-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

147. LUIGI XIV: IL TRAMONTO DEL "RE SOLE"

Sicuro di sé, Luigi XIV aveva scelto il sole come emblema
e col nome di "Re Sole" lo invocava l'adulazione dei contemporanei.

La profonda decadenza della Spagna degli Asburgo si personificava anche nel suo ultimo re Carlo II. Come questi da bambino aveva imparato soltanto molto tardi a parlare e a camminare, così poi da principe col suo volto pallido e giallastro, coi lineamenti stanchi e con la bocca sempre semi-aperta, rimase sempre dipendente da coloro che lo attorniavano.
Dalla morte della madre in poi si lasciò guidare dalla sua seconda moglie, Maria Anna Neuburg; essa non é la regina, diceva l'ambasciatore veneziano, ma il re. Tuttavia il carattere di lei appassionato, incostante, sottoposto alle influenze del momento la rendeva poco adatta a sostener quella parte, resa da lei ancora più difficile col favorire il suo avido seguito di Tedeschi.

Veramente l'aristocrazia del paese non aveva né più talento né più patriottismo di quegli stranieri. I grandi vedevano nello Stato soltanto l'oggetto più adatto della loro rapacità. La nobiltà inferiore era del pari eccessivamente numerosa e povera, infingarda, pidocchiosa, veri fuchi della società. Da essa si diffondeva su tutte le classi sociali la boriosa stupidità, l'indolenza, la miseria, la dissolutezza. La popolazione scemava con rapidità straordinaria; mentre contava intorno a 12.000.000 di abitanti all'inizio del secolo XVI, era poi discesa a soli 5.700.000. Il clero soltanto, che contava diverse centinaia di migliaia di persone, fioriva negli agi e spesso nella ricchezza. L'industria e il commercio, in quanto non erano esercitati da stranieri, erano nulli, meno che a Barcellona. Il paese che aveva per tributari il Perù e il Potosi, possedeva ormai quasi solamente delle monete di rame - l'oro e l'argento affluivano ormai ai paesi esteri industriali.
Pirati inglesi e francesi, specialmente i bucanieri, che dimoravano ad Haiti e nell'isola di Tortuga che le sta di fronte, saccheggiavano le colonie delle Indie occidentali e riducevano in cenere le loro piazze marittime. Il governo spagnolo si mostrava dovunque incapace a bastare ai più semplici compiti dello Stato.

Le entrate pubbliche erano discese a trenta milioni di reali all'anno, e perfino questa mediocre somma in buona parte si squagliava nelle mani di grandi funzionari, privi altrettanto di coscienza quanto d'ingegno. L'esercito non riceveva il soldo, gl'impiegati inferiori dello Stato soltanto i due terzi del loro stipendio ed anche questo irregolarmente; non vi era più una flotta, e spesso l'intera macchina governativa era minacciata di un improvviso arresto. I mendicanti, le bande di ladroni, gli omicidi si moltiplicavano in proporzioni paurose; ognuno provvedeva alla propria difesa con le sue armi personali.

Dopo la morte del povero monarca, attesa di giorno in giorno, il regno poteva toccare agli eredi di Maria Teresa, sorella maggiore di Carlo Il - discendenti da Luigi XIV - o al ramo cadetto e austriaco degli Asburgo. Veramente Maria Teresa aveva rinunziato al suo diritto di successione, tuttavia a Parigi, come ben si comprende, si trovarono molti pretesti per dichiarare non valida quella rinunzia.
Ognuna delle parti pretendenti aveva in Madrid i suoi fautori. La lotta fra le tendenze francese ed austriaca infuriava senza tregua, per così dire sul cadavere del re ancora vivente. La grande maggioranza dei personaggi politicamente importanti era di parere che la Spagna avesse più da sperare e da temere da Luigi XIV, vicino e potente, che da Leopoldo I molto lontano e senza paragone più debole, e inclinava perciò a porre il trono di Spagna in potere di un Borbone.

Il papa Innocenzo XII, mosso dalla sottomissione che il re cristianissimo dimostrava già da un decennio verso la Santa Sede, e persuaso che questo principe fosse allora il più forte baluardo contro l'innalzarsi delle potenze eretiche, sostenne con energia questi sforzi.
E l'imperatore Leopoldo, pieno di una robusta fiducia nella protezione, che la provvidenza doveva alla serenissima dinastia austriaca, non fece addirittura nulla per promuovere i suoi interessi a Madrid, mentre Luigi non risparmiava né promesse né minacce. Così Carlo II, che personalmente era pure affezionato del tutto alla sua famiglia degli Asburgo, finalmente fu indotto a sottomettersi. Sebbene malvolentieri, al principio di ottobre 1700 fece un testamento, col quale dichiarava il secondo figlio del Delfino, il duca Filippo di Angiò, suo successore nell'intero dominio della Corona di Spagna, che tuttavia non doveva mai essere unita con quella di Francia.

Quattro sole settimane più tardi, il 1° novembre 1700, moriva questo disgraziato ultimo discendente di Carlo V. Tutta la Castiglia ricevette con acclamazioni il nuovo re Filippo V.
La decisione, che allora doveva prendere Luigi XIV, era di quelle che fanno epoca. Certo egli era vincolato da un trattato, concluso soltanto nel gennaio di quello stesso anno con l'Inghilterra e l'Olanda per la divisione della monarchia spagnola tra i suoi eredi. Tuttavia egli non esitò a violare la parola data; la voce dell'interesse dinastico e confessionale - anche la signora di Maintenon insisteva a consigliarlo - dette il suo tocco alla bilancia. Con giudizio esatto l'ambasciatore spagnolo esclamò: «non vi sono più Pirenei». Luigi difatti non pensò nemmeno un solo istante a lasciare indipendente il suo nipote, ma lo considerava soltanto come una specie di viceré, il cui compito era quello di tenere le forze della Spagna sempre pronte in servizio della politica francese.

Mentre ancora nel dicembre del 1700 con una dichiarazione ufficiale faceva espressa riserva dei diritti di Filippo sulla Francia, si riprometteva invece l'unione dei due regni, la creazione di una monarchia mondiale, che tutto doveva opprimere. Il sogno ambizioso, che nutriva dall'inizio della sua opera di governo, la riunione dell'immensa monarchia spagnola alla Francia, parve ora divenuta realtà.

Quando Filippo V all'inizio del 1701 prese il governo della Spagna, corrispose nel fatto interamente alle intenzioni del nonno. Per ogni decisione più importante si ricorreva a Versailles. Lo stesso re Luigi diceva di occuparsi più degli affari spagnoli che dei francesi. A poco a poco a Madrid i ministri spagnoli furono sostituiti con dei francesi, i governatori e i viceré spagnoli ricevettero istruzioni di obbedire agli ordini del re cristianissimo, come se provenissero dallo stesso Filippo V. Luigi dette istruzioni immediate agli ambasciatori spagnoli presso le corti straniere. In verità non vi erano più Pirenei. Il popolo francese in un'ebbrezza di ambizione acconsentiva con entusiasmo alla condotta del suo governo.

La decisione audace di Luigi parve dovesse riuscire pienamente. Nel Belgio, nelle province italiane della Spagna Filippo V fu riconosciuto re, come nella metropoli. Né l'Inghilterra né l'Olanda osarono all'inizio opporsi.

Allora Leopoldo I dette l'esempio della resistenza contro i progetti della Francia, che minacciavano tutti. Col togliere a forza alla sua dinastia l'eredità spagnola, secondo il suo modo di vedere, si attentava ai suoi diritti più sacri, a lui concessi da Dio stesso, ed in questo Leopoldo era solito di non essere per nulla arrendevole. Egli voleva conservare almeno l'Italia e il Belgio. Quale rischio il voler muovere guerra senza potenti alleati contro la Francia, la Spagna, il Portogallo, l'Italia, la Baviera e Colonia, contro l'Europa romanica e una parte di quella germanica! che cosa poteva giovargli contro simili avversari l'aiuto della Prussia, della Sassonia, dell'Annover?

Ciònonostante Leopoldo protestò contro il testamento di Carlo II e fece entrare le sue truppe nel Milanese.
Dell'imperatore il re Luigi si sarebbe presto sbrigato. Doveva però fare i conti anche con Guglielmo III, che riconosceva benissimo i pericoli di un così immenso accrescimento della potenza della casa borbonica, ed era inoltre pieno di sdegno a motivo della vergognosa violazione di patti commessa dalla Francia.
Veramente gli legavano le mani l'avversione degli Olandesi e degli Inglesi ad una nuova guerra e la ostile maggioranza «tory» nella camera dei comuni; tuttavia all'Orange perplesso e piuttosto pessimista venne in aiuto lo stesso Luigi XIV.

Poiché i recenti buoni successi avevano fatto del tutto dimenticare al re di Francia l'esperienza dell'ultimo decennio, egli si presentava di nuovo con tutto l'audace disprezzo del diritto e con la brutale prepotenza dei suoi anni più giovani. Non vi era allora alcun grande ministro, al quale si potesse dare la colpa del contegno insolente e sprezzante della politica francese, ma in tutte le cose essenziali la decisione proveniva da Luigi soltanto.
Persuaso fermamente che le finanze inglesi fossero irreparabilmente rovinate, che quel popolo bramasse assolutamente la pace e che Guglielmo vi avesse perduto ogni influenza, accumulava offese sopra offese.

Scacciò le guarnigioni olandesi da quelle fortezze del Belgio, che occupavano in conformità ai trattati come piazze « di barriera ». Rifiutò all'Inghilterra il diritto di sollevare reclami per questi atti contrari al diritto internazionale. Parimente contro i trattati di divisione, concesse ai Francesi grandi vantaggi commerciali nelle colonie spagnole, mentre escludeva da queste gli Inglesi e gli Olandesi. Vietò l'introduzione in Francia dei prodotti delle fabbriche e delle miniere inglesi, quindi addirittura dei più importanti articoli di esportazione dell'Inghilterra. Ed oltre a queste offese nel campo diplomatico e commerciale un altra ne arrecò, che colpiva direttamente nel cuore la nazione; dopo la morte di Giacomo II (settembre 1701) riconobbe il figlio di lui, chiamato come il padre, quale re d'Inghilterra. Scozia e Irlanda col nome di Giacomo III. Si assumeva così la responsabilità non solo di violare la promessa solenne da lui data nella pace di Ryswyk, ma anche di abolire di sua autorità la legge, con la quale il re e il parlamento d'Inghilterra avevano poco prima regolato la successione protestante al trono.

Nondimeno la sua speranza di spaventare con simili atti e misure gli Inglesi o di provocare tra loro un'alzata di scudi dei Giacobiti fallì interamente. Al contrario esse furono sentite come offese mortali, come schiaffi dati alla nazione inglese; perfino degli ardenti Giacobiti in seguito si schierarono per il momento dalla parte di Guglielmo. Il parlamento obbligò tutti gli ecclesiastici a riconoscere il sovrano regnante come l'unico monarca legittimo e a rinnegare lo Stuart. Un'immensa esultanza, un diluvio d'indirizzi di fedeltà avvolse l'Orange, che finalmente raccolse il frutto della sua politica saggia, ardita eppure prudente. Sciolse il parlamento e le nuove elezioni dettero una vittoria decisiva al partito orangista della guerra.
Il parlamento consentì che si arruolassero 40.000 uomini di milizie terrestri, e si armassero cento navi di linea e accordò dei sussidi per assoldare truppe danesi e tedesche.
Guglielmo concluse all'Aia la «grande alleanza» tra l'imperatore, l'Inghilterra e l'Olanda, che oppose quasi in ordini chiuso l'Europa germanica a quella romana. È forse un errore il sostenere che l'indipendenza esteriore dei popoli come la loro libertà interna furono allora difese del partito germanico?
Il mezzo al suo trionfo finale Guglielmo si ammalò gravemente in seguito a una caduta da cavallo. Il suo corpo sempre più debole non poteva offrire alcuna resistenza a questa nuova scossa ed egli morì il 19 marzo 1702.

