-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

93. LA MONETA - LE FINANZE - LE IMPOSTE

1 Aes Rude del Lazio (VI sec. a.C.)
2 Asse Librale (335 a.C.)
3 Siclo d'argento di Creso di Lidia (540 a.C.)
4 Decadramma di Siracusa (413 a.C.)
5 Grsso Veneziano d'argento (XIII sec.)
6 Fiorino d'oro di Firenze (XIII sec.)
7 Ducato Veneziano (1368-82)
8 Zecchino d'oro di Pisa (1494)
9 Zecchino Veneziano del Doge Steno (1331-1413)
10 Denaro d'argento di Carlo Magno (VIII-IX sec.)

Ovviamente parlando di finanza e imposte, il pensiero corre alla moneta. Lo strumento dei pagamenti garantito da uno stato e riferito a una data unità di misura. Con la sua invenzione e introduzione, il favore che la moneta incontrò nel mondo greco e in quello romano, spinse gli storici antichi a figurarsi che sia esistito, in un determinato momento, un "creatore", uno "scopritore" della moneta. Così la storiografia antica creò il mito dell’invenzione della moneta collegandolo a figure eminenti del suo mondo leggendario o storico: da ciò l’attribuzione dapprima a Teseo, poi a personalità storiche più o meno documentate, quali Fidone d’ Argo o i re di Lidia Gige, Aliatte e Creso.

Le leggende, si sa, contengono sempre un fondo di verità, ed effettivamente i suddetti personaggi sono un po' legati a questa "invenzione". Tuttavia parlare di un inventore della moneta è quanto di più errato si possa fare. La moneta non fu inventata, ma fu il punto di arrivo di una evoluzione dei mezzi di scambio durata millenni che, a partire dal semplice baratto di merce contro merce, ha toccato svariate tappe, andando via via sempre più perfezionandosi. Nessun popolo antico, per quel che ci risulta dalle fonti, ha saputo sottrarsi, nella prima fase della sua esistenza, alla legge naturale del baratto. Popoli di antichissima civiltà riuscirono così ad instaurare legami economici anche molto complessi pur non conoscendo la moneta, basando le transazioni sul semplice scambio delle merci. Tale fatto ci è attestato, oltre che dagli storici antichi, anche da alcune figurazioni rinvenute in Egitto, che ci mostrano come nel paese del Nilo i più antichi traffici avvenissero in questo modo.

Anche i Fenici installavano sulle coste dei popoli barbari dei veri e propri mercati di baratto, scambiando i prodotti lavorati della loro industria con le materie prime che qui trovavano in abbondanza.
Allo stesso modo i Cartaginesi, come già accennato, basarono sul baratto la massima parte dei loro traffici. Ma questa forma di commercio presentava grossi inconvenienti per quelle popolazioni stanziali che non erano solite intraprendere lunghi viaggi a fini commerciali. Tali popoli si trovavano spesso a disporre di una derrata sovrabbondante che sarebbero stati ben lieti di scambiare con i propri vicini, ma questi a loro volta ne possedevano altrettanta; capitava quindi di dover rinunciare, da un lato, a merci senza dubbio necessarie ma che non potevano essere pagate, dall’altro di dover conservare la propria derrata, ormai di nessuna utilità, col rischio che si potesse deteriorare o distruggere.

Per ovviare a tale inconveniente, si stabilì una derrata particolare che servisse al tempo stesso da mezzo di scambio e da scala comparativa del valore delle merci.
Si decise cioè di scegliere una merce che svolgesse le funzioni proprie della moneta. E’ questa la cosiddetta "moneta naturale", primo esempio di quel fenomeno che gli studiosi moderni chiamano col nome di "premoneta". La scelta della derrata da usarsi come "moneta naturale" è variata secondo i luoghi e i tempi, ma si è sempre orientata su un prodotto a un tempo ricercato e abbondante. Gli antichi abitatori del Mediterraneo si sono rivolti con preferenza al bestiame, il quale per la sua utilità e, ad un tempo, per la sua abbondanza, ha riscosso ovunque ampio favore. Testimonianze dell’ uso del bestiame come moneta ci vengono dalle più antiche legislazioni (che fissano le multe da pagare in buoi e pecore), ma soprattutto dal linguaggio.


A questo antichissimo uso si fanno risalire parole quali pecunia, ossia denaro, che deriva dal latino pecus (gregge), termine dal quale deriva anche la parola peculato (che in latino significa furto di armenti prima che concussione). Dall’uso di calcolare la ricchezza in capi di bestiame (capita) è derivato poi il termine capitale. Il bestiame rappresentò dunque la prima moneta dell’ uomo, ma presto ci si accorse che qualcosa non andava: tutto procedeva bene se un tale acquistava (ad esempio) tanto grano quanto ne poteva valere un bue.
Ma se quel tale ne voleva di meno? C’erano, questo è vero, alcune corrispondenze fisse (ad esempio nella Roma arcaica dieci pecore equivalevano a un bue), ma sta di fatto che non era possibile dividere una pecora senza che perdesse valore (una pecora morta vale decisamente meno di una viva).

