-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

144. LUIGI XIV, IL PERIODO EROICO


La fanciullezza di Luigi XIV (nato il 1638, figlio di Luigi XIII e di Anna d'Austria) era vissuta senza amore. Rimasto a 5 anni privo del padre, trascurato dalla madre, che divideva il suo tempo tra la devozione, gli affari di Stato e le sue relazioni col Mazarino, non aveva mai provato quelle gioie che provengono dall'amore dei genitori. Mentre cresceva occupò il suo spirito vivace negli esercizi militari, negli studi letterari, che rimasero, a dire il vero, molto imperfetti, e nella caccia. Lo stesso cardinale lo istruì negli affari di Stato e gl'insegnò a fondo i principi di un illimitato assolutismo regio e di una politica di conquista senza scrupoli.
Il giovane monarca con fiducia illimitata lasciò a questo suo secondo padre la direzione dello Stato.
Ma il 9 marzo 1661 morì il cardinale Mazarino. Al mattino del giorno seguente il 23 enne Luigi si presentò ai ministri stupefatti con questa dichiarazione: «Signori, io vi ho radunati per dirvi che ora è tempo che governi io stesso. Voi mi aiuterete col vostro consiglio, tutte le volte io lo chiedo. Io vi proibisco di sottoscrivere senza il mio ordine anche la minima cosa, fosse pure un passaporto; mi renderete conto di tutto personalmente ogni giorno e non favorirete alcuno in modo speciale».
Così cominciò il governo personale di Luigi XIV.

Fin dal primo istante dimostrò di possedere quel dono veramente regale di scegliere con acuto sguardo i suoi principali funzionari, gli uomini più adatti e di maggior talento e di mettere ciascuno al suo vero posto. Nei primi decenni del suo regno governò la triade Lyonne, Louvois e Colbert.

Ugo di Lyonne aveva un carattere genialmente combinato; ardente in tutte le sue azioni, non sapeva contenersi nel lavoro e nemmeno nei piaceri. Il suo spirito vivace ed acuto, sorretto da una grande cognizione degli affari, gli risparmiava veramente molta pena. Per quanto fosse trascurato nei particolari, sapeva ideare importanti disegni politici con accorta maestria. Un brillante stato maggiore di eccellenti diplomatici lo serviva; il Pomponne, lo Chanut, il Feuquière, i due conti di Avaux, prozio e bisnipote, e molti altri lasciavano sperare sempre una zelante e capace esecuzione degli ordini del ministro.

Molto più celebre del de Lyonne è Francesco Michele LE TELLIER, che avendo comprato un dominio divenne marchese di Louvois. Figlio di un ministro di Luigi XIII e XIV, nato nel 1641, già nel suo ventesimo primo anno di età fu associato al padre per gli affari dell'amministrazione della polizia e dell'esercito, più tardi, dal 1668, ministro della guerra.
Uomo senza sentimento morale, schernitore fino al cinismo, per intima inclinazione violento e brutale, Louvois come politico si è reso colpevole di molti errori e delitti, ma come amministratore fu impareggiabile, pieno di sano giudizio e dotato di una chiara percezione delle circostanze, avverso ad ogni cosa fantastica, con una provvista limitata d'idee, ma abile in modo meraviglioso ad adattarle alle circostanze e ad attuarle. Instancabile negli affari, non rifuggiva dal toglier di mezzo tutti gli ostacoli anche con la violenza brutale. Distrusse i residui ancora considerevoli dell'organizzazione feudale nelle cose dell'esercito, ordinò questo interamente sotto il potere centrale ed impedì con un esatto e attivo riscontro le frodi e le malversazioni esercitate; fino allora in grandi proporzioni dagli ufficiali superiori, nonostante il risentimento vivace quanto inutile di quei nobili signori. L'uniforme e l'armamento dei soldati furono regolati esattamente. Così l'esercito fu trasformato di fatto in una massa omogenea e la disciplina fu fatta rigorosamente osservare.

Louvois ha esercitato una notevole influenza su tutto lo sviluppo militare dell'Europa. Per la prima volta raggruppando vari reggimenti in brigate, ha creato questa unità tattica più elevata, indispensabile, dato il rapido accrescimento numerico degli eserciti stanziali. Ha organizzato militarmente e in modo permanente le armi speciali, ispirando ad esse uno spirito soldatesco. Un continuo esercizio fece dell'esercito francese il modello di tutti quelli d'Europa.

Per numero superava quanto fino allora si era mai visto. Contava 47.000 cavalieri, 10.000 dragoni - allora soldati a piedi, che furono poi promossi nella cavalleria - e 220.000 soldati di fanteria. Anche le armi furono del tutto riformate; al posto delle picche e dei pesanti moschetti Louvois introdusse un'arma che vantaggiosamente le sostituiva ambedue: il leggero fucile a pietra con la baionetta, inventata a Baiona. Il mantenimento di questo immenso esercito fu assicurato con un eccellente e ordinato servizio di magazzini, la sorte dei soldati feriti e malati con ospedali militari e con l'istituzione in Parigi della grande casa per gl'invalidi.
La prima misura aumentò la mobilità e la prontezza, la seconda il coraggio dell'esercito. Finalmente contro le conseguenze delle disfatte la Francia fu protetta dall'arte geniale delle fortificazioni del suo maresciallo Vauban, che creò alle frontiere del regno più di trecento baluardi, appena superabili dagli ingegneri di quel tempo.


