-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

181. LA GUERRA DI SPAGNA - 1808-1814



Goya: "Il Dos de Mayo" 1808 a Madrid -
Nel sacro furore il popolo combatte e muore per il Re, per i Nobili, per il Clero.
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Ogni idea di costruzione nasconde in sé il germe della distruzione. Napoleone doveva sperimentare la verità di questo nella Spagna. Senza comprendere i sentimenti a lui stranieri, i diritti di una nazione, le sue tradizioni anche se retrograde, per nulla innovatrici, nel 1808 si era impadronito di quel paese come una facile preda. Ma allora avvenne il contraccolpo.

Un selvaggio furore si formò negli animi e nel termine di dieci giorni tutta la Spagna era in fiamme. Si vide che un'amministrazione corrotta, un governo intorpidito avevano lasciato intatto il popolo e lo avevano abituato all'indipendenza, che era sì tale, ma in una forma anarchica.
Pieni di un gretto orgoglio castigliano i discendenti del Cid si reputavano i migliori cristiani e i primi uomini del mondo. Sotto questa povertà morale intellettuale, sotto una quiete orgogliosa sonnecchiavano il più suscettibile sentimento dell'onore e le più bollenti passioni.

Alla sollevazione nazionale si accompagnavano poi le istruzioni giunte da Roma contro il profanatore della Chiesa, l'oppressore del papa (I Francesi avevano occupato Roma, Napoleone rotto i rapporti col Papa). Tutte le classi sociali, contadini, monaci, nobili, e vagabondi si unirono con un solo pensiero. Preti e monaci predicarono la guerra santa, processioni e miracoli infiammarono le moltitudini. Tutti si unirono nel grido di «Morte ai Francesi! Vendetta, sanguinosa vendetta !».
Sembrò di essere tornati alle crociate contro i Mori, eppure i sovrani erano della stessa dinastia francese, quella dei Borboni, la stessa che aveva poi portato la Francia alla Rivoluzione, che pur nel male e nel bene essa aveva fatto cambiare i rapporti fra nobiltà e popolo, fra aritocrazia e borghesia, fatta uscire la Francia dal gretto assolutismo monarchico.

Dal punto di vista militare la guerra appariva come una pura assurdità; senza denaro, senza esercito, senza capi gli Spagnoli volevano gettarsi addosso a una potenza universale. I Borboni avevano portato fino allora soltanto allo instupidimento e alla miseria.
Napoleone invece prometteva un avvenire prospero, offriva una costituzione moderna con rappresentanza nazionale, libertà di stampa e un'amministrazione onesta della giustizia, un nuovo codice, i diritti delle genti, l'abolizione dell'Inquisizione, la liberalizzazione del commercio interno, l'alienazione dei beni ecclesistici, in tre parole: l'eliminazione della feudalità.

Ma gli Spagnoli non volevano simili miglioramenti o almeno non dalla mano di uno straniero (ma per vincere misero da parte la loro religione e si misero nelle mani dei protestanti inglesi). Vivevano in una grande tradizione, pronti e decisi a vincere o a morire per essa. Cominciò così una lotta disperata, e accadde ciò che nessuna mente aveva osato immaginare; la guerra con la Spagna disprezzata divenne la crisi nella vita di Napoleone. Non lo aveva per nulla messo in conto e nemmeno lontanamente previsto. Aveva vinto i prussiani che avevano alle loro recenti spalle il più illumista dei sovrani d'Europa, un Federico II, potevano resistergli i sudditi del più mediocre sovrano?


Eppure aveva vinto i governi più forti ed ora si sollevava un altro potere a lui fino allora sconosciuto, il sentimento nazionale, l'anima del movimento popolare, che mandava a rotoli ogni arte ed ogni calcolo.
Tuttavia il potere irresistibile del movimento celava anche notevoli debolezze; impediva prima di tutto di seguire un disegno meditato. Tutte le province, comprese le singole città provvedevano ai casi loro, e formavano «giunte» di tipo feudale, composte spesso da fanatici incapaci o di parolai egoisti.
Per la guerra si doveva ricorrere a pochi soldati regolari, a milizie insufficienti e a contadini e cittadini privi d'istruzione e di uniforme.