Ci si accorse allora, quando l’industria iniziò a lavorarli per farne utensili e armi, che i metalli presentavano, rispetto al bestiame, notevoli vantaggi come mezzi di scambio. Non solo erano più facili da trasportare, ma le loro qualità intrinseche ne determinarono il primato su qualsiasi altra merce-tipo: essi infatti si potevano ridurre in frammenti senza che perdessero valore; erano inalterabili e non richiedevano manutenzione (non si deterioravano quindi in seguito a lungo immagazzinamento); erano facilmente riconoscibili dall’aspetto, dal suono e dal peso; infine erano utili a tutti. Una volta scelto il materiale (che rimarrà lo stesso fino alla comparsa della moneta in carta vera e propria) si cercò la forma che ne rendesse più comodo l’ utilizzo.

La forma più antica è senza dubbio quella dell’anello, la cui fortuna è dovuta non tanto alla sua funzione ornamentale, quanto al foro che ne facilita la tesaurizzazione e il trasporto. Una pittura murale del XV secolo a.C. ci testimonia l’utilizzo dell’anello come mezzo di scambio in Egitto, ma questa forma è attestata anche altrove (ad esempio nello stesso periodo gli Ebrei creano un’ unità pondometrica che chiamano "kikkar", che significa appunto anello). In seguito (seconda metà del II millennio a.C.) fanno la loro comparsa in tutto il Mediterraneo i cosiddetti pani di rame egeo-cretesi. Si tratta di grossi rettangoli del peso variante tra i 10 e i 36 chilogrammi e dello spessore di circa 6 centimetri. I più antichi fra questi pani presentano una forma quasi perfettamente rettangolare, mentre i più recenti sono caratterizzati dai quattro angoli molto sviluppati (pani).

Questa forma, che in origine era stata interpretata come la stilizzazione di una pelle di bue o la rappresentazione di un’ascia bipenne (entrambi simboli legati al mondo sacrale e religioso), è dovuta in realtà a motivi tecnici: questa forma è infatti l’unica che consenta di colare in un piano più pani contigui per separarli poi più facilmente fratturando le giunzioni negli apici. Si tratta quindi del risultato di una fusione in serie, fatto che denota una evoluzione tecnica notevolissima.

Questi pani (lingottini) ebbero grande diffusione per circa quattro secoli, fino al X a.C., e li ritroviamo pressochè in tutti i luoghi toccati dai Micenei. Infine, a partire dal IX secolo a.C., appare quella che gli studiosi chiamano moneta utensile. Si tratta di strumenti della vita quotidiana che vengono utilizzati come moneta pur mantenendo, almeno in origine, la loro funzione pratica.
Tale funzione sarà in seguito solo ricordata dalla forma dell’ oggetto, che di fatto non verrà più utilizzato per la sua funzione originaria. Le asce bipenni ritrovate in Europa centrale, ad esempio, hanno avuto senza dubbio esclusivamente funzione monetaria, dal momento che lo spessore assai ridotto della lama e il diametro del foro che non consente l’ immanicamento, il che le rende praticamente inutilizzabili come attrezzi.

La funzione di moneta utensile viene invece ricoperta nel Mediterraneo, e in particolare in ambiente greco, da tre tipi di utensili: gli obeloi (spiedi per cucina e per sacrifici religiosi), i lebeti (specie di pentole, anche queste usate sia in cucina che in ambito religioso) e infine i tripodi.
L’ utilizzo di questi strumenti come moneta è attestata da numerose fonti scritte, primo fra tutti Omero che ricorda tripodi e lebeti come regali, premi di gare e prezzi di riscatti. Una serie di rinvenimenti nei santuari ha inoltre confermato questo uso e la tradizione ricorda che il già citato Fidone d’ Argo smonetizzò durante il suo regno gli spiedi di ferro e, dopo averli sostituiti con monete vere e proprie, li dedicò al tempio di Hera. Siamo ormai a un passo dalla nascita della moneta.

Con la moneta utensile arriviamo al VII secolo a.C. In questo periodo le coste dell’ Asia Minore sono abitate da Greci dediti per la maggior parte al commercio marittimo. La situazione degli scambi doveva essere pressappoco la seguente: per gli scambi quotidiani di piccola entità si ricorreva, oltre che al baratto, alla moneta utensile, mentre per i pagamenti più consistenti e per i traffici internazionali si ricorreva all’oro e all’ argento in anelli oppure in lingotti fusi.

Nel corso della prima metà del VII secolo anelli e lingotti vanno via via scomparendo per lasciare il campo a piccoli pezzi di metallo prezioso (che hanno forma di goccia e sono costituiti da elettro, una lega naturale di argento e oro). Intorno alla metà dello stesso secolo alcuni mercanti e alcuni santuari (che hanno all’epoca funzione di banche) cominciano a contrassegnare questi pezzi con una loro impronta, con il loro sigillo. Apponendo questo sigillo, il mercante e la banca garantiscono che il peso del pezzo è esatto e che la sua lega è buona. Il privato è, beninteso, libero di accettare o meno la garanzia, di accordare o meno la sua fiducia; ma se accorda questa fiducia, se accetta la garanzia rappresentata dal punzone, è dispensato dal ricorrere ogni volta, in occasione di ogni pagamento, alla verifica del titolo e del peso, alla bilancia ed alla pietra di paragone.

Ci troviamo dunque in presenza di una vera e propria moneta privata. Ci si accorge che la "goccia" di metallo prezioso viene accettata proprio in virtù del sigillo che reca e in base alla fiducia che tale sigillo ispira. A questo punto interviene lo Stato, la cui garanzia è senza dubbio superiore a quella di qualsiasi mercante, ed avoca a sè il diritto di battere moneta, vietando ogni ulteriore emissione da parte di privati. Imprime il proprio simbolo (generalmente il dio protettore della città) sulle "gocce" e con esse paga i servizi resi alla comunità e al tempo stesso incamera le tasse: era nata la moneta. Dalle coste dell’ Asia Minore la moneta si diffuse repentinamente nella Grecia continentale e nelle colonie dell’Italia meridionale.