Le Tellier e Colbert


Il terzo di quei grandi ministri, Giov. Battista COLBERT, nato nel 1619 e figlio di un mercante di panni, era passato dal servizio privato del Mazarino poi a quello dello Stato. Di una incredibile perseveranza, lavorando spesso sedici ore al giorno, incominciò ad organizzare la Francia nel senso di un assolutismo illuminato. Ordinò con chiarezza e semplicità le finanze dello stato, ma con rigore inesorabile verso i funzionari disonesti ; sebbene diminuisse le imposte, si procurò un avanzo annuale di 15 milioni di lire. Fu inoltre il vero fondatore della flotta francese da guerra, che da tutti i suoi predecessori era stata terribilmente trascurata. Al commercio marittimo francese, profondamente decaduto, rivolse cure intelligenti. L'esportazione per mare si faceva fino al suo tempo quasi soltanto su bastimenti olandesi; quando Colbert per mezzo di premi incoraggiò la costruzione di bastimenti nazionali e colpì con una tassa sul tonnellaggio quelli stranieri, che andavano nei porti francesi, lo stato delle cose mutò in gran parte e la marina francese di commercio divenne la terza del mondo.

Fondò inoltre secondo la consuetudine di quel tempo, molte compagnie sostenute dallo Stato, che ottennero un monopolio per il commercio con le varie parti del mondo. La più importante era la compagnia delle Indie orientali (1664), che ben presto gareggiò con gli Inglesi e con gli Olandesi nei paesi del Gange e nel Deccan.
In genere Colbert si adoperò con viva sollecitudine ad estendere l'impero coloniale della Francia, che alla sua morte se non era il più fiorente era però il più vasto di quel tempo, col Canadà come con la Luisiana, vale a dire con tutti i paesi del Mississippi, abbracciava la maggior parte dell'America del nord. Le colonie francesi come quelle di tutti gli altri Stati marinari, furono, com'è naturale, semplicemente sfruttate a vantaggio della madrepatria.

Furono ugualmente degni di lode gli sforzi di Colbert per il miglioramento dei mezzi di traffico, specialmente delle vie per terra e per acqua. La costruzione del gran canale della Linguadoca, che unisce la Garonna e per suo mezzo l'Oceano Atlantico con un certo numero di fiumi che si versano nel Mediterraneo, una massima e popolarissima tra le opere di Luigi XIV, fu terminata da Colbert. Immense furono le difficoltà e grandissima la spesa: diciassette milioni di livres. Questa costruzione durò 17 anni. Ma Colbert perseverò fino al termine; il 19 maggio 1681 in mezzo a grandi feste il canale fu inaugurato e fino ai nostri giorni ha reso servizi essenziali al traffico, all'agricoltura e all'industria delle province del sud-ovest.

Colbert si dimostrò accentratore così nel campo amministrativo come in quello commerciale. Per infrangere definitivamente la potenza dell'alta nobiltà, che nelle guerre della «fronda» si era sollevata ancora una volta minacciosamente, spogliò i governatori aristocratici delle province di tutte le funzioni, che fino a allora restavano e che trasmise agli intendenti, funzionari civili allora ristabiliti e del tutto dipendenti dal ministro.
Questi divennero anche più potenti che non sotto Richelieu e assunsero anche l'amministrazione dei comuni. Così per mezzo degli intendenti e dei loro impiegati subordinati, il potere centrale divenne assolutamente dominante. Anche l'indipendenza dei giudici fu limitata per quanto era possibile e furono del resto pubblicati nuovi eccellenti codici.

Una forte polizia regia tenne a freno la capitale e pose ad effetto ogni capriccio del dispotismo del re o dei ministri. Un ordine regio di gabinetto (lettre de cachet) bastava perchè l'individuo indicato fosse mandato in prigione senza processo per un tempo indeterminato. Il numero di questi prigionieri per arbitrio superiore dai documenti del tempo appare terribilmente grande, sebbene nemmeno tutti vi fossero citati.

Gli Stati generali del regno non furono più convocati, quelli provinciali videro limitati i loro diritti a quelli di petizione e di ripartizione delle imposte. Con questo tutta la legislazione e la fissazione delle pubbliche tasse fu senza alcun limite nelle mani del re e dei suoi ministri. La nobiltà si dovette raccogliere intorno al monarca, entrare al suo servizio, ricercare il suo favore. In tutti i particolari della vita dei sudditi s'ingerì allora il governo e lo Stato fondato sulla polizia raggiunse uno sviluppo veramente ideale, che divenne il modello delle burocrazie autoritarie in quasi tutti gli Stati del secolo XVII e XVIII.

La vita individuale, la libertà di parola, l'autonomia provinciale e comunale furono violentemente soffocate. Questo sistema ha prodotto anche del bene per l'ordine preciso, la puntualità e le vedute generali che traeva con se, e soprattutto ha fornito allo Stato francese mezzi di governo immensi e pronti. Ha però dato al carattere francese un'impronta di uniformità secondo un modello determinato, ha paralizzato l'iniziativa personale e, ponendo ogni singola cosa immediatamente e in tutti i rapporti sotto l'opprimente azione dello Stato, ha irritato il popolo contro questo e specialmente contro la monarchia.

