ANNO 1849

DISFATTA A NOVARA - ABDICAZIONE - INSURREZIONE A GENOVA
Atto Primo

BATTAGLIA DI NOVARA - ABDICAZIONE DI CARLO ALBERTO -- VITTORIO EMANUELE II - L'ARMISTIZIO - RESISTENZA DI CASALE - IL MINISTERO DE LAUNAY-PINELLI - INSURREZIONE DI GENOVA -
LA PACE TRA IL REGNO DI SARDEGNA E L'AUSTRIA
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BATTAGLIA DI NOVARA

Il 20 marzo 1949 a mezzogiorno cominciava lo stato di guerra. Regno Sardo e Austriaci ricominciavano la guerra..
Presso che uguali numericamente erano le forze dei due eserciti. Lo stato Sardo contava 125.000 uomini, ma in campagna non ne furono condotti che novantamila circa con 152 pezzi d'artiglieria. Molti erano coscritti, che non avevano avuto il tempo di compiere l'istruzione militare, i più erano senza fede, persuasi che la guerra era un espediente per uscire dall'avventura in cui i partiti si erano messi, tutti desideravano più la pace che la guerra; scarsissima era la disciplina e non pochi erano quelli che avevano dichiarato di non voler combattere e di voler disertare. Inoltre nei veterani della campagna precedente non c'era il desiderio della riscossa, ma persisteva l'amarezza che il trattamento delle popolazioni rurali lombarde aveva loro procurato. Infine nessuno dei soldati era contento del comandante supremo. Questo non era più il BAVA, che, avendo pochi mesi prima suscitato odi, polemiche e proteste -con una sua inopportuna pubblicazione sulla campagna del 1848- era stato messo da parte.

Pur essendo il Re alla testa delle truppe, il comando effettivo era stato dato al Chrzanowski, che doveva esercitarlo in nome di Carlo Alberto, e che per il suo fisico infelice, per la nessuna conoscenza della lingua e dei luoghi non era sicuramente il capo che potesse esercitare alcun fascino sulle sue truppe. Capo dello stato maggiore generale era ALESSANDRO LA MARMORA, il fondatore del corpo dei Bersaglieri.

L'esercito era diviso in sette divisioni e due brigate.
La 1a Divisione - brigate Aosta e Regina, reggimento Nizza Cavalleria, Bersaglieri e due batterie - stava a Mortara agli ordini del generale GIOVANNI DURANDO;
La 2a - brigate Casale ed Acqui con il 23° di linea, reggimento Piemonte Reale cavalleria, bersaglieri, due batterie occupava, comandata dal generale BES, i dintorni di Vigevano;
La 3a - brigate Savoia e Savona, reggimento Genova cavalleria, bersaglieri, due batterie - comandata dal generale ETTORE PERRONE, stava presso Galliate, appoggiandosi alla via di Milano;
La 4° - comandata dal duca di Genova e formata dalle brigate Piemonte e Pinerolo, dal reggimento Aosta cavalleria, da bersaglieri e da due batterie, si trovava a Buffalora;
La 5° - di seimila uomini, tutti Lombardi, agli ordini di RAMORINO e comprendente quattro reggimenti di linea, il battaglione dei Bersaglieri del Manara, due piccoli corpi di studenti e cacciatori trentini e due batterie, era alla Cava, dirimpetto a Pavia;
La 6 - del generale ALFONSO LA MARMORA -quattro reggimenti di fanteria, una compagnia di bersaglieri, due squadroni del Novara e due batterie, si trovava, come sappiamo, a Sarzana e si doveva portare a Parma e quindi unirsi alla Divisione Romana (ottomila fanti, seicento cavalli e sedici cannoni) che sarebbe venuta da Bologna al comando del colonnello LUIGI MEZZACAPO e alla Divisione Veneziana di GUGLIELMO PEPE (cinquemila uomini e dodici cannoni) che doveva muovere da Chioggia;
La 7° - infine, comandata dal duca di Savoia (Vittorio Emanuele) stava di riserva tra Novara e Vercelli ed era formata dei due reggimenti dei Granatieri Guardie, del reggimento cacciatori, della brigata Cuneo, del Savoia cavalleria, di quattro squadroni del Novara e di due batterie.
Delle due brigate separate, la prima, agli ordini del colonnello BELVEDERE, forte di quattro battaglioni della brigata Acqui, due di bersaglieri e di una batteria, stava a Castelsangiovanni, sulla destra del Po, per sorvegliare Piacenza, la seconda, agli ordini del generale SOLAROLI, - 30° e 31° reggimenti, battaglione Real-Navi, Cacciatori della Valtellina e di Bergamo, Dragoni lombardi e una batteria - campeggiava ad Oleggio.