L'ultimo discendente del grande Guglielmo il Taciturno, del fondatore della libertà dei Paesi Bassi settentrionali, questo Guglielmo III di Orange aveva salvato e consolidato la libertà non solo dell'Inghilterra, ma dell'Europa intera. Con ragione la posterità ha concesso largamente a questo grand'uomo gli allori, che la sua propria generazione gli aveva rifiutati. Come parve spesso poco appariscente di fronte al suo splendido rivale, a Luigi XIV, e come gli era infinitamente superiore in valore personale e politico ! Ed a dire il vero dov' é l'opera di Luigi XIV ? La differenza é appunto che questi rappresentò soltanto la forza brutale, Guglielmo III invece i più nobili beni dell'umanità. Sua cognata Anna fu presto riconosciuta generalmente quale regina d'Inghilterra; fu essa a pubblicare la dichiarazione formale di guerra alla Francia.

Intanto la lotta era già cominciata un anno prima, quando nel maggio del 1701 il principe Eugenio di Savoia era entrato con 30.000 imperiali nell'Italia nemica, dove gli stava a fronte con forze maggiori il maresciallo Catinat, ricco di esperienza e d'ingegno. Ma il principe Eugenio gli era superiore come generale, lo batté a Carpi e lo respinse oltre l'Oglio. Luigi richiamò Catinat e lo sostituì col suo favorito Villeroy, cortigiano servile ed umile schiavo della Maintenon. Questo maresciallo incapace, sebbene con forze doppie del suo avversario si lasciò vincere dal principe Eugenio a Chiari e finì lui stesso prigioniero.
Le splendide vittorie del principe Eugenio destarono l'ammirazione di tutta l'Europa -e contribuirono non poco alla costituzione della «grande alleanza». Nondimeno gli fu allora messo di fronte un suo pari, il duca Luigi di Vendôme, generale di grande intelligenza, di esatto giudizio, di risoluto valore e di molta iniziativa, pieno di affetto per i suoi soldati, che gli erano entusiasticamente devoti.
Era nondimeno di sentimenti cinici, di condotta estremamente libertina e di una pigrizia, che spesso paralizzava le sue misure. Con forze tre volte superiori tenne a freno il principe Eugenio poiché questi fu lasciato del tutto in asso dal suo governo incapace.
Venne allora in aiuto al principe Eugenio il geniale capitano, che doveva essere su fido compagno nella lotta contro la prepotenza francese, John Churchill, conte e poi duca di Marlborough.
Segnalato così per bellezza ed eleganza, come per lo spirito d'intrigo e per una completa mancanza di scrupoli morali, il «primo gentleman d'Europa» era in grande favore presso la nuova regina Anna, per mezzo di sua moglie, che le era amica prediletta; era questa Sara Jennings, bella, spiritosa, piena d'ingegno, ma orgogliosa, appassionata ed ambiziosa.
Nel 1700 egli fece nominare lord tesoriere e quindi ministro dirigente d'Inghilterra Lord Godolphin, suocero di sua figlia. Come generale Marlborough non aveva pari nell'ideare disegni strategici artificiosamente intricati e tuttavia bene attuabili, nell'adattarli alle circostanze e ai luoghi, nel dirigere imprese tattiche difficili e complicate, nella presenza di spirito e nel colpo d'occhio sul campo di battaglia. Tuttavia egli non ha saputo liberarsi interamente dall'arte militare compassata e pedantesca del suo tempo. Con l'aiuto della Prussia, ancora nel 1702, tolse al turbolento elettore Giuseppe Clemente il territorio di Colonia come quello di Liegi.

Nella Germania meridionale il fratello di Giuseppe Clemente, l'elettore Massimiliano Emanuele di Baviera, sostenne la causa di Luigi XIV, ma non poté impedire che la dieta di Ratísbona dichiarasse la guerra alla Francia.
Anche nell'interno degli Stati prorompeva l'ardente fuoco della guerra. Nelle valli rocciose e inospitali delle Cevenne i perseguitati ugonotti, i «camisards», si sollevarono contro la tirannia sanguinaria di Luigi XIV; però anche in Ungheria centinaia di migliaia, insorsero contro l'oppressione di ogni libertà politica e religiosa per parte dell'imperatore. Qui, si pose alla testa dei rivoltosi l'eroico ed energico Francesco Rakoczy, di nobilissima stirpe, là un semplice garzone di fornaio, Giovanni Cavalier.

La grande contesa era ancora indecisa al principio dell'anno 1703. Gli alleati conseguirono almeno degli importanti successi diplomatici. Innanzi tutto trassero dalla loro parte il Portogallo, che d'allora in poi é rimasto alleato fedele dell'Inghilterra; i suoi porti divennero le basi strategiche della flotta britannica; anche durante la guerra spagnola di Napoleone I il Portogallo fu la solida base di tutte le imprese dell'esercito d'Inghilterra. Allora poi l'accessione del Portogallo alla lega suggerì agli alleati l'ardito disegno di conquistare la Spagna per il figlio minore dell'imperatore. Questi sotto il nome di «re Carlo III» sbarcò nella penisola dei Pirenei ; era uno spirito benigno, moderato e coscienzioso, ma sonnolento, di contegno riservato, mal sicuro nel giudicare, estremamente bigotto, devoto alle antiche tradizioni - come suo padre !

Un altro principe ragguardevole, il duca Vittorio Amedeo II di Savoia, sebbene avesse maritato la sua figlia maggiore al duca di Borgogna, il maggiore fra i nipoti di Luigi XIV, fu spinto dall'insolenza offensiva di questo re a schierarsi con i suoi avversari.
Ma al duca sabaudo era tanto più necessario un largo aiuto, in quanto che l'imperatore dovette ritirare quasi tutto il suo esercito dall'Italia e adoperarlo contro i sollevati ungheresi, come contro l'elettore di Baviera. A Massimiliano si unì il maresciallo di Villars con. 60.000 Francesi. Con la loro immensa superiorità avrebbero potuto dare un colpo al cuore della monarchia austriaca, se Massimiliano non avesse molto inopportunamente intrapreso un attacco contro il Tirolo, che con gravi perdite fallì contro la resistenza eroica di quei montanari, guidati dal temerario Martino Sterzinger, l'"Hofer" del 1703.

Nonostante ciò nella Germania meridionale Bavaresi e Francesi facevano da padroni. Il conte Styrum, uno di quei generali, rovina dei loro eserciti, che tanto spesso si ritrovano negli annali del valoroso esercito austriaco, con l'ala sinistra degli eserciti riuniti dell'imperatore e dell'impero, il 20 settembre si lasciò sorprendere e battere pienamente dal Villars presso Hüchstadt; senza la salda prodezza di tre reggimenti prussiani sotto Leopoldo di Dessair - il «vecchio Dessaviese» - tutta quella parte dell'esercito sarebbe stata distrutta.

Un corpo olandese che gli Stati generali mandavano a liberare la fortezza di Landau, si lasciò. cogliere alla sprovvista sullo Speyerbach e battere comletamente da Tallard; nel giorno seguente Landau capitolò. Le truppe dell'impero nelle linee di Bühl e Stolhofen avevano nel frattempo una provvista di munizioni, tre colpi per soldato !
I principi della Germania superiore avevano invece consumato in pranzi e in balli, invece che per gli armamenti, i sussidi ricevuti dalle potenze marittime e non solo ma minacciavano poi, al primo pericolo, di passare dalla parte della Francia. Lo stato della Germania era allora disperato.

Lo stesso accadeva in Austria, dove al dire dello stesso principe Eugenio, i soldati erano nudi e poveri in canna, le fortezze senza provviste di munizioni e di viveri. Al principio del 1704 Massimiliano Emanuele fece irruzione nell'Austria sopra l'Enns conquistandola. Dall'altro lato, in Ungheria, Francesco Rakoczy comandava da principe sovrano. Era questa una situazione non meno minacciosa di quella del 1683. Quanto tempo ci vorrebbe perché gli Ungheresi e i Bavaro-francesi si tendessero la mano davanti alle mura di Vienna ?

Ad onta di tante resistenze e di tanti pericoli, Luigi XIV poteva pur sempre sperare di aver raggiunto lo scopo della sua vita. Che voleva dire la perdita di qualche fortezza del Reno e della Mosa se egli, non solo strappava alla casa d'Austria la monarchia spagnola, ma le dava il colpo di grazia anche in Germania e in Ungheria?

I Borboni sarebbero poi stati i signori di tutta l'Europa occidentale, meridionale e media. Mai Luigi, si trovò così vicino all'apice dei suoi desideri come nei primi mesi dell'anno 1704.

 

 

 

La salvezza venne all'Austria dal Principe Eugenio di Savoia. Con quella chiaroveggenza, che é propria del generale nato, riconobbe che si doveva star sulle difese contro le schiere disordinate dei cavalieri ungheresi o nella più discosta Italia, e che tutte le forze in qualsiasi modo disponibili dovevano essere riunite insieme contro i Bavaro-francesi, che erano gli avversari più pericolosi. Anche Marlborough fu da lui persuaso a seguire questa Importante strategia di guerra. Mentre il principe Eugenio si riuniva nella Svevia col generale dell'impero Luigi di Baden, Marlborough seppe ingannare il nemico nei Paesi Bassi ed improvvisamente raggiunse sul Neckar i due generali tedeschi. Dopo un primo successo, cioé l'occupazione dello Schellenberg presso Donauworth, il principe Eugenio e Marlborough, il 13 agosto 1704, a Hochstadt, nel luogo stesso dello sconfitta inflitta nell'anno precedente allo Styrum, batterono e quasi distrussero i Francesi e i Bavaresi alquanto superiori di numero. Soltanto la quarta parte dell'esercito francese trovò scampo.


La battaglia di Hochstadt aveva cambiato tutta la situazione dei belligeranti. I Francesi, considerati fino a quel momento come invincibili, avevano subìto una inaudita disfatta, l'Austria era salvata dal pericolo più urgente, la sua avversaria tedesca, la Baviera, era stata, privata da ogni difesa, i collegati della grande alleanza, che già si perdevano d'animo, furono pieni di nuova fiducia. Marlborough, messo ad un tratto fra i più grandi capitani di ogni tempo, fu nominato principe dell'impero dall'imperatore riconoscente, che gli fece dono della signoria di Mindelheim, presa dalle terre tolte ai Bavaresi.

Tanto maggiore fu l'effetto di questo tremendo colpo in Francia. «A tutti vengono le vertigini», esclamò la signora di Maintenon e lo stesso re Luigi dimenticò il suo sangue freddo e la sua dignità abituale e montò in furia, colto da una disperata vergogna.

