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IL NUOVO PREDOMINIO E LA NASCITA DEI RANCORI


232. 41) - L'IMPERIALISMO AMERICANO

Il termine "imperialismo" designa le tendenze espansionistiche, economiche e politiche emergenti in quei paesi di capitalismo industriale nel corso del secolo XIX e XX. In tutto il XIX la parte del leone la fece l'Inghilterra (con i suoi "dominion" pari a 35.498.222 kmq - 153 volte la superficie della sua isola) fino al punto che il termine faceva riferimento all'assetto "imperiale" dato dalla Gran Bretagna alle relazioni con i suoi possedimenti coloniali, soprattutto - come abbiamo visto nelle precedenti pagine - con la politica del premier B. Disraeli e l'assunzione da parte della regina Vittoria del titolo di imperatrice delle Indie (1876).
"Il termine - così scrive l'Enciclopedia Europea, ed Garzanti - fu usato sempre più largamente nei decenni successivi per qualificare un sistema di rapporti internazionali, in cui venivano crescendo i conflitti di interesse di tutte le potenze industriali con la Gran Bretagna (massimo paese capitalistico e colonialistico fino alla prima guerra mondiale), o fra loro, in relazione a obiettivi di espansione coloniale, oppure di influenza politica ed economica (contrasto anglofrancese per l'Egitto, 1883-1904; anglotedesco per l'Africa orientale, 1884-90; guerra ispano-statunitense, 1898; guerra anglo-boera, 1899-1902; contrasto franco-tedesco per il Marocco, 1904-05; guerra russo-giapponese per Corea e Manciuria, 1904-05).
L'esplodere di questi contrasti in alcune vere e proprie guerre, fra la fine dei sec. XIX e gli inizi del sec. XX, fu decisivo nell'indurre molti studiosi e politici a considerare l'imperialismo fenomeno dominante dell'epoca. Ciò sembrò poi trovare conferma nello scoppio della prima guerra mondiale (1914), che ebbe fra le più importanti cause l'acuirsi della competizione fra le maggiori potenze per (essenzialmente) l'accaparramento di nuovi mercati di vendita e di nuove fonti di materie prime.
Nel dopoguerra la spartizione delle colonie e delle sfere di influenza, avvenuta a danno della Germania sconfitta, fu poi addotta fra le principali motivazioni dei dissidi di fondo che dovevano poi portare alla seconda guerra mondiale (1939-45). L'imperialismo nazista, però, conteneva anche una rilevante componente espansionistica diretta all'interno della stessa area europea; componente che fu anzi origine immediata del conflitto (invasione della Polonia, 1939) ed ebbe la maggiore manifestazione nell'aggressione all'Unione Sovietica (1941).
Dopo la seconda guerra mondiale al declino del ruolo di grande potenza delle nazioni europee che si erano prima spartite le più importasti conquiste coloniali (Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio) si accompagnò la loro progressiva rinuncia alla dominazione diretta dei possedimenti d'oltremare (processo di decolonizzazione).
Gli interessi specifici dei maggiori paesi industriali nei confronti del resto del mondo continuarono tuttavia a prevalere, sul piano economico come su quello politico, soprattutto da parte degli Stati Uniti (in particolare nell'America latina, nell'Asia orientale e nel Vicino Oriente).
L'enorme superiorità di potenziale militare (principalmente la preponderanza nell'armamento atomico) fece poi degli USA il paese leader di varie alleanze militari (NATO, SEATO) e conferì loro un ruolo particolarmente attivo nel contrastare i tentativi di altri vari paesi di sottrarsi alla sfera di influenza capitalistica o ai vincoli (oggi ancora più logoranti delle stesse bombe) del neocolonialismo economico. (i prestiti si danno a piene mani ma si è poi legati alla corda dei debiti col nodo scorsoio dei benefattori)

Per tali ragioni gli USA vennero definiti la maggiore espressione dell'imperialismo in questo periodo, mentre l'URSS, rimasta l'unica altra grande potenza dotata di un forte potenziale militare, assumeva la difesa delle aspirazioni dei paesi soggetti e si attribuiva così una funzione antimperialistica. Il carattere effettivamente antimperialistico di questo atteggiamento sovietico è stato però posto in dubbio, sulla base sia della dominazione imposta ai paesi dell'Europa orientale occupati dall'URSS duraste la seconda guerra mondiale, sia dei conflitti insorti con i paesi comunisti indipendenti come la Cina.
Il fenomeno dell'imperialismo capitalistico ha dato luogo, a partire dagli inizi del XX secolo, a due distinte linee di interpretazione.