Anche in altra maniera i modi di governo propri di quel tempo hanno causato e ingrossato la rivoluzione. Mentre di fatto toglievano alla nobiltà tutti i suoi doveri politici, le lasciavano però i suoi privilegi sociali. Essa soltanto formò la Corte, fu preferita nei confronti dell'esercito, provveduta di pensioni di favore, fu esente da ogni imposta diretta e poté sfruttare i suoi contadini con servizi e tasse.
Finché il proprietario di terre era stato ad un tempo un'autorità politica, si erano trovati naturali questi privilegi; ma quando la nobiltà non rese più alcun servizio speciale, essi parvero innaturali, oppressivi e odiosi.

Colbert é il seguace più ingegnoso e logico del «sistema mercantile», concetto di economia politica, che cerca la ricchezza di una nazione esclusivamente nella quantità più grande possibile di denaro contante, che si deve attirare più che si può nel proprio paese con un grande sviluppo dato all'industria e al commercio e lasciar uscire verso l'estero una quantità minima.
L'agricoltura, che smercia i suoi prodotti molto più lentamente e pare condannata dalla natura a una certa stabilità, fu perciò meno apprezzata. Fedele a queste idee mercantili, Colbert aggravò l'agricoltura a favore dell'industria e del commercio. L'importazione dei prodotti dell'industria straniera, che avrebbero potuto far concorrenza a quelli francesi, fu resa quasi impossibile dagli alti dazi della tariffa doganale del 1667, che nel tempo stesso impediva l'esportazione delle materie grezze per riservarle a buon mercato per la fabbricazione nazionale.

Divieti occasionali di esportazione o imposizione di elevati dazi di uscita mantenevano particolarmente il prezzo dei cereali a un livello basso e non remunerativo, e questo anche per tenere a basso prezzo la mano d'opera nelle fabbriche e nei mestieri. I contadini per questo abbandonavano spesso il lavoro dei loro campi, dal quale specialmente date le imposte esorbitanti, non potevano sperare alcun profitto. D'altra parte non si può negare che Colbert abbia ottenuto molto promuovendo e incoraggiando l'industria della Francia, soprattutto la grande industria, che sì aumentava ma a spese dei piccoli e numerosissimi artigiani.
Per mezzo di privilegi e di sussidi di molto denaro, o attirando in Francia maestranze e capi operai, Colbert ha ravvivato l'industria dei panni, dei filati, dei cuoi e della seta e creato la manifattura dei vetri e dei pizzi. Tuttavia molte di queste fabbriche scomparvero dopo la morte del ministro.

Tutti i despoti furono di parere che si dovessero render felici gli uomini anche contro la loro volontà; senza darsi pensiero di lamenti e di proteste Colbert costrinse maestranze e fabbricanti a certe manifatture da essi non volute e li assoggettò a minuziosi regolamenti e alla sorveglianza d'impiegati regi. I suoi metodi furono imitati dalla maggior parte degli altri Stati ed ebbero per conseguenza dovunque un fiorire artificiale e passeggero dell'industria a spese della maggioranza agricola dei popoli, l'oppressione della piccola industria da parte della grande, e finalmente i primi scioperi e i primi disordini operai.

Noi dobbiamo giudicare l'opera di Colbert non dal punto di vista odierno, ma da quello del suo tempo. Non potremo allora rifiutare la nostra ammirazione ad un uomo, che alla realizzazione delle idee, da lui stimate profittevoli alla monarchia e al paese, ha dedicato un'attività instancabile, un'acuta sagacità, delle cognizioni estese e una tenace perseveranza. Dei suoi provvedimenti duri e crudeli si deve dare colpa meno a lui che alle guerre continue del suo signore, contro le quali espresse critiche abbastanza spesso con grande franchezza ma senza risultato.

Non si deve credere che Luigi XIV abbia abbandonato i pubblici affari senza controllo ai suoi eminenti ministri, facendo la parte di sovrano ozioso. Rimase invece fedele al programma esposto nel primo giorno del suo governo. I suoi ministri dovettero in ogni caso lasciargli l'ultima decisione e non poterono mai elevare la più minima pretesa a una qualche indipendenza. Il suo tempo era esattamente ripartito in modo che i piaceri non disturbassero il disbrigo diligente e puntuale degli affari di stato. Tra quelli amava specialmente la caccia; inoltre il predisporre e sorvegliare la costruzione di edifici, tra i quali egli ingrandì ed abbellì la villa di Versailles, la cui posizione gli piaceva moltissimo.

Del resto lavorava continuamente. Un tatto sicuro, un giudizio sano e giusto, a lui accordati dalla stessa natura, supplivano in lui per buona parte al difetto di cognizioni positive, che del resto, quando gli era possibile, cercava di rendere compiute.
Mentre era già re imparò il latino, specialmente per intendere le scritture della cancelleria pontificia. L'ardente zelo religioso, che egli dimostrava con i fatti, non gl'impedì, a dire il vero, di darsi ad innumerevoli amori, ad onta delle lacrime della madri e della consorte. Tuttavia non concedette mai alle sue favoriti alcuna influenza sugli affari di Stato.

Avvalendosi di un'amministrazione accentrata, di finanze egregiamente ordinate e di un esercito così numeroso quanto eccellente, di una frontiera difesa da centinaia di fortezze, e in tutte queste cose di gran lunga superiore ad ogni altra potenza, la Francia di Luigi XIV poteva intervenire negli avvenimenti mondiali con potere irresistibile. E Luigi si era proposto come fine, nulla di meno che di essere la potenza predominante della Cristianità, di avere arbitrium rerum come si esprimeva il Leibnitz.

