-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

L'EUROPA DOPO DUE RIVOLUZIONI - ( 1849 - 1871 )


203. 12) - IL SECONDO IMPERO E LE POTENZE EUROPEE


Dopo la Guerra in Crimea - Il Congresso di Parigi del 25 febbraio 1856

Il problema del riconoscimento del secondo impero da parte dell'Europa fu per lungo tempo in prima linea nella politica internazionale.
La Gran Bretagna, la Sardegna, Napoli, la Spagna, la Svizzera, e anche alcuni Stati secondari tedeschi acconsentirono senza esitazione a riconoscere l'Impero francese in mano al nipote del "grande Corso".
Invece l'atteggiamento delle Potenze orientali fu, per qualche tempo, ambiguo.

A Berlino Napoleone III - prima del colpo di Stato - aveva fatto offrire per mezzo del suo fiduciario Persigny l'alleanza contro il comune nemico, l'Austria: la quale si opponeva agl'interessi francesi in Italia, e a quelli prussiani in Germania. «La natura delle cose richiede tanto in Italia, quanto in Germania un'evoluzione nazionale. Noi ci guadagniamo abbastanza, se cacciamo l'Austria dall'Italia; in seguito il paese potrà costituirsi conforme ai suoi desideri. Se voi ci aiutate a conseguire lo scopo, siamo intesi che voi potete riassestare la Germania secondo le tendenze nazionali».

«In queste parole - dice il Sybel - è contenuto il sistema che Luigi Napoleone per un decennio proseguì con assidua coerenza».
Sarebbe stata una favorevole occasione di vendicare l'umiliazione di Olmutz; però Federico Guglielmo IV non credeva affatto di aver ricevuto uno scacco, ma semmai di aver fatto un onorevole sacrificio all'unità tedesca; quindi l'offerta dei Persigny fu rigettata cortesemente, ma con risolutezza.

Se l'agente di Napoleone dopo il rifiuto di Potsdam fece simili promesse all'inviato austriaco a Berlino, barone Prokesch, non é assodato. Napoleone non poteva contare neppure in Vienna su una volenterosa compiacenza, perché i conservatori, che stavano al governo, erano divisi da un profondo abisso dall'avventuriero di Boulogne e dalle sue "genti, che si distinguevano", come essi dicevano - solo per un po' più di ricamo, dai capi banditi d'Italia".

L'imperatore dei Francesi aveva pur sempre tolto di mezzo il pericolo socialista; in grazia di questo suo merito, il principe Schwarzenberg era disposto a riconoscere le conseguenze del 2 dicembre, per quanto ripugnasse alla dignità delle vecchie case regnanti di considerare come eguale un simile Personaggio.
Federico Guglielmo, IV sarebbe stato personalmente inclinato a ricusare il suo riconoscimento; soprattutto gli pareva scandaloso che Napoleone si dicesse terzo, e quindi in contraddizione con i trattati europei facesse valere il diritto successorio del duca di Reichstadt.
Finalmente egli era pronto a «passar sopra alla questione del numero»; in considerazione dei servizi dell'Imperatore a pro' dell'ordine pubblico fece dichiarare a Parigi che avrebbe mantenuto le antiche relazioni amichevoli con la Francia.

Lo zar Nicola si adattò sì al riconoscimento, ma a Parigi fu considerata come un'amara offesa che egli salutasse il Sovrano della Francia non col titolo di fratello o di cugino, ma di «buon amico».

Questo malumore ebbe una duratura efficacia; anzi, anche la guerra di Crimea ebbe una qualche connessione indiretta con questa mancanza di riguardo, come molto prima il contegno sdegnoso della Russia dopo la proclamazione del primo impero aveva avuto come conseguenza la guerra del 1805.

Su richiesta dello Schwarzenberg si intavolarono a Londra trattative per il mantenimento dei trattati del 1815 fra gli Stati alleati nella guerra di liberazione per abbattere l'allora strapotente bonapartismo; esse portarono al solo risultato che venne presa solo conoscenza delle promesse amichevoli di Napoleone III.

L'opinione pubblica dell'Europa era in generale favorevole all'Impero francese.
In Germania e in Inghilterra il nome di Napoleone aveva su molti tuttavia l'efficacia di una formula magica: altri vedevano nell'uomo del 2 dicembre la rocca della borghesia e dell'ordine. Siccome in Francia anche gli spiriti recalcitranti furono guadagnati da un prudente mantenimento di forme democratiche e da un'assennata cura degl'interessi materiali, il secondo impero si poteva considerare come consolidato dentro uno spazio sia all'interno, sia all'estero.