La prima tende a ricercare le basi dell'imperialismo nella natura intrinsecamente «aggressiva» degli interessi economici formatisi con l'avvento, dei paesi giunti a un certo grado di sviluppo industriale e finanziario, di un capitalismo sempre più bisognoso di esportare sia prodotti e tecnologie sia capitali.
La seconda, osservando che non sempre si riesce a dimostrare l'esistenza di un preciso legame fra interessi economici e iniziative espansionistiche, insiste soprattutto sui fattori politici e sociologici dell'imperialismo, alimentati da interessi nazionalistici di potenza, da dottrine razziste e autoritarie e da movimenti di opinione che hanno sovente estensione assai più larga degli interessi economici indiziati.

L'interpretazione economica dell'imperialismo ebbe praticamente avvio da un'opera dell'inglese J. Hobsos (Imperialismo, 1902), la quale, benché matrice liberal-radicale, ebbe larga influenza soprattutto sui marxisti. Hobsos indicò nella tendenza verso crescesti investimenti all'estero (esportazione di capitali) uno dei motivi fondamentali della contesa per il dominio su nuovi territori da parte dei grandi paesi capitalistici e collegò tale tendenza alla forte ineguaglianza nella distribuzione del cresceste reddito prodotto in virtù del sistema industriale e alla conseguente insufficienza di una domanda interna, atta a stimolare l'impiego in patria delle accresciute risorse: riforme sociali e politiche redistributive sarebbero state perciò il migliore antidoto contro l'espansionismo imperialistico e le guerre da esso indotte.

Fra i marxisti, alcuni, come K. Kautsky (in vari articoli scritti fra il 1907 e il 1914), ritennero minoritari e isolabili gli interessi espansionistici, giungendo a conclusioni ottimistiche sulle possibilità di un'azione pacifista, e avanzarono l'ipotesi che la stessa crescita di coalizioni economiche internazionali fra grandi imprese finisse col ridurre i fattori di conflitto (teoria del superimperialismo). Altri, come R. Hilferding (Il capitale finanziario, 1910), considerarono imperialismo espressione peculiare di una struttura capitalistica ormai dominata da grandi concentrazioni di interessi industriali promossi e controllati dal capitale bancario (capitale finanziario) e quindi orientata sempre più alla ricerca di occasioni di investimento su scala sovranazionale.
Rosa Luxemburg a sua volta (L'accumulazione del capitale, 1913) derivava dall'analisi marxiana delle forme di accumulazione la convinzione che il sistema capitalistico, per garantirsi la sopravvivenza, doveva necessariamente mantenere in condizioni di sottoconsumo i lavoratori salariati delle aree metropolitane e quindi espandersi soprattutto in settori e aree geografiche non ancora capitalistici.

Lenin (L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1917), riprendendo motivi di Hobson e di Hilferding, definì l'imperialismo come fenomeno che sintetizza in sé gli aspetti fondamentali del moderno capitalismo e negò pertanto le possibilità di un'azione meramente pacifista e non rivoluzionaria. Egli formulò la tesi, già adombrata da Engels, che con i proventi di uno sfruttamento esercitato su scala mondiale la borghesia dei maggiori paesi capitalistici potesse accattivarsi l'acquiescenza di uno strato di lavoratori meglio pagati (« aristocrazie operaie») e di strati parassitari di ceti intermedi, per cui, a suo giudizio, la rottura rivoluzionaria del fronte imperialistico poteva avvenire più facilmente nei paesi capitalistici più deboli. Questa opinione di Lenin tendeva a dare una risposta in termini economici a un quesito fondamentale posto dai sostenitori di una interpretazione prevalentemente politica e sociologica dell'imperialismo, cioè i motivi dell'adesione di strati non limitati della popolazione dei paesi capitalistici agli indirizzi politici imperialistici.