Tra tutti gli affari, chi tenevano occupato il re, nessuno era così importante per lui, come la sua intenzione d'impadronirsi in tutto o almeno in parti considerevole della monarchia spagnola, allora presso a poco disarmata. La speranza di ottenerla pacificamente, quale eredità dovuta alla sua consorte, fu resa vana dalla nascita di Carlo, figlio di Filippo IV. D'allora in poi egli cercò d'impadronirsene pezzo per pezzo.
Morto il suocero Filippo IV (17 settembre 1665), espose la sua richiesta che le province meridionali del Belgio ricadessero alla sua consorte per il così detto diritto di devoluzione, - privilegio puramente privato dei figli di un primo matrimonio, che esisteva in varie parti del Belgio. Poiché naturalmente la Spagna non riconobbe una simile pretesa, Luigi invase il Belgio, conquistò una serie di fortezze importanti e costrinse il governo spagnolo a cedergli queste nella pace di Aquisgrana (2 maggio 1668).

Però non era ancora contento di questo risultato. Se aveva conseguito un guadagno importante, non aveva tuttavia fatto una provincia francese di tutti i Paesi Bassi spagnoli. Questo successo imperfetto fu da lui soprattutto attribuito all'ostilità della pubblica opinione in Olanda, che aveva trascinato con se i reggenti di quello Stato, costringendoli ad entrare in una lega - la triplice alleanza - con l'Inghilterra e la Svezia, per porre un argine all'ambizione francese.
Luigi XIV decise di vendicarsi di ciò su quegli alteri mercanti, su quell'audace ripubblica di cittadini. Egli inoltre mal sopportava che il commercio marittimo francese, che allora cominciava a svilupparsi, fosse tenuto dalla marina olandese entro confini ristretti, che il protestantesimo, la tolleranza generale, la libertà di stampa non censurata in Olanda, dissero in ogni circostanza umiliazioni e noie al suo dispotismo.
Tuttavia per le rimostranze dei suoi ministri attese pazientemente, finché la sottile diplomazia di Lyonni non ebbe avvolto da ogni lato la sua vittima e finché Louvois e Colbert non ebbero messo a sua disposizioni in misura completa i mezzi di sfogare la sua sete di vendetta.

Una tale guerra di conquista per parte della Francia avrebbe dovuto unire tutti i popoli d'Europa per correre al riparo. Il pericolo di esser vittime della prepotenza francese, se non si unissero al momento giusto per una comune resistenza, era davanti agli occhi di tutti. Tuttavia Luigi e i suoi consiglieri facevano assegnamento sulla profonda confusione degli Stati principali di quel tempo.

La Germania in seguito alla pace di Wesfalia si era scomposta in un gran numero di domini indipendenti di fatto. Non deve meravigliarci che l'imperatore Leopoldo I, non provasse una grande sollecitudine per la pesante macchina dell'impero, della quale appena si poteva dirsi per gli Asburgo tedeschi fosse un sostegno o una incomoda zavorra. Quindi tanto più forti si faceva la tendenza di questa famiglia ad estendere i suoi vasti possedimenti territoriali diretti.
Veramente questi per la storia, la stirpi, la lingua, la costituzioni e i costumi dei loro differenti popoli erano intimamente scissi, inoltri privi d'industrie, mali amministrati e con un governo che sempre difettava di denaro. La potenza austriaca fu inoltre frenata nel suo svolgimento da un potente vicino, la Turchia, che non ancora soddisfatta dal possesso della maggior parte dell'Ungheria, mirava a conquistare anche il resto di questo regno, anzi la Germania stessa.

La Turchia tenne continuamente in ansietà e in spavento l'Austria e contro di essa dovette dirigere e consumare le sue forze migliori. Ma gli Asburgo in queste circostanze non erano stati certamente in condizione da prender sopra di sé la difesa della Germania contro la Francia e la Svezia. Però la forza inesauribile del germanesimo si manifestava in questo, che mentre la vita pareva avere abbandonato il tronco, pulsava e germogliava nei singoli rami. E questo innanzi tutto nell'elettorato di Brandeburgo.

Nessun paese tra gli orrori della guerra dei trenta anni aveva sofferto più gravemente della Marca elettorale. Essa era terribilmente devastata e rovinata e il vincolo politico vi era pressoché disciolto, quando nel 1640 Federico Guglielmo appena ventenne conseguì lo scettro di elettore.
Con un buon fondamento di cultura, una mente perspicace, un animo pio e appunto per questo tollerante, che agitava vasti disegni, posti poi in esecuzione con calma e praticata, intento senza riguardi all'interesse del suo Stato, egli seppe pulire il suo paese dalle truppe straniere, stringere con fermezza le redini del governo, infrangere la resistenza delle ormai antiquate assemblee degli Stati, violando veramente il diritto formale.

Guglielmo atrinse insieme in una salda unità le numerose province, che fino allora erano state del tutto separate tra loro, la Marca elettorale, la Prussia la Marca di Kleve, poi quelle acquistate con la pace di Wesfalia - la Pomerania posteriore, Magdeburgo, Halberstadt, Minden. Istituì poi un esercito stanziale forte e ben ordinato. Fu quindi il vero creatore dello Stato brandeburghese-prussiano; egli stesso ha finito col domare gli oppositori interni e col destare un patriottismo brandeburghese genuino in tutte le parti dei suoi possedimenti, disseminati dalla Mosa al Niemen.

