ANNO 1797

LA PACE DI CAMPOFORMIDO - NAPOLEONE E LA LIGURIA
POVERA VENEZIA ! 
NASCE IL TRICOLORE E LA REPUBBLICA ITALIANA
(CISPADANA POI CISALPINA)

Prima che entrassero gli Austriaci, i Francesi asportano da Piazza San Marco a Venezia, i quattro cavalli di bronzo, attribuiti a Lisippo, a loro volta asportati dai Veneziani a Costantinonopoli nella famosa crociata del 1200-04

I NOVATORI A GENOVA - PROPOSITI DEL BONAPARTE - TUMULTI DI GENOVA - I NOVATORI VI PROCLAMANO LA DEMOCRAZIA - LA REAZIONE DEI FACCHINI E DE CARBONAI - INTERVENTO FRANCESE -MISSIONE DEL LAVALLETTE - CONDIZIONI IMPOSTE A GENOVA DAL BONAPARTE - NUOVA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA LIGURE - MODENA, REGGIO, MASSA E CARRARA AGGREGATE ALLA TRANSPADANA, CHE PRENDE IL NOME DI CISALPINA - COSTITUZIONE E INAUGURAZIONE DELLA CISALPINA - IL TRATTATO DI CAMPOFORMIDO - TENTATIVI DEL DANDOLO DI SALVARE VENEZIA - SCIOGLIMENTO DELLA MUNICIPALITÀ - ULTIME SPOGLIAZIONI DEI FRANCESI - GLI AUSTRIACI ENTRANO IN VENEZIA

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TUMULTI A GENOVA - INTERVENTO FRANCESE NUOVA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA LIGURE


I giacobini genovesi bruciano il Libro d'oro dell'oligarchia genovese
e proclamano la Repubblica democratica - 6 giugno 1797


Mentre imponeva le sue condizioni e metteva in ginocchio l'aristocrazia della Repubblica di S. Marco, creando la Municipalità democratica, NAPOLEONE teneva d'occhio anche Genova, dove il ministro francese FAYPOULT apertamente favoriva i novatori, i cui seguaci solevano radunarsi presso lo speziale MORANDO considerato il loro capo.

Spalleggiavano i democratici genovesi alcune famiglie patrizie (anche qui come a Venezia), quali quelle dei SERRA, dei SAULI e dei GENTILI, mosse più dall'odio che nutrivano contro gli SPINOLA e i PALLAVICINO che non influenzati dall'amore alle nuove idee rivoluzionarie. Strumento efficace di propaganda progressista erano opuscoli stampati clandestinamente o i giornali milanesi che erano ampiamente diffusi -anche questi clandestinamente- in tutta la Liguria ed erano avidamente letti per gli attacchi feroci che muovevano al governo della vecchia repubblica.

Nel maggio del 1797 il Bonaparte doveva certo aver preparato già un piano se il 15 di quel mese (il 12 si era già compiuta a Venezia la famosa "farsa") scriveva al Faypoult: "…La piena caduta del governo dogale di Venezia deve tirarsi dietro quella dell'aristocrazia di Genova; ma conviene aspettare quindici giorni finché le faccende di Venezia siano state ultimate" (con il Trattato di Campoformio) . Ma non ci fu bisogno di aspettare tanto.

Le notizie dalla Laguna erano già rimbalzate a Genova. E dopo soli tre giorni, alla porta dell'Acquasola, ci fu una rissa tra giovani patrizi e popolani che portò all'arresto di due novatori. Fu questa la scintilla dell'incendio. Seguirono giornate d'ansia e di timori per il governo, criticato violentemente con aspri rimproveri dal ministro francese, preoccupato dall'incolumità dei novatori che andavano eccitati per le vie cantando la "Marsigliese" ma nello stesso tempo minacciando chiedevano la liberazione dei compagni arrestati. Non ottenendo nulla, il 22 maggio scattò la mobilitazione e circa ottocento novatori si levarono in armi, occuparono i luoghi più importanti della città, aprirono le prigioni di Malapaga, liberarono gli arrestati e altri galeotti dalla Darsena e, dato il sacco al Palazzo Doria e Fascinolo, proclamarono in piazza di Banchi la "democrazia" sotto la presidenza del MORANDO.