Tra gli economisti di orientamento non marxista, J. Schumpeter (La sociologia dell'imperialismo, 1919) sostenne che l'imperialismo non derivava propriamente dallo sviluppo capitalistico, bensì da una sua ancora insufficiente espansione e dalla persistenza atavica di concezioni e valori corrispondenti a situazioni economico-sociali antecedenti, non ancora sostituite, su cui potevano far leva taluni particolari interessi capitalistici, non però organicamente rappresentativi della logica reale dell'intero sistema economico.

In tempi più recenti una parte della storiografia, soprattutto anglosassone, ha ripreso la polemica contro l'interpretazione prevalentemente economica dell'imperialismo capitalistico, mettendo in evidenza due ordini di fatti: che la tendenza all'esportazione di capitali è stata sempre orientata in prevalenza verso paesi già sviluppati; e che la documentazione risultante dalle fonti diplomatiche rivela l'assenza di immediate motivazioni economiche in molti contrasti imperialistici.
Per contro nuovi contributi da parte sia di marxisti sia di economisti e sociologi, legati ai movimenti di indipendenza nazionale del cosiddetto Terzo Mondo, hanno studiato la permanenza di profondi squilibri nelle ragioni di scambio fra aree metropolitane e regioni depresse, e soprattutto l'esistenza di cospicui interessi economici dei paesi altamente industrializzati miranti a conservare tali rapporti di dipendenza e le situazioni di arretratezza nei paesi sottosviluppati (controllo di fonti di materie prime, distorsioni della crescita economica verso la monocoltura, vantaggi all'investimento in zone a bassi salari, attività di imprese multinazionali).

Il termine «imperialismo», estrapolato dallo specifico contesto storico contemporaneo, è anche usato per designare ogni tendenza espansionistica o volta al dominio di popoli (ritenuti più deboli o addirittura inferiori) da parte di altri popoli o stati. Si parla così, per esempio, sia pure a volte con una certa forzatura, di imperialismo romano, cinese, turco-ottomano ecc.


Torniamo ora al nostro periodo di fine Ottocento inizio Novecento.

In questo spazio di tempo le relazioni degli Stati Uniti con l'Europa si sono a lungo ristrette al terreno economico e culturale; nella politica mondiale l'Unione non rappresentava alcuna parte, e la sua politica estera si può ricondurre a pochi punti di vista. Si voleva anzi tutto rendere il più possibile indipendente dall'estero il proprio territorio anche economicamente; ciò si manifestò essenzialmente nella crescente elevazione dei dazi, che culminò nella tariffa Dingley del 1897 e nell'ostacolare l'immigrazione.

Accanto a questa difesa dalle merci straniere e dagli stranieri si palesò la tendenza a considerare l'intera America come sfera d'influenza degli Stati Uniti e a impedire ogni rafforzamento dell'influsso europeo su tutto il continente.
Già il noto messaggio del presidente Monroe (1823) aveva affermato il principio fondamentale che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato la fondazione di nuove colonie europee in America.
Ma inoltre acquista sempre più terreno il concetto che l'Unione doveva tentare di raccogliere, sotto la propria direzione, gli altri Stati indipendenti di America in una sola grandiosa confederazione.

Si pensò poi a una lega doganale panamericana, a un tribunale arbitrale americano, all'unificazione monetaria e a un migliore ordinamento delle comunicazioni; ma il primo congresso panamericano a Washington (1889) svelò una forte ripugnanza degli Stati latini dell'America meridionale ad un simile accordo.
Nell'Unione stessa queste tendenze non trovarono proprio per nulla un generale consenso. Dei due grandi partiti del paese il repubblicano sosteneva una politica di espansione, che si può raffrontare con la tendenza imperialistica della politica europea.
Questo partito era stato sempre il rappresentante da un forte potere centrale di fronte ai singoli Stati e contemporaneamente il campione degli interessi dell'industria americana; all'incontro il partito democratico difendeva l'autonomia dei singoli Stati e gli interessi dell'economia rurale e combatteva una politica estera aggressiva. I suoi seguaci temevano che l'unione doganale con l'America meridionale avrebbe agevolato ai cereali argentini e ad altri prodotti grezzi del sud la concorrenza sul mercato nordamericano.