In verità non si poteva parlare di un regime costituzionale: il corpo legislativo e il senato non erano che ombre.
Anche il Governo era più brillante che solido. Pur tuttavia l'industria e il traffico furono liberati da qualche fastidioso vincolo e, ciò che può sempre considerarsi come un buon misuratore dell'intelligenza d'un Governo, si usò fervida cura per la bonifica di lande e paludi e per il rimboschimento dei declivi montani della Provenza, denudati negli anni della rivoluzione.
Gli industriali e gli artisti reputarono un beneficio che Parigi possedesse di nuovo un centro magnifico; e con che eleganza Napoleone ed Eugenia si adoperavano a tenere corte! Vi si succedevano feste e balli mascherati, quadri viventi e rappresentazioni teatrali di « società » !
Si spesero somme enormi per fare di Parigi - in verità a spese del suo carattere storico e individuale - una vera grande città, la capitale della civiltà europea, l'eldorado della vita del mondo cosmopolita.

Al tempo stesso, mediante questa trasformazione, si otteneva che le arterie stradali ampie, lastricate secondo il sistema di Mac Adam, costruite nel luogo dei vecchi, tortuosi quartieri cittadini non offrissero più il pericoloso materiale che serviva a formar barricate, e si prestassero ad esser spaccate dalla cavalleria e dalla fucileria.
L'attività artistica dimostrava più ostentazione vanitosa che dignità, l'eleganza era più pregiata della bellezza, la maggior parte delle creazioni artistiche del secondo impero, come ad esempio il tanto ammirato teatro dell'opera, oggi ci sembrano irrequiete, pretenziose, sovraccariche.
Anche la scienza, l'arte, e la letteratura avevano a compiacersi oltre misura della munificenza imperiale; numerose iniziative letterarie e scientifiche di grande stile furono costituite e promosse. Con tutto ciò non fu possibile conciliare con l'impero il Thiers, Vittore Hugo e altri fra i più insigni nomi.

Anche l'Istituto di Francia conservò un contegno poco favorevole davanti alle manifestazioni del favore imperiale; vi ebbero certo non di rado maggior peso motivi personali che considerazioni politiche o economico-politiche.
La gran maggioranza della popolazione però era accecata dallo splendore della corte e soprattutto dagli sbalorditivi successi della politica estera.
La speculazione della borsa, che assumeva dimensioni sempre più azzardate, esercitò un impulso ravvivatore del traffico e dell'industria, cosicché i salari salirono e i lavoratori ebbero un buon guadagno. Allo sviluppo degli affari sembrava assicurato una felice continuità, poiché nei discorsi dell'Imperatore non mancava mai la promessa di voler la pace e soltanto la pace, e perché - se si prescindeva dal malumore tra le corti di Parigi e di Pietroburgo - non si notava nessun segno inquietante di tendenze ostili tra i gabinetti europei.

Eppure, proprio mentre Parigi si apprestava ad una festa di vari popoli, alla prima esposizione universale, nell'oriente dell'Europa si preparava un conflitto, che doveva portare ad una guerra, quale l'Europa nun aveva più visto dai tempi di Napoleone I.

Una contesa insignificante di monaci latini e greci in Betlemme offrì l'occasione alla lotta. Lo Zar Niccola si schierò in favore dei seguaci della sua confessione, mentre la Porta cercava di proteggere i monaci latini. Nicola, per dare maggior peso alle sue pretese in Instambul, fece, nel 1853, passare il Pruth alle sue truppe.
Su i veri motivi di questo atteggiamento non può esserci dubbio alcuno. Nicola ritenne favorevole il momento per riprendere la politica tradizionale della sua dinastia, la lotta cioè contro la Mezzaluna. Egli considerava con orgoglioso disprezzo le altre Potenze. Tutti i Governi europei, eccettuato quello inglese, avevano sofferto negli ultimi anni delle umiliazioni, la Russia invece fino allora era stata risparmiata da serie tempeste interne.
Da ciò lo Zar credeva di poter trarre la conseguenza che il suo sistema, il quale in verità non era altro che il regime del pugno di ferro, garantisse per sempre la vittoria.