L'esercito austriaco, che prendeva parte alle operazioni, contava circa 90.000 uomini, agguerriti, fiduciosi nel loro capo, d'eccellente morale, divisi in sei corpi di due divisioni ciascuno, affidati al comando di generali abili quali il WRATISLAW, D'ASPRE, APPEL, THURN, WOCHER.
L'esercito, che era comandato dal RADETZKY in persona, assistito dal barone HESS, capo dello Stato Maggiore Generale, aveva con sé 230 cannoni e, quando furono riprese le ostilità, aveva il 1° Corpo del Wratislaw alla destra, a Mirabello, sulla via. Milano-Pavia, al centro il 2° Corpo del D'Aspre che occupava Pavia, alla sinistra, a Motta S. Damiano, l'Appel col 3° Corpo: dietro al D'Aspre stava il Wocher con la riserva tra Fossaneto e Vimanone; il Thurn col 4° era a Belgioioso; il maggiore CZEK con due squadroni di usseri e un battaglione sorvegliava il Ticino sopra Pavia e si collegava per la destra alla brigata Gorger, che aveva ordine di ripiegare su Rosate all'apparire dei piemontesi.

Il 20 marzo a mezzogiorno, la 4a divisione del duca di Genova passava il Ticino a Buffalora: Carlo Alberto era alla testa della colonna con i bersaglieri. Le truppe avanzarono fino a Magenta senza incontrare il nemico, eccettuati piccoli drappelli di usseri che si allontanavano al galoppo al loro avvicinarsi. Allora si capì che il nemico o si era ritirato dietro l'Adda, il che non era tanto probabile, o tentava da Pavia d'invadere il territorio piemontese.
Lo CHRZANOWSKI aveva dinanzi a sé libera la via di Milano, poteva audacemente spingersi nella Lombardia, sollevarvi le popolazioni e render quindi difficilissima al nemico la ritirata; ma non osò allontanarsi dalla sua base di operazione e preferì aspettare gli Austriaci nelle posizioni occupate.
Il Radetzky, appena cessato l'armistizio, aveva ordinato che si cominciasse il passaggio del Gravellone con tre colonne comandate dal generale D'Aspre. La custodia della zona in cui operava questo corpo d'armata austriaco era stata affidata al generale Ramorino, che aveva "ricevuto l'ordine" di presidiare la Cava, di collocare un distaccamento al Gravellone e di battere il campo con la cavalleria fino a Bereguardo sulla sinistra. "Invece" il Ramorino aveva lasciato il grosso della divisione al sicuro dietro il Po e aveva messo duecento uomini alla Cava e il battaglione Manara al Gravellone, di modo che soltanto questi bersaglieri lombardi si trovassero a opporre qualche resistenza al nemico, ma sopraffatti dal numero, dovettero ritirarsi alla destra del fiume.

Quando al quartier generale si seppe questo arretramento, fu invitato il Ramorino a recarsi a Novara per render conto del suo operato e il comando della 5a divisione fu affidato al generale FANTI. Il Ramorino, giunto a Novara, cercò di scusare la sua disobbedienza poi fuggì, ma fu arrestato ad Arona e condotto nella cittadella di Torino, dove più tardi, subito un processo dinanzi ad un consiglio di guerra, scontò con la fucilazione gli errori suoi ma anche quelli degli altri.
La sera stessa del 20 essendo ormai certo che il nemico da Pavia aveva fatto irruzione nel territorio piemontese, lo Chrzanowcky ordinò alla divisione Durando di trasferirsi da Vespolate a Mortara, e alla divisione Bes, che era a Cerano e a Cassoluovo di portarsi alla Sforzesca spingendo un posto avanzato a S. Siro. All'alba del 21 ordinò alla riserva del duca di Savoia di raggiungere il Durando; poi lui stesso con le divisioni Perrone e duca di Genova si pose in marcia per Vigevano.