Il Faypoult, invitato dal Senato e dai novatori ad un incontro, promise la sua mediazione per far cessare i disordini, dando al governo un indirizzo più democratico; ma le agitazioni improvvisamente si fecero più gravi e presero un orientamento opposto, quando numerosi facchini e carbonai, cui poi si unirono i contadini di Bisagno e di Sampierdarena, istigati forse dalla nobiltà (conservatrice e clericale), invasero l'arsenale, s'impadronirono di quindicimila archibugi e, levando come insegna l'immagine della Madonna, al grido di "Viva Maria" (!) si scagliarono contro i patrioti "progressisti". Ne seguì una lotta accanita; si era alla guerra civile, i novatori furono sopraffatti, molte case, tra cui quella del Morando, furono saccheggiate, e cosa grave, alcuni francesi furono uccisi, altri furono fatti prigionieri.
Il Faypoult chiese agli addetti al servizio della repubblica la liberazione dei carcerati, e una dichiarazione formale dove si doveva affermare che i Francesi (quelli uccisi o fatti prigionieri) non avevano preso parte nei tumulti (come si andava dicendo in giro, ritenuti responsabili per screditarne la politica democratica); ma il Senato rifiutò di negare questa partecipazione, e subito spedì a Parigi Stefano Rivarola per fare rimostranze e informare il Direttivo dei gravi fatti accaduti a Genova, inoltre mandò presso il Bonaparte -che nel frattempo era sceso a Milano- i patrizi CESARE DORIA e GIROLAMO DURAZZO perché cercassero innanzitutto di spiegargli bene i fatti ma anche convincerlo a non agire impulsivamente contro la repubblica ligure.

Era troppo tardi. Il Bonaparte, era già stato informato dal Faypoult, e aveva mandato a Genova il suo aiutante di campo LAVALLETTE con una lettera per il doge GIACOMO BRIGNOLE, che dopo averla ricevuta, il 29 maggio la rese pubblica al Senato, leggendone il contenuto. Napoleone ingiungeva di liberare i Francesi prigionieri, di punire i promotori dei disordini e di disarmare la plebe (i "Viva Maria"). Questi ordini dovevano essere eseguiti entro ventiquattro ore. Fra i colpevoli da punirsi erano indicati esplicitamente gli inquisitori SPINOLA, GRIMALDI e CATTANEO.

Alcuni senatori avrebbero voluto che si respingessero le richieste del Bonaparte; ma, con la discordia che c'era all'interno dello stesso Senato e nella piazza, Genova non era certo in grado di arrivare a sanare i contrasti fra il pro e il contro, ma neppure era in grado di resistere ai Francesi, che avevano nel porto, davanti alla città la flotta dell'ammiraglio BRUEYS e già facevano avanzare da Cremona la divisione del generale SERRURIER e dai confini del Piemonte ottomila soldati di CARLO EMANUELE IV, mentre Savona, Finale e Porto Maurizio innalzavano l'albero della libertà. Stando così le cose, il governo della repubblica finì col cedere e incaricò i nobili CARBONARA e GIROLAMO FRANCESCO SERRA di riformare lo Stato com'esigeva Bonaparte.

Napoleone aveva posto il suo quartier generale a Mombello e qui vennero a trovarlo il Carbonara e il Serra, i quali conclusero con lui un accordo in cui si stabiliva di abolire i privilegi della nobiltà e la stessa aristocrazia, di formare una giunta provvisoria, e una per riformare la costituzione affidando il potere legislativo a due consigli, uno di trecento membri, l'altro di centocinquanta e l'esecutivo al doge e a dodici senatori. Si stabiliva inoltre di rispettare la religione e di garantire l'integrità territoriale. La Francia, come risarcimento dei danni sofferti dai suoi sudditi, "prendeva" Genova sotto la sua protezione (6 giugno).

Il giorno 14, mentre a Mombello le due sorelle del Bonaparte, PAOLINA ed ELISA, sposavano l'una il generale LECLERC e l'altra il principe FELICE BACIOCCHI, s'inaugurò a Genova il governo democratico. Furono bruciati il Libro d'Oro della nobiltà, molti stemmi di patrizi, la bussola e le altre insegne dogali; e dalla plebe furono fatte a pezzi le due grandi statue dei Doria che adornavano il Palazzo omonimo, simbolo del vecchio potere.

Per diffondere le idee democratiche furono mandati in tutte le terre di Liguria propagandisti, ma l'opera di costoro non produssero i frutti sperati. Infatti, sul finire dell'agosto del 1797, si sollevarono contro il nuovo governo "bonapartista" le popolazioni rurali delle due Riviere. A soffocare la ribellione si mosse con un reparto di milizie liguri il generale francese DUPHOT, il quale ad Albaro sconfisse i Bisagnini e a S. Benigno i Polceveraschi e riprese loro alcune fortezze di cui si erano impadroniti (5 e 6 settembre).