Mentre Massimiliano Emanuele se ne fuggiva nel Belgio, a Ilbestein la sua consorte concluse un trattato con l'imperatore, al quale essa abbandonò il governo di tutta la Baviera, eccettuata la residenza di Monaco. Così l'elettore di Baviera subì meritatamente lo stesso destino, come suo fratello a Colonia. Fu soltanto un piccolo compenso che Luigi XIV, in parte con la forza, in parte con la mitezza, ponesse allora un termine alla sollevazione dei «camisardi». Cavalier con alcune centinaia di seguaci a lui fedeli passò, al servizio del duca di Savoia.

Un vero guadagno per la coalizione fu la morte di Leopoldo I (5 maggio 1705), alla cui incapacità si era aggiunta nella vecchia età un'ostinazione invincibile. Il suo figlio maggiore Giuseppe I, (< nell'immagine a sinistra) nato nel 1677, era nei primi anni della virilità, un signore vigoroso, vivace, liberale, senza il tratto melanconico dei suoi antenati. Il coraggio, l'ardore e la chiarezza di mente, come una solida cultura laica, lo facevano distinguere favorevolmente dal padre e dal fratello. Pur favorendo eccessivamente la nobiltà, era nondimeno esente da bigotteria. Aveva abbastanza perspicacia per lasciare al principe Eugenio un'influenza, essenziale sulla politica e sull'esercito dell'Austria. Anche per gli altri affari si circondò di nuovi e giovani ministri.
All'inizio si cercò di porre riparo alle cose d'ltalia, dove i Francesi con immensa superiorità di forze avevano conquistato la Savoia e la maggior parte del Piemonte.

Rinforzato da 8000 Prussiani sotto Leopoldo di Anhalt-Dessau, il principe Eugenio nell'estate del 1705 venne in aiuto al suo parente di Savoia, che era in grandi difficoltà, ma con la battaglia non determinante di Cassano poté soltanto trattenere, non però respingere il Vêndome. Invece la coalizione riportò successi notevoli nella Spagna.
Già nel 1704 gl'Inglesi avevano occupato la fortezza a metà rovinata di Gibilterra e ne avevano restaurato le opere di difesa; qui tutti gli assalti degli Spagnoli e dei Francesi nel 1705 fallirono di fronte alla valorosa resistenza del governatore, il principe Giorgio di Darmstadt. Un impetuoso e temerario generale britannico, Lord Peterborough, approfittò della antica e tradizionale avversione della Catalogna per il dominio castigliano, alfine di guadagnarsi a vantaggio di Carlo III d'Asburgo il favore di questa provincia, e specialmente quello della sua ricca, capitale Barcellona.

Fu poi decisivo l'anno 1706. Marlborough nei Paesi Bassi il 23 maggio prese d'assalto la linea di difesa del Villeroi a Ramillies e il frutto di questa splendida vittoria fu la conquista della maggior parte del Belgio.
In Italia riuscì al principe Eugenio di aprirsi una via attraverso le forze nemiche fino a Vittorio Amedeo, che fino allora non aveva potuto impedire l'assedio della sua capitale, Torino, difesa valorosamente dal generale austriaco Guit Starhemberg. Allora i due principi presero d'assalto con prodezza irresistibile le linee degli assedianti francesi, condotti dal La Feuillade (7 settembre). Profondamente demotivato o chissà cosa, il vinto generale, sebbene ancora molto superiore per numero alle truppe nemiche, tolse l'assedio, arretrò e si ritirò dietro le Alpi.

Soltanto questa codarda risoluzione ha dato alla battaglia di Torino la sua vera importanza; mentre il La Feuillade riparava in Francia con tutte le sue forze senza posa e con gravi perdite, fu rovesciata in un giorno solo la signoria borbonica in Italia, che poco prima era qui assoluta. Tutte le fortezze piemontesi, la cui espugnazione era costata ai Francesi tre anni di lotte, si arresero in brevissimo tempo ai generali alleati, per lo spavento diffuso da quella grande disfatta.
Il principe Eugenio marciò poi senza indugio sul ducato milanese, la cui conquista somigliò ad una passeggiata militare e fece cadere prigioniere molte altre migliaia di soldati francesi.

Luigi XIV ne fu profondamente abbattuto. Dopo i colpi di Hochstadt e di Ramillies questo grave obbrobrio di Torino ! Se dopo Ramillies al vecchio maresciallo Villeroi aveva gridato in via di conforto: «alla nostra età non si é più fortunati», volse addirittura le spalle al misero La Feuillade, quando questi ritornò a Versailles.
Egli disperava di potere conservare al proprio nipote l'eredità spagnola e volle adoperare le forze francesi almeno per salvare la Francia. Nel marzo 1707 concluse a Milano con l'imperatore una convenzione generale, la quale concedeva alle truppe borboniche in Italia libera partenza per la Francia, ma abbandonava la penisola degli Appennini agli alleati.
L'occupazione del regno di Napoli per parte delle truppe imperiali avvenne rapidamente e senza difficoltà, perché qui non si trovavano guarnigioni spagnole sufficienti e perché la popolazione odiava palesemente il dominio della Spagna.

I principi italiani che avevano abbracciato la causa di Luigi XIV furono abbandonati alla loro sorte; così Ferdinando Carlo Gonzaga di Mantova, Ferdinando Gonzaga principe di Castiglione delle Stiviere e Francesco Pico della Mirandola vennero con decreto imperiale spogliati dei loro domini. Gli stati e i principi che s'erano mantenuti neutrali dovettero subire anch'essi le conseguenze della vittoria della Lega: Venezia vide il suo territorio attraversato dagli eserciti imperiali, il granduca Cosimo III di Toscana fu costretto a pagare all'impero le spese della guerra e a permettere che Siena fosse considerata come feudo imperiale, il duca di Parma, sebbene prima delle ostilità avesse inalberato il vessillo pontificio, dovette pagare ottantacinquemila doppie, nè valsero le proteste e la scomunica, anzi ebbe l' intimazione dall' imperatore, che lo riguardava come suo vassallo, di presentarsi a Milano davanti a lui entro quindici giorni per ricevere l'investitura del ducato.
Neppure il duca di Savoia fu risparmiato quantunque membro della Lega; difatti, con palese violazione dei patti, gli fu rifiutato il possesso del territorio di Vigevano e negata l' investitura dei feudi delle Langhe. Anche il Papa ebbe la sua disfatta. Il Pontefice tentò di far valere con la forza alcuni suoi diritti su Comacchio e Ferrara, poi pensò meglio di scendere ad accordi e nelle trattative avute a Roma col marchese di Priè, ambasciatore imperiale, segretamente stabilì di riconoscere come re di Napoli l'arciduca Carlo, che la Lega aveva proclamato re di Spagna col nome di Carlo III, e permise che gli Austriaci presidiassero Comacchio riducendo lui a cinquemila gli effettivi delle proprie milizie.

Come il Belgio, quindi anche l'Italia era stata strappata alla dominazione borbonica, e i territorî di Colonia e della Baviera, alleata della Francia, erano in potere dei loro nemici. Furono questi i risultati gloriosi dell'attività del principe Eugenio e del Marlborough nelle campagne degli anni 1704 e 1706.

Anche la Spagna propriamente detta parve dovere andar perduta per i Borboni. Gli alleati entrarono in Madrid ed anche l'Aragona si sollevò in favore di Carlo III. Ma la fedeltà dei Castigliani, il loro odio contro gli eretici inglesi ed olandesi salvarono la corona di Filippo V, in cui favore si sollevò vittoriosamente Madrid. Il «re» Carlo III dissipò i pochi denari, che a lui affluivano, per mantenere una corte fastosa, per dare degli spettacoli italiani e per comprare dei diamanti, mentre i soldati erano derubati delle cose più necessarie.

Dopo la perdita di Madrid Peterboroug aveva lasciato la penisola e Galway e Las Minas, a cui aveva lascito il comando, nulla avevano del suo talento. Nell'aprile del 1703 si lasciarono battere completamente da Berwick ad Almanza, avvenimento, che principalmente decise la guerra nella Spagna. Nello spazio di un mese Berwich conquista le province di Valenza e d'Aragona e perfino in Catalogna l'arciduca Carlo dovette limitarsi ad occupare Barcellona e poche fortezze. Filippo V peraltro approfittò dell'avvilimento dei «ribelli» per togliere a tutto il regno d'Aragona quella antichissima libertà, che nemmeno il dispotismo fanatico di un Filippo II non era riuscito a distruggere.

Andò pure fallito l'attacco degli alleati contro la Provenza. Delle difficoltà diplomatiche e il disgusto degli Olandesi per la guerra impedirono al Marlborough ogni azione militare di grande stile. Incoraggiato da questi avvenimenti, Luigi XIV per l'anno 1708 si preparò ad una orgogliosa offensiva. Mandò infatti 110.000 uomini sotto i duchi di Borgogna e di Vendôme a riconquistare il Belgio.
Già essi avevano preso Gand e Bruges, quando all'assedio di Oudenaarde furono completamente battuti dagli eserciti riuniti del Marlborough e del principe Eugenio (11 luglio 1708). La discordia dei due rissosi generali francesi, non meno che l'ordine e l'abilità dei loro due avversari, ebbe per effetto che questi non solo ripresero le piazze perdute, ma conquistarono ancora la fortezza francese di Lilla, che passava per inespugnabile.

Frattanto una flotta inglese prese possesso dell'isola di Sardegna in nome di Carlo III e s'impadronì dell'isola di Minorca col suo porto eccellente di Mahon. Il ministero inglese decise di conservare alla Gran Bretagna quest'isola, al pari di Gibilterra, come stazione navale nel Mediterraneo.
L'imperatore Giuseppe I poté ormai considerarsi come sovrano d'Italia. Confiscò Mirandola e Mantova, quali feudi imperiali perduti per decadenza, e con questo gli Asburgo tedeschi presero piede in Italia, dove fino allora non aveva loro appartenuto un solo palmo di terra. Giuseppe si proclamò in genere protettore della penisola e trovò disponibile il anche il papa di separarsi dalla Francia, a farsi il papato austriacante e a riconoscere Carlo III come re di Spagna.

Con tutte queste disfatte e perdite continue Luigi XIV fu costretto a confessare: «lo stato delle mie finanze non mi permette di continuare una simile guerra». Anche la signora di Maintenon sospirava la pace: «si deve bene cedere, se Dio si dichiara così visibilmente contro di noi». Era impossibile aumentare il carico delle imposte, che gravava sul popolo, già impoverito dalle guerre precedenti; la miseria fu accresciuta dal rigore straordinario degli inverni del 1708 e 1709, durante i quali gelarono gli alberi da frutto e i germogli del grano; cominciò una spaventosa carestia. Ebbero luogo dovunque ed anche a Parigi dei tumulti contro le autorità e contro i fornai. Il Delfino, il re stesso furono ingiuriati sulla pubblica via dal popolo inferocito; iscrizioni sui muri e scritti anonimi minacciavano Luigi del pugnale di Bruto e di Ravaillac.

Tale era divenuto il « Re Sole », di cui un tempo Colbert aveva detto che non conosceva altri limiti al proprio potere se non il proprio beneplacito !
Queste condizioni sconfortanti procurarono la vittoria al partito della pace nella corte di Versailles; il re Luigi si decise ad offrire la pace prima di tutto agli Stati Generali e per loro mezzo agli alleati in genere. Nondimeno le conferenze tenute all'Aia non portarono ad alcun risultato, poiché gli alleati presentarono richieste esagerate, non giustificate dal corso precedente degli avvenimenti. La terribile guerra continuò ancora.

