-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

157. NUOVI ORDINAMENTI POLITICI - RIFORME DEGLI STATI

"FINIS POLONIAE": Questa è l'espressione che si dice usò il patriota polacco Tadeusz Kosciusko
per commentare la fine dell'indipendenza della Polonia alla "Terza spartizione" del 1795.
Qui la cartina del 1795 dopo la Terza Spartizione che porrà fine all'esistenza dello Stato Polacco
Le prime due sono in questo capitolo, la terza nel capitolo 168.

 

La spartizione di uno Stato europeo, esteso e costituito, com'era la Polonia, da una nazione autonoma, sarebbe stata impossibile nel secolo XIX. Fu compiuta invece nel secolo XVIII come un atto della politica di gabinetto, che non trovò le difficoltà e gli ostacoli da parte dello Stato interessato e poté superarli in modo insolito con un trattato d'interesse generale. L'impresa di cancellare la Polonia dal numero degli Stati, per tacere dello spirito di conquista dei governi assoluti, più o meno irriflessivo e seguace dell'opportunità, fu allora nel fatto una misura di pacificazione.

 

 

Era indifferente se ciò accadesse pezzo per pezzo o in una sola volta; poiché, quando si cominciò, si era decisi ad andare fino in fondo. Se in seguito il secolo XIX ha pensato diversamente intorno alla Polonia e al suo diritto all'indipendenza politica, questo é avvenuto per ragioni che rispetto al secolo XVIII appartenevano al futuro ed erano estranee non solo a tutto il suo modo dipensare, ma anche ai fatti.

L'amore per la Polonia germogliò in seguito alla potenza del nuovo principio di nazionalità, ed in parte anche perché il vero popolo polacco cominciò ad essere qualche cosa e a meritare l'altrui simpatia. E ciò avvenne almeno o principalmente quando lo Stato prussiano, nella parte ad esso toccata, cominciò ad educare questo popolo, tenuto prima in basso sotto ogni rispetto dall'aristocrazia e dal clero, e lo fece con la rettitudine e l'imparzialità positiva dei suoi sforzi, intesi a promuovere la cultura alquanto meccanica ma per questo tanto più efficaci, data quella condizione di cose.

Dopo il termine della guerra dei sette anni, l'avvenire destinato allo Stato polacco, che era allora in Europa il «grande ammalato», fu prima di tutto una leva importante e indispensabile della politica generale di Federico il Grande.

Questa era la sua situazione. L'Austria gli si offriva in ogni campo come nemica più o meno coperta. Anche la debole politica esterna della Francia rimaneva legata all'Austria in un'amicizia, sostenuta ben presto e rafforzata da motivi dinastici.
Il contegno dell'Inghilterra del 1761 era stato tale che Federico, come egli diceva, si sarebbe prostituito in faccia a tutta l'Europa, se fosse tornato
ad unirsi in qualche modo con quella potenza.
Gli restava quindi l'amicizia tutt'altro che spontanea della Russia per preservare la Prussia dall'essere isolata, per quanto temuta. E per questo Federico si giovò della comunanza d'interessi con la Russia a proposito della Polonia, e così la questione polacca passò allo stato acuto.

È un fatto che essa da lungo tempo esisteva nei pensieri che si agitavano nella mente di Federico, poiché nella storia la quantità delle opinioni e delle aspirazioni supera sempre di gran lunga tutto quello che si può condurre ad effetto. Riacquistare al sovrano che portava la corona prussiana la Prussia occidentale, territorio dell'ordine teutonico divenuto polacco nel 1466, ristabilire una comunicazione territoriale tra i paesi dell'elettorato di Brandeburgo e la Prussia orientale, erano mire che da lungo tempo formavano parte del pensiero politico degli Hohenzollern e della tradizione ereditaria della dinastia. Ad essa aveva dovuto adeguarsi Federico, infatti fin da principe ereditario ancora diciannovenne, in un suo saggio svolgeva in iscritto il tema nei concetti generali: «Acquistando noi questo paese (la Prussia occidentale) non solamente avremmo una comunicazione del tutto libera dalla Pomerania alla Prussia, ma anche terremmo in freno la Polonia».

Uno dei germi che portarono alla ""FINIS POLONIAE" risiedono in quella sciagurata consuetudine del "Liberum Veto" che aveva provocato una diffusa paralisi decisionale nella Dieta della Stato polacco. Infatti la mancanza di unanimità (ciascun membro aveva il diritto di opporsi) poteva paralizzare ogni decisione. Numerosi rovesci militari e politici nel corso del XVII° secolo avevano lasciato presagire questo esito oltre alla Guerra di Successione Polacca (1734-1738) ma la situazione precipita decisamente a partire dal 1764.
Proprio in questo anno il neo-eletto Re di Polonia Stanislao II Poniatowski, favorito della Zarina Caterina II di Russia, cerca di porre un freno all'anarchia e di imporre delle riforme, ma la stessa Russia che lo aveva appoggiato ora appoggia i suoi nemici e favorisce la formazione di Confederazioni di nobili, le Confederazioni di Sluzk e di Radom (1767). Queste organizzazioni impediranno la limitazione del "Liberum Veto". 
Così nel 1772 la Polonia diventerà l'oggetto mediante il quale si impedisce una guerra russo-austriaca giungendo alla Prima Spartizione della Polonia. Questo atto, benchè avversato da Maria Teresa d'Austria, vedrà anche l'Austria parteciparvi suscitando le ironie del Re di Prussia. La Polonia, così amputata della Prussia polacca a favore della Prussia tranne Danzica e Thorn; della Galizia e Russia Rossa a favore dell'Austria; della Russia Bianca a favore della Russia, dovrà anche accettare un diktat politico per cui si impegnerà a non cambiare la monarchia elettiva in monarchia ereditaria ed a mantenere il "Liberum Veto". 

Ma torniamo ai fatti. Negli anni, che seguirono la pace di Hubertusburg, prima di tutto per le ragioni principali da noi ricordate, e poi indotto e spinto da un gran numero d'incidenti, Re Federico (non più diciannovenne ma nell'Olimpo dei grandi condottieri) aveva cominciato a trattare la questione polacca come una questione vera e propria.
Nell'anno 1769 - e noi tocchiamo qui questo argomento solo in quanto concerne i rapporti tra la Germania e l'Europa occidentale - fece pervenire a Pietroburgo il preteso piano del Lynar a danno della Polonia, dandosi l'aria di critico spassionato e imparziale. Questo non fece alcuna impressione speciale e tale da incoraggiare, anche per la eccessiva indifferenza dell'autore segreto di quel piano.


Giuseppe II con il fratello Leopoldo

Subito dopo però GIUSEPPE II (1740-1790 - imperatore dal 1780 - figlio maggiore di Maria Teresa e di Francesco I), senza averne l'intenzione, riuscì gradito a Federico con lo scegliere ed intraprendere come lavoro di prova o come sua "prima opera", col quale intendeva emanciparsi dalla madre, un accrescimento dell'Austria sui Carpazi a spese della Polonia.
Ottenuto il consenso delle parti che si desideravano favorevoli a questa nascente partecipazione dell'Austria a quei piani, si venne il 5 agosto 1772 alla conclusione del trattato di Pietroburgo per una divisione parziale della Polonia.

Fu una delle meno nobili operazioni della storia moderna dei tre "grandi" del tempo. Cioè senza tenere conto della volontà e delle decisioni del popolo polacco ( una ferita che si trascinerà in seguito, fino ai nostri giorni).

Si venne anche alla ripartizione della preda, e questo asciugò in parte le lacrime versate dalla onesta Maria Teresa nell'accondiscendere a questa politica del figlio; essa scriveva al Lacy, allora presidente del consiglio di guerra, che aveva avuto l'incarico di trattare questo affare: «Il corriere di Pietroburgo ha portato qui sottoscritto l'infelice trattato di divisione. Anche di questo grande vantaggio, se pure lo è, sono debitrice a voi!».

Da parte sua Federico non ha mai pensato di chiamare diversamente che con il vero nome i motivi di questa comune spoliazione (rapina) della Polonia.

Nel secolo XIX le potenze, dalla rivoluzione francese e da Napoleone in poi, si sono abituate ad aver sempre in bocca le parole di umanità, di giustizia e di bene dei popoli. Hanno però continuato ad agire proprio come Federico, come Giuseppe e come Caterina. Dovunque l'agonia apparente o reale degli «ammalati», si chiamino essi Egitto, Turchia, Persia o Marocco od anche Corea e Cina sono adocchiate dall'avido volo delle aquile coronate o degli avvoltoi senza corona dei protettorati e delle spartizioni.

Poi l'impazienza é divenuta soltanto maggiore, poiché vi si é aggiunto l'interesse economico, che é senza paragone più vivo e spiccato. La preoccupazione di giungere troppo tardi (vedi Hitler) ed anche la catena delle gelosie reciproche sono le medesime, come erano prima o durante la divisione della Polonia, e la partecipazione di un elemento morale a questi problemi politici o alle soluzione date ad essi non é divenuta per nulla più rilevante o più elevata.