I due partiti andavano d'accordo solo, se si trattava di contrastare l'ingerenza europea negli affari americani. Così, per esempio, il presidente democratico Cleveland (1893-1897) prese un atteggiamento molto energico, allorchè l'Inghilterra tentò di strappare allo Stato del Venezuela parti di territorio, dove erano stati scoperti nuovi campi auriferi; quando l'Inghilterra in questo conflitto usò la forza, Cleveland dichiarò questo atto una violazione della dottrina di Monroe, e minacciò di appoggiare con le armi il Venezuela, se l'Inghilterra non si adattava ad un tribunale arbitrale (1894).

Per la prima volta, dopo lungo tempo, qui stavano di fronte ostilmente ambedue i grandi Stati anglosassoni; ma apparve immediatamente chi dei due ex "cugini" fosse il più forte in questa parte della superficie terrestre. L'Inghilterra non osò di arrivare a una lotta con gli Stati Uniti, ma cedette del tutto; acconsentì alla costituzione del tribunale arbitrale, che dopo lunghi negoziati decise la questione di frontiera contro le sue pretese. Egualmente sensibili si fu nel Nordamerica. Quando nel 1897 navi da guerra tedesche comparvero davanti ad Haiti, per sostenere le domande di risarcimento di sudditi tedeschi, quantunque in questo caso non si trattasse affatto di alcuna occupazione.

In generale l'Unione non aveva allora oltrepassato i confini dell'America, ma si considerava, come un'integrazione naturale della dottrina di Monroe, la massima che gli Stati Uniti avessero ad affannarsi così poco degli avvenimenti extramericani, come gli Stati europei di quelli americani.
Ma un po' alla volta questo punto di vista si palesò insostenibile; l'incremento del traffico americano nell'Asia orientale, in Europa e in Africa fece apparire una urgente necessità di concedere ai mercanti, che vi commerciavano, l'appoggio dello Stato.
Il partito repubblicano, come rappresentante degli interessi commerciali, anche qui si dette da fare. Alla fondazione dello Stato del Congo l'America cooperò insieme con le Potenze europee; ma gl'interessi dell'Unione furono ancor più fortemente toccati dalla progressiva divisione delle isole dell'Oceano Pacifico.

L'occupazione di Tahiti per parte della Francia (1880) e l'avanzare della Germania dal 1884 in poi portarono a nuove occupazioni in massa delle più piccole isole per opera della Gran Bretagna e della Francia. Verso la fine del periodo 1880-1890 c'erano ancora pochi gruppi insulari indipendenti, e i mercanti americani si sentivano nel Pacifico sempre più rinchiusi.
A una diretta collisione si giunse a Samoa, dove accanto a mercanti tedeschi lavoravano molti inglesi ed americani.
Le difficoltà, che qui si riscontravano, condussero alla convocazione di una conferenza dei rappresentanti delle tre Potenze a Berlino, il cui risultato fu che nell'estate del 1889 il gruppo di Samoa venne dichiarato indipendente e neutrale e subordinato alla vigilanza in comune della Germania, dell'Inghilterra e degli Stati Uniti.

Così l'Unione per la prima volta aveva piantato saldamente il piede fuori dell'America; la tendenza ad espandersi verso l'Oceano Pacifico rientrava ormai nella sua politica. La meta prossima erano le Hawai, ponte naturale fra il Nordamerica e il mondo insulare dell'Oceano Pacifico.
Già nel 1893 riusciva al console americano, in occasione di una questione successoria, di decidere i capi del gruppo insulare a pregare gli Stati Uniti ad assumere il protettorato.
Il presidente Harrison accolse questa preghiera, e nominò un residente americano. Ma lo sforzo di mettere un territorio, posto fuori dell'America, sotto la sovranità dell'Unione, sollevava fra i democratici una opposizione vivace, e poiché, poche settimane dopo questi eventi, cessò il periodo del mandato del presidente Harrison, e il democratico Cleveland salì al potere, così l'annessione ancora una volta fu rimandata.