Ma siccome allo Zar, nonostante ogni premura, non riuscì di trovare alleati, la questione fra la Russia e la Porta si sarebbe svolta pacificamente, se anche alla corte di Parigi il partito bellicoso non avesse preso il sopravvento. Sulla base di un documento antiquato Napoleone, pretendendo il diritto di protezione sui cristiani latini in Oriente per la Francia, rivolse allo Zar un ammonimento in tono offensivo.
Il principe Schwarzenberg non aveva visto del tutto esattamente, quando egli traeva dalla fisionomia del presidente Bonaparte la conclusione che costui non avrebbe mai seguito la politica conquistatrice dell'omonimo "Grande Corso".

La Francia non doveva semplicemente, come Napoleone annunziò più volte, procedere alla testa della civiltà, ma doveva di nuovo ottenere il predominio politico sugli altri Stati europei; la quale egenomia non era conseguibile senza buoni successi militari.
Queste idee non animavano soltanto l'Imperatore, ma anche il popolo. Perfino il vecchio rivoluzionario Barbès, il compagno dell'aggressore Fieschi, scrisse a proposito del conflitto con lo Zar, a un amico: «Da Vaterloo noi Francesi siamo i vinti d'Europa! Per concluder qualsiasi cosa di buono, anche all'interno, dobbiamo di nuovo mostrare prima all'estero che noi sappiamo ancora morder la polvere! Io compiango il mio partito, se in esso vi è chi la pensa diversamente! ».

L'Inghilterra aveva riconosciuto da tempo il suo obbligo di proteggere la Turchia contro le cupidigie russe. A Londra perciò le sollecitazioni di Napoleone trovarono un terreno fecondo. La corte di Vienna dichiarò di voler conservare completa neutralità nella crisi orientale. Questo contegno non fu determinato da uno spassionato bilanciamento di vantaggi e di pericoli, e neppure dai riguardi verso la confessione cattolica-romana; la dichiarazione di neutralità fu imposta al Governo imperiale, sempre in lotta con la bancarotta, dalle banche.

Le amichevoli relazioni fra i monarchi di Prussia e di Russia avevano fatto sorgere la supposizione che ambedue le Potenze avrebbero concluso una lega contro le Potenze occidentali. Federico Guglielmo promise a Londra di non immischiarsi nella questione orientale, se l'Inghilterra intendeva garantire l'inviolabilità della frontiera tedesca minacciata, secondo l'opinione del Re, da un tradimento latino.
Di animo aperto, oltre modo impressionabile, ma appunto per questo oscillante spesso nelle sue massime politiche e tale da non far mai su di lui sicuro assegnamento, egli in quella difficile crisi europea si tenne chiamato a farla da eroe della pace, intermediario fra le Potenze. Però tutti i tentativi di ottenere una onorata ritirata allo Zar né punto, né poco ambizioso, furono infruttuosi.

Il 12 marzo 1854 i rappresentanti della Francia e dell'Inghilterra firmarono a Costantinopoli un trattato, che assicurava alla Porta un sufficiente aiuto militare per parte delle Potenze occidentali.
Allora, come pure in occasioni posteriori, le forze militari dell'impero russo furono stimate oltre il loro valore; parve un facile gioco per il gigante del nord lo schiacciare il malato del Corno d'oro.
Allìinizio però della guerra apparve chiaro che le membra dell'impero degli Zar erano sì grandi e forti, ma non avevano la mobilità per vincere rapidamente il Turco, nient'affatto debole.

L'occupazione dei principati danubiani per parte delle truppe russe eccitò così fortemente la limitrofa Austria, la quale vide minacciati i suoi più vitali interessi, che si obbligò per trattato con la Porta a proteggere i principati danubiani e promise formalmente di non opporre ostacoli ai movimenti degli eserciti turco e franco-inglese.
All'incontro, il Governo prussiano alla richiesta delle Potenze belligeranti di accedere alla loro lega difensiva rispose rifiutando cortesemente, perché «a un giudizio imparziale riuscirebbe difficile il disconoscere nel contegno della Russia lo schietto desiderio d'un accomodamento».
Marcatamente l'inviato prussiano alla dieta federale Ottone di Bismarck, nel quale i colleghi allora non vedevano che uno spiritoso epicureo ed essenzialmente un inflessibile assolutista, si adoprò con molto impegno per impedire che la Prussia fosse trascinata a guerreggiare contro la Russia, solo per causa dell'Austria, «per i cui peccati il Re - come si lagnava il Bismarck - ha tanta indulgenza, quanta io me ne augurerei per i miei da nostro Signore in cielo».