Già nel secolo successivo ogni polis (città, nell’antico greco) aveva una propria moneta caratterizzata da un peso e da una figurazione particolare. La moneta non era solo uno strumento economico, ma divenne, come afferma M. Crawford, celebre studioso di numismatica, uno "splendido segnale dell’ esistenza e della autonomia della polis". Ogni città batteva dunque la propria moneta cercando di caratterizzarla e di renderla immediatamente riconoscibile a chi la teneva in mano. Nascono così figurazioni che resteranno per secoli caratteristiche di una città: la civetta sulle monete di Atene, la tartaruga su quelle di Egina e il cavallo alato su quelle di Corinto sono solo gli esempi più illustri. Altre città ricorsero ad altri metodi per rendere peculiare la propria moneta. E’ il caso di alcune città della Magna Grecia che realizzarono le cosiddette monete incuse. Si tratta di monete che anziché avere una raffigurazione in rilievo su entrambe le facce, la presentano solo al dritto, trovandosi al rovescio una raffigurazione (generalmente la stessa del diritto) in incavo. Ogni polis, inoltre, mantenne il proprio sistema di pesi: la dracma, unità base della moneta greca, aveva quindi un peso diverso a seconda della città che la emetteva.

E’ curiosa l’origine del nome: la dracma, sottomultiplo del talento (letteralmente "il peso che un uomo può portare"), deriva da drax (manciata) e fa riferimento con ogni probabilità alla moneta utensile; drax, in altre parole, indica tanti spiedi quanti ne può portare una mano, e difatti il sottomultiplo della dracma si chiama obelos (che in greco significa appunto spiedo). Nonostante questa repentina diffusione, tuttavia, la moneta rimase a lungo un fenomeno propriamente ed esclusivamente greco. I popoli che di volta in volta venivano a contatto col mondo greco, infatti, non adottarono, se non in parte, la nuova "invenzione".

Furono necessari molti anni e la formazione di due grandi imperi prima che la moneta si imponesse in tutto il mondo conosciuto: l’ impero di Alessandro Magno e, ovviamente, l’ Impero Romano. Proprio grazie a quest’ ultimo la moneta si impose in ogni angolo d’ Europa giungendo, attraverso i secoli, fino a noi. E proprio ai Romani siamo debitori per il termine che ancor oggi la designa: la zecca di Roma era difatti situata all’ interno del tempio di Giunone Moneta, tempio fondato in memoria dell’ invasione gallica del 390 a.C.. Narra la leggenda che i Romani riuscirono a sventare un attacco notturno dei Galli perchè svegliati dallo starnazzare delle oche: a loro volta le oche erano state destate da Giunone, che quindi fu designata con l’appellativo di Moneta (che significa appunto ammonitrice, avvisatrice). Di qui il nome passò alla zecca, ospitata nel tempio, e in seguito alla moneta stessa.

Con l’avvento dell’Impero Romano, comunque, possiamo considerare conclusa la lunga fase dello sviluppo della moneta: Augusto e i suoi successori instaureranno un sistema basato sulla monetazione di più metalli (oro, argento, bronzo e oricalco) che durerà per secoli e influenzerà in maniera determinante le successive prime monetazioni barbariche (a dire il vero molto molto poche e rarissime quelle longobarde). I re barbari, anche se compresero la grandezza del sistema romano e cercarono di mantenerlo anche dopo la caduta dell’Impero, non crearono un bel nulla come organizzazione finanziaria. Dei Longobardi ad esempio ci hanno lasciato delle medaglie e non una moneta corrente.
A dimostrazione di questo fatto ci rimangono monete barbariche che non sono altro che un’ imitazione mal riuscita di monete romane: di queste ultime mantengono infatti l’aspetto formale, ma la parte figurativa e la parte scritta perdono completamente significato (spesso al posto di titolature imperiali troviamo delle lettere accostate senza alcun senso e il ritratto del re barbaro il più delle volte non è altro che l’immagine di un imperatore romano).


Col passare dei secoli la moneta rimarrà, se si eccettuano alcune piccole innovazioni, sostanzialmente identica a quella del modello romano. La più importante fra queste innovazioni può essere considerata la "zigrinatura": con questo termine si intendono quelle incisioni trasversali che ancor oggi si trovano lungo il bordo delle monete. Questo stratagemma volle porre rimedio, nel XVI secolo, al dilagante fenomeno della "tosatura": era infatti abitudine, per ottenere polvere di metallo prezioso, raschiare le monete d’ oro lungo il bordo, causando di fatto una diminuzione del peso delle monete stesse. Con la zigrinatura questa operazione divenne impraticabile, ed ancor oggi rimane sulle nostre monete una traccia di quel periodo in cui il valore delle monete era dato dal materiale di cui erano fatte.

Dopo il medioevo, con la ripresa degli scambi commerciali in terre sempre più lontane, sorge l'esigenza di trasportare grandi quantità di denaro da un capo all'altro del mondo per alimentare i commerci in misura adeguata. I commercianti che più si distinsero ed arricchirono con i commerci furono per lo più ebrei, che probabilmente per invidia incomincirono a subire attenzioni sempre più negative e pressanti di atteggiamenti ostili nei loro confronti, che si traducevano perfino in provvedimenti di spoliazione dei loro patrimoni.