Tuttavia anche le forze di Napoleone (sottovalutando la situazione locale) non bastavano al bisogno; contavano appena circa 200.000 uomini in gran parte presi dalle recenti leve; la "Grande Armata", quella serviva a lui in oriente.

Lo stesso imperatore quand'era impegnato in Germania Austria, faceva all'inizio poco caso al movimento popolare, ma dovette presto ricredersi. Già al convegno di Baiona, quando mise al bando re Carlo IV e suo figlio Ferdinando VII, non tenne in alcun conto la psicologia del popolo spagnolo. Poi finì che i conti dovette farli lui e piuttosto molto salati.

Una divisione francese, che avanzava su Valenza, fu respinta, un altro corpo, forte di 20.000 uomini, cedette vergognosamente le armi presso Bay. Fu questo un avvenimento, che rese attonita l'Europa e che indusse il re Giuseppe ad abbandonare Madrid e a ritirarsi fin dietro l'Ebro. In vari luoghi si venne a combattimenti più o meno importanti. Saragozza sotto Palafox si difese due mesi con selvaggio disprezzo della morte e costrinse i Francesi alla ritirata.

Nel Portogallo Junot con 28.000 uomini rimase tagliato fuori; stava comunque riuscendo a tenere a bada gli insorti, quando il 3 agosto gli giunse la nuova notizia dello sbarco di un esercito inglese.

La partecipazione degli Inglesi alla guerra di Spagna fu un fatto decisivo, poiché loro protestanti dette ai cattolicissimi fanatici Spagnoli quel solido aiuto, che ad essi mancava. In Inghilterra stavano a capo del gabinetto «tory» Castlereagh e Canning, risoluti ambedue ad andar fino in fondo nel duello con Napoleone.
Erano persuasi che una pura guerra marittima o degli sbarchi isolati non bastavano per batterlo, ma che solamente una campagna terrestre in grande stile prometteva la vittoria.
Perciò nel 1808 mandarono un piccolo esercito in Portogallo sotto Sir Arturo Wellesley, l'uomo di fiducia del Castlereagh. Quegli marciò su Lisbona e respinse Junot a Vimieiro. Fu la prima zampata del leopardo inglese. Junot sembrava perduto. Per sua fortuna prese allora il comando degli Inglesi il comandante in capo, generale Dalrymple, che di sua iniziativa gli accordò nella convenzione di Cintra di abbandonare con il suo esercito il Portogallo su navi inglesi. La notizia di questa convenzione suscitò oltre la Manica delusione e sdegno. Dalrymple fu subito richiamato e sostituito con Moore.

Napoleone schiumava di rabbia per l'andamento delle cose nella penisola. Voleva distruggere quei miserabili Spagnoli, che osavano porsi attraverso al suo cammino vittorioso. Raccolse insieme grandi forze e le mandò verso mezzogiorno, Francesi, Renani, Polacchi, Olandesi, più di 200.000 uomini, e si mise di persona alla loro testa con i suoi migliori marescialli, per abbattere e spezzare ogni resistenza.

Nel frattempo la Spagna non si era potuta liberare dal disordine, che ne paralizzava le forze. Tra interminabili dispute si formarono due partiti, uno che chiedeva semplicemente il ritorno dei Borbonì ed un altro che voleva approfittare di quello sfacelo politico e dinastico per ottenere riforme liberali pari a quelle ottenute dai francesi dopo la rivoluzione e che qui non aveva destato la pur minima emulazione. Salvo alcuni, la maggior parte come abbiamo detto era instupidita dalla monarchia e dal potente medioevale clero.

Finalmente si formò in Madrid una "Giunta" centrale di 35 membri, veramente troppi per una direzione energica. Invece di nominare un generale supremo questa acconsentì che vi fossero una mezza dozzina di capi di eserciti provinciali, che si intralciavano e di conseguenza si denigravano l'un l'altro. Dal punto di vista militare la Spagna era debole quanto più si poteva, quando il 10 novembre 1809, terminate tutte le operazioni vittoriose a Vienna, Napoleone aprì la campagna.