Anche nella politica esterna Guglielmo aveva raggiunto notevoli risultati; dalla sua partecipazione alle guerre di Carlo X di Svezia aveva ricavato il vantaggio inestimabile di liberarsi dalla supremazia feudale della Polonia sul ducato di Prussia, restandone così il sovrano indipendente. Questo divenne la base della monarchia prussiana.
Così il «Grande Elettore» aveva risollevato il Brandeburgo da una misera disorganizzazione alla condizione di essere il più potente degli Stati dell'impero tedesco. Presso di lui si adoperavano ad innalzarsi i Guelfi, governanti intelligenti, animosi guerrieri ed anche amici della cultura e della scienza. I duchi di Celle, di Annover, di Wolfenbüttel disponevano di finanze bene ordinate e al tempo stesso di un esercito di ventimila uomini.

Di fronte a questi Stati, recentemente saliti in potenza, passavano in seconda linea quelli, che già da un secolo avevano tenuto i primi posti, la Sassonia elettorale e i principati dei Wittelsbach. La prima, indebolita già in seguito a cessioni di territori, in favore delle linee cadette della casa principesca dei Wettin, aveva in Giovanni Giorgio II un sovrano debole e dissipatore, che per la magnificenza di una corte fastosa rovinava le sue finanze, abbandonava gl'interessi dello Stato ad avventurieri stranieri e in cambio degli splendori dell'arte italiana e francese rinunziava alla forza difensiva del suo popolo e alla tutela dell'indipendenza tedesca.

Regnava in Baviera Ferdinando Maria (1651 a 1679), figlio di Massimiliano I, intento soltanto a riparare i danni della guerra dei trenta anni ed inoltre a rendere celebre la sua residenza di Monaco con superbi edifici e la sua corte, imitandovi quello che si faceva a Versailles. La linea palatina dei Wittelsbach, spogliata del Palatinato superiore e regnante in un piccolo paese devastato ed esausto, non poteva riacquistare la sua primitiva importanza, per quanto Carlo Lodovico, figlio del « Winterkónig » (re d'inverno) combattesse appassionatamente per i diritti e per avere la massima considerazione della sua casa.

Il capo supremo di tutto l'impero, l'imperatore Leopoldo I (nato nel 1640), non possedeva alcuna delle qualità, che irresistibilmente soggiogano e rapiscono gli uomini. Era stato educato per essere un ecclesiastico, e soltanto la morte del suo fratello maggiore, Ferdinando (IV) re dei Romani, nell'anno 1654, lo aveva condotto nella carriera politica. La persona e il contegno erano insignificanti, lo sguardo fosco, semi spento, il volto sfigurato dal labbro inferiore fortemente pendente. Mancava di energia e di risolutezza e per quanto avesse un'opinione esagerata della sua dignità personale, si lasciava sfuggir di mano le redini del governo: in questo consisteva la sua tanto lodata bontà d'animo.
Lavorava diligentemente nel suo gabinetto, ma con gran pregiudizio dello stato finiva col rimettere ogni decisione ai partiti, ostili tra loro, che dividevano i suoi più alti funzionari. Non si opponeva minimamente alle malversazioni a lui ben note di servitori indegni, le quali più che la guerra consumavano le forze finanziarie dell'Austria.

Il disordine senza limiti delle finanze fu accresciuto dalla circostanza che vi erano venti casse dello Stato del tutto separate tra loro, come 25.000 impiegati camerali, che costavano annualmente cinque milioni di talleri imperiali. Con la indecisione di Leopoldo andava benissimo d'accordo una certa forza di resistenza passiva, un'ostinazione cosciente, che non si scuoteva per alcun rovescio di fortuna, le quali in molti modi tornavano utili all'imperatore, tuttavia finirono col condurre a felici risultati soltanto per il favore delle circostanze.

Come i suoi antenati Guglielmo era devoto alle antiche tradizioni dello Stato e della Chiesa e considerava ogni differente opinione come un peccato esecrabile. Egli per questo non conosceva alcuna mitezza di fronte alle tendenze protestanti e liberali e le ha trattate con una feroce crudeltà, che sta in singolare contrasto con la sua ordinaria debolezza di carattere.

Nell'Ungheria, nella parte non soggetta ai Turchi, regnava un'anarchia costante e il potere del re era qui divenuto del tutto nominale. Ed ecco che nel 1668, a cagione dell'alta sovranità sulla Transilvania, scoppiò di nuovo una guerra con gli Osmani. Raimondo Montecuccoli, generale imperiale nativo di Modena, batté il nemico quattro volte superiore di numero a S. Gottardo sulla Raab (1° agosto 1664): la prima grande vittoria riportata per terra dai Cristiani sopra l'esercito fino allora invincibile dei Turchi.
Tuttavia Leopoldo si sentì così poco cresciuto in potenza ed invece tanto minacciato dai disegni ambiziosi di Luigi XIV, che poche settimane dopo quella vittoria concludeva già a Vasvar una pace poco gloriosa con la Porta.