Avviene per queste ragioni la seconda grande rivoluzione relativa al denaro: alcuni governi si offrono di tenere al sicuro, nei propri depositi, l'oro e gli altri preziosi degli ebrei perseguitati nei paesi di origine, rilasciando in cambio un certificato nominativo o al portatore, che rappresentava esattamente la quantità di oro depositata presso le loro casse. In particolare, l'Inghilterra di George I accolse presso di sé gli ingenti patrimoni di numerosi esuli ebrei dalla Francia, offrendo le più ampie garanzie di sicurezza e di stabilità che hanno dato origine alla tradizione bancaria e commerciale dell'Inghilterra che ancora oggi perdura.
Tutto questo fece nascere in parallelo la grande finanza e con essa la organizzazione finanziaria.

L'importanza grandissima che una buona organizzazione finanziaria ha per l'esistenza e lo sviluppo degli Stati trova una conferma anche nella storia del Medio Evo e più che altrove nella storia della monarchia tedesca, la cui poi debolezza nel tardo Medio-Evo è in gran parte dovuta alle sue malferme basi organizzative finanziarie (e come abbiamo visto in altri capitoli anche in quelle militari) ed alla conseguente scarsezza delle sue risorse.

La corona tedesca ricavava prima della fine del Medio Evo la quasi totalità dei suoi mezzi finanziari dai demani regi e dalle regalie, come quelle sulla moneta, sulle miniere, sul sale, sulla caccia e la pesca, ecc. Altre fonti di entrata erano le tasse di giustizia, multe e confische, e finalmente i dazi; questi ultimi si pagavano in parte per l'uso di opere pubbliche e vie di comunicazione (così i pedaggi su strade, fiumi e ponti, le tasse d'ancoraggio nei porti fluviali e marittimi), in parte a titolo di dazi di transito che si prelevavano in determinate dogane esistenti da tempi lontani su tutte le merci che vi transitavano e di solito consistevano in tutto o in parte in una quota della merce medesima; in parte ancora a titolo di tasse di mercato.

Ma queste fonti di entrata, nel loro complesso non indifferenti, la corona se le vide sfuggire. Mentre dalla prima metà del XIII secolo le sue spese aumentarono sia per il maggior lusso della corte sia per l'amministrazione che si fece più complicata, più burocratica, le entrate, come già visto, diminuirono: i demani andarono in gran parte a finire in mani estranee e le regalie anch'esse passarono quasi completamente nelle mani dei grandi vassalli laici ed ecclesiastici. Anche il diritto originariamente spettante al re di tornare a riscuotere personalmente le regalie concesse ad altri nei luoghi dove soggiornava, fu limitato dai tempi di Federico II ai luoghi dove si tenevano vere e proprie diete generali ed alla durata di queste diete. Tutto ciò scosse permanentemente le basi finanziarie della corona, perché essa non riuscì a sostituire le entrate così perdute mediante l'introduzione di imposte dirette regolari e stabili.

L'idea di arrivare ad un simile sistema di imposizione spunta ripetutamente, ma rimane in sostanza sempre allo stato di progetto, salvo qualche lieve concessione. Certamente il re nei luoghi dove era signore feudale diretto poteva prelevare la così detta « Bede » (sussidio) e così pure poteva esigere dalle città dipendenti direttamente dalla corona determinati contributi annui, cui Rodolfo d'Absburgo e successori aggiunsero in casi di ingenti necessità contributi straordinari; ma queste entrate non erano neppur lontanamente sufficienti alle crescenti esigenze dell'amministrazione e del governo dello Stato, di modo che i re in sostanza non poterono far calcolo se non sui redditi dei propri dominii personali.

All'inizio del XV secolo poi la crociata degli Ussiti provocò un nuovo tentativo di introdurre una imposta diretta generale per tutto il regno, allo scopo di mettere in grado la corona di provveder meglio alla difesa contro le disastrose invasioni dei boemi. Ma già vedemmo che il problema allora posto di una riforma finanziaria organica (che doveva anche provvedere ai bisogni militari) non arrivò ad alcuna soluzione.

A differenza di quanto avvenne per la corona i demani dei principi territoriali laici ed ecclesiastici si conservarono intatti. Vi si aggiunsero poi le regalie pervenute, come pure vedemmo, nelle loro mani. Ma alla lunga questi cespiti d'entrata non bastarono, soprattutto da quando la decadenza degli antichi ordinamenti militari costrinse a ricorrere alle costose truppe mercenarie ed anche le spese d'amministrazione aumentarono col crescere dell'apparato burocratico e col lusso invalso nelle corti. I principi perciò si rivolsero per aiuto agli stati dei loro territori; ed essi, all'inizio (nel XIII secolo) in alcuni principati e generalmente nel XIV e XV secolo ammisero il prelievo di una imposta diretta territoriale.

Si trattò tuttavia all'inizio di concessioni transitorie per coprire spese straordinarie, e lo stesso nome dell'imposta («Bede» - sussidio) indica che essa in antico non fu accordata che dietro apposita richiesta in singoli casi. Ma il nome perdurò anche quando l'imposta divenne ordinaria. L'importo della «Bede» venne messo assieme per lo più mediante imposte sui terreni e fabbricati urbani, per quanto già esistessero imposte sul reddito od analoghe.

Vi si aggiunsero poi ben presto dei tipi di imposte indirette, cioè imposte sul traffico («Ungeld»); esse risalgono al XIV secolo, ma acquistano una più perfetta organizzazione soltanto nel XVI e XVII secolo.