Il grande capitano volle sfondare vigorosamente il centro nemico e marciare direttamente avanti. Gli Spagnoli furono vinti in vari combattimenti; fu espugnato il passo di Somo-Sierra e il 3 dicembre fu occupata la capitale dopo un'accanita resistenza. Qui l'imperatore dette forma ai suoi piani per la piena sottomissione e per il governo del paese.
La resistenza degli Spagnoli pareva infranta. Ma giunse allora l'aiuto degli Inglesi. Dopo marce e contromarce senza un preciso scopo pianificato, Moore si era rivolto contro le linee di comunicazione di Napoleone. Ad un tratto questi comparve sui luoghi dove si combatteva e cacciò gli Inglesi a metà in fuga verso la Coruna, dove volevano imbarcarsi. Ma non era ancora giunta la flotta di trasporto. Le truppe quasi disfatte occuparono una forte posizione e respinsero con tenacia anglosassone gli assalti dei Francesi finché poterono risalire a bordo e approdare di nuovo a Lisbona. A pagare l'errore fu lo stesso Moore che cadde in questi assalti.

Questo attacco inglese lasciava molto a desiderare sotto l'aspetto strategico, ma fu importante, perché fece deviare le forze principali del nemico in un angolo remoto e rese con questo possibile agli Spagnoli di riaversi abbastanza.

L'imperatore non aveva condotto personalmente a termine l'inseguimento degli Inglesi, affidandolo a Soult e a Ney. Ritornò velocemente a Parigi, dove intrighi di Fouché, di Talleyrand e di Murat rendevano necessaria la sua presenza, mentre la situazione europea si faceva incerta per il contegno dell'Austria.
Gli erano certo sfuggiti gli odiati «abiti rossi» incitati dalle tonache nere, tuttavia reputava in sostanza ormai terminata l'insurrezione spagnola. Non conosceva ancora la differenza tra le guerre dei gabinetti e quelle nazionali. Invano cercava di agire a mezzogiorno dei Pirenei non solo con le armi, ma anche con buone leggi; si guadagnava con queste l'animo di una parte delle poche menti illuminate, mentre con la plebaglia allevata e guidata dai retrogradi offendeva il sentimento nazionale. Questa plebaglia persisteva nella rivolta, e il clero predicava la guerra come una crociata contro il figlio delle tenebre. E poiché non si poteva nulla ottenere in campo aperto, gli Spagnoli si davano alla guerriglia.

Dovunque si formarono bande armate, che in nessun luogo si lasciavano cogliere; dietro ogni cespuglio, dietro ogni rupe c'era in agguato un tiratore, in ogni edificio stava su una finestra o su un tetto minaccioso un ribelle, in ogni cibo, in ogni bevanda poteva esseci il veleno. Del resto assassinare per la "fede" gli uomini di "Satana" (Napoleone) era perfettamente lecito, l'inquisizione era pur nata qui, e qui ancora era tuttora presente. Questo era il catechismo che girava fra le mani del popolo. "E' peccato uccidere un Francese?". "No, con la morte di uno di tali cani eretici, ci si guadagna il paradiso".
Infiammati da un sacro furore il grido del pittoresco esercito era "Nel nome di Cristo e di re Ferdinando".

Quale fanatica ostinazione dominasse tra gli Spagnoli lo mostrò ancora la città di Saragozza, difesa da Palafox e assediata da Lanes. Dopo terribili sforzi i Francesi, il 29 gennaio 1809, aprirono la breccia nelle mura eterne della città; tuttavia la resistenza interna aumentò ancora di casa in casa. Dopo una lotta di quattordici giorni i Francesi avevano conquistato soltanto poche strade, e chi sa cosa sarebbe accaduto se la fame e le malattie non avessero consumato la forza dei difensori.