Nella rapina-divisione di Pietroburgo del 1772 la Prussia ottenne il territorio più piccolo, ma in compenso quello che meglio soddisfaceva alle necessità geografiche già indicate, le quali non lo erano nella stessa misura per la Russia e per l'Austria.
Ottenne il possesso dei palatinati di Pomerellia (senza Danzica), di Kulm (senza Thorn), di Marienburgo ed Elbing, in tutto 10.304 miglia geografiche quadrate con non più di 600.000 anime. L'Austria ottenne la Gallizia e la Lodomiria, 28.480 miglia geografiche quadrate, e circa tre milioni di abitanti e la terza potenza partecipante al "lauto pasto", acquistò la «Russia Bianca» con 31.600 miglia geografiche quadrate e 1.800.000 abitanti.

Quando il principe ereditario Giuseppe, visitando i paesi allora acquistati, fece una nuova richiesta per arrotondarlo, Federico di Prussia ricevette pure lui nel 1774 un supplemento nel territorio della Netze. Questi acquisti del 1772 e del 1774, sulla Vistola e sulla Netze, dettero a Federico l'impulso a compiere la parte certo non meno splendida della sua opera e a dimostrare con un luminoso esempio classico di conquista pacifica quanto la monarchia prussiana fosse benefica per i suoi sudditi.

Federico, parlando della sua epoca dopo la guerra dei sette anni, adopera volentieri l'immagine della lancia di Achille, che sanava le ferite da essa stessa aperte. E infatti fece molto presto a rimettere in sesto il Paese, a riparare i danni di quella lunga guerra che voleva far dimenticare; ed ottenne tutto questo con grandi sussidi alle rispettive province (venti milioni di talleri), con sovvenzioni per la ricostruzione di borgate e villaggi, con la concessione di immunità di imposte e col ristabilire l'antico conio delle monete.

Insomma la pace si mutò in pronto beneficio; una pace dovuta a quell'essere sempre stato Federico del tutto preparato nel 1763 ad un eventuale nuovo anno di guerra, secondo il suo detto, divenuto popolare, "di volere esser quello che disponesse del primo colpo e dell'ultimo tallero".

L'opera gli riuscì in pieno. Federico divise i suoi 46 anni di regno in due parti uguali: 23 anni li trascorse guerreggiando impegnando ogni mezzo per espandere la Prussia, e 23 anni li trascorse in pace, ma sempre impegnatissimo in un metodico lavoro di sviluppo, di organizzazione e di riforme del Paese, occupandosi perfino dei minimi particolari. Dalla mattina alla sera quando non viaggiava, esaminava montagne di relazioni che gli giungevano dal più remoto angolo del paese con le più insolite richieste.
Ma anche quando viaggiava, fermava e ascoltava anche il più rozzo contadino con la massima attenzione, non sottovalutando nulla. E se quello toccava con tanta ingenuità qualche problema serio, spesso sconosciuto, diventava degno di ascolto e non delegava nessuno a risolverlo, il problema diventava suo per cercarne una soluzione.

Soluzioni le trovò pure nelle gravi carestie del 1770 al 1772, nelle quali la Boemia perdette 180.000 abitanti tra morti di fame ed emigrati e la Sassonia 100.000, poté regolare il prezzo del grano con l'aiuto delle accantonate riserve militari e distribuire gratuitamente ai poveri delle granaglie. Così l'aver superato felicemente le angustie di quegli anni fu un invidiato titolo di gloria per lo Stato prussiano.

Creò le "armate di agricoltori", adoperando perfino i cavalli dell'artiglieria per arare i campi, assegnando ad ognuna zone particolari, spesso desertiche ("dopo la Libia ho io il più grande deserto"!) e in ognuna di queste (spesso quando non c'erano guerre, impiegando anche i soldati senza distinzione di grado) dovevano far sorgere villaggi, bonificare terreni, coltivare, piantare alberi, canalizzare fiumi. Il tutto sotto la sorveglianza di intendenti che prendevano ordini e riferivano i risultati dei lavori solo al sovrano. Decideva lo stesso Federico, dove far sorgere un villaggio, cosa dovevano piantare e cosa coltivare. Arrivò fino ai particolari quando aggirandosi nei pollai scoprì come si fanno le preziose uova, che - disse - "non costano nulla ma danno un alimento prezioso" e impose tassativamente "ogni contadino - per assicurarsi la cena - deve avere almeno 10 galline per fare uova".

Era Federico stesso, non i funzionari, a recarsi in ispezione dappertutto, a rotazione almeno due volte all'anno e ricordava perfettamente senza bisogno di burocrati cosa era stato fatto o non fatto (cosa rarissima) dall'ultima sua visita. E questo dava sicurezza e soddisfazione anche al più umile dei suoi sudditi, nonostante la limitazione di alcune libertà d'iniziativa, imposte ad altri soggetti più intraprendenti ma troppo scaltri, che Federico stroncava subito puntandoci il dito accusatorio appena vedeva un irrazionale risultato, o se c'era, lo criticava se il risultato non era mirato al bene comune, anche se minimo, che lui però considerava importante e a suo giudizio utile a tutta la popolazione. Odiava il lavoro speculativo, soprattutto quando l' alto valore aggiunto veniva realizzato con lo sfruttamento di poveri miserabili.

Proprio per questo ultimo motivo, pur non intaccando le proprietà nobiliari, ai Principi oltre che le sue indicazioni di come mettere a profitto i terreni, impose anche la sua filosofia nei rapporti con i loro contadini suggerendo "dovete essere i padri non i carnefici dei vostri contadini". La nobiltà, Federico la rispettò, ma nell'erigersi a campione della libertà dei deboli, lentamente cancellò (pur tenendo le due classi separate) la grande differenza sociale, più psicologica che materiale, quando dando l'esempio abolì ostentazione di ricchezze e agi pacchiani; in modo che i suoi nobili furono costretti anche loro a scendere da quei piedistalli di "sultani" che si erano nei piccoli regni creati con l'insolenza e con i gratuiti e scellerati maltrattamenti e angherie.

Ogni intervento di Federico in un paese, in una città, in una proprietà terriera, era una piccolo seme che germogliava poi in "quel" giardino locale, ma anche nel "suo" giardino, dove non erano più ammesse le piante "aristocratiche" solo "ornamentali" che assorbivano solo linfa e spazio vitale a quelle che invece davano tanti frutti se coltivati in una forma intensiva; e i frutti erano gli individui, la massa, e a questa dandogli un preciso punto di riferimento e l'adeguata istruzione (non escludendo la propaganda - e le sue visite fin nei più lontani villaggi - fatte a migliaia erano una propaganda) solo così si poteva costruire uno stato forte.

Questo assolutismo, questo togliere il potere politico alla nobiltà o la cancellazione delle ultime autonomie delle città, se da una parte creò una assolutistica potente macchina burocratica centralizzata tutta sulla sua persona, dall'altra fu compensata con la massima libertà nei confronti dei contadini fino allora servi, che gli furono sommamente grati, anche se dovevano ubbidire più di prima. Ma lo facevano volentieri. Nell'anedottica federiciana c'è un episodio emblematico. Un uomo si vantò per tutta la vita che Federico avesse risposto a delle sue lamentele con la brusca frase "cane, sta zitto!". Il vanto di quest'uomo era di aver ricevuto "una risposta" dal "suo" re e che questa risposta era stata cameratesca. Da un amico insomma, che ti diceva quello che pensava.

A parte questi coloriti episodi, tutta l'economia prussiana fu impostata all'eliminazione degli sprechi di chi possedeva molto, e nel perseguire severamente chi traeva vantaggi finanziari dalle debolezze e miserie altrui. Soprattutto i parassiti della società. Questi Federico non li sopportava proprio. Nobili e speculatori dovettero adeguarsi a improntare la loro vita a una corrispettiva semplicità ma anche a quella instancabilità che il "palazzo" mostrava. E dovettero anche smettere di "trattare i loro contadini come bestie da soma" dovevano mirare a una pace sociale, avere attorno amici servi, non servi costantemente nemici, dedicarsi a loro, e non solo all'oziosa agiatezza, ai palazzi dorati e alle feste che umiliavano i loro sudditi.

Come dimostrazione non insignificante della sua potenza, eresse il sontuoso Palazzo Nuovo a ponente di Potsdam e di Sanssouci.
Chi osò criticare che stava spendendo un patrimonio per questa reggia - che sembrò un capriccio ma divenne un tempio dell'arte - Federico fece capire che era un affare di stato, che bisognava pur dare l'impressione che il paese per vivere non raccoglieva solo gli "stracci" (più avanti capiremo questa parola) e che se il suo re si permetteva simili lussi - una reggia degna di Versailles - voleva anche dire che le finanze erano solide e prima di attaccare la Prussia, gli altri paesi dovevano pensarci non una volta ma due volte.