Un sistema finanziario più perfezionato di quello dei principati presentano già nel Medio-Evo le città tedesche, dove l'accentramento e la convivenza di una densa popolazione fece sorgere per forza stessa di cose maggiori esigenze d'ordine pubblico, mentre la necessità di difendersi da nemici esterni, il desiderio di sottrarsi sempre più completamente alla dipendenza dell'originario signore territoriale e di ampliare nel tempo stesso il territorio della città, la costruzione di edifici pubblici, chiese, palazzi municipali, magazzini di deposito, la costruzione e manutenzione di strade e ponti reclamata dai bisogni del traffico, indussero assai presto le classi dirigenti a cercare e stabilire sufficienti cespiti di entrate pubbliche, soprattutto in quei comuni ove il demanio cittadino (Allmende) dava scarso reddito.
D'altro canto le città presentavano pure le condizioni più favorevoli allo sviluppo del sistema tributario, sia perché vi predominava l'economia monetaria e vi era una certa quantità di capitale privato sin dal XIII secolo, sia perché entro la ristretta cerchia del circondario cittadino era più facile una ordinata amministrazione finanziaria che non nei territori. La riscossione delle imposte sui consumi e sul patrimonio era infatti nelle città assai più agevole.

Le entrate delle città pertanto erano tratte dai redditi del demanio comunale, che naturalmente non mancava mai del tutto, dalle multe e tasse giudiziarie, dalle tasse per l'uso di servizi pubblici, come la pesa pubblica, i magazzini di deposito, i posti di mercato, la moneta; più da redditi eventuali come le tasse per l'acquisto della cittadinanza, quelle che colpivano gli ebrei, ecc.

Il nucleo principale delle entrate ordinarie era però costituito dalle imposte, ed in tutte le città troviamo così imposte dirette come imposte indirette, sebbene nei dettagli le varie città presentino frequenti differenze.

La più comune é l'imposta diretta globale sul patrimonio, che investiva tutti i beni mobili ed immobili in proprietà o in godimento; ma é pure diffusa l'imposta indiretta sui prodotti di consumo; ad esempio a Strasburgo essa era il principale cespite di entrata. Qui incontriamo pure una accisa generale sul commercio all'ingrosso; tanto il venditore quanto il compratore dovevano pagare una forte percentuale per le merci che venivano introdotte nei magazzini pubblici di deposito per lo smercio all'ingrosso, e l'elevatezza del tributo dimostra che non si trattava di un compenso per l'uso dei depositi, ma di una vera e propria imposta. (qualcosa di simile fu nel tardo '800 introdotta anche in Italia con la famosa "tassa sul macinato" che sì andava a colpire le fasce più deboli della popolazione (con il prodotto finale che era il pane), ma del resto questa fascia comprendeva milioni di consumatori e "se la matematica non è un'opinione" disse un zelante ministro (rendendo famosa la frase), il gettito della tassa portava un enorme contributo alle casse erariali; e per eliminarla pochi avevano idee di come sostituirla)

Inoltre vediamo nelle città funzionare le dogane con ogni sorta di dazi di importazione e di esportazione. Si hanno poi ancora tasse di macinazione e di vinificazione (tassa sugli spiriti, anche questa introdotta in Italia a fine '800), e verso la fine del Medio-Evo le città monopolizzarono il commercio del sale (idem come sopra) e del ferro.

Le principali spese delle città negli ultimi secoli del Medio Evo furono provocate dalle esigenze militari e dall'assoldamento di mercenari, dalle costruzioni di edifici pubblici, dalle fortificazioni, dalla manutenzione delle strade, dalla sorveglianza in città, dai viaggi diplomatici ed ambasciate, da donativi ed altre elargizioni e finalmente dalle frequentissime e dispendiose festività organizzate a spese pubbliche.
Le spese di culto e per l'istruzione pubblica furono invece prevalentemente sostenute dalla chiesa, quelle di assistenza ai poveri e le spese ospitaliere dai privati. Per converso gravano ancora sul bilancio cittadino le spese per gli impianti e servizi diretti ad agevolare il commercio, come pure la cura della salute pubblica richiese per lo meno il mantenimento di un medico comunale e di una farmacia.

Per le città poi che appartenevano ad una lega, si ebbero spese provocate da questa situazione; e finalmente non vanno dimenticate le contribuzioni dovute all'impero od al re.
Nelle città si sviluppò precocemente il debito pubblico. I prestiti assunsero o la forma di emissione di titoli di rendita di cui la città si riservava il riscatto dopo un certo periodo di tempo, o sotto forma di costituzione di rendite vitalizie che si estinguevano alla morte del titolare. Molte città fecero dei prestiti quasi annualmente; Amburgo ad esempio nel 1370 ebbe a pagare interessi per circa 10.000 lire, nel 1400 circa 12.000 lire; nel 1376 estinse debiti per circa 34.000 lire e nel 1378 per circa 28.000 lire. Più elevati ancora furono i debiti contratti da questa città sotto forma di costituzione di vitalizi nella seconda metà del XV secolo; dal 1461 al 1496 essa pagò annualmente circa 18.000 lire di rendite e nello stesso periodo estinse per più di 400.000 lire di debiti. Anche in misura maggiore di Amburgo ricorse al credito Colonia dagli ultimi decenni del XIV secolo alla fine del Medio-Evo; circa il 20 del fabbisogno finanziario essa se lo procurò col mezzo di prestiti.