Quando il 20 febbraio la città si arrese, più di 50.000 Spagnoli erano morti. Era chiaro che uomini simili non avrebbero potuto mai divenire né sudditi obbedienti, nè cittadini moderni. La medesima appassionata resistenza incontrò in Catalogna Gouvion Saint-Cyr, che dopo tre aspri combattimenti si congiunse con Duchesne ed assediò la forte Gerona. Tutto fu inutile; i Catalani vinti si raccolsero in Tarragona. Al piede della Sierra Morena, oltre il Tago, a Orense, nelle Asturie e nell'Andalusia si formarono nuove bande o si riordinarono le antiche. Alla primavera del 1809 la giunta superiore poté mandare in campo più di 100.000 uomini (contadini) , e da Madrid trasferì la sua sede nella più sicura Siviglia.

Tuttavia gli Spagnoli per la pessima conduzione e per il loro disordine avrebbero a poco a poco esaurito le loro forze, senza l'aiuto degli Inglesi, il cui comando ottenne il 2 d'aprile Wellesley. Questi trovò un fido alleato in lord Beresford, che seppe istruire le truppe portoghesi, ricavandone soldati utili e infine anche abili alle armi. Wellesley, o, come più tardi fu chiamato, il duca di WELLINGTON (nell'immagine qui a fianco), fu uno degli uomini più notevoli del suo tempo, sebbene mancasse del tutto di genialità. Freddo, risoluto, dotato di mente limpida, di una ferma volontà e di un incrollabile sentimento del dovere, si dimostrò forte lavoratore e grande organizzatore tanto in patria nella buona società, quanto sopra un campo di battaglia bagnato di sangue. Nessun successo poteva inebriarlo, nessun pericolo, nessuna sventura sconcertarlo. Il potere che esercitava sopra i soldati, era pari a quello di Napoleone nei suoi tempi migliori; le sue labbra strettamente chiuse tenevano da lui lontano ogni confidenza ed ogni entusiasmo, ma pieni di fiducia tutti lo seguivano ciecamente fino alla morte.

Wellington, cauto e solito a ponderare molto, indugiava a risolvere, ma una volta deciso, poteva spiegare la forza e la rapidità di una tigre. Sapeva aspettare più di ogni altro. Più tattico che stratega, contrariamente a tutti i generali del suo tempo, conservò la tattica per linee, persuaso che, praticata giustamente con truppe sicure, fosse superiore a quella francese dell'urto per mezzo di colonne. Naturalmente in seguito a ciò non cercava l'offensiva, ma la difesa; e il destino (fortunato) ha voluto che egli non abbia perduto nessuna battaglia.

La sua situazione nella Spagna apparve straordinariamente difficile. Gli Inglesi rigidi, orgogliosi e protestanti, andavano per niente d'accordo con gli Spagnoli di sangue caldo, vani, demoralizzati e fanatici cattolici, e in patria Wellington doveva sempre fare i conti con l'opposizione parlamentare, la quale in caso di forti contrasti la Camera avrebbe richiesto il suo richiamo. Volere o non volere questo lo costringeva ad un grande riserbo e richiedeva da lui non meno l'arte del politico che quella del capitano, tanto più che il suo esercito era piuttosto modesto, non poteva farsi avanti con grandi progetti.

Napoleone prima di abbandonare la Spagna per l'Austria, aveva dato le disposizioni per la campagna del 1809. Soult doveva prendere Lisbona, Victor Siviglia, mentre Sebastiani doveva attirare a sé gli altri stormi spagnoli del mezzogiorno. In mezzo a combattimenti continui con le guerriglie, Soult giunse ad Oporto, da lui espugnata con un terribile spargimento di sangue. Ma non poté spingersi più oltre, perché i ribelli e la flotta inglese gli intercettavano ogni comunicazione.

Nel mezzogiorno tanto Sebastiani quanto Victor riuscirono vittoriosi, ma anch'essi dovettero arrestarsi per la sollevazione, che divampava intorno a loro. Appunto mentre i Francesi erano così paralizzati, Wellesley sbarcò a Lisbona. Poteva disporre di 25.000 Inglesi e di 16.000 Portoghesi. Subito, col nerbo delle sue forze si gettò contro Soult, che a gran fatica riuscì a sfuggirgli, e inseguito da vicino trovò scampo nella Galizia, dove Ney, che combatteva per la vita contro le guerriglie, si unì a lui.