Perché Genova rimanesse sotto il totale controllo della Francia, il Bonaparte vi mandò due battaglioni al comando del LURNES a presidiarvi la cittadella, quindi conferì incarico al Corvetto, al Bertuccioni, al Lupi, al Rossi e al Sommariva di riformare il nuovo Statuto, che fu approvato nei comizi popolari con centomila voti contro diciassettemila; infine furono istituiti due Consigli legislativi, uno di trenta e l'altro di sessanta membri e a capo del governo fu posto un Direttorio costituito da cinque membri. In conclusione, l'azione svolta su Genova, fu per Napoleone meno laboriosa di quella di Venezia. Genova e la Liguria voltarono subito pagina. Restava ugualmente Repubblica, ma non indipendente.

LA REPUBBLICA CISALPINA - IL TRICOLORE - IL TRATTATO DI CAMPOFORMIO -
GLI AUSTRIACI A VENEZIA

Già il 7 gennaio alle ore 11 si era aperto un Congresso a Reggio Emilia alla presenza di 100 deputati. Giuseppe Compagnoni, l’infaticabile lughese, vi domina con la sua intelligenza, il suo impegno e la sua preparazione. Egli propone via via una serie di provvedimenti che vengono tutti e subito approvati .

Dal verbale della Sessione XIV del Congresso Cispadano
"Reggio Emilia, 7 gennaio 1797, ore 11. Sala Patriottica.
Gli intervenuti sono 100, deputati delle popolazioni di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia.
Giuseppe Compagnoni di Lugo fa mozione che si renda universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori Verde, Bianco e Rosso e che questi tre colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti. "Viene decretato."

E’ l’atto di nascita del TRICOLORE. (*)

Sempre nel verbale si legge: "Compagnoni fa mozione che lo Stemma della Repubblica sia innalzato in tutti quei Luoghi, nei quali è solito, che si tenga lo Stemma della Sovranità". Decretato.
"Fà un'altra mozione, che alla testa di tutti gli atti pubblici si ponga L’intestatura - Repubblica Cispadana una ed indivisibile -. Si decreta pure questo".
Altra mozione di Compagnoni dopo qualche discussione, "si decreta che L’Era della Repubblica Cispadana incominci dal primo giorno di gennaio del corrente anno 1797, e che questo si chiami Anno I° della Repubblica Cispadana da segnarsi in tutti gli atti pubblici, aggiungendo, se si vuole, l’anno dell’Era volgare. "


( * ) Il Tricolore aveva però già fatto la sua apparizione sul suolo italiano nel settembre 1796. Sarà lo stesso Napoleone Bonaparte a darne l'annuncio al Direttorio in una lettera nella quale è scritto che la Legione Lombarda, appena costituita, aveva scelto come propria bandiera "nazionale" il Tricolore bianco, rosso e verde. Adottato come simbolo nazionale anche dalla Repubblica Italica e successivamente dal Regno d'Italia, il Tricolore seguì le fortune napoleoniche e con la Restaurazione scomparve dall'Italia. I vecchi regimi ripresero le loro tradizionali bandiere, mentre la Carboneria adottò come proprio simbolo un drappo dai colori rosso, blu e nero: gli stessi della Repubblica Partenopea.
La bandiera bianca, rossa e verde apparirà di nuovo in Italia nel 1831, con la costituzione della Giovine Italia. Il suo fondatore, Giuseppe Mazzini, farà di essa il simbolo della libertà e della volontà di rinnovamento e di unità nazionale del popolo italiano. Il Tricolore della Giovine Italia recava, da una parte, la scritta: "Libertà, Uguaglianza, Umanità"; e dall'altra: "Unità, Indipendenza".
Da questo momento l'idea dell'unità e dell'indipendenza nazionale e il Tricolore vengono strettamente associati nella mente degli italiani. Dalla spedizione di Savoia del 1834, non c'è moto o sollevazione popolare che non avvenga all'insegna del Tricolore. Nel marzo 1848 i milanesi insorgono contro gli austriaci agitando il Tricolore e cantando l'Inno di Mameli. Ciò, probabilmente, spinse Carlo Alberto ad assicurare al Governo provvisorio lombardo che le sue truppe avrebbero varcato il Ticino sotto le insegne del Tricolore (con lo scudo sabaudo al centro), nonostante lo Statuto concesso pochi giorni prima avesse solennemente proclamato, all'art. 77, che "Lo Stato conserva la sua Bandiera [croce bianca in campo rosso, n.d.r.]: e la coccarda azzurra è la sola nazionale".
Il Tricolore, adottato perfino dalle milizie borboniche e papali in un primo tempo inviate in soccorso dei Lombardi, sarà anche la Bandiera di Venezia e dal Governo insurrezionale della Sicilia e sventolerà in tutti i vecchi Stati italiani. Uno dei primi decreti della Repubblica Romana dichiarerà, il 12 febbraio 1849, il Tricolore Bandiera nazionale.
Pur mancando un'esplicita sanzione normativa, il Tricolore è ormai diventata la bandiera nazionale italiana: la materia riguardante la bandiera verrà, infatti, organicamente disciplinata dopo la Grande Guerra con il regio decreto-legge 24 settembre 1923, n. 2072, convertito nella legge 24 dicembre 1923, n. 2264. E nel 1947 il Tricolore, ovviamente privo del simbolo della dinastia sabauda, viene introdotto nella Costituzione repubblicana, che all'art. 12 così recita: "La Bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni".