Volle poi avvalersi di questa pace per distruggere la libertà politica e religiosa nella parte imperiale dell'Ungheria. Inoltre egli fu spettatore inerte dell'occupazione della Lorena indifesa compiuta in piena pace da Luigi XIV, che spinse così i possedimenti francesi fino alla porta di Treviri. Consigliato dal suo ministro Lobkowitz, corrotto dai Francesi, l'imperatore nel novembre del 1671 concluse con la Francia il patto di non immischiarsi in alcuna guerra che Luigi facesse fuori della Germania o della Spagna propriamente detta.
Così l'Austria abdicò al grado di grande potenza in favore del suo più pericoloso avversario. Dei principi della lega del Reno gli uni promisero a Luigi di restar neutrale, gli altri di aiutarlo, assisterlo con le armi contro gli Olandesi.

Fu pure facile il guadagnarsi l'Inghilterra. Il re Carlo II era soprattutto dedito ai piaceri, alle passioni della sensualità e della prodigalità, come ad una piacevole poesia ed arte. Inoltre, per quanto glielo concedeva il suo carattere frivolo, si adoperava a diminuire il potere del parlamento a vantaggio dell'assolutismo regio e a procurare al cattolicesimo, al quale egli segretamente era devoto, il dominio sulla riluttante Inghilterra.
Per condurre a termine questi disegni male considerati volle giovarsi dell'aiuto del più potente despota cattolico, di Luigi XIV di Francia, sebbene i Britanni considerassero con ragione costui come l'avversario più pericoloso dei loro interessi generali.

Carlo perciò concluse a Dover (1670) con Luigi un'alleanza segreta contro i liberi Paesi Bassi. Questo tradimento della libertà inglese anzi di quella europea a favore di Luigi ha deciso più d'ogni altra ragione il fato della casa degli Stuart.
Segui finalmente agli altri la Svezia. In questo regno dopo la morte improvvisa di Carlo X Gustavo i capi della nobiltà, egoisti e senza coscienza, tenevano la reggenza per il re Carlo XI ancora bambino. Essi offrirono a chi più pagava la loro cooperazione e il loro eccellente esercito svedese. Luigi li comprò ed ottenne la promessa che la Svezia avrebbe assalito ogni principe tedesco, se questi prendeva partito per le Province Unite.

Mai un'azione guerresca fu meglio preparata che non sia stata questa per opera di Lyonne; egli però morì poco prima che l'opera sua fosse compiuta (autunno del 1671). Luigi non vide l'ora di poter scatenare la sua, ora tutta sua e non di Lyonne, guerra.
Nell'aprile del 1672 dalla Mosa e dal Reno 90.000 Francesi e 30.000 loro alleati, sotto il comando nominale del re, inondarono i Paesi Bassi male organizzati come difesa e li sottomisero quasi senza resistenze. All'inizio di luglio restavano ancora libere soltanto la Zelanda e la maggior parte dell'Olanda propriamente detta. La rovina della repubblica avrebbe avuto per conseguenza la conquista anche dei Paesi Bassi spagnoli, la sottomissione della riva sinistra del Reno e la servitù dell'intera Europa.

Il merito eminente di avere non solo riconosciuto, ma anche combattuto con un raro coraggio la grave sciagura che minacciava, spetta a Federico Guglielmo di Brandeburgo, spetta al «Grande Elettore». Egli non voleva che «si portasse la Bastiglia in Germania»; come Tedesco, come Brandeburghese e come protestante temeva la dominazione della Francia. Nel timore e nello scoraggiamento generale egli fu il solo che imponesse formalmente agli Olandesi la sua alleanza, che procurasse loro ovunque degli alleati, guadagnando finalmente alla loro causa anche l'imperatore, il quale aveva avuto delle prove dell'appoggio dato dalla Francia ai ribelli ungheresi.

Allora anche in Olanda avvenne un rivolgimento.
Luigi XIV e i suoi ministri nei loro calcoli astuti avevano trascurato i sentimenti nazionali e patriottici di un popolo libero - errore di calcolo che spesso sconcerta gli uomini di stato di opinioni assolutistiche. Con una furibonda indignazione contro il pernicioso governo degli aristocratici si sollevò la popolazione dell'Olanda. Costrinse prima il partito dominante a tagliare le dighe e a sommergere così tutto il paese, poi a nominare nuovamente Guglielmo III di Orange, allora appena di ventun anni, governatore generale e comandante supremo con ampissimi poteri.
Queste misure decisive riuscirono: il mare, fondamento e sorgente della potenza e del benessere delle Province Unite, salvò la loro esistenza, poiché dopo la rottura delle dighe le sue onde scatenate impedirono l'ulteriore avanzarsi dei Francesi - precisamente come un secolo prima di fronte agli Spagnoli.

Sventuratamente la furia del popolo volle avere delle vittime. Come sempre nelle sciagure nazionali essa accumula tutte le colpe sopra un capro espiatorio, così allora incolpò falsamente i De-Witt di intelligenze sleali col nemico: il 20 agosto 1672 la plebaglia all'Aia assassinò il gran pensionario e suo fratello, il benemerito commissario della flotta, Cornelio De Witt.
Più gloriosa di fronte a tali scelleratezze era la lotta delle milizie chiamate allora alle armi sotto l'Orange e della flotta sotto Michele De Ruyter contro Francesi ed Inglesi.
Seguirono nuove violenze dei Francesi; gli spaventosi saccheggi e le brutalità nelle parti delle Province Unite da essi occupate, l'invasione improvvisa del principato elettorale di Treviri e delle città libere imperiali in Alsazia destarono lo sdegno dell'Europa.