Il re era stato un eroe ed eroica fu l'opera di ricondurre il paese nello stato primitivo, anzi di sollevarlo sopra a quella prosperità, che aveva goduto prima della guerra. Non era ancora trascorsa una quindicina d'anni dalla guerra dei sette anni, e già gli scrittori stranieri di viaggi cominciarono a raccontare il meraviglioso sviluppo e le bellezze delle città prussiane e l'impulso dato all'attività della popolazione in ogni campo. Nel commercio internazionale si domandavano «per favore» i biglietti di banca prussiani; erano questi la carta monetata, che sembrava superiore ad ogni pericolo di perdere il proprio credito. Nessun istituto del mondo, come la «Banca di Berlino», fondata da Federico nel 1765 con anticipazioni del tesoro dello Stato, trovava denaro all'interesse del 2 e mezzo per cento.

Tuttavia dietro a questo sviluppo economico delle energie prussiane si celava un'intima debolezza. I mezzi e le teorie moderne di oggi sono differenti da quelle del tempo di Federico, ma anche le condizioni dei sudditi e la loro coltura erano in realtà diverse.
Il risultato ottenuto implica la dimostrazione della bontà di questa dittatura patriarcale della provvidenza di Stato. Quello che fu raggiunto si palesa interamente nel paragone immediato con le condizioni degli altri paesi tedeschi, perfino rispetto a quelli che le vicende della guerra dei sette anni avevano del tutto risparmiati.

Anche la Sassonia ci offre uno spettacolo migliore, per quanto avesse terribilmente sofferto dall'ultima guerra. Qui il meglio fu fatto dalla spontanea operosità e intelligenza della popolazione. Prese un prospero incremento l'utilizzazione dei tesori del suolo inoltre ci fu un gran sviluppo della fabbricazione dei tessuti di lino, delle trine, dei panni di lana, delle flanelle, nel settore dov'era molto antica la superiorità della Vesfalia, delle città anseatiche, dei Paesi Bassi e dell'Inghilterra.

Lipsia, che già era un importante mercato del grande commercio, superò le piazze commerciali, così ad oriente come ad occidente, e divenne una piccola Parigi, che si poteva anche vantare di contare diversi milionari in «livres» (secondo la misura internazionale); il movimento annuale del commercio librario, il cui centro si spostò in questo secolo da Francoforte sul Meno a Lipsia, nella celebre fiera di questa città fu calcolato a 500.000 talleri.

In Prussia Federico, con azione tutta personale della monarchia, ha ottenuto a forza il progresso del paese. Lo Stato, che era in passato agricolo con una modesta presenza di piccole industrie, nate ai tempi del Grande Elettore, fu da Federico sollevato a condizioni economiche ragguardevoli e più moderne, e nel farlo non rifuggì nemmeno da misure semiviolente.

Uno storico del tempo così ce lo descrive: "Federico è pieno di pretese per ogni sorta di superiorità. Si crede abile ministro quanto grande generale. Operoso e impetuoso egli decide sempre da solo e spesso di punto in bianco. I generali d'armata non sono altro che aiutanti di campo, i ministri dei commessi, gli addetti alle finanze operai addetti alla riscossione di tributi, i Principi tedeschi degli impiegati. E i militari in tempo di pace anch'essi devono dare il loro contributo ai lavori agricoli o a quelli industriali e devono anch'essi come gli altri sottoporsi ai controlli; nulla deve essere lasciato alla - spesso sconsiderata - iniziativa privata che opera solo nel suo egoistico interesse. Solo così - dice Federico- il popolo non patirà mai la fame, non sarà mai tormentato dallo spettro della miseria, non andrà mai in rovina, e le casse dello Stato - se non si spreca e non ci sono ladri- potranno rimanere sempre piene. Ognuno dovrebbe vergognarsi se nel suo Paerse esiste un solo uomo che ha fame o è in miseria".

E chi non condivideva questi suoi punti di vista, si insospettiva e per evitare i dubbi se era sincero o meno, preferiva sbarazzarsene subito.

I pretesti per tenere sempre tutti sotto controllo furono tanti, con i mezzi più insoliti.
Quando volle fondare l'industria della carta, mancando la materia prima, con una estemporanea "ricerca di mercato", scoprì che in ogni casa gli stracci si buttavano o si bruciavano. Mobilitò un esercito di raccoglitori a battere città, paesi e campagne. Non sappiamo se il vero intento era proprio quello, o se era quello di dare l'impressione che gli uomini del re erano dappertutto, anche per delle banalissime cose come potevano essere in questo caso gli stracci. Cioè non sfuggivano al controllo nemmeno più questi, figuriamoci i tesori occulti, magari frutto di ruberie fatte allo stato.
Non è una novità che dagli stracci e dai rifiuti si può risalire al tenore di vita di un cittadino e al suo spreco, e forse questa "furbizia" a Federico non sfuggì. Chi sprecava molto vuol dire che aveva i mezzi per farlo; bastava un controllo incrociato nel suo poderoso archivio delle tassazioni e scopriva subito se quello pagava in proporzione.

Nel ridimensionamento di una categoria di privilegiati - che era allora una "civiltà" atavicamente consolidata - Federico mirava - difendendo gli umili- prima a far nascere lentamente nei ceti bassi una convinta dignità come uomini, poi altrettanto lentamente portarli a desiderare una mano forte protettiva: cioè - Lui- che dava a loro la speranza di superare quei contrasti tra nobili e plebei che erano da tempi immemorabili sempre esistiti, sempre gravitanti sull'umiliante servilismo; i privilegiati li rimproverava così: "Siete stupidi a trattarli come animali, in caso di bisogno voi potete contare su degli animali, che ubbidiscono solo, ma operano male come degli animali".

Altra astuzia per non far nascere guerre di religione tra luterani protestanti e cattolici, che rovinavano con le loro divergenze di opinioni la pace sociale, la escogitò col motto "Nel mio paese ognuno andrà in cielo come vorrà, e non mi riguarda che santo si sceglie". Da buon preconizzatore del marketing, prima fece fare un sondaggio chi preferiva immagini (quadri, fazzoletti, statue, ecc.) di alcuni santi, poi ne permise la produzione regolando la quantità esattamente con la domanda. Non bisognava sprecare nulla anche nel fare i "santini".
Agli ebrei ripristinò il diritto di sposarsi ma solo se acquistavano un servizio di porcellana di una fabbrica, da lui voluta ideata e fatta costruire (sguinzagliando suoi uomini a spiare quelle estere)  per fare appunto concorrenza agli stranieri che vendevano stoviglie e oggetti vari in tutta la Prussia.

Tutti usavano i piatti, le stoviglie, ma nessuno in Prussia le produceva. "Ma cosa ci vuole per creare una fabbrica di piatti? dell'argilla, cioè quasi un nulla. Eppure importiamo piatti in quantità, arricchendo altri paesi". E così per altre cose. "Facciamo fabbriche". "Non ci sono tecnici, maestranze, bravi artigiani? In Austria cacciano via dei bravi artigiani protestanti, chiamateli qui, aprite a loro le porte della Prussia, dite loro di venire qui".

Ma queste fabbriche non le mise in mano ai privati ma allo Stato. Questo a dire il vero ebbe l'effetto di creare imprese regie promosse e favorite dal governo, a cui appartenevano specialmente fabbriche di velluti e di oreficerie, che ben presto aumentarono notevolmente il numero degli operai occupati. Le critiche dei produttori privati non mancarono , ma... «Si lasciò chiacchierare, noi si venne ai fatti», dice il re stesso, col suo sistema di azione energica e di aiuto dall'alto. Federico in sostanza perseverava nell'antico sistema mercantile, dovunque seguito e in Prussia suscettibile perfino di sviluppo. L'essenziale non é però il sistema o lo schema seguito, ma é l'opera abile nel campo pratico.
Modificare tutto se era necessario, o lasciare tutto com'era se pure questo era necessario.

Furono così migliorate notevolmente per mezzo di scuole speciali e avviate alla concorrenza le fabbriche di tessuti di lino nel piccolo territorio prussiano in Vesfalia, che aveva per centro Bielefeld, e quelle della Slesia, e inoltre avviate le fabbriche di panni molto più recenti. Manifatture di cotoni, cartiere, raffinerie di zucchero furono introdotte e in parte avviate per mezzo di sussidi. L'industria della seta, che prima aveva sede soltanto nella prussiana Krefeld, fu allora introdotta anche nella Marca elettorale e giunse ad un così brillante sviluppo, che nessuno avrebbe osato sperare così tanto.

Nel complesso si erano raggiunti quei vantaggi materiali e morali, che il sistema mercantile poteva arrecare in quelle date circostanze e in quei dati confini: un'esportazione industriale di circa 14 milioni di talleri con un valore annuo di 30 milioni della fabbricazione e poi il consolidamento ulteriore dell'unità politica, in seguito alla nuova vita economica, assicurato perciò anche nella coscienza della popolazione cittadina.
Anche i disinganni, che non mancarono, furono prodotti dall'intenzione di essere immediatamente pratici. Così avvenne quando Federico per far dirigere la regia, da lui stabilita (gabella o da tassa che era) estesa a un monopolio sui tabacchi e poi dal 1781 sul caffè, chiamò sistematicamente impiegati francesi perché conoscevano la materia. Questi furono stipendiati con larghezza ed ebbero pure parte nei benefici, purché si impegnassero ad accrescerli; ora di tutto ciò si sarebbe venuti a capo anche con impiegati prussiani meno lautamente compensati, mentre gli altri (operando come veri gabellieri) fecero irrimediabilmente odiare la regia messa da re Federico, che alla fine chiamò gran furfanti questi Francesi, sui quali tanto si era fidato.
Il suo successore ha poi soppresso l'amministrazione francese della regia e quello stesso monopolio.