Da Oporto Wellesley corse verso mezzogiorno per affrontare Victor, ma presso Talavera s'incontrò con le forze riunite di Victor, di Sebastiani e del re Giuseppe. Per due giorni (27 e 28 luglio) si combatté con gravi perdite, poi i Francesi dovettero ritirarsi e Madrid parva perduta. Comparve allora inaspettato sul teatro della guerra Soult con 50.000 uomini, per tagliar fuori gli Inglesi dal Portogallo. Wellesley si sottrasse abilmente al pericolo, che lo minacciava, e concesse alcuni mesi di riposo ai suoi soldati stanchi di tutte quelle corse da una parte all'altra.

Per questa campagna Wellesley ottenne il titolo di duca di Welling. Di riposo se lo prese anche lui perchè era stanco di fare affidamento sugli Spagnoli così indisciplinati anche se fanatici, ed in seguito non acconsentì a certi piani di attacco proposti dalla Giunta che comprendevano appunto un aiuto degli stessi spagnoli.

Nel frattempo anche a nord-est si era combattuto accanitamente. Un tentativo degli Spagnoli di riconquistare Saragozza fu respinto da Suchet. In Gerona i difensori si sostennero dal maggio al dicembre. Quando finalmente la città cadde, i Francesi avevano perduto 20.000 uomini.

La campagna di Talavera aveva offerto alla Giunta la sicurezza nelle proprie forze in modo che essa, ad onta dei rifiuti di Wellington, decise essa di rioccupare Madrid. Un esercito venne dal nord ma fu sbaragliato, un secondo giunse da sud fino a Ocamna, a sole tre giornate di marcia dalla capitale, ma qui si vide assalito dal re Giuseppe e battuto con la perdita di 22.000 uomini.

Questa grave sconfitta sembrava tanto più fatale in quanto Napoleone aveva finito la guerra con l'Austria ed era risoluto a dare ordine definitivamente alle cose di Spagna. Mandò per questo rinforzi considerevoli con l'ordine di sottomettere il Mezzogiorno della penisola.
Nel gennaio Soult si mise in movimento con 70.000 uomini, conquistò l'Andalusia e costrinse la Giunta a chiudersi nella forte Cadice, il cui assedio cominciò il 4 febbraio.
Là dentro tutto era sottosopra. La caotica Giunta dei 35, dovette cedere il luogo ad una Reggenza e questa ai deputati delle Cortes; la Spagna era veramente senza governo. Dalla Germania furono mandati 100.000 uomini all'esercito francese, che aumentò a 370.000 i combattenti (nemmeno in Austria ne erano entrati in campo così tanti!); fu occupato tutto l'interno, così che gli insorti si poterono sostenere ancora soltanto nelle parti più fuori di mano del paese.

Pericoloso restava soltanto Wellington; pure lui lo si voleva distrutto. Massena doveva assalirlo da nord-est, Soult da sud-est.
Il duce inglese si era valso egregiamente del tempo lasciatogli dai Francesi per rinforzare i suoi 30.000 uomini di truppe schiettamente inglesi e prussiane con dei Portoghesi e per mettersi in relazione non troppo convinta con circa 25.000 Spagnoli.
Non poteva arrischiarsi ad una battaglia in campo aperto, e perciò decise di ridurre il Portogallo ad una zona solitaria e di ritirarsi continuamente fino al punto da lui scelto per la resistenza. Era questo il promontorio di Torres Vedras, subito a nord di Lisbona, che egli aveva reso inespugnabile su tre linee con 126 trinceramenti chiusi, 427 cannoni e con la flotta inglese, che stava sul Tago.