A capo del suo esercito dei Paesi Bassi Luigi pose allora Villars, il migliore dei suoi marescialli; ma pure lui l' 11 settembre 1709 subì a Malplaquet dal principe Eugenio e dal Marlborough una disfatta, anche se dopo un accanito contrasto. Nello stesso tempo in Ungheria il maresciallo Heister mise in rotta a Trentschin l'esercito di Rakoczy. Questo condottiero dovette fuggirsene con pochi fidati in Polonia, e l'Ungheria nella convenzione di Szutmar (aprile 1711) si é definitivamente sottomessa al dominio imperiale a condizione di mantenere tutti i suoi diritti e le sue libertà. Per un secolo e mezzo essa fu pacificamente devota agli Asburgo. I Magiari, per quanto in gravi lotte con questa dinastia, hanno salvato la loro costituzione, in un tempo, in cui gli altri popoli del continente si diedero senza resistenza in potere dell'assolutismo.

Luigi XIV perdette allora del tutto ogni speranza ed anche esteriormente apparve abbattuto e sopraffatto dal dolore. I magazzini erano vuoti, gli eserciti soffrivano una cos' forte penuria da non ricevere regolarmente nemmeno del cattivo pane di avena; generali, ufficiali e soldati unanimi dichiaravano impossibile una nuova campagna. Una bancarotta generale della nazione sembrava imminente. Nel marzo 1711 furono quindi riprese le trattative di pace nel castello olandese di Gertruydenberg. Luigi si era deciso a sacrificare l'intera successione spagnola e prometteva nel caso che Filippo V non vi si adattasse di negargli ogni aiuto anche indiretto. Egli offriva di cedere quale «barriera» per gli Olandesi le importanti e ricche città francesi di Valenciennes e di Douai, come il territorio di Casse], e inoltre di spianare le fortificazioni di Dunkerque e tutte le fortezze dell'Alsazia. Nondimeno gli uomini di Stato degli alleati non volevano sinceramente la pace. Consideravano la situazione della Francia così disperata da sperare di ricondurla, continuando la guerra, ai suoi confini del secolo XVI; posero quindi la condizione disonorevole per Luigi e per il suo popolo, che essi stessi dovessero cacciare il principe francese dalla Spagna.

Non si può che approvare se il re si rifiutò di separare con le proprie armi e per imposizione straniera il proprio nipote e gli Spagnoli, che egli stesso aveva uniti tra loro. Dopo ripetute offerte, sempre maggiori e tuttavia inutili, egli pose un termine alle trattative.
Fu resa con questo vana la speranza di una pace così brillante, quale da molti secoli non era stata strappata ad alcun re di Francia, una pace, che avrebbe punito ben duramente tutta la politica di conquista del re Luigi XIV. Le speranze più ardite, che gli alleati nutrivano al principio della guerra, erano state superate. Ma una tale speranza lusinghiera fu guastata dagli alleati con un'arroganza così oltraggiosa, quale Luigi non aveva dimostrato nemmeno nei suoi giorni più orgogliosi.
Quei dittatori di Gertruydenberg non avevano però considerato le risorse inesauribili del suolo e dello spirito del popolo francese, il patriottismo di questa nazione così pronto al sacrificio, né la mano della Nemesi, che pure aveva colpito così chiaramente la Francia e il suo re. Non invano Luigi invitò i suoi sudditi a nuovi sforzi. Si pagò con prontezza una nuova e grave imposta, il decimo di tutte le entrate. Così tre anni dopo che era morto di crepacuore il Vauban per la disgrazia, in cui era incorso a motivo del suo libro sopra la «decima regia», la sua idea fu in buona parte attuata.

Gli alleati riportarono all'inizio nuovi successi e conquistarono una serie di fortezze nel settentrione della Francia. Carlo III, continuamente vittorioso, nel settembre del 1710 entrò ancora una volta in Madrid. Lo stesso Luigi XIV commise al duca di Noailles d'indurre suo nipote a rinunciare alla Spagna.
Nondimeno in questo istante medesimo la Francia e Filippo V furono salvati dalla rovina per lo stravolgimento che era avvenuto in Inghilterra.

Il «regno della regina Anna» ha un posto preminente nella storia inglese, non solo per le grandi e gloriose vittorie del suo esercito riportate sui campi di battaglia, ma soprattutto per lo splendido compito da essa svolto nel promuovere la letteratura. La fondazione di una sicura libertà politica alla fine del secolo XVII e il fulgido diffondersi della potenza inglese all'esterno ridestarono in Inghilterra la letteratura ad un più lieto vigore di vita; la florida prosperità, il carattere moderato delle gare politiche, la sana vita cittadina le additarono una via feconda. Le grandi scoperte nel dominio delle scienze naturali e la chiara filosofia dell'esperienza introdotta dal Locke guidavano il pensiero oltre i suoi limiti tradizionali.

Quest'epoca somigliava a quella di Augusto, anche perché l'amore alla letteratura, l'entusiasmo per le eminenti creazioni intellettuali, una grande considerazione per i poeti e per gli scrittori erano negli animi di tutte le classi della nazione, perché l'autore che si celebrava era ricercato dagli uomini più ragguardevoli e di alto grado del regno, trattato come un loro pari, anzi ammesso alla loro amicizia più intima. Come di un Prior e di un Swift, i nobili più brillanti ambivano l'amicizia di Handel, il figlio del barbiere di Halle, che glorificava con le sue composizioni le loro feste come le grandi gesta dell'Inghilterra. Da questi elementi felicemente insieme mescolati si formò la società più amabile e piena d'ingegno, quale mai si ottenne in seguito, nemmeno nella Parigi del più recente secolo XVIII.

Le idee religiose e filosofiche si riannodavano specialmente al sistema rigorosamentelogico e sensato del Locke; dallo Spinoza si prendevano a prestito le armi più taglienti contro le dottrine dell'ispirazione divina, dei miracoli e delle profezie. Da questi due pensatori derivò la scuola dei «deisti» inglesi, che fondavano la conoscenza esclusivamente sulla ragione e insegnavano l'esistenza di una divinità, a cui certo attribuivano una personalità estramondana, ma in modo così generale e indeterminato che soltanto di poco si allontanava dai concetti panteistici.
Il sentimento netto, più razionale che, intuitivo, che in essi si manifestava, dominò anche la poesia, il cui autore più celebrato fu il giovane Alessandro Pope (1688-1744), «il principe della rima e il grande poeta dell'intelligenza».
Con la sua parola fine e spiritosa poté del pari raggiungere il sommo dell'arte nella versificazione e la vigorosa e armoniosa rima di Pope é anche oggi l'orgoglio della letteratura inglese.
Ma la materia è superficiale e di un arido buon senso, senza il caldo alito, che giunge sino al cuore, lo allegra e lo innalza. Il medesimo carattere ragionevole si mostra nei periodici settimanali moralizzanti, i qui modelli erano il «Tatler» e lo «Spectator» dell'Addison.

Con questa tendenza moralizzatrice si connetteva il romanzo didascalico e quello satirico. Il modello senza rivale del primo é il «Robinson Crusoue» di Daniele de Foe, un «dissenziente», che in opuscoli vivaci e arditi sosteneva l'eguaglianza religiosa e nel far questo aveva pagato il fio con pene pecuniarie, prigionia e berlina. Il «Robinson» si fonda sopra il racconto di un tal Selkirk, marinaio scozzese, che poi dal De Foe fu elaborato con grande arte psicologica, con abilità incomparabile nella pittura dei particolari e con fantasia creatrice.
Il romanzo satirico trovò il suo maestro in Gionata Swift, i cui «Viaggi di Gulliver» sono eccellente satira delle condizioni dell'Inghilterra e dell'Europa in genere a quei tempi, e scritti in uno stile così attraente e con una fantasia poetica così ricca che, al pari del Robinson, sono divenuti un libro popolare per tutti i tempi. In breve nella letteratura come nella politica l'Inghilterra stava allora davanti a tutte le altre nazioni europee.

Il fatto più illustre del ministero «whig» nella politica interna fu il ristabilimento dell'unione della Scozia e dell'Inghilterra (1707), introdotta dal Cromwell, ma disciolta dalla restaurazione. Per esso la Scozia da appendice trascurata e maltrattata dell'Inghilterra divenne la sua compagna con parità di diritti, rappresentata nelle due camere del parlamento.
Tuttavia, ad onta dei grandi successi del governo, questi divenne impopolare a motivo delle gravi spese, che richiedeva una guerra così lunga, mentre l'avidità senza limiti del Marlborough contribuiva ad irritare la nazione. La stessa regina Anna guastò i rapporti con la sua tirannica moglie e si volse tanto più volentieri ai «tories», in quanto col loro aiuto sperava di riporre sul trono d'Inghilterra in luogo di uno straniero annoverese la dinastia degli Stuart con suo fratello.

Poiché osservava che la pubblica opinione andava abbandonando il ministero «whig», lo licenziò (agosto 1711). Si formò allora un gabinetto «tory», a capo del quale stavano l'abile e dotto Harley, conte di Oxford, e un uomo dissoluto e intrigante, ma pieno d'ingegno, il St. John, visconte di Bolingbroke.
Le nuove elezioni dettero per la camera dei comuni una maggioranza conservatrice di due terzi. Mosso dall'odio contro gli «whigs» e il loro alleato Marlborough, il nuovo governo trascurò l'esercito e le potenze alleate. Vendôme distrusse le loro truppe di Spagna a Brihuega e a Villaviciosa (dicembre 1710).

Poche settimane dopo morì di vaiolo l'imperatore Giuseppe I (17 agosto 1711), a soli 33 anni. Non avendo egli lasciato alcun figlio, i suoi vasti domini e le aspirazioni alla corona imperiale toccarono a suo fratello Carlo, l'unico Asburgo ancora vivente, che dal ministero austriaco fu richiamato in grande fretta dalla Spagna. Poteva ormai essere nell'interesse delle potenze marittime che gli sterminati possedimenti spagnoli in tutte le parti del mondo si riunissero con i domini ereditari austroungarici e con la corona dell'impero, ché avesse così origine una monarchia di gran lunga più potente di quella di Carlo V ?
Gli statisti inglesi ed olandesi non dissimularono che questo non si doveva permettere e che invece si doveva al più presto possibile venire alla pace, sacrificando in parte le pretese degli Asburgo. Un simile contegno, corrispondeva agli interessi inglesi, ma fu ignobile il modo segreto e sleale, con cui Oxford e Bolingbroke ottennero la pace e sacrificarono gli alleati dell'Inghilterra.

 

Mentre Carlo abbandonava senza, indugio la Spagna e giungeva in Germania, dove il 12 ottobre 1711 fu eletto imperatore col nome di Carlo VI, i ministri inglesi in gran segreto annodarono delle trattative con Luigi XIV. Questi offrì loro grandi vantaggi se lasciassero in asso i loro alleati. Senza riguardo alle proteste del nuovo imperatore nel gennaio 1712 si aprirono in Utrecht le conferenze per la pace. Sicuri dell'amicizia dei plenipotenziari britannici; vi comparvero i Francesi con grande arroganza, finché tristi eventi nella famiglia, del loro re temperarono il loro tono. Morirono rapidamente uno dopo l'altro il Delfino, il duca di Borgogna, suo figlio maggiore, la consorte e il primogenito di questo, tre generazioni.