Il sistema della protezione onnipotente dello Stato e col concetto che un bilancio commerciale vantaggioso sia dato unicamente dal valore del denaro contante, nella sua forma praticata nel secolo XVIII, invecchiò anche durante questo stesso secolo, e dovette cedere il campo a più recenti trasformazioni del pensiero su questi argomenti e a più recenti modi di stimolare le energie, ma ai suoi tempi ebbe il merito nella storia di avere nel campo del lavoro rafforzato energicamente e durevolmente in Prussia il concetto del potere politico e dell'individualità dello Stato.

D'altra parte ebbe anche l'effetto di stimolare lo spirito d'impresa in un modo del tutto sconosciuto prima, e difficilmente si sarebbe ottenuto con uguale fortuna affidando questa funzione al «lasciar fare» proprio del sistema fisiocratico. Rimane però sottratta per sempre al pericolo di divenire antiquata l'opera grandiosa di Federico nel campo della colonizzazione. Vanno con essa di pari passo l'innalzamento e l'educazione della popolazione agricola. Con grande estensione i fittaioli dipendenti furon trasformati sui beni demaniali in livellari e quindi in proprietari con capacità limitata di disporre; soltanto malvolentieri il re, di fronte alle rimostranze dell'aristocrazia proprietaria dei terreni (che gli forniva gli ufficiali) desistette dall'imporle la rinuncia alla dipendenza personale dei contadini dal loro padrone.

Ha però con rigore inesorabile impedito che si continuasse ad annettere dei contadini ai latifondi. Per opera poi di Federico, che anche in questo seguiva le tradizioni della sua Casa, dall'elettore Federico Guglielmo in poi, dando all'opera sua un'ampiezza maggiore, la Prussia divenne la terra promessa dell'emigrazione tedesca, come fu in seguito l'America.
Da quei medesimi paesi tedeschi, che più tardi hanno preso una parte specialmente considerevole all'emigrazione d'oltre oceano, Federico dal Palatinato, dalla Svevia, dal Meclemburgo e poi dalla Svizzera, attirò un numero considerevole di abili contadini, in parte molto avanti nelle esperienze pratiche, offrendo vantaggi speciali a chi immigrava nella Prussia.

Quest'affluenza verso la Prussia, che si valuta in tutto a 300.000 contadini e coloni tedeschi, non fu diretta soltanto nei territori polacchi di recente acquisto; ma anche molti fondi dell'antico territorio accolsero numerosi immigranti. Citiamo un esempio solo: chi ha l'occhio pratico, nelle piantagioni di ciliegi a Werder nella Marca, sarà sorpreso dalla forma delle abitazioni, nelle quali riconoscerà quelle degli esperti frutticultori del Palatinato, e si potrà abbandonare all'illusione caratteristica di essere trasportato improvvisamente dal paese delle interminabili dune interne di sabbia, in qualche florido vigneto o frutteto sul Reno.
Ma l'opera principale della colonizzazione, che fece sorgere circa 900 villaggi nuovi, si é compiuta tuttavia nelle regioni orientali: nei terreni incolti sull'Oder, fatti già prosciugare e dissodare da Federico prima della guerra dei sette anni, e poi nella Prussia occidentale dopo il 1772. Qui non si trattava di bonificare soltanto le depressioni paludose, ma di ridestare quasi sotto tutti i rapporti l'attività e le speranze di un paese, che, tedesco dai tempi dell'ordine teutonico, era poi decaduto sotto ogni aspetto nei secoli del dominio polacco, un territorio, nel quale le città erano spopolate, mancavano dovunque gli artigiani e la pianura si offriva in uno stato, del quale oggi possiamo approssimativamente farci una chiara idea soltanto varcando il confine prussiano verso la Polonia russa.
Brenkenhof é l'uomo che, nell'attuare le intenzioni di Federico, si è acquistato qui il maggior merito. Aveva già dato buone prove nella Nuova Marca e nella Pomerania ulteriore dopo che queste province al tempo dell'ultima guerra erano state ridotte dai Russi in un deserto sparso di rovine. Brenkenhof aveva anche costruito il canale di Bromberg dalla Netze alla Brahe, che congiunge la Vistola e l'Oder, compiendo così ad oriente il sistema di canali, così importante per lo sviluppo della navigazione interna e della politica commerciale del Brandeburgo e della Prussia, cominciato dal Grande Elettore per i territori dell'Elba e dell'Oder, e qui accresciuto da Federico stesso con i canali di Finow e di Plaue.
Mentre dunque negli anni 1772-1786 la corrente immigratoria di coloni contadini e cittadini cominciava la sua opera d'incivilimento nella Prussia occidentale, fin dall'inizio si era posto ogni cura nell'assicurare un giusto sviluppo a questa impresa anche con le proprie forze.

Subito dopo l'attuazione della prima divisione polacca in tutta la Germania si procurarono dei maestri di scuola; una compagnia di 150 uomini in "piede di guerra" invece che con le armi con sottobraccio abbecedari fece il suo ingresso nella Prussia occidentale a fare la prospera attività, una istruzione rispettabile con grande soddisfazione cittadina.

Quando gli altri Stati soprattutto asbugici cacciarono i gesuiti, Federico che ne conosceva la colta preparazione ed esperienza nell'istruzione, ne approfittò per procacciarsi - invitandoli in Prussia - ottimi professori fra l'altro a basso costo; cioè quelli che più nessuno voleva, procurandosi il meglio nelle sue scuole a poco prezzo, conducendo così in Europa, la prima vera grande lotta all'analfabetismo; l'obbligarietà a frequentare le prime classi elementari, di lì a pochi anni diede successivamente un grande impulso all'istruzione di grado superiore. Quando morì Federico, la Prussia aveva il 98 per cento della popolazione alfabetizzata, l'Inghilterra ci arrivò 125 anni dopo nel 1900; l'Italia e la Francia e perfino gli USA, dopo 180 anni nel 1950-60.

Così questo re resta ad un'altezza di valore personale mai raggiunta nella monarchia; uomo che fra le teste coronate ha una modernità simile da riuscire di gran lunga superiore ad ogni artificio e ad ogni mediocrità, e sovrano ad un tempo, che nel suo governo evita in pratica gli anacronismi, così ben accetti agli zelanti fautori della modernità, ma si tiene all'antico, quando questo possa riconnettersi meglio a quello che esiste. Perciò egli abbandona anche le correnti illuminatrici delle menti e le nuove idee, per quanto si senta affine personalmente ad esse, e mai invece abbandona il punto di vista della pratica monarchica, che dispone anche delle esperienze storiche, di cui si giova, ed é penetrata della propria responsabilità.

È un carattere non comune di Federico questa sua corrispondenza con la storia, questa continua vigilanza sopra sé stesso, seguendo i risultati oggettivi della storia stessa. Questo appunto lo sottrae dall'esser paragonato come scrittore di storia e di autobiografia a Giulio Cesare.
Mentre il Romano con l'arte straordinaria di un'apparente schiettezza compone i commentari delle sue gesta, a gloria della propria fortuna, qui sta invece in una tranquilla ed altera coscienza del proprio valore il monarca, che non ha bisogno dei mezzi del cesarismo, essendo nato ad una sicura eredità e nelle tradizioni della Casa di Brandeburgo, e potendo guardare nel passato alle imprese compiute e nel futuro ai doveri liberamente assunti.

Da lui, chi ha per primo accresciuto notevolmente l'importanza e il valore del proprio Stato, e lo ha innalzato tra le grandi potenze europee, é seguita con sicurezza cosciente la linea della storia, che lo ha preceduto. Prende le mosse dal Grande Elettore per mostrare che cosa nei suoi fatti e nei suoi buoni successi fosse semplice conseguenza della storia prussiana, delle sue condizioni, delle sue necessità; ed anche qui dallo storico e politico regale sono additate le vie del futuro, che per uno sviluppo organico della costituzione del suo Stato e dell'opera sua devono condurre ad uno Scharnhorst e ad un barone di Stein.

Non è arrischiato l'affermare che per l'ulteriore sviluppo della Prussia nel secolo XIX non sarebbe stata necessaria la grande rivoluzione francese, che ha scosso direttamente e trasformato la Prussia medesima meno di ogni altro Stato ad eccezione dell'Inghilterra. Si può al contrario affermare che la rivoluzione francese ha piuttosto nuociuto allo sviluppo della Prussia nel senso del suo rinnovamento pratico - non di quello relativo ai « principi » - a causa degli orrori, che screditarono le nuove idee e spaventarono gli animi più deboli dei successori di Federico e si frapposero come un ostacolo nella via dei suoi continuatori intellettuali senza corona.