 

Il 26 aprile del 1797 si riunivano a Bologna i Consigli del Corpo Legislativo della Repubblica Cispadana e nominavano Direttori IGNAZIO MAGNANI, LUDOVICO RICCI e G. B. GUASTAVILLANI. Il Bonaparte, credendo che gli eletti fossero dei sostenitori del partito dei preti, non si mostrò soddisfatto e il 19 maggio ordinò che alla Cispadana si unissero le Romagne e che se ne staccassero Modena, Reggio, Massa e Carrara per aggregarsi alla Transpadana, che doveva prendere il nome di REPUBBLICA CISALPINA.

Questa fu inaugurata a Milano il 9 luglio e in quell'occasione fu promulgata la nuova costituzione, la quale - "cito il Fianchetti" - "…non fu se non una copia di quella francese, ed ebbe anche una durata minore di quella..".
" ..Si apriva con la dichiarazione dei diritti d'uomo e di cittadino; poneva il duplice suffragio a fondamento d'ogni autorità; tutti i domiciliati in un distretto nominavano i giudici di pace, e gli elettori del dipartimento a ragione di uno ogni duecento. Questi alla loro volta eleggevano i membri del corpo legislativo, e tutti i magistrati giudiziari e gli amministratori.
Il corpo legislativo si componeva di un Consiglio di "seniori", in numero non minore di quaranta né maggiore di sessanta, e di un Consiglio di "juniori" (o gran Consiglio) tra gli ottanta e i centoventi; il secondo doveva proporre, il primo approvare le leggi, e, occorrendo, promuovere la revisione dello Statuto; ad ambedue spettava determinare i tributi annui e scegliere un Direttorio di cinque, investito della potestà esecutrice. Si creava inoltre un Tribunale di Cassazione, elettivo anch'esso, e un Istituto nazionale; infine si adottava negli atti pubblici il calendario e l'era francese (che iniziò retroattivamente, come in Francia, con corrispondente giorno 22 di settembre del 1792)…"

"…Splendide furono le feste dell'inaugurazione, che avvennero nel Lazzeretto, fuori di Porta Orientale, battezzato (come a Parigi) col nome di "Campo di Marte", ornato di festoni e di corone, di bassorilievi rappresentanti i fatti di Catone, di Scevola, di Curzio e della Lega Lombarda, d'archi di trionfo e di dodici alberi della libertà. Alla presenza del Bonaparte, del Direttorio, dei ministri cisalpini, dei deputati dei municipi e delle guardie nazionali dei dipartimenti, dei rappresentanti della Cispadana e di una folla immensa, l'arcivescovo di Milano celebrò la Messa e benedisse le bandiere tricolori delle legioni cisalpine e pronunciarono discorsi i cittadini SERBELLONI e RANGONE; quindi trecento giovinetti del battaglione della "Speranza" distribuirono copie della costituzione, e trentamila soldati francesi e cisalpini sfilarono davanti al Bonaparte mentre suonavano le musiche e si levavano fragorosi gli applausi. Lo stesso giorno al Palazzo nazionale vi fu un banchetto di trecento convitati e una corsa di fantini da Loreto al palazzo Serbelloni; la sera ci fu illuminazione con dodicimila lampade al campo della federazione…."