Quando l'inviato francese ammoniva il collega prussiano sul cammino seguito dicendo: «Questa politica lo condurrà a Jena!» il Bismarck ribatté calmo: «E perché non a Lipsia e a Vaterloo?»
La dieta federale tedesca si accostò in sostanza al concetto prussiano, sebbene «in considerazione della minacciosa condizione dell'Europa» fossero mobilitate le truppe federali.

All'incontro un altro piccolo Stato, la Sardegna, ebbe accesso all'alleanza delle Potenze occidentali: la quale mossa ebbe poi grande importanza per l'evoluzione nazionale d'Italia.
Per favorire i monaci latini nella loro influenza in Terra santa, in realtà per superare l'avvicinamento dell'Austria alle Potenze occidentali, il conte Cavour aderì all'alleanza franco-inglese. Così il Piemonte si acquistò il diritto di essere appoggiato nei suoi futuri disegni nazionali.

Nelle prime battaglie nel territorio danubiano i Russi sotto il supremo comando del vecchio Paskievic ottennero, é vero, alcuni vantaggi, ma in parte per i grossi inconvenienti dell'amministrazione dell'esercito russo, in parte per i riguardi per l'Austria impedirono un trionfo decisivo della superiorità russa.

La fortezza di Silistria non poté esser presa, e per non spingere del tutto l'Austria dalla parte degli avversari, lo Zar ritirò le sue truppe dal territorio russo. Il comando supremo delle forze militari, non troppo importanti, delle Potenze occidentali fu preso dal francese St. Arnaud, il quale con l'appoggio senza scrupoli al colpo di Stato del 2 dicembre si era acquistato il bastone di maresciallo.
Egli era un valoroso soldato, non già un notevole stratega. Quantunque Napoleone avrebbe preferito d'iniziare la campagna in Polonia e il Divano perseguisse la cacciata dei Russi dal Caucaso, il consiglio di guerra decise di combattere nella penisola di Crimea.

Il comandante supremo inglese, lord Raglan, approvò tanto più volentieri il piano del St. Arnaud, in quanto si poteva sperare che una disfatta in Crimea avrebbe inflitto un colpo mortale alla potenza navale russa nel Mar nero.
Speranza ben riposta: infatti in Crimea, quando il 13 settembre una flotta, formata di trecento navi turche e anglo-francesi, con 60.000 uomini a bordo, comparve dinanzi ad Eupatoria, il porto nell'immediata vicinanza di Sebastopoli, si trovava in un assetto di difesa del tutto insufficiente. Il tentativo dei Russi di trattenere la marcia degli alleati contro Sebastopoli portò alla battaglia dell'Alma, che finì con una ritirata, simile a una fuga, degli assalitori.
Un rapido attacco dei vincitori contro Sebastopoli avrebbe verosimilmente prodotto la caduta dell'importante piazza senza grandi sacrifici, ma una grave malattia del St. Arnaud paralizzò l'energia nel campo degli alleati.

Nel frattempo i Russi ricevettero notevoli rinforzi: e Sebastopoli, che al principio dell'assedio sarebbe stato possibile prendere con un colpo di mano, fu poi trasformata dal geniale generale del Genio Todleben in una fortezza di prim'ordine. La piazza si sostenne un intero anno contro la flotta e l'esercito degli alleati. Due eserciti di soccorso russi furono battuti a Balaklava e a Inkerman; però, quando l'inverno russo colse gli assedianti, non organizzati per una così lunga campagna, con tutti i suoi orrori, non era più dubbio, se le malattie e la morte imperversassero più spaventosamente nella città assediata o nel campo degli alleati assedianti.

Sui rimanenti teatri della guerra non si verificarono avvenimenti decisivi. La flotta anglo-francese inviata nel Mar Baltico non osò attaccare Kronstadt, e riuscì solo la presa della fortezza di Bomarsund ad un corpo sbarcato nella isola di Aland, sotto il comando di Baraguay d'Hilliers.
Un attacco del Menscikoff ad Eupatoria, occupata dal pascià Omer, fu respinto nel febbraio 1855, ma però fallì anche una scorreria degli Inglesi verso Kamsciacca.