Le stesse idee, che in Francia condurranno - e in modo fatale - alla rivoluzione, lungo il cammino seguito nella loro diffusione, mandarono rami ben presto e molto prima del 1789 verso la Prussia. Qui non presero però la forma dottrinaria ed esigente di diritti dell'uomo, ma la forma di un dovere politico, di una coscienza della propria responsabilità, di un obbligo di servire lo Stato, forma che si attuò prima nell'animo di Federico e veramente secondo la sua decisa volontà, esercitata soltanto in modo del tutto personale.

Ma appunto questo fu il risultato storico, da cui poteva prendere le mosse l'applicazione categorica di un Kant, e dal quale gli uomini del tempo delle riforme poterono sviluppare, creandola e traducendola in atto, la logica universale del diritto politico pratico. Questa via conduce così di per sé stessa dal dovere di servire lo Stato, praticato da uno solo, al dovere politico di tutti e deve contenere in sé, unito ormai inseparabilmente al dovere generale e a questa responsabilità verso lo Stato, anche il diritto di una simile responsabilità comune, donde procedono gli altri problemi intesi ad assicurare a questa compartecipazione di diritti e doveri nello Stato anche una forma di attuazione pubblica il più possibile sana, vale a dire priva di imitazioni, ma anche il più possibile adatta all'evoluzione che l'ha preceduta.

E IN AUSTRIA COSA AVVENIVA NEL FRATTEMPO?

In modo del tutto differente si presenta invece in AUSTRIA l'immagine di un governo illuminato, con l'episodio del dispotismo giuseppino, violento ed intollerante, incurante del carattere storico della monarchia e continuamente in opposizione ad esso, col risultato finale di un nuovo irrigidimento e di una fredda negazione di ogni vita politica sotto Francesco II e Metternich.

Nella notte dal 17 al 18 agosto 1765 moriva Francesco I e diveniva imperatore romano e correggente con Maria Teresa nei paesi ereditari il ventiquattrenne GIUSEPPE II, giovane cresciuto in mezzo al presentimento ed al desiderio di ciò che avveniva nel mondo del suo tempo e vi destava nuove energie, piuttosto che in un contatto effettivo con esso.
Era discepolo non persuaso di Maria Teresa, quale madre del suo popolo, animata da buone intenzioni nel senso conservatore, ed era in contraddizione con tutto quello che fin allora aveva dato norma alla Corte viennese; non era inoltre pieno di ammirazione ed ancor meno di amore per il suo nemico di ieri nella Germania del nord, cioè Federico il Grande, ma piuttosto di una specie di rispetto geloso e di emulazione di fronte a lui. Non l'amava, non l'odiava (come sua madre) ma l'imitava.

Per le doti ereditate dalla madre e poi in sostanza anche per il merito di un proprio ulteriore sviluppo, compiutosi spontaneamente, Giuseppe divenne uno dei monarchi più eminenti, benignità ed abilità che vi siano mai stati, un principe, che era prima di tutto uomo, anche in una semplicità del tutto naturale e altrettanto in sobrietà, alieno da ogni ostentazione. Non troviamo però in Giuseppe quella dura rigidezza nella disciplina personale e intellettuale, che é l'elemento più rilevante del carattere di Federico di Prussia, pure molto più epicureo dell'altro in gioventù, e vi troviamo anche meno di quello che sarebbe desiderabile in un monarca, che senta la propria responsabilità, la forza di vincere l'uomo tutto cuore e tutto impulsi grazie al politico positivo, che si giova dell'esperienza, acquistando così il sentimento di ciò che é possibile fare oltre che farlo nel momento opportuno.

Giuseppe in molte parti del suo carattere e del suo modo di pensare é troppo dipendente da sé stesso, e nell'intera sua vita rimane, senza potersi da ciò liberare, il prodotto di quello speciale spirito d'opposizione, destato in lui dalla sua giovinezza e dalla educazione ricevuta, da quell'educazione, che gl'ispirò le parole: «le anime buone credono di aver fatto tutto e di aver formato un grand'uomo per lo Stato, se il loro figlio serve la messa, dice il suo rosario, ecc.».

Con un totale disprezzo della tradizione austriaca, con l'ostinazione di un giovane saccente e l'impeto di voler diventare un riformatore, piuttosto impaziente, Giuseppe fin dal 1765 si dà alle cure della sua correggenza, la cui storia si riassume in una lotta più o meno tranquilla con la madre, che lo tiene però a freno. Ella non lo giudica male: «tu hai la civetteria dello spirito; quando tu credi di trovar dello spirito, gli corri dietro senza riflettere».
Ma tuttavia sa la madre che questa impazienza rivoluzionaria é onesta e nobile. Dal concetto santo, che ha dell'ufficio suo questo giovane monarca, il quale é animato da sentimenti umanitari e dal desiderio di far felici i suoi popoli e subito dona allo Stato il patrimonio paterno di 22 milioni di fiorini e col quale comincia in Austria l'era della direzione laica degli istituti ospedalieri e di beneficenza, Maria Teresa é disarmata ed in certi momenti si trasforma anch'essa, per quanto impensierita e disposta a censurare.

In molti altri casi rimane vittoriosa la sua resistenza e il freno in cui tiene il figlio, mentre in altri essa fa buon viso a quello che le spiace ma che non può proprio evitare. Deve accettare il convegno di Giuseppe con Federico, con l'«uomo malvagio», e per di più a Neisse, nella (rapinata) Slesia (agosto 1769), e poiché alla visita restituita da Federico a Mâhrisch-Neustadt presso Brunn é presente anche il Kaunitz, M.T. si consola nel vedere come il suo ministro torni incantato del contegno tenuto da Giuseppe e della sua abilità diplomatica di fronte al famoso re prussiano, che senza imbarazzo ha parlato con lui di tutte le cose possibili.

Ma Federico sapeva allora esattamente che questo giovane e ambizioso lorenese o asburghese «metterebbe l'Europa in fiamme» appena potesse, se lo si lasciasse fare. Le giornate di Neustadt e di Neisse indicano al presago re di Prussia con quale energia egli dovrà più tardi far la parte di moderatore e di ostacolo; ed ancora ammoniscono Federico a trattare con la massima attenzione e prudenza nelle sue relazioni con la Russia, le quali egli dovrà pure proteggere contro questo giovane sovrano così vivace nel formar vasti piani e nel ricercare ad ogni costo amicizie.

Maria Teresa rimane sempre uno degli esempi più belli del dispotismo dalle buone intenzioni, nel quale ella coltivava l'elemento riflessivo e tradizionale, mentre Giuseppe vi rappresentava il temperamento sperimentale. É tuttavia opera di Maria Teresa il consolidamento rilevante e tranquillo del concetto politico unitario dell'Austria, un'amministrazione accentrata, che Giuseppe cercò poi di compiere e d'integrare con misure più profonde ma anche piuttosto affrettate.

Maria Teresa lasciò che Giuseppe, come collega nel regno, abolisse prima di tutto ogni sorta di anticaglie e di devozioni di corte, i pellegrinaggi ai conventi, le lavande dei piedi - che ancora il re di Baviera o il reggente compivano su vecchi scelti tra il popolo, i così detti apostoli - e l'abito spagnolo di corte. Contemporaneamente si attribuivano già allo Stato un certo numero di poteri della Chiesa, si creavano difficoltà alla moltiplicazione dei conventi, si limitavano le processioni di offerta e i pellegrinaggi, divenuti un disordine per la loro estensione e per la loro frequenza, si limitavano i giorni festivi cattolici, troppo numerosi.
Si combatteva la superstizione e la credenza popolare nei miracoli con divieti dell'autorità; con ciò, a dire il vero, si vietarono anche molti tradizionali antichi costumi popolari di quel vecchio paese bajuvarico, così intimamente tedesco, come il portare la croce, come il flagellarsi in pubblico, e scomparve anche il «gioco del solstizio», i fuochi di S. Giovanni ed altri cose simili, poiché di queste cose non si capiva più il vero significato e il fondamento storico, ma in essi si ritrovava soltanto quello che vi era di rozzo. Si facevano solo per fare festa e per potersi così ubriacare. E questo non era di certo la modernità che stava sopraggiungendo.

Maria Teresa aveva troppo l'istinto delle cose pubbliche per volersi esporre incondizionatamente e senza intelligenza allo spirito, che allora correva per l'Europa ed aveva un difensore così vivace nello stesso suo figlio. Nel movimento per la soppressione dell'ordine dei gesuiti rimase neutrale ed attuò poi quella (mezza) misura «con riguardo, con mitezza e con buona creanza». Essa che già aveva rigorosamente custodito l'unità della fede e combattuto ogni tolleranza nei suoi Stati, dovette permettere che nell'anno della soppressione dei gesuiti, nel 1773, incominciassero nei suoi paesi ereditari le conversioni al protestantesimo, che negli anni seguenti aumentarono ancora: così nell'anno 1777 nella Moravia 10.000 persone passarono dalla chiesa cattolica al protestantesimo.