La nuova repubblica fu sollecitamente riconosciuta dalle corti di Sardegna, di Toscana, di Parma, delle Due Sicilie e dalle repubbliche Ligure e Veneta. L'ultimo a riconoscerla fu il Papa, il quale vi fu costretto dalla minaccia di una nuova guerra. Nell'ottobre dello stesso anno la Cisalpina aumentò il suo territorio annettendo la Valtellina che con l'aiuto del Bonaparte si era sottratta al giogo elvetico dei Grigioni.

Il 17 di quello stesso mese, dopo molte tergiversazioni dall'una e dall'altra parte, era firmato tra la Francia e l'Austria quella "spiacevole" carta (alcuni la bollarono "infame") che porta l'infausto nome di TRATTATO DI CAMPOFORMIDO.

Con il trattato la Francia acquisiva le Isole Jonie e tutti i possedimenti veneti dell'Albania; l'Austria riceveva l'Istria, la Dalmazia, le Bocche di Cattaro, le isolette venete dell'Adriatico, infine la città di Venezia con le lagune e con quella parte di terra ferma compresa tra i confini austriaci ed una linea che, partendo dal Trentino, attraversava il lago di Garda fino a Lazise, giungeva a S. Giacomo e, seguendo il corso dell'Adige, del Tartaro, del canale di Polisella e del Po, terminava al mare. Tutte le terre venete a destra di questi confini erano assegnate alla Cisalpina che riceveva il riconoscimento austriaco.

Venezia era stata venduta mentre in quel momento un congresso di deputati della terraferma faceva voti per l'unione con la Cisalpina e tali voti comunicava al Bonaparte per mezzo del DANDOLO,
al quale il generalissimo però comunicava notizia dell'avvenuto trattato e della mostruosa cessione. Con l'animo angosciato il Dandolo corse a Venezia a dare il doloroso annuncio (27 ottobre) e in una pubblica sessione, in cui parecchi oratori pronunziarono accesi discorsi, propose che il popolo veneziano decidesse del proprio destino votando o per il giogo straniero o per l'indipendenza.
La votazione avvenne nelle parrocchie il giorno dopo e, sebbene per equivoco moltissimi voti fossero contrari, ebbero la prevalenza i suffragi di coloro che volevano rimaner liberi.

Lo SPADA e il DANDOLO furono incaricati di portare non a Napoleone ma direttamente a Parigi l'esito della votazione, ma per ordine del generalissimo, prima che attraversassero il confine piemontese, i due furono arrestati e condotti a Milano, dove al Bonaparte che li rimproverava di averlo scavalcato, il Dandolo parlò con tanta eloquenza dello strazio della sua patria da commuoverlo fino alle lacrime.

Ma quello di Napoleone era il pianto del coccodrillo. II triste destino dell'infelice Venezia si era già compiuto.
II 9 novembre la municipalità si sciolse affidando le redini del governo ad una magistratura provvisoria e i Francesi, poiché dovevano abbandonarla posero mano alle ultime spogliazioni.

Si estorse quanto fu possibile: il Barbarigo, il Gabrieli e il Corner, arrestati come si è detto per ordine del Bonaparte, dovettero comprare la loro libertà per 131.250 lire; il ceto mercantile fu obbligato ad acquistare per centocinquantamila ducati una certa quantità di biscotti e di sale; furono venduti i capolavori d'arte della scuola dei mercanti alla Madonna dell'Orto; si finirono di spogliare gli archivi, le pinacoteche e le chiese; furono mandati a Parigi i quattro cavalli di bronzo che ornavano la Basilica di S. Marco; furono presi sei vascelli ed altrettante fregate che erano a Corfù; si vuotò l'arsenale, si affondarono del tutto le navi in riparazione, quelle mal messe furono sfasciate; e si arse a S. Giorgio il BUCINTORO per toglierne le dorature e solo quando non ci fu più nulla da "prelevare", il generale SERRURIER - non prima di aver fucilato un oste veneziano e un contadino mestrino rei di aver attaccato una banale lite per una questione di pochi soldi- abbandonò la città agli Austriaci, che vi entrarono il 18 gennaio del 1798, come dei fantasmi, in una città irreale, spogliata, in ginocchio, e dall'umiliazione stordita e ancora incredula.