Nell'agosto 1810 Massena si pose in movimento, senza trovare in alcun luogo il nemico, ma solo città e villaggi vuoti di abitanti. Soltanto presso Busaco urtò in una forte posizione con Wellington, che lo mise in scompiglio; questi poi proseguì oltre, finché ad un tratto presso Torres Vedras parve dileguarsi.

Massena riconobbe subito che con il suo esercito, ridottosi a 50.000 uomini, non poteva riuscire a nulla contro quelle opere fortificate. Presto la sua posizione, divenne molto pericolosa, perché numerose bande sempre più numerose di guerriglieri lo minacciavano e gl'intercettavano ogni vettovaglia. Tuttavia rimase là un mese; e poiché allora non era ancora comparso alcun rinforzo, ritornò a Santarem, dove si mantenne fino al marzo 1811.
Ma una terribile carestia lo costrinse a sgombrare anche da questa località. Invano aveva sperato in Soult. Quando questi finalmente si mise in movimento, era troppo tardi. La ritirata di Massena si mutò in un impresa disperata. Il suo esercito si trovava in piena dissoluzione; fu inoltre tormentato da guerriglie inferocite e incalzato alle spalle dal Wellington, che lasciava fare alla fame l'opera della spada.

Finalmente Massena giunse in luogo sicuro; ma 25.000 uomini erano perduti. Questa ritirata significava il principio della fine. Napoleone era stanco delle cose di Spagna fino al disgusto e non mandò più alcun rinforzo. Certo i generali francesi avevano vinto, Soult e Victor nel Mezzogiorno, Macdonald e Suchet in Catalogna, ma tutto questo fu controbilanciato dall'attività di Wellington. Assediò questi Almeida e respinse Massena, che accorreva a liberarla. Napoleone irritato tolse al suo valoroso maresciallo il supremo comando e lo dette all'ambizioso Marmont, che però non seppe fare nulla di meglio se non separar tra loro le truppe spossate da quelle efficienti per utilizzarle allenuove fatiche della guerra.

Di questo approfittò Wellington, per attaccare bruscamente a sud il Soult, che il 16 maggio 1811 aveva dato presso Albuera la battaglia più sanguinosa di tutta la guerra agli Inglesi, Portoghesi e Spagnuoli riuniti sotto il Beresford.
Quando dunque comparve Wellington, Badajoz fu espugnato. Però Marmont arrivato là si congiunse con Soult e costrinse le truppe britanniche a ritirarsi dietro il fiume Caya. Qui 50.000 Inglesi e Portoghesi vi rimasero per dodici giorni di fronte a 62.000 Francesi.
Per buona fortuna di Wellington i due marescialli non poterono intendersi sul cosa fare e si separarono senza rischiare nè uno nè l'altro la battaglia decisiva, e che se fatta insieme prometteva sicuramente una vittoria.

Lasciato così in pace, subito dopo Wellington si gettò a settentrione sopra Ciudad Rodrigo, ma dinanzi alle forze superiori di Marmont dovette ritornare nelle montagne portoghesi.
Nei fatti durante il 1811 Wellington era sempre stato in campo e il Portogallo era libero. La guerra di partigiani andò crescendo; per mezzo suo le comunicazioni tra Madrid e la Francia furono temporaneamente addirittura interrotte e metà dell'armata imperiale non ebbe un momento di quiete.
Soltanto al Suchet sorrideva la fortuna; conquistò Sagunto, vinse un esercito spagnolo, che veniva a liberarla, prese anche la ricca Valenza con i suoi 16.000 difensori. In premio ottenne la dignità di duca di Albufera e il potere di viceré nella Spagna orientale.

Prima di questo Wellington aveva già sorpreso Ciudad Rodrigo e Badajoz, tagliato le comunicazioni tra Soult e Marmont e si era arditamente presentato dinanzi a Salamanca, quartier generale di Marmont. Il maresciallo all'inizio si ritrasse, portato poi il suo esercito a 42.000 uomini, ritornò, ma il 22 luglio subì presso Salamanca una tremenda disfatta, che scosse dalle sue basi la signoria dei Francesi nella Spagna. Il 12 agosto fra una strepitosa esultanza della popolazione, Wellington fece il suo ingresso nella città di Madrid. Soult si vide tagliato fuori, levò l'assedio di Cadice e piegò ad oriente per ricongiungersi in Valenza col Suchet.