Maria Teresa abbandonò a Giuseppe l'amministrazione militare ed insieme al Kaunitz sempre di più anche la politica estera. Nel governo interno dello Stato si riservò tuttavia l'ultima decisione e non senza un sottile accorgimento trovò una via positiva per dominare nel miglior modo la tendenza moderna illuminatrice, che si annunziava così vivacemente nella crescente generazione, con l'indirizzarla nelle vie di una indulgenza moderatrice e di una facile accessibilità.
Così durante il suo regno si cominciò già a trasformare in istituti moderni di Stato le università, che di fatto erano state fin allora nelle mani del clero, e inoltre a riformare veramente in modo assai meno compiuto i ginnasi, che si trovavano sotto la stessa giurisdizione clericale, ma cominciò soprattutto la nuova era della subordinazione allo Stato delle scuole popolari austriache, che allora soltanto hanno acquistato una vera importanza, al pari di quelle prussiane di Federico.

Una via del tutto libera al «giuseppismo» si aprì con la morte di quella venerata e straordinaria imperatrice, avvenuta il 29 novembre 1780, quando comincia il decennio più memorabile nella storia di questa grande e vecchia monarchia feudale e clericale. «Je cesse d'etre fils!». È appena necessario dire che comincia l'«allegro» nella produzione legislativa di questo decennio, e che fin d'allora iniziano di per sé stesse ad agire le cause, che dovevano poi smorzarla.

Dal 1781 al 1784 gli editti dell'assolutismo giuseppino riformatore sono emanati frettolosamente l'un dopo l'altro dalle cancellerie di Stato, e si rivolgono sopra tutto contro l'indipendenza e il dominio goduto fin allora dal clericalismo. Prescrivono in Austria il consenso sovrano per le disposizioni spirituali del papa e degli ecclesiastici stranieri, vietano le comunicazioni degli ordini religiosi con i loro superiori esteri, il frequentare il Collegium Germanicum a Roma, il seminario storico della propaganda gesuitica, che continuava a sussistere in forma mutata solo esteriormente. Avocano allo Stato dalla giurisdizione ecclesiastica tutti gli affari temporali, vietano l'appello a Roma, prescrivono il giuramento del vescovo al sovrano e in modo che preceda quello prestato al papa.

Col gennaio 1782 comincia la limitazione dei monasteri; dei 2163 stabilimenti monastici della monarchia austriaca fino all'anno 1787 ne furono aboliti in tutto 738, sopprimendo con gli editti in una sola volta interi gruppi omogenei delle varie congregazioni.
I beni degli ordini soppressi furono presi ad amministrare dalla camera finanziaria di corte e adoperati per sopperire al difetto di preti, e a questo scopo fino dal 1783 anche dallo Stato furono istituiti seminari ecclesiastici nelle singole province.

Ordinanze di Stato danno forma al servizio divino, vietano le professioni monastiche, regolano quanto riguarda i cimiteri, introducendo in modo caratteristico le moderne misure igieniche, e che sotto Giuseppe II anche in altri campi furono affidate alla cura e alla vigilanza dello Stato.

Così questa vivace attività riformatrice del dispotismo illuminato non si adopera tanto per una trasformazione interna e religiosa della Chiesa, per la quale avrebbe dovuto scegliere un'altra base tattica e prendere in considerazione un «tempo» del tutto differente, quanto a compiere per mezzo di un'autocrazia laica indipendente una separazione dalla supremazia di Roma e dall'organizzazione internazionale del sacerdozio.
Lo scopo in tutto ciò é una chiesa cattolica di Stato con una netta separazione della competenza temporale e di quella spirituale e con la subordinazione dell'ultima all'alta sovranità del governo temporale.

Seguono dopo questi fin dal 1781 gli editti di tolleranza, le misure non di parità ma di liberazione del protestantesimo. La confessione luterana e l'elvetica, al pari anche di quella greco-cattolica ottengono il diritto dell'esercizio privato e della nomina autonoma di pastori e di maestri di scuola; non divengono però religioni di Stato.
Ma con ciò il protestantesimo respira liberamente, mentre in precedenza l'imperatore, prima e dopo la guerra dei trent'anni, aveva con i mezzi più violenti negato e annullato il suo diritto ad esistere; i 73.722 protestanti austriaci del 1782 crescono fino al 1787 al numero di 156.865 anime. Inoltre l'Austria abbandona il principio della segregazione e dell'oppressione degli israeliti, a cui si era attenuta Maria Teresa con una speciale convinzione.

Si aboliscono gli ultimi distintivi degli ebrei fino allora adotttati nel vestiario; sono liberati dalla «Leibmaut» (imposta personale); si elimina il famigerato salvacondotto; si proclama la loro uguaglianza nel diritto privato e si affrancano le loro scuole e università. Così comincia quella liberazione relativamente precoce del giudaismo in Austria, a proposito della quale si deve notare che ha dato al pari degli israeliti austriaci con quelli tedeschi un vantaggio, che non é sensibile chiaramente soltanto nell'ambiente colto di Vienna.

Come di fronte alla Chiesa così si poneva di fronte ad altri circoli, quelli feudali, guidati dall'antico spirito e dominanti da lungo tempo, questo dispotismo, che operava in fretta con le sue tendenze verso una prosperità ed una emancipazione universale. E in questo campo esercitava soltanto quell'azione livellatrice sociale, che è propria della monarchia assoluta, quale proprietaria unica di ogni diritto storico e che si era manifestata così chiaramente in Francia sotto Luigi XIV.

Giuseppe non era nemico della nobiltà, ma i privilegi che questa aveva ripugnavano sia al sovrano assoluto come all'innovatore intelligente, che in lui erano una cosa sola. Ciò che ancora sussisteva della cooperazione politica delle vecchie assemblee fu se non abolito, sensibilmente limitato e praticamente ristretto.
Inoltre nel 1781, con immensa impressione in tutto il mondo, fu abolita la servitù della gleba o la «proprietà sulle persone» come diceva la parola molto significativa, cioè fu notevolmente diminuito il vassallaggio nei rapporti fra il proprietario di terre e il contadino, e questo principalmente giovò al popolo delle campagne nelle province magiare e slave, mentre nei territori tedeschi della monarchia già da tempo non si poteva parlare più di una vera sottomissione personale del contadino. Le prestazioni personali, di cui disponevano i padroni, furono diminuite, il diritto alla proprietà fondiaria assicurato ai contadini e in una certa misura con minori imposte.

I contadini, e questo è l'essenziale, furono ormai tassati dallo Stato, e furono con questo riconosciuti come una classe con doveri e diritti pubblici. Ma non si deve dimenticare che l'abituale diffidenza dei contadini a cambiare i padroni, pratici delle condizioni locali, con i burocratici impiegati, fece sì che i contadini stessi non salutassero con gran giubilo gli editti della loro liberazione.
Fu invece dovunque il ceto cittadino e quello dotto liberale, che fece erroneamente a proposito della «abolizione della servitù della gleba» un gran chiasso; e questo ceto fu anche quello che ammirò le incisioni sentimentali e le poesie idilliache alla maniera di Giov. Enr. Voss, che sullo scorcio del secolo XVIII si occupava con tanta poetica fantasia della vita contadinesca.

Nel 1787 fu abolito in Austria anche il privilegio giudiziario dell'aristocrazia, che fu con questo posta in condizione simile a quella dei sudditi.
Nello stesso senso un certo numero di ritocchi resero pure più moderno la materia del diritto.
Nel 1873 fu dato vigore al nuovo diritto matrimoniale, che sottopose allo Stato il matrimonio, divenuto ormai, da sacramento che era, patto civile.
Nel 1786 seguirono le leggi sulle successioni e sulle persone e nel 1787 il nuovo diritto penale giuseppino.

D'accordo con tutto ciò, seguendo il concetto politico livellatore e accentratore, s'intervenne anche nelle condizioni dei Comuni. Un certo numero di competenze e di poteri pubblici furono avocati allo Stato e le città furono poste sotto la vigilanza delle autorità politiche.
Né meno intervennero nel campo degli ordinamenti finanziari gli stessi propositi statali di uguaglianza secondo principi di giustizia sociale; fra le altre cose con l'abolizione di antiche e particolari gabelle si attuò l'obbligo di tutti i proprietari di terre a pagare delle imposte. Ci pensò un efficiente r rigoroso catasto a fare un dettagliato censimento di tutte le proprietà esistenti nel Paese.

Così anche in Austria l'assolutismo, seguendo la sua propria logica, si fa anello di transizione fra lo Stato feudale e delle classi privilegiate e lo Stato moderno e compie il necessario lavoro di preparazione per rendere possibile una cittadinanza politica universale ed uguale, sulla base allora stabilita di una universale ed uguale sudditanza.

