante il regno delle due donne, fu funestato da fazioni, provocate ed alimentate dalle continue discordie intestine della famiglia reale, discordie che porsero l'occasione alle ingerenze straniere, le quali influirono sulle sorti del paese ancor molto tempo dopo l'epoca degli Angiò ed alla fine facilitarono la sua caduta quando il regno andò a finire proprio sotto il giogo straniero.

Alle citate ingerenze straniere, il maggior responsabile
fu immancabilmente il papato
intrusioni tali da provocare anche uno scisma nel suo interno.
E proprio di questo parleremo nel successivo capitolo.

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