Più in basso di così Venezia non era mai andata nella sua storia, nemmeno quando ad Aquileia e ad Altino era passato Attila; la Serenissima era sprofondata dall'umiliazione nel fango della sua laguna, e con essa, i nobili inetti, gli aristocratici apatici, i patrizi impigriti in attesa dei "nuovi padroni" , gli Asburgo, che da cinque secoli non attendevano altro che questo: di metterci il tallone.
Altrettanto crudele destino per le città, le campagne, le attività della Terraferma.

Ma più di ogni altro luogo, fu Venezia, durante tutto il periodo austriaco a sprofondare nella decadenza, per la prevalenza marittima di Trieste, per l'incuria dei suoi stupendi palazzi che cadevano in rovina con i padroni che non riuscivano più a restaurare per indigenza sopravvenuta. Alcuni furono demoliti per ricavarne pietre e marmi da vendere ai costruttori, che quasi stavano per demolire il palazzo dei dogi per farci un palazzo reale. I pochi arredi (quadri, statue, mobili) che erano rimasti nelle chiese o nei palazzi dei nobili, finirono in mano agli antiquari speculatori senza scrupoli e alle aste. Gli archivi secolari della Serenissima finirono al macero o venduti ai salumieri per incartarci le loro cose.

Nel 1811 "cessarono di esistere tutte le librerie" (erano 845); le biblioteche dei frati e dei monaci (alcune monumentali) furono disperse, perfino comprese le scaffalature; come quella dei Camaldolesi di Murano che possedeva 40.000 volumi; dei Somaschi alla Salute, 30.000; dei Domenicani alle Zattere altrettanti volumi; quella dei Minori conventuali ai Frari con 6000 volumi in fogli grandi in finissima pergamena che finirono -perché adatti all'incarto- al mercato del pesce; così ai Benedettini di San Giorgio, a San Francesco della Vigna, ai Dominicani di San Giovanni e Paolo.
E se alla biblioteca di Alessandria d'Egitto - quando la distrussero i Romani- andarono persi migliaia di importanti codici dell'antichità, danno maggiore fu quello di Venezia, perché alcuni di quei codici erano ancora gelosamente custoditi, oltre quelli dei successivi 1850 anni; soprattutto quelle edizioni delle prime e numerose tipografie che erano sorte all'inizio del '500 a Venezia (Manuzio, Remondini, ecc.)

In quanto ai quadri, sembra che 25.000 siano "volati" per il mondo a riempire pinacoteche e residenze reali e meno reali, o qualche salotto di nobili di passaggio, che li acquistavano al puro valore della tela. Tutti, viceré, ministri, funzionari, o anonimi accompagnatori dopo avervi soggiornato, se ne tornavano a casa con fardelli di cose preziosissime di Venezia. Di Venezia? No, un patrimonio dell'Umanità, che Venezia custodiva soltanto, da secoli e secoli. Ancora da quando i veneziani abitavano ad Aquileia o ad Altino, cioè nel 300, 400, 500, 700, avanti Cristo. Cioè 27 secoli fa!

Un documentatissimo inventario - di questo scempio- è quello compilato da ALVISE ZORZI nella sua "Venezia scomparsa".

Quando lo stesso Napoleone dopo le sue clamorose imprese tornò a Venezia nel 1807, provò dolore nel vedere come era ridotta Venezia; voleva fare qualcosa, correre ai ripari, emise decreti e decreti paradossalmente anche per rilanciare il commercio mise la Camera, quando il commercio a Venezia non esisteva già più. Scrive lo Scaldaletti, "Per commerciare che?".
Allargò il giardino pubblico ma solo perché già un terzo dei veneziani andati in miseria l'avevano scelto come dormitorio; e allargò pure il cimitero, ma solo perché un altro terzo lì era già finito.

E se lo Zorzi ci ha lasciato un inventario delle cose sottratte, il Lauriston inviando nel 1811 una relazione all'imperatore Francese fotografava impietosamente la decadenza della città; e non era molto diversa la relazione del Viceré Ranieri fatta poi nel 1819 al suo imperatore Austriaco nella nuova opulenta città sulle sponde del Danubio.

E non finiva qui. La storia di Venezia riserverà ai veneziani anche dopo il 1800 altri infiniti dolori. Che troveremo in altre pagine di questa lunga storia (che alcuni dicono di "civiltà").

Lasciamo Genova, Venezia, e torniamo alla Repubblica Cisalpina,
al Novembre 1797, e a Napoleone dopo Campoformio

quindi restiamo ancora nel 1797 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
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