Fino a questo punto vi era veramente in Austria una via ancora aperta; e tra essa e un progresso ulteriore si frapponeva la reazione, che fu più violenta appunto in questa monarchia: un sentimento di esitazione e di spavento di fronte a una distruzione così frettolosa di tutto ciò che era tradizionale; e mentre dal lato delle menti progressive vi era la necessità di sfrondare e di riesaminare, dall'altro le menti tradizionali ricacciate indietro riprendevano animo e forze per conservare così com'era ogni cosa.
Questa reazione, di cui non dobbiamo qui seguire il corso, si gioverà poi di qualche cosa, che la scuola popolare austriaca era chiamata a disciplinare con cura assidua sotto lo Stato assoluto; questa era in altri termini la trasformazione dell'antica devozione religiosa, piena di preconcetti, in un sentimento non meno profondamente inculcato di sottomissione di fronte al governo, alla burocrazia e ad ogni autorità superiore, per quanto esteriore: invece cioè dell'emancipazione, ci fu una depressione livellatrice della personalità e del sentimento del suo valore, che si mostra in modo abbastanza valido ma anche questo esteriore, tuttavia sempre caratteristico dal punto di vista della storia dell'incivilimento: come nella formula di saluto «servo suo» e nell'intero sistema, con cui si esprime la cortesia austriaca.

Una volta ancora Prussia ed Austria vennero a cozzare politicamente e militarmente. Questa volta fu la Prussia pacificata, che si urtò nell'ambizione di Giuseppe II e nella sua tendenza ottimistica a un arrotondamento territoriale della monarchia, alla cui unificazione interna adoperava con ardore ma anche nella fretta le sue misure legislative.
Se noi consideriamo la cosa da un punto di vista tedesco, superficiale e di facile appagamento dobbiamo riconoscere a quest'imperatore, che, anche in quei pensieri di violenza esterna, vi era la stessa tendenza e la stessa logica, che lo induceva a fare del tedesco la lingua esclusiva dell'amministrazione accentrata del conglomerato tedesco-slavo-magiaro dei suoi Stati ereditari.

Lo scopo di Giuseppe a cui mirava allora verso l'esterno, era l'ingrandimento dell'Austria in Germania. Egli credeva di scorgere una buona occasione di acquistare la Baviera, il paese più affine di stirpe a quelli tedeschi dell'Austria, e quindi d'inalberare l'aquila degli Asburgo sul territorio principale della dinastia dei Wittelsbach, che per tanti secoli erano stati rivali e avversari di quelli.

Non voleva trascurare un'occasione, che pareva straordinariamente favorevole, e dopo che fu andato a vuoto il primo attacco troppo affrettato, voleva sacrificare di buon grado, come compenso per vincere le difficoltà, i Paesi Bassi spagnoli, divenuti austriaci.
Erano il possedimento più remoto dell'Austria e in pari tempo il centro principale del dominio clericale, che Giuseppe con le sue riforme poteva raggiungere con minor vigore degli altri e che nel calice d'oro della felicità illuminata dei popoli gli porse a bere ben presto l'amara feccia dell'opposizione alla liberazione dal clericalismo e poi dell'aperta rivolta.

Il 30 dicembre 1777 morì senza figli l'elettore Massimiliano Giuseppe di Baviera. Era suo erede il Wittelsbach palatino della linea di Sulzbach, che possedeva anche Jülich e Berg, quel Carlo Teodoro, di cui abbiamo già parlato. Non aveva alcun figlio legittimo ed erede diretto, ma gli fu ora da Giuseppe fatta sperare una buona occasione di vedere legittimati per autorizzazione imperiale in posizioni ragguardevoli e riccamente dotati i figli nati dai suoi amori clandestini.
Però il signore di Schwetzingen sentiva una grande ripugnanza personale a cambiare le miti zone dell'amena regione del Neckar col freddo e piovoso altopiano bavarese e con la famigerata aria malsana di Monaco, che fino a re Luigi I e ai provvedimenti sanitari del Pettenkofer dal punto di vista dell'incivilimento fu piuttosto un grosso villaggio che una città. Il pensiero degli obblighi che incombono al principe politico e al sovrano, non si era mai mostrato nella sua necessità e nel suo rigore alla mente di questo signore sensuale e fiacco. Restava ben volentieri presso i suoi sudditi del Palatinato e godeva fra loro di una certa popolarità, anche perché lasciava andar le cose per la loro china e perché dal tempo della reazione dei Neuburg anche questo popolo, un tempo così valoroso nel suo protestantesimo, si era addormentato, cullandosi in una ben accetta indolenza; questo popolo che più tardi, quando il Palatinato della riva destra del Reno (1803) divenne badese, si é opposto con l'avversione di chi ama il quieto vivere e con un culto ostentato per i ricordi del tempo di Carlo Teodoro, perfino al senso munifico di riforma, moderato e ispirato da amore paterno del mite e venerato Federico di Baden.

Così questo elettore con incredibile leggerezza acconsentì a dare ascolto ai disegni di Giuseppe, e i motivi giuridici e politici, di cui per decoro si aveva bisogno, furono trovati con non minore leggerezza e superficialità dai giureconsulti dello Stato. Diversi territori bavaresi provenivano da feudi austriaci, e in genere non si poteva ammettere per ragioni giuridiche che due grandi elettorati fossero riuniti nella stessa persona. Appena Massimiliano Giuseppe era stato accompagnato alla tomba, l'erede Carlo Teodoro da Mannheim e Schwetzingen, fece stipulare il trattato di Vienna, col quale rinunziava alla Baviera inferiore, all'alto Palatinato e a una grande parte della Baviera superiore.
Era questo il preludio, appena velato politicamente, di un'avanzarsi dell'Austria profondamente nella Germania meridionale. Ed oltre i limiti della Baviera questo deve avere suscitato negli attori, come nei commossi spettatori dei piani, che si andavano allora attuando, il ricordo dei ripetuti avvenimenti del tempo degli antichi Asburgo, quando l'Austria con i suoi possedimenti nella Svevia e sul Reno, ancora notevoli nel 1772, aveva disteso l'avida mano sul Württemberg.
Divenuta asburghese tutta la Germania meridionale, la «libertà» degli stati generali dell'impero era minacciata dalla prevalenza territoriale della Casa di chi portava la corona imperiale; questo poneva in agitazione i politici dell'impero tedesco e faceva volgere gli occhi di tutti, cattolici come protestanti, verso quell'unico uomo che poteva recare un aiuto, cioè verso Federico il Grande.

Se di fronte a questi piani, con un simile ampliamento dei domini della Casa di Asburgo nella Germania meridionale, e con un passo tanto significativo verso il ristabilimento del predominio della potenza imperiale in Germania, per di più sotto un monarca di buoni intenzioni, illuminato, indipendente da Roma, e personalmente di sentimenti tedeschi, si fosse potuto affermare che era lecito ormai di nutrire speranze in un avvenire nazionale tedesco, appunto il precedente contegno dell'Austria nell'impero avrebbe avuto per risultato di spegnere simili idee nazionali nella Germania di quel tempo ed ogni fiducia dei Tedeschi nell'impero.

Anche se la Germania avesse avuto una garanzia che quella tendenza del governo di Vienna dovesse continuare a lungo, pure la costituzione troppo decrepita dell'impero non comportava più in genere tali speranze di uno spontaneo ravvedimento. Ed anche ingrandita nel mezzogiorno della Germania, l'Austria rimaneva pur sempre il territorio dell'impero, che sovraccarico di paesi non germanici sembrava che vietasse di per se ai suoi sovrani di formar piani ottimistici e unilaterali per ristabilire una monarchia tedesca.
È l'elemento tragico e il conflitto, la contraddizione derivante dalla situazione e dalla storia precedente, che si riflettono nel complesso degli sforzi di Giuseppe; e soltanto mantenendo il suo assolutismo personale ed accentrato, gli sarebbe stato possibile di rendere moderna la sua monarchia dalle molte nazionalità e di esser quindi liberale con un metodo conservatore, così avrebbe potuto mirare nella politica esterna ad un alto fine tedesco ed essere tuttavia impossibile anche per la Germania quale monarca tedesco illuminato.

I disegni germanici di Giuseppe II giunsero proprio in un momento, in cui per la maggior parte dei principi tedeschi la vecchia idea dell'impero non comprendeva più obbligazioni di nessuna sorta. E se indipendentemente dalle tradizioni politiche imperiali ed anzi in contrasto con esse, da poco cominciava a vivere e a presentire il futuro una coscienza nazionale tedesca, questa rivolgeva gli occhi e le prime timide speranze allo Stato di Federico il Grande.

Ad esso si rivolse anche quel principe della Casa di Wittelsbach, del cui diritto, quale suo erede designato per agnizione, si diceva che avesse disposto Carlo Teodoro, senza darsene troppo pensiero, come in realtà aveva sempre fatto; era questi Carlo II del Palatinato dei Due Ponti. Quindi Federico il 14 aprile 1778 indirizzò la lettera, che dava ragione delle sue obiezioni, non a Maria Teresa, ancora viva in questi fatti, ma a Giuseppe II, che aveva preso e dirigeva in modo personalissimo questa iniziativa.
Ed avendo cominciato gli eserciti delle due parti dal luglio in poi a manovrare l'uno contro l'altro nella Boemia, ebbe inizio la guerra della successione bavarese tra l'Austria, che mandò in campo Lacy e Laudon, e la Prussia, che invocata difendeva il diritto violato.