Cleveland pregò anche il Congresso di esaminare come fosse possibile, senza violare gl'impegni presi, ritirarsi da Samoa. Ma, come Cleveland, malgrado tutto il suo amore per la pace e tutta l'avversione contro le idee imperialistiche, fu implicato nel conflitto del Venezuela, così pure cominciò sotto la sua presidenza l'ingerenza dell'Unione nelle faccende dell'Indie occidentali spagnole, ingerenza che presto portò alla guerra con la Spagna.


Il malumore delle colonie spagnole nelle Indie occidentali contro la madrepatria formava da moltissimo tempo un incentivo per gli Americani a mirare al possesso di questi territori così importanti per dominare le acque dell'America centrale. Stretti legami economici esistevano da lunghissimo tempo fra l'Unione e Cuba, e le rivolte locali erano state, di solito, appog
giate dal continente americano.

Ora quando nel 1895, per l'inadempienza delle promesse fatte precedentemente dalla Spagna, scoppiò una nuova pericolosa insurrezione nell'isola, i capi ribelli rivolsero i loro sguardi, com'é naturale, immediatamente all'America.
Nell'Unione i repubblicani furono subito per l'intervento nella lotta; anche il Congresso lo chiese esplicitamente al Presidente. Ma Cleveland si restrinse da prima alla dichiarazione di piena neutralità e raccomandò solo, per via diplomatica, agli Spagnoli benevolenza e concessione di una costituzione autonoma.
Nella Spagna stessa i liberali già da tempo si adoperavano perché si avesse a cercare di guadagnare i Cubani mediante riforme radicali e concessioni nel senso da loro stessi desiderato; ma i conservatori spagnoli combattevano questa politica come alto tradimento, anzi alcuni officiali arrivarono a violenze e maltrattamenti contro soci del partito liberale.
Il capo dei conservatori, Canovas del Castillo, fu incaricato di formare un nuovo ministero e inviò Martinez Campos, il vincitore dell'ultima rivolta, di nuovo a Cuba. Quando questi, che conosceva esattamente le condizioni cubane, consigliò pure delle riforme, anzi l'introduzione d'una limitata autonomia dell'Isola, e condusse la guerra piuttosto vaga per non irritare troppo i Cubani, fu richiamato, e sostituito dal Generale Weyler con l'incarico di usare la forza senza riguardo alcuno e di non fare alcuna concessione.

Il Weyler procedette con la più becera brutalità; fece fucilare ogni persona sospetta e proibì di trasportare la raccolta del tabacco e dello zucchero per togliere agli insorti le loro risorse. I Cubani seppero evitare ogni scontro in campo aperto e condussero una fortunata guerriglia contro gli Spagnoli. Quando poi sopravvennero quelle inattese ammonizioni di Cleveland, il partito spagnolo della guerra inscenò furibonde dimostrazioni contro l'ingerenza americana.
Per questi motivi Cleveland fu indotto a dichiarare al Congresso nel dicembre 1896 che, se la Spagna continuava nella sua caparbietà, poteva derivarne una condizione di cose, in cui doveri più alti avrebbero indotto l'Unione a intervenire.
Nuove dimostrazioni antiamericane a Madrid e in altre città spagnole furono la conseguenza di questo arrogante atteggiamento.

Due circostanze peggiorarono ancora notevolmente le condizioni degli Spagnoli. Durante il 1896 anche le Filippine si sollevarono contro la loro dominazione; e nella primavera del 1897 Mac Kinley, il capo dei repubblicani e imperialisti, entrò a Washington a guidare la Casa Bianca. Allora in Spagna si comprese che la partita diventava grossa, se in breve tempo non si cambiava rotta.
La Reggente congedò il ministero conservatore, e pose il capo liberale Sagasta alla testa del nuovo Gabinetto. Il Generale Weyler fu richiamato e rimpiazzato da Bianco; fu acconsentita una costituzione autonoma per Cuba e Porto Rico; e alle Filippine vennero assicurati notevoli concessioni.
Weyler ne fu sdegnato e affermò che lui era prossimo alla vittoria; eccitò in Spagna contro gli Americani e incolpò il Governo di debolezza.