FRANCIA - In antitesi a quanto avvenne per la corona tedesca, la corona francese nel corso del Medio-Evo non solo mantenne integro il suo demanio, ma lo aumentò in maniera da poter estendere la propria influenza su tutto il paese e da essere in grado di imporsi a tutti gli altri signori territoriali.
Oltre i redditi del demanio la monarchia francese poi ricavava una quantità di entrate dalle prestazioni feudali e dalle regalie, fra, le quali particolarmente fruttifera quella della zecca soprattutto finché la corona ebbe la zecca e quindi il diritto di fissare a proprio arbitrio il valore della moneta.

In seguito anche in Francia si aggiunsero le vere e proprie imposte; all'inizio a titolo di sussidi straordinari, poi a titolo di tributi normali. In momenti difficili i re francesi usarono l'imposizione di tributi di questo genere dagli stati generali, i quali spesso pretesero, come ad es. nell'epoca tempestosa di re Giovanni, di farle riscuotere da propri delegati.

Ma dopo la pace con l'Inghilterra non si ha più una seria ingerenza degli stati generali in questa materia; i re impongono od inaspriscono a loro volontà i tributi e li fanno riscuotere da propri stipendiati funzionari.
Nel tardo Medio-Evo fra questi tributi campeggia la «taille», che spuntò nell'XI secolo e nel XIV e XV secolo divenne la principale imposta diretta cui sottostava la popolazione contatina e cittadina, salvo l'esenzione dei nobili, del clero e di alcuni privilegiati.

Inoltre sulla fine del Medio-Evo vennero riordinate, generalizzate e moltiplicate le imposte indirette (le così dette « aides »), specialmente le imposte sui consumi e sul traffico. I dazi, che il re regolava anch'essi a suo pieno arbitrio, erano in parte dazi d'esportazione riscossi ai confini dello Stato, in parte dazi interprovinciali.
Di più l'introduzione delle merci nelle città era soggetta al così detto «octroi», che andava a favore del comune, ma sul quale spettava al re una certa percentuale. Forma particolarmente rigorosa acquistò l'imposta sul sale (gabella) nel senso che lo Stato fece un suo monopolio esclusivo del commercio del sale; dal 1350 tutto il sale proveniente dai luoghi di produzione fu accumulato in magazzini pubblici appositi, dai quali i cittadini erano costretti ad acquistare determinate quantità della merce a seconda della composizione delle varie famiglie o del piede di casa che mantenevano.

 

In INGHILTERRA la monarchia normanna perfezionò il sistema finanziario anglo-sassone che aveva a cespiti di entrata i vasti demani e le molteplici regalie della corona. Con l'introduzione della feudalità un nuovo cespite ebbe la corona nelle prestazioni dei vassalli; e, dato il grande numero di costoro, il reddito era molto cospicuo.

Nel XII secolo vi si aggiunse lo « scutagium », una tassa che i vassalli pagavano per essere esentati dal servizio militare inerente ai loro obblighi feudali. Essa aveva la forma di una imposta sulle terre tenute in feudo e tale rimase sino al XIV secolo; poi questo tributo, al pari del «tallegium» (imposta sul patrimonio mobiliare che il re prelevava dagli abitanti dei suoi demani in caso di bisogni straordinari) si fuse nell'imposta generale sui beni che, spuntata già nell'epoca normanna, investì all'inizio tutto il patrimonio immobiliare e poco dopo anche i beni mobili.

La quota della tassa mobiliare da prestarsi era stabilita da commissioni locali in base alla denunzia giurata dello stesso contribuente circa la consistenza del suo patrimonio mobiliare, dal quale venivano sottratti determinati oggetti. Dal 1300 l'organizzazione delle imposte dirette acquistò la tendenza a conglobare tutte le imposte reali in una imposta generale fondiaria e tutte le imposte personali in una generale imposta proporzionale sul reddito.
Il tasso fu del quindicesimo e del decimo. Accanto a queste incontriamo imposte straordinarie; nel 1377 si ha per la prima volta un prelievo che investe tutte le persone d'ambo i sessi d'età superiore a 14 anni; nel 1407 una tassa di famiglia; nel 1435 una specie di imposta progressiva sul reddito con esenzione dei redditi minimi.

Qualcosa di mezzo tra l'imposta ed il prestito rappresentano le così dette «benevolences», che si riscuotevano da singole persone ricche o mediante esibizione di favori e concessioni da parte della corona, od anche con minacce e persino con la forza; esse spuntano nel XV secolo e servono alla corona per far denaro senza ricorrere al parlamento.

Le imposte indirette nell'Inghilterra medioevale assumono le forme di dazi di confine; dazi interni non ne esistono. Sino dal XIII secolo spettò al re il diritto di imporre od inasprire i dazi; ma già nella Magna Charta si rileva lo sforzo degli stati del regno di assoggettare al proprio consenso per lo meno l'introduzione e l'inasprimento di futuri dazi; ed essi ottennero ciò nel 1297.

Dal XV secolo i dazi si utilizzarono pure a scopo protettivo, tassando in complesso i mercanti stranieri più dei nazionali. Sopra tutto Enrico VII, il fondatore della monarchia assoluta dei Tudor, organizzò gelosamente la riscossione dei dazi, obbligando i funzionari delle dogane a rendere preciso conto del denaro che incassavano e facendoli sorvegliare con rigore; con tale mezzo e con altri provvedimenti egli fece sì che le dogane divennero il cespite principale delle entrate dello Stato inglese. E non solo dello Stato.