Questa guerra che è riportata come tale nelle tabelle storiche, non fu nei fatti che una trattativa diplomatica armata. Per la mediazione energica di Caterina II in favore del principio sostenuto da Federico II, cioè contro un repentino ingrandimento dell'Austria, contro lo stabilirsi della sua dominazione nell'impero tedesco e lo spostamento dei rapporti fra le potenze dell'Europa orientale, il 13 maggio 1779 fu conclusa la pace di Teschen, per la quale l'Austria si accontentò dell' «Innviertel» bavarese, cioè del paese fra il Danubio, l'Inn e la Salza e rinunciò ad opporsi al diritto di successione della Prussia per agnizione su Ansbach e Baireuth, che in questa occasione aveva servito da appiglio.

Con un palese trionfo la politica prussiana, senza mostrarsi rigida e intrattabile rispetto ad ogni buon successo dell'Austria, aveva mantenuto l'ordine storico contro un audace disegno, che con le sue conseguenze avrebbe rovesciato dalla loro base le relazioni degli Stati dell'impero; la Prussia conseguì con questo l'ufficio di custodire la costituzione dell'impero contro lo stesso imperatore. Fu questo un effetto d'importanza dimostrativa anziché effettiva e almeno per il momento nazionale; era però di quelli che hanno in sé un grande valore per il futuro.
Furono questi gli eventi, che fecero nascere non solo in singole persone colte e di sentimenti nazionali, ma nella stessa compagine politica dell'impero l'idea che i principi di questo dovessero rivolgersi alla Prussia per assicurarsi la propria sovranità. Queste impressioni e queste considerazioni hanno poi condotto, seguendo il corso delle cose, alla fondazione della lega dei principi, che non si può collocare accanto alle creazioni politiche del 1866 e del 1870, ma che nondimeno quale fenomeno storico sotto molti aspetti ha condotto alle tendenze e alle necessità, che nel secolo XIX hanno determinato il passaggio alla Prussia della direzione degli affari germanici, ampliato il programma nazionale e resa possibile la sua attuazione.

Intanto Giuseppe non lasciava abbandonati i suoi piani e trovava preparato ad assecondarli l'elettore, che mal soffriva il suo trasferimento a Monaco, da lui tanto malvolentieri mandato ad effetto. Soltanto da allora in poi Giuseppe procedette con molta maggior cautela. Era stata Caterina II, che aveva offerto il proprio appoggio diplomatico e internazionale a Federico II, che nella guerra del 1778 non si trovava in una situazione molto favorevole con i suoi armamenti.
Giuseppe andò a visitarla nell'anno 1780, senza darsi pensiero dell'opposizione decisa di Maria Teresa (ancora viva per pochi mesi) contro un impegno troppo lungo dell'Austria per il solo proposito di attuare ad ogni costo i disegni sulla Baviera. Nei fatti riuscì all'amabile e versatile imperatore viennese di avviare un'amicizia, se non essenzialmente personale, almeno manifestata con molto fervore con la donna di forte carattere, che sedeva sul trono degli Zar, con la rivale del re prussiano, quale regnante riformatrice, quale mecenate degli spiriti moderni, corrispondente di Voltaire e degli enciclopedisti ed essa stessa scrittrice.
Poi nel 1780 morì Maria Teresa ed anche riguardo ai suoi piani sulla Baviera cessò Giuseppe per ultimo «d'etre fils»; Federico il Grande sapeva bene perché un momento dopo, non solamente rispetto al governo interno austriaco, quegli pronunziava il suo «voilà un nouveau ordre des choses» ! Ormai, poiché Giuseppe senza gl'impedimenti postigli dalla madre disponeva di tutte le risorse dell'Austria, volle al suo piano togliere dinanzi all'Europa il carattere di un incomportabile aumento della potenza austriaca, cedendo in cambio della Baviera i Paesi Bassi belgi, e contribuendo a fondare per l'elettore Carlo Teodoro un regno renano-belga, che in una certa misura si estendeva continuamente dai confini badesi a Jülich e Berg, appartenenti al Palatinato.

Contava sulla circostanza che allora anche la Francia, la quale, nonostante l'alleanza faticosamente rinnovata con l'Austria, nel 1778 si era comportata molto tiepidamente e in segreto si era compiaciuta dell'atto di Federico: considerò che era meglio avere vicino ai suoi confini del nord-ovest un sovrano di media potenza che non l'Austria.

Questa volta perciò, tuttavia non senza qualche illusione, il suo progetto era molto meglio calcolato, specialmente rispetto alla Francia.
Ma invece nell'impero l'angustia e l'eccitazione furono anche maggiori che per la sorpresa del 1778 e fu più unanime l'intesa, perché non fossero segregati dall'impero i Wittelsbach, data la loro importanza storica, essendo destinati a fare equilibrio agli Asburgo e all'imperatore.
In questa condizione di cose, s'incontrarono nello stesso proposito gli Stati cattolici dell'impero, che avevano sempre avuto nella Baviera il loro capo più ragguardevole, e quelli protestanti che dividevano le vedute e gli interessi della Prussia.

E così, come nel 1778, riposavano su Federico tutte le speranze del sovrano di Due Ponti, che di fronte alla violenza a lui riservata stimava le future speranze a proposito del Belgio molto pericolose e prive di ogni valore. Da tutto questo, per una spontanea serie di riflessioni concordi, anche di alcuni abili governi di piccoli Stati, risultò quella unione, che fu iniziata nell'ottobre del 1784 dalla «proposta di un'alleanza tra i principi tedeschi secondo il modello di quella di Schmalkalda», scritta di proprio pugno da Federico.
Da questo «exposé» prussiano, dopo che tra gli altri l'Annover ebbe manifestato le sue buone disposizioni e la sua adesione, nel marzo 1785, nacque la nuova «Proposta di una lega dei principi imperiali tedeschi, in conformità alla costituzione dell'impero».

 

In queste ultime parole è riposto un importantissimo accenno di questo atto al futuro, col quale si spingeva la monarchia prussiana ad essere il centro e la protettrice degli interessi dei principi tedeschi. È riposto anche nella circostanza che la Prussia prese sopra di sé in prima linea i carichi della lega e quello di raggiungere lo scopo anche con mezzi militari, qualora necessari; è riposto quindi nel fatto che si stabiliva già l'egemonia militare della Prussia nei riguardi dell'interesse generale dell'impero.
Il pericolo del 1778, quello cioè che la Germania meridionale divenisse austriaca e il rimanente dell'impero e il nord fossero sminuzzati, si era così invertito in ogni sua parte in una nuova situazione, nella quale l'impero era d'accordo senza l'Austria, con o sotto la Prussia, e in «conformità alla costituzione dell'impero» si era unito in una lega contro l'Austria, che incatenata inseparabilmente a paesi e a interessi non tedeschi, finirebbe con l'approfittare del suo ingrandimento in Germania soltanto per i suoi fini e per la sua situazione.

Il « trattato di associazione » del 23 luglio 1785, che risultò da questi preliminari berlinesi, la «lega dei principi», come fu chiamata generalmente, fu sottoscritto, insieme all'elettore di Brandeburgo, dalla Sassonia e dall'Annover; vi aderirono poi l'uno dopo l'altro Weimar, Gotha, Due Ponti, Brunswick, Magonza, Baden, Assia-Kassel, Osnabrück, le Case di Anhalt, Ansbach, Birkenfeld e Meclemburgo.

La lega aveva fatto il suo dovere e aveva già scompigliato i piani di Giuseppe, soltanto entrando sulla scena con un programma; fu però l'addio di Federico il Grande con la sua instancabile opera quotidiana, che ebbe termine gloriosamente e tranquillamente nella notte precedente al 17 agosto 1786 nella quieta camera di Sanssouci, dopo una vecchiaia lieta di ciò che é umanamente nobile.

Anche la sua fine, ci rivela il carattere ostinato, ma anche stoico di quest'uomo. A 76 anni, in una giornata che era iniziata ed era poi continuata sotto un acqua torrenziale, dovevano sfilare le sue truppe in una grande parata commemorativa; Federico non rimandò affatto la parata, poi impassibile rimase ritto per 6 ore sotto il diluvio a veder sfilare i "suoi" soldati. E fu l'ultima volta.

Si prese una broncopolmonite e data l'età gli venne un collasso, ma appena si riprese volle nelle ore notturne recuperare il tempo perduto per l'inconveniente. Ma non arrivò al mattino, alle due di notte un altro attacco poneva fine a quel Federico che meritatamente gli fu dato l'appellativo di "Grande".

Nel terminare questo periodo
e prima di entrare nei Prodomi della Rivoluzione
diamo uno sguardo a ....

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