Il presidente americano Mac Kinley rispose ai provvedimenti spagnoli dichiarando di volere aspettare l'esecuzione delle promesse, ma minacciò, nel caso di inadempienza, di nuovo l'intervento dell'Unione.
Ma l'esecuzione di queste promesse apparve molto ardua, poiché i rivoltosi rigettavano ogni altro accordo che non fosse la completa indipendenza dell'isola.
In questa situazione nel febbraio del 1898 accadde nel porto di Avana l'esplosione della nave da guerra americana il Maine, che verosimilmente, senza alcuna responsabilità del Governo spagnolo, fu compiuta dagl'indigeni. Questa faccenda però ebbe per conseguenza vivaci spiegazioni fra America e Spagna e procurò nell'Unione sempre più numerosi aderenti al partito della guerra.

Siccome a Cuba non si otteneva la pacificazione, Mac Kinley alla fine intimò un ultimatum, che esigeva la completa indipendenza di Cuba; il rifiuto produsse lo scoppio della guerra.
La lotta prese subito una piega sfavorevole per la Spagna tanto nelle Indie occidentali, quanto nell'Asia orientale. La Spagna non era in nessuna modo preparata ad una simile guerra; le sue navi erano vecchie, fornite di cattive munizioni e con equipaggi incompleti; inoltre era carente di denaro.
Di conseguenza all'ammiraglio americano Dewey riuscì di annientare del tutto la flotta spagnola dell'Asia orientale a Cavite nelle Filippine (1° maggio).

Gli Americani se la intesero pienamente con gli insorti locali, comandati dall'Aguinaldo; e ormai la Spagna non poteva più pensare a riconquistare queste isole.
Poche settimane dopo l'ammiraglio spagnolo Cervera fu bloccato insieme con la flotta delle Indie occidentali a Santiago sulla costa orientale di Cuba, e in un tentativo di aprirsi un varco fra le linee americane, venne completamente battuto.
Santiago il 15 luglio, Manila, la capitale delle Filippine, il 13 agosto, dovettero capitolare. Anche Porto Rico fu perduto dagli Spagnoli.

Gli Stati Uniti ormai si accingevano a procedere a un attacco ai territori europei della Spagna per costringerla alla pace. Questo proposito degli Americani apparve però pericoloso anche ad altre Potenze europee. La Francia offrì ai belligeranti la sua mediazione, e, dopo lunghissimi negoziati, fu, il 10 dicembre, a Parigi, conclusa la pace, in cui la Spagna fu costretta, contro un risarcimento di 20 milioni di dollari, a rinunciare a tutte le sue colonie nelle Indie occidentali e nell'Asia orientale.
Le Filippine e Porto Rico furono incorporate al territorio dell'Unione, mentre Cuba doveva rimanere uno Stato indipendente. Con il fortunato compimento di questa guerra anche gli Stati Uniti avevano fatto il loro ingresso nella politica mondiale; ed essi non potevano più nell'avvenire, quando si trattasse delle questioni dell'Asia orientale o dell'Oceano Pacifico, essere trascurati.

La Spagna non si é potuta più riavere dalla grave sconfitta in questa guerra. La sua potenza marittima fu distrutta; ristabilirla era quasi impossibile nella cattiva sua situazione finanziaria; le lotte interne dei partiti proseguivano nella vecchia maniera, ancor più inasprite dai reciproci rimproveri, che si muovevamo; poiché naturalmente ogni partito addossava all'altro la colpa delle gravi sconfitte.
La Spagna si decise nell'estate del 1898 di vendere all'Impero tedesco il residuo dei suoi possedimenti nel Pacifico, cioè le Caroline, le Palau, le Mariane, per 25 milioni di pesetas. Essa conservò soltanto i Presidi sulla costa nordafricana e alcune insignificanti tratti costieri ed isolette in Africa.

La Spagna, a partire da questa guerra, era definitivamente uscita dal novero delle grandi Potenze.