Mentre la guerra proseguiva con immutata violenza, morì lo zar Nicola. L'alleanza delle Potenze occidentali, il minaccioso atteggiamento dell'Austria, l'inattesa sfortuna delle armi russe, l'occupazione del territorio russo per parte di Turchi e di Francesi, tutti questi colpi avevano sorpreso con spaventosa violenza lo Zar. L'aureola era sparita; la debolezza del colosso si era oscenamente palesata. Con tutto ciò l'orgoglioso Sovrano non pensava a cedere. Tra le violente angosce lo colse pure una seria indisposizione. Egli, rigidamente ferreo anche contro sé stesso, non gli prestò attenzione: però la febbre pestifera prostrò la sua energia di gigante; il 2 marzo 1855 Nicola Paulovic passò in altra vita.

Il successore Alessandro II, amante della pace e della cultura, fece di nuovo intavolare trattative. Le Potenze occidentali non potevano tuttavia, se non volevano considerarsi come vinte, pensare di finire la guerra senza la conquista di Sebastopoli. Così fu proseguito l'assedio.
Le frequenti sortite dei russi condussero quasi sempre a formali battaglie. Notevole quella di Tratkir sulle rive della Cernaia alla quale parteciparono valorosamente le truppe sarde, respingendo e contrattaccando una divisione russa il 16 agosto.
Nel settembre, Malakoff, un'opera fortificata dominante l'intera città, con una ridotta simile a una torre, fu presa dai Francesi sotto il comando del Mac Mahon, mentre l'attacco degli Inglesi al Grande Redan veniva respinto.
Il giorno dell'assalto, l'8 settembre, costò agli alleati 10.000 uomini, ai Russi 13.000. Dopo la caduta di Malakoff non era più possibile tenere Sebastopoli; nella notte successiva tutte le opere, furono dai Russi fatte saltare: le navi affondate nel porto: la città fu sgombrata.

Gli alleati erano vincitori, ma in realtà avevano ottenuto poco; Napoleone ritenne a ragione che il proseguimento della guerra sarebbe stato compiuto addirittura con gravi pericoli. Così si arrivò alla pace. Il 25 febbraio 1856 si iniziarono le trattative a Parigi (Congresso di Parigi).
La
"politica dalle mani libere", come Federico Guglielmo aveva battezzato il mantenimento della neutralità, parve aver inflitto un colpo mortale alla Prussia come grande Potenza. Nonostante tutte le premure la Prussia non ebbe nessun invito al congresso. Solo alla settima seduta, poiché si trattava della revisione di un trattato europeo, di cui la Prussia era parte contraente, fu invitato il Governo prussiano, ma sembrò eliminato in modo cortese dal novero delle grandi Potenze lo Stato continentale intimamente più sano e forte.

In verità la politica della Prussia, che non aveva sacrificato il buono accordo con la vicina orientale per amore del dono danaico dell'amicizia francese, era stata «Più Preveggente» che non l'altalena dell'Austria. Dopo la conclusione della pace l'Impero absburghese era del tutto isolato; era in inimicizia con la Russia, alienato dalle Potenze occidentali, le quali ancora nel giugno 1855 avevano voluto garantire i possessi austriaci in Italia, ed egualmente Federico Guglielmo era sdegnato delle Pratiche spagnole della casa imperiale, così venerata prima da lui.

Chi consideri la costellazione delle Potenze negli anni della guerra del 1859, del 1866, e del 1870 rintraccerà difficilmente il filo, che riconduce all'atteggiamento dell'Austria e della Prussia durante la guerra di Crimea.
La pace di Parigi del 30 marzo 1856 impose alla Porta l'obbligo di occuparsi di riforme interne tendenti all'eguaglianza giuridica e alla sicurezza dei sudditi cristiani con i musulmani: così si toglieva al capo supremo della Chiesa greca il motivo di far valere il protettorato sui sudditi cristiani del padiscià.

Inoltre la Russia dovette cedere le foci del Danubio con una piccola striscia di terreno sulla riva sinistra alla Turchia, restituire la fortezza di Cars, e obbligarsi a una rilevante diminuzione della sua armata nel Mar nero. Tuttavia la Crimea e tutte le restanti piazze, occupate dalle truppe delle Potenze occidentali, sul suolo russo furono sgombrate. La Russia aveva sofferto un'umiliazione, senza che la sua condizione politica ne avesse risentito.

Nella guerra di Crimea non si era trattato nè dell'onore, né di vitali interessi degli Stati belligeranti, ma soltanto di questioni di gabinetto e di potenza: il sangue di parecchie migliaia di uomini era stato quindi sparso invano, sebbene Napoleone fosse vincitore, e lo splendore della vittoria facesse per il momento scordare ai Francesi tutti i sacrifici.
Gli adulatori annotavano che la sconfitta di suo zio sui campi nevosi della Russia era ormai vendicata e che così il nipote aveva gloriosamente affermato il suo legittimo diritto al trono.
Chi non partecipava a quest'ammirazione, era per lo meno disposto a riconoscere, anzi ad apprezzare, perfino oltre il giusto, la saggezza di Napoleone come statista.