Ben presto i nobilotti inglesi si accorsero che se il denaro depositato presso le proprie casse fosse rimasto per un periodo di tempo determinato per contratto, avrebbero potuto emettere certificati a tempo per prestare quel denaro a chi ne avesse fatto richiesta offrendo ovviamente solide garanzie di restituzione. In questo affare coinvolsero anche i depositanti ai quali, invece di chiedere una somma per il deposito, cominciarono a dar loro un interesse sulle somme depositate.
In un battibaleno nacquero così le prime grandi banche londinesi, che non tardarono ad accorgersi di un altro trucco: poter accettare in deposito non solo oro o altri preziosi, ma anche certificati emessi da esse stesse o da altre banche e da utilizzare anch'essi per concedere prestiti. E poiché il rischio che i depositanti si presentassero subito a reclamare la restituzione del deposito versato era assai improbabile, subito ci si accorse che la quantità di prestiti che si potevano fare era tanto più grande quanto più si poteva aumentare il denaro in circolazione. Attraverso questa dinamica ci si accorgeva che la banca era un po' come un dio: emettendo certificati su certificati, cioè note di credito su note di credito, essa creava un altro dio, il "dio denaro".

Ma fanno di più, si inventano la banconota (già conosciuta in Cina nel X secolo).

Il termine banconota nasce proprio per indicare una nota di credito. Essa è emessa da una banca come carta recante da un lato l'importo espresso del credito, e dall'altra (proprio come avviene nel retro delle cambiali e degli assegni) lo spazio riservato alle girate dei relativi possessori.
Quiesto all'inizio, poi alcuni certificati cominciarono ad essere emessi senza l'indicazione del nome del beneficiario. Divenivano quindi utilizzabili da chiunque li portasse in banca (al portatore). La loro circolazione era evidentemente molto più agevole di quella dei certificati nominativi, che necessitavano di una girata per ogni passaggio di mano, e pertanto, le banche cominciarono ad emettere grandi quantità di certificati al portatore che erano universalmente accettati come denaro perche la banca che li emetteva era conosciuta, cioè "ben nota". Recava perfino la firma del proprietario o governatore della banca

Nasce in questo modo la "banco-nota", o moneta cartacea, che fino a ieri portava stampata una frase caratteristica. Su tutte le banconote, infatti, vi era scritta la dizione "pagabile a vista al portatore" che riguardava tale antica funzione, ma che poi a partire da inizio secolo XX, è divenuta del tutto falsa, al punto che con l'avvento delle nuova monete è stata perfino eliminata.

Chi ancora oggi crede che la base della moneta cartacea sia l'oro, si tolga davvero questa idea dalla testa. Non c'è più alcuna corrispondenza tra la moneta in circolazione e oro (o altri preziosi depositati presso le casse dello Stato).
Secondo J. Maynard Keynes, il famoso economista padre delle moderne teorie economiche applicate dalla maggioranza dei governi mondiali, negli anni trenta tutto l'oro del mondo non superava le 50.000 tonnellate di materiale.
Oggi (anni 2000) le riserve di oro dei paesi del mondo non superano le 200.000 tonnellate.

Eppure il corrispettivo in oro di tutte le banconote e gli equivalenti monetari che girano per il mondo ai prezzi correnti ammonta a un corrispettivo di 75.000.000 di tonnellate di oro.
Non è uno scherzo: settantacinque milioni di tonnellate! Che ovviamente non esistono... perchè è circa di 400 volte quello che possiede l'intero pianeta.
E' dunque evidente che non è possibile usare l'oro come base monetaria, così come accadeva fino alla grande crisi del 1929.

Subito dopo tale crisi vennero emanate in tutti i paesi del mondo leggi che vietavano la conversione delle banconote in oro e che al tempo stesso consentivano solo allo Stato di emettere banconote aventi valore legale.
Nonostante il divieto di conversione, rimase però un legame tra l'emissione di banconote e l'oro (o valute o titoli che comunque rappresentassero l'oro).


Dopo qualche anno, al termine della seconda guerra mondiale, gli Stati del mondo disegnarono un nuovo sistema monetario in un'anonima località americana, Bretton Woods. In questo nuovo sistema, tutte le monete erano convertibili nel dollaro e "solo questo" era convertibile in oro. Allo stesso tempo fu istituito il Fondo Monetario Internazionale (FMI), con lo scopo di venire in soccorso a quei paesi che non potessero sostenere la parità determinata a Bretton Woods tra le monete.

Tali accordi ebbero principalmente tre conseguenze: Gli Stati Uniti cominciarono a stampare più dollari che giornali, dato che era la loro moneta a garantire l'equilibrio del sistema mondiale.

Tutti gli Stati del mondo costituirono riserve per l'emissione di banconote utilizzando dollari, di cui c'era sul mercato finanziario una grande offerta. All'inizio degli anni Settanta l'80 per cento delle riserve valutarie di tutti gli stati del mondo erano costituite da dollari.
Il FMI controllava le politiche economiche di tutti i paesi del mondo attraverso il ricatto della leva monetaria. Stati Uniti ed Inghilterra avevano contribuito con l'80% di propri versamenti alla costituzione del FMI, e pertanto (ovviamente) ne condizionavano l'attività in maniera determinante.

Il sistema resse senza particolari scossoni fino al 1970. Ogni tanto il FMI interveniva a "aiutare" paesi in difficoltà con il cambio della propria valuta, obbligandoli a politiche keynesiane per renderli più docili e sottomessi agli interessi delle potenze occidentali.