Un'ulteriore conseguenza importante della guerra fu il compimento della spartizione del Pacifico. Ancora durante la lotta era stata issata di nuovo la bandiera americana su Hawai. Dopo la pace fu proclamata l'annessione di questo gruppo insulare, e Hawai fu accolto come territorio dell'Unione.
Altri piccoli gruppi insulari furono ora occupati dalla Francia e dall'Inghilterra; ma Samoa fu, in seguito a nuove difficoltà fra le tre Potenze protettrici, divisa, nel novembre 1899, tra gli Stati Uniti e l'Impero tedesco; l'America ebbe l'isola di Tutuila, la Germania di Opolu e Sawai, mentre agli Inglesi furono, come compenso, lasciate le isole di Salomone.

Così gli Stati Uniti avevano posto saldamente il piede in tre punti del Pacifico, nelle Hawai, a Samoa, e alle Filippine.
Alle Filippine il loro compito non era d'altra parte, facile, poiché gl'indigeni non avevano proprio nessuna inclinazione a scambiare semplicemente la dominazione spagnola, durata fino allora, con quella americana. La rivolta dei Tagali sotto la direzione di Aguinaldo si volse così contro i nuovi dominatori.

Nelle lotte selvagge, che vi si svolsero, la capitale Manila, nel febbraio 1899, andò addirittura in fiamme; solo mediante l'uso di grandi forze riuscì agli Americani di far prigioniero Aguinaldo (1901) e di consolidarvi il proprio dominio. Ma non hanno poi osato dare una costituzione al paese, che dotasse gl'indigeni di diritti politici, poiché così non avrebbero fatto che agevolare la tendenza a un completo distacco dagli Stati Uniti.

Anche Porto Ricco non fu trattato come Stato autonomo, ma come provincia, mentre Cuba fu formalmente costituita repubblica indipendente. Appena in quest'ultima furono scoppiati delle rivolte, gli Stati Uniti intervennero; s'incaricarono di ristabilire l'ordine e si curarono dell'ordinamento finanziario; destituirono pure presidenti recalcitranti; in breve, trattarono Cuba di fatto come uno Stato vassallo, soggetto al loro dominio, non come uno Stato indipendente.

Osservando poi i successivi sviluppi delle condizioni degli Stati Uniti la guerra ebbe pure un'altra grande importanza; questa lotta destò nel popolo istinti piuttosto bellicosi. Il partito repubblicano imperialista fu infatti da questi felici successi incoraggiato a procedere speditamente in avanti .

Tale quale come nel Giappone, l'ingresso nella politica mondiale produsse anche per il Nordamerica un notevole rafforzamento della sua potenza difensiva e un aumento delle spese a ciò occorrenti.
Proprio nell'aprile 1900 venne deliberato l'incremento della flotta a 18 navi di linea e a 8 incrociatori corazzati; e, nonostante l'ardente opposizione dei democratici, nella successiva elezione presidenziale fu rieletto di nuovo a grande maggioranza l'energico Mac Kinley.
Nel suo messaggio elettorale egli chiese l'incremento dell'esercito terrestre americano fino a 100.000 uomini.

Quando Mac Kinley poco dopo la presa di possesso del suo ufficio non visse a lungo per poter godere della sua vittoria. Nel settembre del 1901, mentre visitava un'esposizione a Buffalo, nello Stato di New York, un assassino gli esplodeva contro un colpo di arma da fuoco. La sua morte portò Theodoro Roosevelt alla Presidenza.
Roosevelt sostituì Mac Kinley, conforme alla costituzione americana, senza speciale elezione. La nomina di Roosevelt all'alta carica coincide con una nuova Era della vita politica americana, tanto in materia di politica interna che di politica estera. N
ella politica interna tendeva a rimanere superiore ai partiti, ma nell'estera sostenne con altrettanta risolutezza, come il suo predecessore, la politica mondiale dell'Unione.

Nel novembre 1901 il segretario di Stato Hay annunziò che gl'interessi dell'Unione nell'Oceano Pacifico erano destinati a un illimitato sviluppo, e parlò della necessità di porre sotto la signoria dell'Unione i cavi americani e del Pacifico. Nel dicembre Roosevelt domandò al Congresso un nuovo incremento della flotta e la istituzione di uno Stato maggiore per l'esercito sul modello tedesco.
Quando non la spuntò, ripeté le sue richieste in ogni occasione, e ottenne alla fine, appoggiato dall'opinione pubblica, che il Congresso acconsentisse all'una e all'altra richiesta.
Fu fondata anche una scuola di guerra per l'educazione di ufficiali per l'esercito e per la flotta, e nell'occasione della posa della prima pietra nel 1903 Roosevelt insistette che una flotta forte era la necessaria condizione pregiudiziale per il mantenimento della posizione mondiale del Nordamerica.