Della famiglia legittima dell'afflitto Luigi XIV nessuno più sopravviveva, all'infuori del suo nipote Filippo lontano da lui quale re di Spagna, di un altro nipote il duca di Berry infermo di mente e di un pronipote di due anni, che era ormai l'erede del trono e che fu poi Luigi XV (nell'immagine sotto)

A prescindere dal lato puramente umano, queste tre morti ne avevano anche uno politico. Soltanto un fanciullo malaticcio di due anni stava tra la corona francese e Filippo V di Spagna. Né Anna e i suoi ministri avevano così pienamente dimenticato gli interessi del loro paese e della loro religione per esporli alle conseguenze della riunione delle monarchie francese e spagnola; e a questo riguardo avrebbero dovuto temere anche una sollevazione nazionale in Inghilterra. Si decise quindi di non proseguire le trattative, finché non si avesse una rinuncia di Filippo alla corona francese per sé e per i suoi discendenti, redatta nei termini più obbligatori. Ci volle tutta l'influenza dell'avo per indurre Filippo a questo. Ormai Bolingbroke, senza badare alle obiezioni degli Olandesi, che si mostrarono più a lungo possibile fedeli all'alleanza e per questo furono trattati dai Francesi con arroganza e scherno, concluse una tregua fra l'Inghilterra, la Francia e la Spagna (agosto 1712).

Le truppe nazionali inglesi abbandonarono allora l'esercito alleato. Il principe Eugenio, molto indebolito materialmente da questa partenza, vide Inoltre passare ai propri amici quella depressione morale, che prima aveva gravato sui Francesi. Prima ancora che egli potesse venire in suo aiuto, un corpo olandese sotto Albemarle si lasciò sorprendere e in parte distruggere dal Villars. Le conseguenze di questo avvenimento, poco importante in sé stesso, furono invece decisive date tutte le circostanze; esso aumentò la confidenza dei Francesi, dette ai ministri inglesi nuova occasione d'insistere perché si concludesse la pace e tolse forza alle obiezioni dell'imperatore. Nonostante la sua vivace resistenza l'11 aprile 1713 i rappresentanti dell'Inghilterra, dell'Olanda, del Portogallo, della Prussia, della Savoia e della Francia sottoscrissero ad Utrecht la pace.

Questo grande trattato, che determinò le condizioni politiche di tutto il secolo XVIII, procurò all'Inghilterra il riconoscimento della successione della casa di Annover, l'esclusione degli Stuart dalla Francia, la rinunzia perpetua dei Borboni francesi alla corona di Spagna e dei Borboni spagnoli a quella di Francia; l'assicurazione inoltre data da Luigi di spianare le fortificazioni e di colmare il porto di Dunkerque, che era allora la più valida fortezza marittima francese e la base di tutte le guerre corsare contro l'Inghilterra; finalmente l'acquisto della Baia d'Hudson con la nuova Scozia e Terranuova, territori già appartenenti alla Francia e di Gibilterra e Minorca nella Spagna.

Queste condizioni davano all'Inghilterra il dominio durevole dell'Atlantico settentrionale e del Mediterraneo occidentale, e limitavano la libera guerra corsara, che in ogni guerra era tanto pericolosa per il commercio inglese. Per questo commercio, già molto sviluppato, fu inoltre di grande vantaggio la decisione attinente al diritto marittimo che in avvenire nelle guerre di mare la bandiera neutrale doveva coprire gli averi del nemico e proteggerli dal sequestro per parte delle navi dei belligeranti. Meno brillante fu la parte delle Province Unite. Esse ottennero certo come « barriera » il diritto di tener guarnigione in una serie di fortezze del Belgio meridionale, ma delle numerose piazze francesi allora conquistate furono in sostanza contate tra quelle solo Ypres e Tournai, mentre le altre come quella importante di Lilla furono restituite alla Francia. I loro vantaggi commerciali in Francia, nella Spagna e nel Belgio si limitarono ad una misura ben modesta. L'imperatore dovette ceder loro i distretti di Venlo, Montfort e Stevenswert nella Gueldria.

Il Portogallo fu accresciuto dei territori già spagnoli del fiume delle Amazzoni. In compenso delle sue pretese all'eredità degli Orange e dei gravi sacrifici fatti durante la guerra, la Prussia fu soddisfatta in modo assai inadeguato con una parte del quarto superiore della Gueldria spagnola e col principato svizzero di Neuchâtel e Valangin, come col riconoscimento universale del titolo regio; invano essa si era adoperata perché si restituissero all'impero l'Alsazia, l'Artois, il territorio di Cambrai e così pure la Franca Contea.
Alla Savoia si provvide con liberalità tanto maggiore, in quanto i ministri inglesi desideravano fare di questo Stato un cuscinetto arbitro tra Francia ed Austria, anzi di preparare la liberazione dell'Italia. Procurarono perciò al duca di Savoia tutti i territori francesi al piede orientale delle Alpi Cozie e Marittime, il Monferrato e alcuni distretti milanesi, l'isola di Sicilia col titolo di re. Si vede qui come solo l'Inghilterra dettasse a suo beneplacito la pace.

Tuttavia l'Austria non ne uscì poi troppo male. Acquistò i Paesi Bassi cattolici, veramente con la duplice condizione della chiusura della Schelda a favore del commercio olandese e dei diritto dell'Olanda di porre guarnigioni nelle fortezze meridionali; ottenne inoltre Milano, Napoli e l'isola di Sardegna. In cambio di ciò l'imperatore dovette sgombrare la Catalogna e restituire i loro Stati agli elettori di Baviera e di Colonia.
Chi vi trovò meno il suo tornaconto fu l'impero, che ebbe soltanto la restituzione della fortezza di Alt Breisach e di Kehl prese dalla Francia. Del resto non si parlava più dell'Alsazia. La resistenza dell'imperatore non si poteva sostenere di fronte alla superiorità della Francia. Il 1° maggio 1714 egli dovette aderire a Rastatt ai patti di Utrecht e sei mesi più tardi vi aderì l'impero a Baden.

Così era finalmente terminata questa grande lotta di tredici anni, che si era estesa a tutto l'Occidente. Essa aveva soprattutto prodotto la divisione della potente monarchia mondiale spagnuola, fondata da Ferdinando il Cattolico e ampliata da Carlo V, ed aveva cancellato la stessa Spagna dal numero delle grandi potenze europee. In tal modo era avvenuto appunto quello che gli Spagnoli avevano voluto evitare, scegliendo a loro re un nipote di Luigi XIV.
Ma la lotta era riuscita anche a danno della Francia. Questa si era mostrata all'inizio da sola superiore a tutta l'Europa e anche nella guerra della seconda coalizione l'aveva sfidata non senza gloria. Nell'ultima guerra invece aveva avuto per alleati l'intera monarchia spagnola, come numerosi principi italiani e tedeschi, e tuttavia vi rimase così soccombente che solo un improvviso rivolgimento della politica la salvò da una rovina completa.
Sui campi di battaglia di questa guerra non aveva perduto molti dei suoi possedimenti, ma aveva perduto quell'opprimente preponderanza, con la quale il Richelieu, il Mazarino e soprattutto lo stesso Luigi XIV gravavano sull'Europa tremante e le dettavano la legge.

L'opera dell'intera vita di questo monarca era fallita nel suo primitivo significato. È vero che aveva posto il suo nipote sul trono spagnolo, ma poco ci guadagnava la Francia, poiché si mostrò in breve tempo che i legami di famiglia non erano abbastanza forti per legare durevolmente la politica spagnola a quella francese.
Invece l'Inghilterra si era posta a fianco della Francia, come grande potenza con eguali diritti; aveva poi fondato la sua signoria sui mari. Questo avevano operato la politica e la spada di Guglielmo III e dei suoi scolari Godolphin e Marlborough. Questa stessa politica tuttavia sacrificò la patria di Guglielmo, l'Olanda, che pagò con la sua posizione di grande potenza il prezzo della libertà europea. Con una cooperazione sproporzionata al numero dei suoi abitanti si era addossato un carico immenso di debiti; inoltre la sua potenza marittima, un tempo la prima del mondo, era entrata in piena decadenza. Nessuna ricompensa effettiva le toccò in sorte; l'Inghilterra invece le aveva tolto di mano ogni vantaggio e principalmente le aveva strappato il grande traffico marittimo.
L'imperatore al contrario, con l'acquisto del Belgio e di quasi tutta l'Italia spagnola, ottenne un immediato rafforzamento che aumentò di molto la sua potenza. E poiché questo coincideva con la sottomissione definitiva dell'Ungheria e della Transilvania sotto lo scettro degli Asburgo, d'allora in poi l'Austria si pose come terza grande potenza dopo la Francia e l'Inghilterra.

Così la guerra di successione ha mutato meno la configurazione territoriale dei grandi Stati che i loro rapporti reciproci di potenza. L'aggruppamento di varie potenze di uguale autorità prese il luogo del predominio di una sola - prima la Spagna poi la Francia - e produsse la tendenza ad uno stato di equilibrio politico, ad "un'armonia del concerto" europeo, che divenne decisiva per tutto l'avvenire e, prescindendo dalle scosse violente, provocate dalla rivoluzione francese e dall'impero napoleonico che derivò da essa, ha avuto ad ogni modo efficacia per il mantenimento della pace.
Con questo la pace di Utrecht fa seguito immediatamente per importanza storica e diplomatica ai trattati di Wesfalia.

Gli ultimi anni della vita di Luigi XIV trascorsero nello studio di conservare la pace al suo regno, esausto per le vite e per il benessere perduto nella guerra della successione spagnola. Inoltre nell'interno del suo Stato, con tutta la forza che gli rimaneva, ha combattuto e perseguitato ogni libera tendenza e specialmente il Giansenismo. Per la sua influenza nel settembre 1713 il papa Clemente XI ha pubblicato la bolla Unigenitus, che condanna nel modo più deciso la libera interpretazione della Sacra Scrittura e il diritto di esprimere una propria opinione se essa è contraria alle decisioni papali.
Appoggiandosi a questa bolla, rispetto. alla quale però un certo numero di vescovi francesi fece delle riserve, Luigi perseguitò con instancabile crudeltà così i protestanti come i giansenisti. Ma appunto per questo destò reazioni sempre più vivaci. La potenza delle idee non può appunto essere distrutta con la forza brutale. Se si censurano le opinioni, queste non sono più tali.

Nello stesso anno 1713 cominciò la pubblicazione delle «notizie ecclesiastiche», giornale satirico di estrema violenza, che, ricercato attivamente dalla polizia, fu stampato ancora con un segreto impenetrabile e letto avidamente in tutto il paese. Un "soffio" rivoluzionario attraversò la Francia; ma non era ancora il "vento".
Tuttavia stava bene anche qui quella frase che molti anni dopo dirà Goethe durante la Rivoluzione "calma! non è la fine del mondo, e solo la fine di "un mondo".

Anche Filippo di Orléans, il futuro reggente del nipote del re, osò manifestare a viso aperto le sue idee scettiche in materia di religione. Venti anni prima questo sarebbe stato impossibile.