L'imperatore tolse al traditore Lobkowitz ogni partecipazione decisiva negli affari e il 30 agosto 1673 sottoscrisse con la Spagna, l'Olanda e il duca di Lorena, allora spogliato dei suoi Stati ma circondato da un buon esercito, un'alleanza per il mantenimento dei trattati di Wesfalia e di Aquisgrana.

Un sollevamento universale tenne dietro a questa decisione, finalmente virile, della corte di Vienna. Luigi XIV, assalito dai Tedeschi, minacciato dagli Spagnoli, dovette a malincuore risolversi ad abbandonare le sue conquiste, a sgombrare l'Olanda; anche se questo fu fatto con nuovi ed orribili saccheggi, stragi ed incendi. Tali infamie non fecero che rendere sempre più odioso in Europa il nome francese.

Dopo che gli alleati ebbero conquistato l'elettorato di Colonia, anche la Danimarca (1674) si unì alla grande alleanza. Di gran lunga più importanti furono gli avvenimenti d'Inghilterra. Carlo II, contemporaneamente alla dichiarazione di guerra all'Olanda, aveva fatto qui il primo passo per trasformare in cattolico il suo Stato, secondo i patti presi con la Francia: con la così detta "dichiarazione d'indulgenza", fondandosi sul diritto regio di grazia, aveva abolito tutte le limitazioni imposte ai cattolici. Ma questo provvedimento riusciva doppiamente odioso agli Inglesi, prima perché i cattolici erano pieni d'intolleranza, poi perché stimavano contraria alla costituzione una simile estensione della prerogativa regale.

Il modo inglorioso, con cui era condotta la guerra contro gli Olandesi, un fallimento parziale dello Stato, in seguito alla cattiva amministrazione finanziaria, riuscito assai grave anche per i privati, aumentarono il risentimento di tutte le classi della popolazione. Il parlamento costrinse il re a revocare la dichiarazione d'indulgenza e ad adottare il «test act» (1673), rimasto poi in vigore per centocinquantacinque anni, col quale si stabiliva che tutte le persone, che volessero rivestire un ufficio qualunque civile o militare, si dovessero prima obbligare con giuramento a riconoscere le dottrine della chiesa anglicana.

Finalmente nel febbraio del 1674 Carlo dovette decidersi a stipulare la pace a Westminster con gli Stati generali. Le mire dell'alleanza segreta di Carlo con Luigi XIV erano fallite su tutti i punti.

Intorno a Luigi XIV si faceva sempre maggiore la solitudine; anche i principi della lega del Reno volsero le spalle da lui e l'impero gli dichiarò la guerra. Si deve però riconoscere che la coalizione europea, formata da numerosi Stati con interessi diversi e spesso opposti, in lotta con la potente Francia, unificata e guidata dai primi ministri e generali del tempo, non dava quei risultati che si aspettavano da essa.
Dal lato dei francesi un'organizzazione rigorosa ed energica, una continua cura di essere pronti a tutto e di approfittare di ogni vantaggio; dall'altro prevalentemente egoismo, disordine e debolezza. Generali eccellenti come Turenna e il duca di Lussemburgo, riuscivano ovunque superiori agli alleati.

Come nelle armi, tutto andava come volevano i Francesi anche negli intrighi diplomatici. Indussero Messina a sollevarsi contro la Spagna, eccitarono a ribellarsi, sotto la guida dell'energico, accorto e ingegnoso Emmerico Tókoly, l'Ungheria, irritata dall'oppressione brutale del governo imperiale nel campo politico e religioso. L'eroico Giovanni Sobieski, elevato al trono della Polonia per il denaro e per l'influenza francese e in pari tempo legato ancor più alla Francia a cagiona della sua consorte francese e di una pensione, mandò in soccorso agli Ungheresi mille selvaggi cavalieri.

Finalmente Luigi fece scatenare gli Svedesi contro il più pericoloso alleato degli Olandesi, l'elettore di Brandeburgo. Nelle ultime settimane dell'anno 1674 il maresciallo Wrangel con 20.000 uomini irruppe nella Marca elettorale allora sguarnita di truppe, che investì orribilmente con saccheggi a contribuzioni. Il Grande Elettore, lasciato in asso contro i patti da tutti i suoi alleati, dovette decidersi ad abbandonare il Reno e ad accorrere per salvare il suo paese. Agì con la consueta energia. Conveniva sorprendere gli Svedesi nei loro quartieri largamente disseminati. Con rapida marcia piombò con la cavalleria sugli avversari, separò presso Rathenow le loro truppe in due corpi e si gettò sul maggiore di essi presso Fehrbellin (28 giugno 1675).
Sebbene per numero uguagliasse soltanto la metà del nemico, con un attacco abile e vigoroso costrinse questo, del resto già disaminato, a ritrarsi dal paese dopo aver subito gravi perdite.
La sconfitta, che un pugno di Brandaburghesi aveva inflitto ai soldati della Svezia, considerati come invincibili, procurò un'impressione immensa. Il sentimento nazionale tedesco s'infiammò per il fatto glorioso che «la folgore dell'aquila avesse umiliato il superbo grifone» ; una metà della Germania del nord si sollevò contro gli Svedesi, ai quali fu tolta la maggior parte dei territori che vi possedevano.