Che la maggioranza degli Americani acconsentisse in questa politica apparve evidente nell'elezione presidenziale nell'autunno del 1904, Roosevelt fu eletto per la seconda volta con una maggioranza piuttosto notevole (325 contro 151 suffragi). Per le grandi spese militari scomparvero però anche gli avanzi, fino allora esistiti, nelle casse dell'Unione; il bilancio del 1905 mostrò per la prima volta un deficit.

Anche la questione del canale dell'America centrale fu ora decisamente risoluta dal punto di vista americano. Da moltissimo si tendeva nell'Unione a costruire questo canale con denaro americano e dominarlo esclusivamente; ma si era sempre urtato nell'opposizione inglese.
Subito dopo la guerra si intrapresero nuovi negoziati con l'Inghilterra; i quali portarono nel febbraio 1900 alla conclusione del cosiddetto trattato Hay-Pauncofote, che stabilì il canale dovesse essere neutrale e nessuna Potenza vi potesse costruire fortificazioni o riscuotere dazi.

Ma il Congresso a Washington respinse questo trattato e dichiarò che l'America avrebbe costruito il canale da sé sola, e che l'avrebbe fortificato e dominato. L'Inghilterra non aveva alcuno mezzo per opporsi, e si dovette silenziosamente rassegnare. Per assicurare l'influenza prevalente sulle località, attraverso le quali si doveva scavare il canale, l'Unione poco dopo concluse un trattato col Nicaragua, e nell'aprile 1902 ne tentò uno simile con la Columbia. Ma allorquando il Parlamento columbiano ebbe respinto questo trattato, lo Stato del Panama, non senza la cooperazione degli Stati Uniti, si levò contro la Confederazione della Columbia e riuscì, protetto dall'Unione contro ogni violenza della Columbia, a far riconoscere la propria indipendenza.

Da quel momento anche il Panama è divenuto, di fatto, uno Stato vassallo dell'Unione americana. Roosevelt poi estese pure l'influsso degli Stati Uniti su Haiti e dichiarò nel suo messaggio del dicembre 1904 esplicitamente che "la permanente impotenza dei minori Stati americani avrebbe costretto l'Unione ad esercitare su di essi una specie di potere di polizia".

Durante la sua presidenza si tennero due congressi panamericani a Messico e a Rio de Janeiro; e anche se non vinsero la opposizione degli Stati meridionali contro la subordinazione all'Unione, però aprirono la strada a regolari conferenze sugl'interessi comuni.
Indubbiamente i considerevoli aumenti dell'esercito e della flotta, la guerresca politica estera, l'energico farsi avanti della personalità del Presidente sono cose, che difficilmente si conciliano con le tradizioni americane; i democratici le combattevano accennando che in questa maniera il carattere repubblicano dell'Unione sarebbe stato minacciato e si sarebbe preparata la via ad una monarchia.

Questo è forse molto esagerato, ma una modifica in tutto il carattere dello Stato non si potrà certo disconoscere. Ufficialmente si è abbandonato il principio della completa autonomia di tutte le parti dell'Unione, dal momento che il più elevato tribunale federale dichiarò nel maggio 1901 che la costituzione federale non aveva valore nei territori nuovamente conquistati, ma che l'ordinamento locale dipendeva dal beneplacito del Congresso.

Così fu riconosciuto dal più alto tribunale della vita costituzionale americana che esistevano grandi territori, posti sotto la bandiera stellata, eppure non partecipi dei diritti di cittadini americani, i cui abitanti quindi possono considerarsi come una popolazione soggetta.
Così l'Unione poteva e voleva fare conquiste, acquistare colonie e fondare un Impero mondiale sul modello delle grandi Potenze europee; essa dovrà tuttavia urtarsi con gli Europei ed i Mongoli nell'Asia orientale e nel Pacifico.

E proprio in Asia e nel Pacifico ora andiamo.

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