La letteratura del «grande regno» decadde irresistibilmente; essa doveva perire per far posto a quella pleiade di scrittori del secolo XVIII, che, accostandosi agli Inglesi, riprese e continuò dopo la morte di Luigi XIV l'antica lotta di questa nazione contro tutte le idee, le tendenze e le istituzioni di quel re.
Il tempo del classicismo, dell'ideale rigido e ufficiale era passato - spuntava il tempo di Montesquieu e di Voltaire. Non più la monarchia, ma la libertà, la verità e la scienza, spesso (a dire il vero) male interpretate, furono le bandiere, intorno alle quali si schierarono gli scrittori con vivo entusiasmo e con armi affilate, anzi più micidiali di quelle vere.
Non era ancora la Rivoluzione

Il 1° settembre 1715 morì Luigi XIV.

Moriva questo singolare personaggio, che sì, ha dato vita e ha rappresentato l'inizio di un epoca per la Francia e per l'Europa, ma che ha nello stesso tempo - lui personalmente - chiuso quest'epoca.
La sua dipartita avviene in un periodo critico per la Francia; e forse proprio per questo mentre lui moriva nella sua "dorata" Versailles, sulle sponde della (ormai lontanissima) Senna, i caffè, i teatri erano pieni, e in molti luoghi della Francia accesero i fuochi purificatori.
Fu un malinconico tramonto. Ma alla fine della guerra, Luigi XIV assai avanti con gli anni (76), s'avvide quanto fosse ingrato il suo mestiere di re; al nipote Filippo salito poi sul trono di Spagna gli disse "Se avete creduto che fosse molto facile e piacevole fare il re, vi siete ingannato di molto". Il giusto compenso anche se dava soddisfazione alla Francia, dopo i gravi sacrifici sostenuti dalla stessa per tanti anni (14) in una guerra rovinosa, l'animo del vecchio re non riusciva più a riaprirsi alla speranza; e oltre ai dolorosi lutti di famiglia che lo avevano già rattristato, subito dopo il trattato di Rastadt, venne aggiungersi la malattia, tanta malinconia e oscuri presagi.
La forte fibra resistette per mesi, poi la domenica del 25 agosto di quest'anno 1715, festa di San Luigi, le condizioni fisiche si fecero preoccupanti, i medici non ne fecero mistero e gli consigliarono di non attendere a ricevere i sacramenti. Il giorno dopo ebbe una ripresa e chiese di portagli il nipote Luigi XV; lo fece accostare e gli disse queste parole: "...voi sarete fra poco un gran re: non imitatemi nella passione che ho avuto nelle grandi costruzioni, né in quella per la guerra; cercate invece di star in pace coi vostri vicini...[ ] seguite sempre i buoni consigli e cercate di alleviare i vostri popoli, cosa che per mia disgrazia io non ho potuto fare. Vi do la mia benedizione con tutto il cuore".
Il venerdì 30 agosto ebbe una giornata travagliata, il 31 con il cervello annebbiato con brevi istanti di conoscenza, nella notte entrò in agonia, che alle 8 e un quarto del mattino del 1° settembre finì.
Tre giorni dopo avrebbe compiuto 77 anni, settantadueismo anno di regno.  54 vissuti come re assolutista, uno dei più lunghi che la storia moderna ricordi. 

Forse non fu mai abbandonata in modo così repentino, così compiuto e così cosciente una tendenza seguita per un secolo, come avvenne dopo la sua morte. Il momento, in cui Luigi morì, ha l'importanza di una rivoluzione. I sentimenti servili di fronte al poteri tradizionale, che avevano caratterizzato il secolo XVII, scompaiono innanzi al soffio di uno spirito più libero. Tutte le tendenze di opposizione, compresse fino allora dal terribile assolutismo di Luigi, prorompono violentemente ed abbattono di proposito tutto ciò che egli aveva fondato nel campo politico, in quello sociale, in quello economico, in quello religioso. Già il suo funerale fu fatto nel modo più semplice «per risparmiare spese e tempo»; il popolo di Parigi, che si crede liberato da un giogo insopportabile, non segue la bara del «Gran Re» anzi al suo passaggio per le vie lo accoglie non solo con invettive e con maledizioni, ma scagliandogli fango e pietre.

Nelle province si celebrano azioni di grazie e si mostra apertamente e senza timore la felicità di esser liberati da questo despota. Si era dileguato il ricordo e lo splendore delle vittorie gloriose, delle meravigliose conquiste, era trascorso il fasto abbagliante di sontuose feste e di costruzioni gigantesche, impallidita l'aureola di gloria, ond'era stato ricinto da vati ossequiosi; il disinganno era giunto.
Luigi non aveva in alcun punto raggiunto il suo scopo. La signoria sull'Europa, cui aspirava e che per un certo tempo aveva esercitata con tanta durezza e con tanto arbitrio, era sfuggita dalle sue mani. Aveva veduto battuti i suoi numerosi eserciti, umiliati i suoi alteri marescialli, oltrepassata la sua cintura invincibile di fortezze. Il nemico era più volte comparso sul suolo francese; le dinastie che si appoggiavano sulla Francia, erano state per questo tolte di mezzo.
Non più Luigi aveva dettato la legge ai suoi nemici, ma questi a lui. Contro il suo volere gli Annoveresi si erano stabiliti nella Gran Bretagna, gli Asburgo tedeschi in Italia. Contro il suo volere la Svezia, l'antica alleata della Francia, era caduta dal sommo della sua potenza e si era innalzata nel suo luogo la Russia, alleata dell'Austria.

Appunto la principale avversaria politica di Luigi, appunto l'Inghilterra produsse una tendenza intellettuale ed una letteratura, che era destinata a passare poi in Francia, per attaccare la monarchia borbonica nel suo proprio paese e per finire col farla precipitarla dal trono. Poiché anche all'interno il governo di Luigi aveva fatto naufragio, forse anche più che all'esterno.
E il lasciare il suo paese più povero e meno popolato di quello che non lo avesse ricevuto, con imposte enormi e terribilmente aggravato da debiti, non era nemmeno il danno più essenziale; vi erano ancora mali maggiori e più durevoli, che veramente rimasero a lui nascosti.
Distruggendo egli dovunque gli ultimi residui d'indipendenza personale e di libertà con la sua monarchia, ha scalzato a poco a poco la stessa. Aveva irritato tutti gli spiriti liberi e indipendenti contro di sé e contro la monarchia e li aveva costretti a resisterle.

Luigi XIV aveva separato la corona e la corte dal vero centro del regno, dalla capitale, da Parigi, dalle vibrazioni e dalle tendenze dell'anima popolare, e l'aveva esiliata nel fulgido deserto e nell'isolamento dorato e futile di Versailles. Il risultato finale fu d'irritare contro di sé tutti i ceti, tutte le classi della nazione e di indurli a cercare malcontente un cambiamento. Parlando egli sempre soltanto di sé, della sua gloria, del suo servizio, riferendo tutto nello Stato a sé stesso, richiedendo dalla nazione sacrifici solo per sé, fece apparire la monarchia come un sistema di sfruttamento di tutti a vantaggio di un solo.

Non si é mai dato forse un principato assoluto, che, come quello di Luigi XIV, abbia così poco fatto o almeno tentato di fare a vantaggio dei sudditi e specialmente dei più miseri. Un immenso sdegno contro questo potere egoistico, che di tutto si serviva a proprio vantaggio e nulla faceva per alcuno, si estese sempre a circoli più vasti, divenne sempre più generale e irresistibile. Non si odiava più la persona del re, ma la monarchia e questo sentimento così fatale per l'avvenire della Francia deriva dal regno di Luigi XIV.

Il sistema di Luigi aveva pure finito col fare naufragio nella politica ecclesiastica. Lo spirito di libertà, da lui perseguitato ed oppresso così a lungo, si sollevò di nuovo contro di lui sotto la forma di giansenismo. Fu questa la sola cosa, che lo tenne in apprensione sul letto di morte, e il suo presentimento in questo non lo ingannò. Il giansenismo divenne un fermento pericoloso di opposizione contro la monarchia francese alleata con Roma.

Che cosa fu dunque che procurò a Luigi mentre visse una splendida reputazione e dopo la sua morte ancora un secolo di ammirazione così multiforme? Questo non sarebbe stato possibile senza grandi e segnalate qualità di questo monarca. Il metterle in rilievo é dovere dello storico imparziale.

Si deve soprattutto esaltare la fermezza altera, con la quale attraverso tutte le vicende della politica e della guerra egli mantenne e si impegnò di porre ad effetto le stesse mire, le stesse idee, gli stessi disegni. Luigi non dimenticò in alcun istante che egli voleva e doveva essere il primo re del mondo. Non mosse un solo passo senza aver coscienza di questo: atteggiamenti, parole ed azioni, tutto insomma doveva corrispondere a questo ideale. E un sentimento simile non lo manifestò solamente nella fortuna, quando era sicura la vittoria, ma anche nell'avversità, quando egli sfidava la sorte peggiore piuttosto che commettere cosa sconveniente e disonorevole. La ricompensa di questa fermezza, di questa sollecitudine per la dignità sua e della Francia, non gli mancò; ad essa soltanto la Francia va debitrice dell'aver conservato le conquiste del Richelieu e del Mazarino, l'Alsazia, la Franca Contea e la Fiandra francese.

L'orgoglio personale era in Luigi congiunto nel modo più intimo con un vivo sentimento della grandezza e dell'onore del suo Stato; se egli credette che gl'interessi di questo si unissero nella sua persona, nondimeno se ne sentì anche continuamente responsabile. Non a torto disse una volta al Villars: «io sono anche più francese che re».
Ed egli conosceva egregiamente il suo mestiere di re. Con una cognizione eccellente degli uomini sapeva scegliere i suoi strumenti per la guerra e per la pace e porre con grande arte ognuno di loro al suo vero posto; anche da vecchio, quando lunghe amicizie lo indussero a molti errori, egli seppe ritrovare un Villars, un Vendôme, un Berwick e meritò così la gratitudine della nazione. Abbiamo detto "Nazione" e non "popolo" che è un'altra cosa, come disse qualche anno dopo Diderot.

Inoltre Luigi XIV non era un sovrano sfaccendato; era troppo persuaso della propria importanza e nutriva un interesse troppo vivo per lo Stato e per la propria grandezza, per non prender parte con la massima diligenza e risolutezza agli affari del governo e dell'alta politica. Non si può rifiutargli ogni merito sui grandi progressi della Francia sotto il suo governo, poiché questi troppo derivarono dal suo spirito e furono ripieni di esso. Sotto il suo dominio fu creato quell'esercito ben organizzato, che per molto tempo mantenne la gloria della Francia sui campi di battaglia dell'Europa intera; sotto il suo dominio fu creata quella costituzione della marina da guerra, che dopo tanti rivolgimenti nella politica e nella tecnica, rimase anche dopo in vigore nel suo paese. Egli ha condotto a termine l'ordinamento della macchina dello Stato, così efficace nel suo accentramento, e si é posto alla sua testa.

Se a tempo di suo padre il primo ministro dominava e governava veramente lo Stato in tutti i suoi rami, questo era ormai del tutto cessato; i capi delle singole amministrazioni stavano l'uno presso all'altro con eguali diritti e trovavano il loro centro comune nel monarca, che - se andavano oltre certi limiti - poteva in ogni istante porre un termine al loro temporaneo potere.