Ma quale danno ne ebbe Luigi XIV?
Per tutte queste divisioni egli fu invece preservato dalla sorte inevitabile di essere schiacciato dalle forze superiori della coalizione. I Francesi nell'anno 1675 fecero nuovi progressi nei Paesi Bassi spagnoli. Invece il vecchio Montecuccoli difese con fortuna l'alto Reno, e quando (27 luglio 1676) a Sassbach una palla di cannone ebbe posto termine alla vita gloriosa del suo grande avversario Turanna, gl'imperiali poterono un'altra volta penetrare in Alsazia. Nel tempo stesso Carlo IV di Lorena batté il maresciallo Créqui al ponte di Konz sulla Saar e riconquistò Treviri.

Ma negli anni seguenti i Francesi ripresero ovunque il sopravvento. Le truppe imperiali dovettero combattere contro gli Ungheresi, e i Francesi conquistarono la Brisgovia. Lussemburgo batté l'Orange a Seneffe, a Cassal in Fiandra e a S. Dionigi presso Mons ed occupò la maggior parte del Belgio.
Per la resistenza alle marce e per la perfetta organizzazione, per l'eccellenza dell'artiglieria e dell'ingegneria militare nessun altro esercito uguagliava quello francese. Pure l'essenziale era che Carlo d'Inghilterra, ad onta di tutti gli schiamazzi e le minacce, non intendeva di rendersi con una guerra costosa dipendente dal suo parlamento ad inoltre da un esercito di sentimenti protestanti. E contemporaneamente in Olanda la parte aristocratica si collegava con Luigi.
La pubblica opinione qui era ormai sazia di una guerra senza frutto e temeva tanto più una tirannide militare di Guglielmo d'Orange, in quanto questi aveva sposato Maria, la figlia maggiore di Giacomo di York, fratello ad erede presuntivo di Carlo II d'Inghilterra. Perciò il 10 agosto 1668 i plenipotenziari olandesi sottoscrissero con quelli francesi a Nimaga una pace, che veramente era a loro molto vantaggiosa, ma obbligava gli Spagnoli a cedere alla Francia la Franca Contea borgognona, come la ultima fortezze del Belgio meridionale, e il Brandeburgo a restituire tutte le sue conquiste nella Pomerania svedese.

Gli Olandesi avevano trattato contro i patti dell'alleanza e contro la volontà di Guglielmo III. Per causa loro l'Europa aveva preso le armi, li aveva salvati dalla rovina, ad ora essi lasciavano vergognosamente in asso quelli cha li avevano soccorsi. Questi dovettero frattanto bene o male aderire uno dopo l'altro alla pace di Nimega. Ultimo fu il Grande Elettore.

Questi aveva poco prima conseguito una nuova e grande vittoria. Sostenuto dai Polacchi il maresciallo svedese Horn, nel novembre del 1678, aveva invaso con 16.000 combattenti il ducato di Prussia. Ma con rapidità fulminea, come un tempo davanti a Fehrballin, corse loro incontro Federico Guglielmo. Gli Svedesi non osarono resistere, si posero in ritirata, ma furono inseguiti con tanto vigore che questa si mutò subito in fuga. La fanteria brandeburghese seguì la cavalleria su slittini, con le quali corse sopra la superficie gelata del Frisch e del Kurisch Haff. Ripetuti combattimenti e il freddo terribile portarono a termine la piena dissoluzioni dell'esercito svedese; Horn ricondusse oltre i confini della Livonia, dei 16.000 soltanto 1500 uomini ancora in grado di combattere.

Nel frattempo all'estremità opposta degli Stati di Federico Guglielmo, a occidente, un esercito francese invadeva ormai il paese del Reno e della Wesfalia. L'elettore si vide abbandonato interamente da tutti gli alleati e specialmente dall'imperatore. Dovette sottomettersi; e nella pace di Saint-Germain-en-Laye (29 giugno 1679) non senza profondo dolore restituì alla Svezia quasi tutta la Pomerania anteriore con Stettino.

Così Luigi XIV ha costretto allora l'Europa a sottomettersi alle sue condizioni, dimostrandosi superiore a tutta una parte del mondo collegatasi contro di lui.

Veramente questo trionfo aveva un prezzo: la rovina delle classi lavoratrici del suo regno; era dovuto meno alle armi francesi che ad abili intrighi diplomatici e ad atti di corruzione - ma il risultato era pur sempre quello.

Luigi non aveva raggiunto lo scopo che si era prefisso all'inizio di quella grande lotta: l'umiliazione definitiva dei liberi Paesi Bassi. Tuttavia quello che aveva raggiunto era quasi maggiore: oltre all'acquisto materiale della Franca Contea, che estendeva di molto il suo territorio, e di un altra porzione importante del Belgio, conquistava la coscienza della sua superiorità, anche di fronte a tutti gli altri Stati, e con questo il sentimento dell'onnipotenza.

In quel tempo una caricatura anche troppo espressiva mostrava una mano, che sporgeva da una nuvola e con ogni dito faceva ballare sull'Europa un burattino vestito da principe; essa di fatto dimostrava la posizione che Luigi aveva raggiunto. Egli credeva di avere imposto all'Europa superba la sua dominazioni universale - la sua «monarchia », come allora si diceva.

L'avvenire doveva mostrare, che i popoli d'Europa erano veramente così tanto degenerati da sottomettersi (i "burattini") durevolmente agli ordini del re che risiedeva sulla Senna.

Questo "avvenire" dei popoli
lo vedremo nel prossimo capitolo

LUIGI XIV AL SOMMO DELLA SUA POTENZA > >

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