Il crac si ebbe quando i paesi aderenti all'OPEC, ovvero il cartello dominato dagli arabi dei paesi produttori di petrolio, decisero di aumentare considerevolmente il prezzo del barile (che quadruplicò in pochi mesi) e di rifiutare i pagamenti in dollari, pretendendo il pagamento in oro. I paesi dell'Occidente che, come accennato, avevano riserve in gran parte costituite da dollari, cercarono di cambiare questi dollari e farsi restituire l'oro che avrebbe dovuto essere custodito nei forzieri di Fort Knox, per poter fare fronte ai propri debiti. Ma gli americani non avevano oro a sufficienza, dato che già allora il totale del circolante era di gran lunga superiore all'oro esistente su tutta la terra.


Il presidente Nixon decise (!!!) così, l'abrogazione unilaterale degli accordi di Bretton Woods, svincolando il dollaro dal cambio con l'oro.

Questa data, l'agosto del 1971, costituisce una pietra miliare nella storia del denaro: è il momento cruciale per comprendere la vera natura della moneta, poiché da allora, il denaro fu definitivamente svincolato da ogni relazione con l'oro, sia pure da quel farraginoso ed indiretto sistema di conversione escogitato a Bretton Woods.

Da allora, i paesi hanno continuato a stampare denaro, fondandolo senza una base "solida". Questa base è solo "carta", e come tale potrebbe riverlarsi "carta straccia". Ma c'è di peggio, con l'introduzione dell'informatica è nata la "moneta vituale", che è ancora meno della carta straccia. E' il progresso dicono alcuni, è il regresso dicono altri e che l'antica moneta legata all'oro, solo questa era una garanzia.

Chi ha ragione lo sapranno solo i nostri pronipoti, e forse anche loro rimpiangeranno le antiche monete medievali.

 

LE MONETE MEDIEVALI

Le principali monete medievali:
AMBROSINO: nome comunemente usato per le monete coniate a Milano e riproducenti l'effigie di sant'Ambrogio. Vennero coniate per la prima volta durante la I Repubblica Milanese (1250-1310).
BAIOCCO: moneta di rame in circolazione nello Stato pontificio. Equivaleva alla centesima parte dello scudo.
CARLINO: si dissero così in Italia le monete coniate da principi di nome Carlo. La prima moneta cui venne dato il nome i carlino è un grosso d'argento con la salutazione angelica coniato a Napoli tra il 1268 ed il 1278 da Carlo I d'Angiò.
DENARIO: moneta tipica di tutte le zecche italiane. Fu coniata per la prima volta da Carlo Magno nel 794 ed equivaleva alla 240a parte della libbra carolingia. Con il consolidarsi dei governi dei Comuni (XIII secolo) il denaro nel corso degli anni diminuì di peso e di qualità.
DUCATO: moneta d'oro coniata per la prima volta in Venezia dal doge Giovanni Dandolo nel 1284.
FIORINO: la repubblica di Firenze, nel 1252, coniò una moneta d'oro puro che prese il nome di fiorino d'oro. La moneta recava al diritto l'effigie di San Giovanni e al rovescio il giglio di Firenze.
GROSSO: nome dato a ogni moneta che conteneva un valore aggregato di più monete. Al nome generico si univa il nome della città che lo aveva coniato.

PIASTRA: nome usato generalmente per indicare le grandi monete di argento.
SCUDO : nome genericamente usato in tutti i tempi per indicare una grande moneta d'argento.
TALLERO: moneta d'argento tedesca originaria della Boemia, regione in cui venne coniata per la prima volta. Furono chiamati talleri molte monete coniate da zecche italiane, tra cui Modena, Firenze, Venezia ecc.
ZECCHINO : il Doge Pietro Lando fece coniare un ducato d'oro in «oro di zecca», che fu detto dapprima ducato zecchino e in seguito solo zecchino.

LIRA: deriva il suo nome dal latino libra. Istituita da Carlo Magno, fu per molto tempo solo una moneta di conto, e valeva 20 soldi da 12 denari l'uno. Divenne moneta reale nella seconda metà del XV secolo in diversi principati italiani; la lira veneta (1472), la lira milanese (1474), la lira di Genova (1498), la lira toscana (1539), la lira di Savoia (1561), la lira di Modena (1611), la lira di Bologna (1655).
Successivamente la lira divenne moneta legale della Repubblica Italiana creata da Napoleone. Fu poi ripresa la coniazione con questo nome nel Regno Unito d'Italia e fino al 1914 corrispondeva a g. 0,29983954 di oro fino. Nel 1927 il contenuto di oro era di 0,07919113 corrispondente ad un cambio di lire 90 per sterlina inglese. A partire del 1960 la parità aurea della lira concordata col Fondo Monetario Internazionale era di g. 0,00142187, corrispondente ad un cambio di lire 625 per dollaro USA. Ma coma già ricordato sopra nel 1971 fu svincolato il cambio del dollaro con l'oro. La lira rimase fluttuante e poi termina la sua esistenza il 31 dicembre 2001.
Il 1° gennaio 2002 - L' EURO entra in circolazione come unica moneta a corso legale nei 12 Paesi aderenti alla Comunità Europea, quindi compresa l'Italia.

Lasciamo ora questi accenni ai tempi moderni
necessari per capire qualcosa di più
e ritorniano al nostro fine Medio Evo con ...

LA DECADENZA DEI CAVALIERI > >

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