L'influenza, esercitata da questo sovrano (almeno durante il tempo del suo splendore) sugli elementi migliori e di maggiore talento nel suo popolo, fu così moralizzatrice che per tre decenni egli poté guidare nelle direzioni da lui volute la potenza creatrice di esso. Fu veramente regale e segno di un sentimento non comune che egli non riponesse la sua gloria soltanto nei buoni successi guerreschi e nelle vane pompe, ma anche nell'onore non passeggero di una elevata cultura letteraria ed artistica.
Anche per la scienza e per la letteratura francese egli creò quelle istituzioni ufficiali, che fino ai nostri giorni le governano. E appunto nelle cose intellettuali egli ha perpetuato la sua influenza e il dominio dello spirito francese in Europa.
Lo rende per sempre una figura memorabile e d'importanza mondiale il fatto che il mezzo secolo del suo regno sia divenuto a ragione per tutta Europa «l'epoca di Luigi XIV».

 

 

Ancora più a lungo che il rombo della guerra per la successione spagnola echeggiò quello della grande lotta, che la Danimarca, la Sassonia e Polonia e la Russia avevano impegnato contro Carlo di Svezia. Questo giovanetto diciottenne non si era perso d'animo di fronte a tanti avversari, confidando nella provvidenza e nella propria forza. Con un attacco risoluto su Copenhagen costrinse arditamente dapprima Federico IV di Danimarca alla pace ragionevole di Travendal (18 agosto 1700). Poi con 8000 uomini soltanto accorre nell'Ingria in aiuto alla fortezza di Narwa, investita dallo zar Pietro con 45.000 uomini; i suoi eroici soldati abituati alla guerra dispersero senza fatica quelle schiere barbariche (30 novembre 1700).
Delle vittorie così splendide aumentarono enormemente l'arroganza e l'ostinazione di Carlo. Invece di concludere con Augusto di Polonia, già intimorito, la pace, che costui chiedeva umilmente, e domare definitivamente il suo nemico peggiore e più ostinato, quale era la Russia, Carlo nel suo capriccio si decise a cacciare dal trono appunto Augusto II, progetto, da cui non lo poterono distogliere né le rimostranze delle potenze amiche né le preghiere dei suoi stessi sudditi, oppressi gravemente dai carichi di quella guerra, né gli avvertimenti dei suoi ministri.

Questa sua decisione finì con l'esser la prima ragione della sua rovina, e con questo e con l'indebolimento della Polonia raggiunto di fatto ha ottenuto soltanto il vantaggio della Russia, che a quella sua guerra nordica é debitrice dei suoi possedimenti baltici e dell'importanza conseguita poi in Europa. Ma forse anche perchè trovo come avversario un grande zar: Pietro I.

Carlo riportò all'inizio una serie di vittorie sull'esercito sassone-polacco e nella dieta elettorale di Varsavia (1704) costrinse i Polacchi a prendersi per re Stanislao Lesczinski, un nobile di ventisette anni, bonario, colto ed elegante, ma debole e superficiale ed inoltre privo di talento e di autorità, nel quale Carlo era certo di trovare un docile strumento. Però, mentre Carlo correva dietro al vano fantasma di un suo dominio in Polonia, Pietro I conquistava la maggior parte delle province baltiche della Svezia, dove nel 1703 poneva a Pietroburgo le fondamenta della futura capitale del grande impero degli zar, la quale era destinata a rivolgere gli sguardi di questo impero all'occidente, ai suoi esempi, alla sua cultura, al suo commercio.

Il re Carlo non sentì alcuna compassione delle sue province, spogliate e conquistate dai barbari Russi. Con una frenetica caparbietà inseguì fino in Sassonia il misero Augusto II, ad ispirazione di Luigi XIV, che mirava ad implicare il gran guerriero nordico in una lotta con l'impero tedesco, per distrarre questo e l'imperatore dalla guerra di successione.

Nell'autunno del 1706 il giovane Carlo comparve in Germania con forze abbastanza formidabili; snello e alto di statura, duro di muscoli e flessibile come l'acciaio, con occhio azzurre, acuto e penetrante, infaticabile negli strapazzi e nelle veglie, il miglior combattente e il miglior ginnasta del suo esercito. Considerava come risolutezza degna di gloria e come regale fermezza il porre ad effetto ogni suo capriccio. Con 20.000 uomini conquistò la Sassonia, vi mantenne una disciplina rigidissima, ma estorse all'infelice paese 22 milioni di talleri d'imposte di guerra e circa 29.000 reclute. Nel complesso l'elettorato aveva già dovuto sacrificare per la sterile corona del suo sovrano 60.000 uomini ed oltre a 100 milioni di talleri. Carlo finalmente costrinse questo principe alla pace di Altranstadt (24 settembre 1706), nella quale Augusto rinunziò a quella corona e riconobbe Stanislao quale re di Polonia.

Carlo, dopo aver vinto così due dei suoi nemici, decise di abbattere anche il terzo, e questo egli considerava come una facile impresa. Ma lo zar ideò un disegno di difesa, che corrispondeva alla natura del suo paese e un'altra volta ancora - nel 1812 - in proporzioni maggiori, si doveva mostrare alla prova come l'unico buono. Pietro si propose di devastare le province di confine, di ritirarsi dinanzi agli Svedesi e di attirarli così nell'interno del suo vasto dominio, dove la penuria e l'interruzione di ogni comunicazione con la patria dovevano essere i migliori alleati dei Russi contro il piccolo esercito svedese.

Era intento di Carlo di evitare possibilmente questi inconvenienti e vi sarebbe riuscito se, come era per lui il partito più naturale. muovendo dalla Curlandia avesse davanti tutto riconquistato le province baltiche, occupate dai Russi. Con queste province alle sue spalle, unito per mezzo di esse col mare e quindi con la Svezia, poteva più facilmente e sicuramente penetrare nell'interno della Russia.
Ma quello che era naturale e semplice non piaceva mai a Carlo XII, che invece poneva la sua gloria nello sbalordire gli uomini con gesta sorprendenti e nel risolvere problemi, che sembrassero impossibili. Ma ben presto si vide che la resistenza ostinata dei Russi nella difficile contrada di Smolensk, come le loro aotodevastazioni in quell'intero territorio, rendevano impossibile una marcia diretta su Mosca. (Smolensk allo stesso modo, fu fatale a Napoleone ed anche ad Hitler - entrambi iniziarono a perdere tempo a Smolensk).

Invece di tornare indietro e di marciare sulla Livonia, diede ascolto alle illusioni di un vecchio avventuriero, innalzatosi con i mezzi più riprovevoli, di Mazeppa etmano dei cosacchi dell'Ucrania; concluse con lui un trattato e nell'estate del 1708, nonostante l'aperto malcontento dei suoi sperimentati ufficiali, mosse verso l'Ucrania, quindi verso la steppa della Piccola Russia.
Però le promesse di Mazeppa svanirono come nebbia. Non si era costui assicurato minimamente il concorso dei Cosacchi, che invece nel momento decisivo disertarono da lui; egli ando incontro quasi da solo al re, che ormai si trovò nella steppa deserta, a centinaia di miglia lontano dalla patria, circondato dai nemici che ritirandosi bruciavano ogni cosa fino all'ultimo filo di paglia.

Nella primavera del 1709 Carlo aveva ancora soltanto 20.000 uomini dei 50.000, con i quali era entrato in Russia, ed anche questi soffrivano penuria di vettovaglie e di munizioni. Nondimeno assediò la fortezza di Poltawa sotto gli occhi di 80.000 Russi. Secondo la sua abitudine si espose così tanto al pericolo che fu ferito ad un piede e dovette comandare in barella (8 luglio 1709) l'assalto alle trincee dell'esercito russo e poiché, in seguito alla sua ferita non poté dirigere di persona la battaglia, tutto cadde in gran disordine e la giornata finì con la piena disfatta degli Svedesi.

L'esercito battuto, incalzato dai Russi che lo inseguivano contro il largo e rapido Dnieper, dovette poi arrendersi a Parewolotschna. Fu triste il destino di questi eccellenti soldati, che furono per lo più tratti in Siberia. Sui suoi campi di ghiaccio finì l'esercito svedese di Carlo e la gloria della Svezia.
Era stato così artificiale il predominio della Svezia, tanto povera di popolazione, nell'Europa settentrionale ed orientale che la sola battaglia di Poltawa bastò per rovesciarlo. Esso si fondava sopra un esercito assai bene provato ai disagi, disciplinato, sorretto da una famosa tradizione, un esercito, che Gustavo Adolfo aveva creato, Carlo X e Gustavo avevano migliorato e Carlo XII aveva condotto a gloriose vittorie e che del resto era formato in gran parte da mercenari tedeschi.
Quando Carlo XII per spirito avventuroso e per ostinazione ebbe distrutto questo esercito nelle campagne russe del 1708 e del 1709, la potenza della Svezia si sciolse come neve al sole. La battaglia di Poltawa ha determinato la caduta del Lesczinski e con ciò l'abbandono della Polonia al protettorato della Russia e l'ingresso di quest'impero nel mondo politico e civile europeo.

Essa fu così l'avvenimento più decisivo in tutta la storia del Settentrione e dell'Oriente dell'Europa.
Con soltanto cinquecento compagni Carlo trovò scampo a Bender in Turchia, dove ad onta delle ripetute richieste della Porta perché si allontanasse, rimase cinque anni interi, sempre adoperandosi per indurre gli Osmani ad una guerra contro la Russia.
Una volta nel 1721 vi era riuscito, anzi il gran visir Mehemet Beltadschi sul fiume Pruth circondò interamente lo zar col suo esercito. Ma Beltadschi trovò più utile lascirsi corrompere e concesse la pace a Pietro, che già disperava, con l'unica condizione che si restituisse alla Turchia la fortezza di Azow. Ulteriori sforzi di spingere alla guerra la Porta riluttante rimasero infruttuosi. Finalmente anche l'ospitalità maomettana fu stanca di questo straniero ostinato e arrogante. Il sultano Achmed III fece assalire in Bender la casa del re di Svezia e questi nell'ottobre del 1714 dové ritornare nell'Europa centrale. La sua dimora in Bender era stata del tutto inutile.

Nel frattempo il governo svedese, ordinato a monarchia assoluta, si era del tutto sfasciato. I Russi avevano invaso la parte svedese della Pomerania e i Danesi fatto prigioniero un esercito svedese a Tonningen. Così la Germania settentrionale baltica era attraversata e messa a sacco da Svedesi, da Russi, da Danesi, finché non le venne in aiuto uno Stato tedesco, la Prussia.

Il regno di Federico I si era svolto sempre più in modo svantaggioso per la Prussia, dei favoriti indegni, come l'avventuriere Kolbe di Wartenberg, oriundo del Palatinato, e l'intrigante egoista ed astuto conte Wittgenstein, dominavano la corte. Contro di essi il principe ereditario Federico Guglielmo formò poi un partito, che talora si pose in aperta opposizione con suo padre - circostanza che più tardi Federico Guglielmo ha del tutto dimenticata di fronte al suo proprio figlio Federico II il Grande. Favorita dall'alto, una corruzione vergognosa penetrò in tutta la classe dei funzionari, che si arricchivano a spese dello Stato e del popolo: ovunque regnava una smania di apparire e un lusso falso. La politica esterna era del tutto fuori strada, poiché Federico aveva saputo sparpagliare 25.000 Prussiani, che tutti gli anni combattevano per la grande alleanza, in modo che in nessun luogo potessero dare prova significante della forza e del valore proprio.
Dell'eredità di Guglielmo III, a lui un tempo assicurata solennemente, la gelosia degli Olandesi gli aveva accordato solamente Neuchâtel, che però ricevette unicamente perché l'assemblea del piccolo principato del Giura lo preferì a tutti gli altri competitori e gli Svizzeri presero le sue parti. La porzione di eredità situata sul territorio dell'impero tedesco e a lui pure promessa, le contee di Mors e Lingen, fu occupata da una guarnigione degli Stati generali, che però nel novembre del 1712 il vecchio Dessau scacciò, sostituendola con una guarnigione prussiana. Per i suoi servigi Federico non ottenne poi alcuna ricompensa dalla grande alleanza.