Una vittoria così estesa finì col riuscire pericolosa a Wellington. Essa costrinse i Francesi a sgombrare una gran parte della Spagna, a riunirsi in due armate e quindi finalmente a concentrare le loro forze. Stavano in Valenza il re Giuseppe, Soult e Suchet con 90.000 uomini, a nord presso Burgos altri 40.000. Wellington in compenso aveva ricevuto dalle Cortes il comando supremo delle truppe spagnole, che però obbedivano di malavoglia, ed egli stesso si sentì malsicuro dentro Madrid con i suoi 60.000 uomini.
Si volse perciò verso Burgos, perse un intero mese nel suo assedio e rese così possibile al nemico un'offensiva unita. L'esercito del nord venne a liberare Burgos, mentre Soult e il re Giuseppe rioccupavano Madrid. Wellington quindi ritornò nella sua antica posizione intorno a Salamanca, dove però si vide presto minacciato dalle due armate nemiche tra loro riunite.
Si ritirò ancora, mentre le piogge e la mancanza di vettovaglie arrestavano i suoi avversari. Sfuggì in tal modo ai Francesi l'ultima occasione di cogliere e abbattere il duce inglese.

L'anno 1812 era costato ai marescialli 40.000 uomini, il Mezzogiorno era perduto ed essi avevano finito con l'esser costretti a difendersi, mentre lontano sui campi nevosi della Russia la sventura colpiva il loro imperatore.
Quell'anno distrusse nella Spagna ogni fiducia. Vi stavano ancora 200.000 uomini, una parte sotto Suchet nel nord-est, l'altra ad ovest contro Wellington. Ma le forze di questo erano straordinariamente accresciute. Con molta previdenza aveva saputo avvalersi degli aiuti del paese in modo che egli riuscì a condurre la campagna del 1813 con 60.000 Spagnoli regolari e con una moltitudine di bande di partigiani, alle quali si univano 70.000 uomini di buone truppe anglo-portoghesi.
Un simile spiegamento di forze gli assicurava d'allora in poi la vittoria. Le bande di partigiani furono così bene distribuite in ogni angolo che i Francesi dovettero impiegare contro ad esse 40.000 uomini; uomini che mancarono poi nella battaglia decisiva.

Infatti a maggio Wellington si mise in movimento, costrinse il nemico a sgombrare Toledo e Madrid e a ritornare sulla linea dell'Ebro. Ma anche qui non poté arrestarsi. Presso Vittoria il 21 giugno Giuseppe accettò con 65.000 uomini la battaglia contro 80.000 di Wellington. Avvenne quello che era da aspettarsi: gl'imperiali furono completamente battuti e, abbandonando tutto il materiale di guerra, per le aspre vie di montagna dovettero fuggire verso la Francia. Il vincitore non li segui subito, ma fece prima assediare Pamplona e S. Sebastiano e costrinse Suchet alla ritirata.

Napoleone pose a capo dell'esercito principale, portato a 85.000 uomini, il maresciallo Soult; questi nel luglio prese l'offensiva, valicò inosservato i Pirenei per piombare all'improvviso sui generali britannici Picton e Hill, luogotenenti di Wellington. Ma gli opposero una resistenza così tenace che quest'ultimo poté raccogliere davanti a Pamplona delle forze sufficienti e respingere il nemico in una battaglia di due giorni.

Soult dovette tornarsene in Francia dopo aver perduto 10.000 combattenti. Quando poi furono cadute anche Pamplona e San Sebastiano, Wellington mise il piede sul suolo francese, ruppe le triplici linee di difesa del Soult, validamente fortificate, e lo batté sulla Nive in una battaglia accanita.
Dopo tante perdite il maresciallo aveva dovuto cedere ancora 10.000 uomini in aiuto dell'imperatore, così che Wellington poté muovere contro i 50.000 uomini che gli restavano ancora con forze superiori del doppio. Questa fu la fine; Soult dovette ritirarsi, inseguito dal nemico, che lo vinse definitivamente prima presso Orthez, poi il 10 aprile presso Tolosa.