Quale considerazione egli godesse nei circoli dei Sovrani europei fu dimostrato dalle numerose visite di teste coronate e di grandi statisti alle Tuglierì.
Nell'aprile 1855 l'uomo del 2 dicembre fu ospite della coppia reale inglese nell'isola di Wight; l'incontro-colloquio doveva essere un segno tangibile che la prima potenza militare d'Europa aveva concluso un'eterna amicizia con la prima potenza marittima, mentre la storica alleanza delle tre Potenze orientali era spezzata.

Con l'aiuto inglese Napoleone sperava anche di conseguire gli ultimi suoi fini. In un dialogo confidenziale egli confessò al principe consorte Alberto di essere del tutto alieno da una politica conquistatrice, ma essergli necessario per il consolidamento della sua dinastia mediante la soddisfazione dell'opinione pubblica francese la «riconquista» del Belgio e della riva sinistra del Reno.
Il principe Alberto esclamò sbigottito: «Quali scosse, quali lotte e quali catastrofi provocherà questo disegno! L'opposizione del nostro parlamento, l'opposizione della Prussia porterebbero ad una guerra gigantesca».
«Nient'affatto! - ribatté Napoleone - Non sarà sparata neppure una pistolettata. Al suo parlamento io offro un buon trattato commerciale; la Prussia poi capirà il suo interesse e mi cederà volentieri due milioni di anime, quando essa se ne potrà pigliare dieci o dodici in Germania».

La cinica rivelazione contraddistingue l'egoistica politica delle Tuglierì. Napoleone III non difettava di bontà d'animo e di benevolenza; ma gli mancavano la venerazione per il diritto e la fede negli elementi morali della storia. Anche le sue relazioni con il Papato e con la Chiesa erano frivole; egli poco si preoccupava di nascondere il suo disprezzo per l'uno e per l'altra, ma non si vergognava di accarezzarli per attuare i suoi disegni.
La stessa parte era riservata alla propaganda rivoluzionaria. Egli amava la posa di sincero amico della libertà; non voleva rinunciare ai rapporti con i rivoluzionari all'estero, dalle conventicole dei quali era egli stesso uscito fuori, ma solo per sfruttarli e dominarli.
«Alla mia corte c'é qualcosa di strano - disse beffardamente una volta - l'Imperatrice ha tendenze legittimiste, il Morny (fratellastro di Napoleone) orleaniste, io poi sono repubblicano; solo il Persigny é bonapartista».

Simili parole sulla bocca di un principe possono concepirsi soltanto come uno scherno sanguinoso della dignità sovrana. Anche le brutte conseguenze della politica interna apparivano sempre più evidenti. Produceva funesti effetti l'accentramento piuttosto rigido, dal quale era soffocata ogni indipendenza di vita delle province. L'organismo dell'istruzione era reazionario, quanto era possibile.
Arte e letteratura furono, é vero, liberalmente promosse, però solo in quanto servivano alla glorificazione dell'Impero. Crebbe il benessere, ma anche la sete del guadagno: l'egoismo e la corruzione erano evidenti fino nelle sfere più elevate.
Il Syvel ha indubbiamente ragione di porre in guardia dal rendere l'Imperatore unico responsabile della crescente corruzione, la quale però fu da lui promossa, soprattutto col favorire anche la passione del gioco di borsa, in quanto egli in occasione dei prestiti per la guerra di Crimea democratizzò in certo modo la rendita e attrasse un numero straordinario di persone a speculare.

La frase del Girardin: «Noi non abbiamo altro da fare che diventar milionari», valeva come esplicita parola d'ordine. I mezzi poco onesti, onde Napoleone si era impadronito dello Stato, si prendevano la loro vendetta; egli, come tanti Imperatori del decadente Impero romano, non poteva tener lontani i complici poco puliti del colpo di Stato.
La così detta società elevata stendeva così attorno un fetore di marciume, e crisi pericolose già erano imminenti, mentre la Francia, secondo l'orgogliosa frase dell'Imperatore, "procedeva alla testa della civiltà": e anche l'opinione pubblica dell'Oriente e dell'Occidente seguitava a veder nell'elegante capitale francese il centro e il focolare della cultura moderna.

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