Federico I morì il 25 febbraio 1713. Sotto suo figlio Federico Guglielmo I avvenne in tutti i rapporti una reazione salutare contro il suo contegno vano e il suo fastoso libertinaggio. Federico Guglielmo era di sentimenti retti, onorevoli, devoto corpo e anima ai suoi doveri verso lo Stato, a dire il vero anche duro e rigoroso, d'idee ristrettissime.

Egli sapeva comprendere soltanto quello che aveva immediata importanza ed era poco adatto ad elevati punti di vista e a disegni grandiosi. Con mano ferma pose subito termine nella sua corte al governo dei partiti e licenziò i ciamberlani, gli artisti, gli artefici di oggetti di lusso, che suo padre teneva ai suoi stipendi; con dieci o undicimila talleri all'anno fu in grado di mantenere la sua corte. Le molte centinaia di migliaia da lui così risparmiate le adoperò per il suo esercito, che aumentò fin dal primo anno di sette reggimenti e che educò con una disciplina di ferro, a una rigorosa e cieca obbedienza cieca e ad una precisione inaudita.

Persona profondamente religiosa, ma rozzo ed ostile ad ogni raffinatezza culturale, tarsforma il suo Paese in uno Stato militaresco e burocratico, esigendo un'obbedienza incondizionata ("L'anima è di Dio, il resto è tutto mio"). Sotto la sua guida l'amministrazione assume un'efficienza esemplare. Riforma il Demanio Regio e la Camera generale dei Conti. Redige di sua mano per il Direttorio Generale, la massima autorità centrale, le istruzioni scritte. Sotto il suo regno viene incrementata l'agricoltura ed il commercio. La Prussia Orientale che era stata resa deserta da un'epidemia viene ripopolata con 15.000 esuli protestanti provenienti dal Salisburghese. Con un editto pone le basi per la lotta contro l'analfabetismo. Federico Guglielmo I fu detto anche il "Re Sergente" dato che vestiva continuamente solo l'uniforme e che dedicò gran parte delle sue attenzioni all'esercito permanente portato a 83.000 uomini. Egli fece anche del corpo degli Ufficiali, tutti nobili, il primo ordine dello Stato. La fanteria fu ammodernata mediante l'introduzione della bacchetta di ferro per un più veloce caricamento del fucile. Nel 1733 estese l'obbligo di leva a tutta la popolazione rurale. L'unico cruccio del suo regno fu il contrasto con il figlio ed erede al trono Federico che non condivideva i rigori militareschi ed il disprezzo per la cultura. Federico tentò pure di fuggire ma fu ripreso. Dopo la morte del padre (1740) divenne uno dei più grandi re di Prussia con il nome di Federico II il Grande e coniugò i propri interessi culturali con la struttura militare ereditata dal padre.


Anche nella politica esterna vi fu una reazione salutare. Il nuovo re raccolse insieme tutte le sue forze per salvare la costa baltica della Germania dal giogo degli stranieri e per acquistare la parte di eredità dei suoi antenati, di cui erano stati a lungo defraudati, cioè la Pomerania occidentale. Col consenso. del ministro svedese si addossò la difesa di Stettino contro Russi e Polacchi, con riserva che gli fosse poi restituita la somma qui impiegata; il resto della Pomerania fu dichiarato neutrale. Anche l'Holstein dovette al re di Prussia di essere salvato dai Danesi. E poiché Carlo XII, ancora da Bender, rigettò nel suo accecamento queste stipulazioni, Federico Guglielmo - qui si dimostrò molto abile - fece un trattato con la Russia, che gli garantiva la parte orientale della Pomerania anteriore con Stettino (1714).

L'Annover aderì a questo trattato per i paesi svedesi del Weser, da esso occupati. La sua cooperazione diveniva tanto più importante in quanto il suo sovrano Giorgio saliva allora sul trono inglese.
Gli sforzi della regina Anna, per procurare la corona a suo fratello Giacomo (III) con l'aiuto del governo «tory», erano andati a vuoto per il rifiuto onorevole di costui di accettare il potere regale col suo passaggio all'anglicanismo.
Questo rifiuto scisse il partito «tory», cosicché, quando il 1° agosto 1714 un colpo di apoplessia pose improvvisamente termine alla vita di Anna, quel partito non fu in grado d'impedire che la successione al trono toccasse alla casa di Annover, come aveva disposto la legge. Ancora una volta la causa del diritto divino regale doveva soggiacere al principio della sovranità nazionale.

Giorgio I era un principe duro, senza cuore e senza intelligenza, egoista e dissoluto, sebbene ecclesiasticamente pio. Per fortuna dell'Inghilterra conosceva troppo poco la sua lingua e la sua costituzione per potere esercitare un'influenza di qualche rilievo sulle sue sorti, così abbandonò il governo agli «whigs», di cui era debitore del suo innalzamento al trono, e che sotto l'influenza degli ultimi avvenimenti ottennero la maggioranza nella nuova camera dei comuni.
Soltanto con la fuga Bolingbroke poté sottrarsi alle conseguenze della condanna, a lui inflitta per alto tradimento, e subì così un giusto castigo per il suo procedere sleale nelle trattative per la pace di Utrecht.

Si era così formata una coalizione formidabile contro la Svezia, quando Carlo XII ritornò a Stralsunda, salutato con rumoroso tripudio dai sudditi, che - illusi - ancora si attendevano da lui vittoria e prede. Tanti rovesci e tante sofferenze non avevano scosso la sua presunzione. Cominciò presto la guerra contro la Prussia, che però lo respinse dentro Stralsunda. Leopoldo di Dessau passò nell'isola di Rugen, vi batté il re, lo costrinse a fuggire nella Svezia ed obbligò Stralsunda a capitolare (fine del 1715).
Nonostante ciò Carlo persistette nel continuare la guerra. Nessun insuccesso, nessuna sventura poteva insegnargli qualcosa. Con incredibile oppressione non solo s'imposero nuove tasse e prestiti forzati, ma si coniarono anche per più di 35 milioni di talleri delle monete di ripiego, prive di valore, e si stampò della carta moneta che nessunop al lato pratico voleva. Le spese importavano ogni anno 34 milioni, mentre le entrate ordinarie bastavano solo per due settimane.
Ma tutti questi sforzi immani rimasero senza frutto per la forte superiorità delle potenze collegate contro la Svezia, finché Carlo XII, davanti alla fortezza norvegese di Frederikhald, trovò la morte per una palla nemica (11 dicembre 1718). Il suo terribile sacrificio "funebre" erano stati i 6.000 Svedesi, mandati da lui in pieno inverno sui campi glaciali della Norvegia, dove tutti perirono ad eccezione di un migliaio.

Carlo XII non fu un gran generale; fu un avventuriere insensato e caparbio, che all'inizio riportò alcune vittorie, perché comandava un esercito eccellente e i suoi avversari possedevano solo truppe male esercitate. Appena gli furono opposti abili soldati, non subì che disfatte. Soltanto il suo coraggio temerario é stato il fondamento della sua fama. Non solo ha distrutto la potenza esterna della Svezia, ma anche per un secolo la sua prosperità interna. La popolazione della Svezia propriamente detta sotto il suo regno è diminuita di un nono. La sua vita privata era del resto senza macchia, la sua temperanza e la sua continenza era più che spartana.
Dopo la sua morte si scatenò il malcontento del popolo tormentato, che da lungo tempo fermentava contro questo assolutismo monarchico. L'assemblea rapidamente convocata mutò la Svezia in una monarchia elettiva, nella quale il potere toccò di nuovo all'assemblea e perciò all'alta nobiltà.

Questo nuovo governo nel 1719 si affrettò a concludere ad ogni costo la pace con le potenze nemiche: l'ultima e la più importante fu stipulata a Nystad nel 1721 con la Russia. Di tutti i suoi possedimenti di terraferma la Svezia riottenne soltanto la deserta Finlandia e la parte occidentale della Pomerania anteriore con Stralsunda. I ducati di Brema e di Verden divennero annoveresi, la parte orientale della Pomerania anteriore con Stettino prussiana (1720), le così dette province baltiche nel loro complesso divennero russe. Il duca di Holtein-Gottorp perdette i suoi possedimenti nello Schleswig, le cui parti fino a quel tempo separate furono riunite in un ducato speciale sotto il re di Da rimarca.

Queste guerre e il loro esito hanno spogliato per sempre la Svezia della sua posizione di grande potenza e procurato in suo luogo alla Russia il predominio nel Settentrione e nell'Oriente d'Europa. Tutto il Baltico rimase sotto il dominio della flotta russa. Ma specialmente sulla Polonia si doveva aggravare la mano dello zar. Questo regno infelice, che fu restituito a quell'Augusto II, privo di ogni carattere, uscì anche più indebolito che la stessa Svezia dalla guerra nordica.

Partiti tra loro in continuo disaccordo mettevano il paese in scompiglio, perché il re non godeva di alcuna considerazione e come straniero ispirava avversione soltanto; ogni dieta fu dispersa dal liberum velo; quasi ogni anno in qualche parte della repubblica si sollevava una «confederazione», una insurrezione della nobiltà, permessa dalla legge; con una decisione della dieta del 1717, in modo che contraddiceva a tutti i trattati, furono esclusi dagli uffici pubblici tutti i dissidenti, cioè i non cattolici. Per questo, sotto l'apparenza dell'amicizia, lo zar prese piede sempre più solidamente nella Polonia, che i suoi eserciti non abbandonarono più. Un partito piuttosto considerevole, comprato dall'oro russo, stava ai suoi ordini nella dieta.
Il totale indebolimento e la disorganizzazione della Svezia e della Polonia, come pure l'innalzamento della Russia a grande potenza, unica dominatrice del settentrione d'Europa, costituiscono il risultato definitivo e rilevante della guerra nordica. Per l'importanza delle mutazioni prodotte esso non cede a quelli determinati della guerra per la successione spagnola nell'Europa occidentale.

Ma presso quelle potenze si andava già svolgendo lo Stato, che era destinato a infrangere l'onnipotenza russa in quelle regioni, a porsi con uguali diritti al suo fianco e a difendere il confine a nord-est della Germania contro l'avidità del mondo moscovita; questo Stato era la giovane Prussia. Anche ad essa la guerra nordica aveva arrecato la possibilità di un forte sviluppo sul Baltico; gli Hohenzollern avevano qui per la prima volta strappato allo zar della terra tedesca. Essi cominciarono su due fronti a montar la guardia per la Germania.

Per tutte queste nuove condizioni, che attraverso due secoli hanno esercitato la loro azione fino ai nostri giorni, è pure caratteristica e fondamentale l'epoca di Luigi XIV.

Prima di iniziare l'epoca del Re di Prussia (Federico)
esaminiamo brevemente due importanti aspetti
di quest'ultimo periodo di Luigi XIV
Lo sviluppo economico , la cultura e i costumi
Iniziamo con il primo aspetto:

LO SVILUPPO ECONOMICO > >

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