Quattro giorni prima, il 6 aprile era già avvenuta l'abdicazione di Napoleone.

La guerra peninsulare era durata sei anni. Per la potenza di Napoleone si era trasformata in «ulcera purulenta», che senza posa consumò le sue forze in denaro e in uomini, e lo indebolì fino alla sua ultima lotta per l'esistenza, combattuta nel 1813 e 1814. Troppo tardi cercò di assicurarsi alle spalle, restituendo la corona a Ferdinando e facendogli sottoscrivere un trattato di pace.

Consideriamo ora brevemente quale fu questa singolare guerra. Da una parte selvaggia passione popolare, dall'altra un esercito istruito e dei marescialli sperimentati. Questi avrebbero senza dubbio conseguito la vittoria, se gl'insorti non avessero trovato in Wellington un alleato tale che non ne possiamo immaginarne uno più temibile.

Ambedue gli alleati potevano aiutarsi a vicenda e ognuno secondo i propri interessi. Agli inglesi degli spagnoli non gli importava proprio nulla, importante era vincere Napoleone e soprattutto in quel settore occidentale mentre (salvo qualche intervallo) il Corso era impegnato da tutta un'altra parte.
Si aggiunga a questo che Wellington voleva vincere e con i mezzi che aveva avrebbe vinto comunque anche senza i 35 pasticcioni della Giunta.

Napoleone invece, era destinato a perdere, perchè aveva anche lui dei confusionari; contro il calibro di un Wellington ci voleva lui, e non un semplice Giuseppe, Soult, Marmont, Suchet, Sebastiani, Victor, spesso in discordia e gelosi uno dell'altro.
Napoleone, quando infuriato intervenne nel corso degli avvenimenti sostituendo e modificando strategie altrui, invece di aiutare ingarbugliò ancora di più certe situazioni. E così facendo si fece anche dei nemici.

In Francia la guerra fin dall'inizio non fu popolare e fu sempre più odiata perchè non finiva mai; gli eserciti si logoravano, ricevevano riserve di minor valore e i francesi soffrivano in seguito ai vari richiami.
Invece gli Inglesi si conservavano sempre uguali sotto la ferrea volontà di Wellington, i Portoghesi si trasformavano in soldati eccellenti e gli Spagnoli per quanto all'inizio erano una massa di scombinati in piena anarchia, poi col tempo si trasformarono soldati piuttosto utili, come ad esempio nella guerriglia.
Questo intimo spostamento di valore naturalmente divenne sempre più evidente.
Il risultato alla fine fu che la Gran Bretagna ha condotto vittoriosamente anche su terra la sua guerra generale contro il suo più grande nemico. E Wellington in Portogallo e in Spagna oltre che contribuire a rompere il blocco continentale, ha contribuito molto alla sua caduta.
Quanto alla Spagna la sua vittoria contro Napoleone non gli giovò a nulla. Non aveva imparato nulla prima di lui, e nulla imparò dopo di lui, ripiombò nella sua feudalità; e se la costituzione francese ricevuta non fece breccia, quella inglese non ne vollero nemmeno sentir parlare. Nè gli inglesi ottenuto lo scopo insistettero molto. Finito l'impegno la lasciarono nel "suo brodo". Anzi l'inghilterra aveva piacere che rimanesse una nullità.

Anche a Napoleone non gli importò più nulla della Spagna. Fin da quando Wellington aveva ripreso Madrid, lui stava già pensando di assoggettare la Russia con una delle sue famose guerre lampo, come gli era riuscito in Austria; voleva andare a punire Alessandro.

Alla vigilia del 24 giugno 1812,
lui era pronto con un formidabile esercito di oltre 600.000 uomini.
Poi in quel giorno Napoleone si mosse e varcò il fiume Niemen.


LA GUERRA NAPOLEONICA DI RUSSIA - 1812 > >

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