Il RADETZKY, mirando a Mortara, vi mandò il 2° e il 3° corpo, protetto dal primo che da Zerbolò mosse verso Gambolò, e dal 4° che dalla Cava marciò su S. Giorgio. L'avanguardia del 1° Corpo del Wratislaw, comandata dal colonnello Schanz, giunta a S. Siro incontrò gli avamposti della divisione Bes e, sostenuta dalla brigata Strassoldo, li assalì. Sebbene molto inferiori di numero i piemontesi si difendessero bene, dovettero poi ripiegare sulla Sforzesca.
Anche questa località fu attaccata dal nemico, ma gli Austriaci furono più volte respinti alla baionetta dal 17° reggimento comandato dal colonnello FILIBERTO MOLLARD e dal 23° formato dal Colonnello ENRICO CIALDINI e, per la sua assenza, comandato dal maggiore LUDOVICO FONTANA che nell'azione gli uccisero il cavallo che montava. Due squadroni del Piemonte Reale, nonostante le asperità del terreno ricoperto di vigneti e attraversato da tanti fossi, eseguirono due cariche irresistibili che respinsero il nemico, il quale lasciava nelle loro mani numerosi prigionieri.

Verso le quattro del pomeriggio, gli Austriaci sferrarono un altro attacco su Gambolò con le brigate Strassoldo e Wohlgemath, sostenute da numerosa cavalleria e da molte batterie; ma l'assalto non fu più fortunato dell'altro. Si distinse nella difesa il primo reggimento Savoia, comandato dal colonnello SAILLET di Saint-Cergues, che non cedette un palmo di terreno e cagionò al nemico numerose perdite.
Da questa parte però gli Austriaci avevano voluto compiere un'azione dimostrativa per distrarre l'attenzione dei piemontesi dal loro principale obiettivo, che era Mortara. Qui lo CHRZENOWSKY aveva mandato il generale ALESSANDRO LA MARMORA affinché le truppe eseguissero gli ordini emanati nel prendere le posizioni; malgrado questi l'esecuzione della manovra fu imperfetta. Il DURANDO, recatosi tra le strade di Garlasco e di S. Giorgio, spiegò la sua divisione dal convento di S. Albino al cimitero, mettendo alla sinistra la brigata Aosta, la cavalleria e una batteria di riserva, e alla destra la brigata Regina, comandata dal generale TRATTI, che aveva un battaglione nel convento. Il duca di Savoia, giunto a Castel d'Agogna, spiegò la sua divisione a sinistra fin quasi dietro la destra del Durando; ma tra le due divisioni, a causa del terreno difficile e poco conosciuto, mancò il collegamento e tutto il peso della battaglia gravò sul Durando, anzi sulla sola Regina, che non fu sostenuta neppure dall'Aosta, dislocata troppo lontana.

L'attacco fu iniziato dal generale D'ASPRE alle cinque del pomeriggio con il fuoco di ventiquattro cannoni al quale seguì l'azione delle fanterie che si gettarono sulla destra della divisione sarda. Le truppe della Regina, composte in gran parte di reclute, che a stento si erano mantenute ferme sotto il bombardamento, non seppero sostenere l'urto e fuggirono verso Mortara, inseguite dagli austriaci, tre battaglioni dei quali riuscirono ad occupare la porta Garlasco.
Il duca di Savoia cercò di rimediare ordinando a due battaglioni della Cuneo di accorrere verso la strada di S. Giorgio, ma quando vi giunsero la notte cominciavano a calare e la confusione era tale che non sarebbe stato possibile neppure con forze maggiori risollevare le sorti della giornata. Egualmente inutile fu il tentativo di Alessandro La Mormora, che, riannodato un battaglione della Regina, lo aveva ricondotto al fuoco ma scambiato per un reparto nemico fu preso alle spalle a fucilate dai due battaglioni della Cuneo.

Le truppe di S. Albino, anche dopo la rotta della Regina, continuarono a sostenere con gran bravura il combattimento, ma sopraffatti dai soldati del generale KOLLOVRAT, lasciarono il convento e con i due battaglioni della Cuneo si ritirarono in Mortara, dove però era già entrato il colonnello BENEDECK con il battaglione GYULAI, che combatteva già per le vie contro i piemontesi.
Tuttavia all'arrivo dei due battaglioni della Cuneo e del battaglione della Regina, il Benedeck si trovò in gravissimo pericolo avendo contro di sé forze tre volte superiori alle sue; eppure con audacia intimò la resa ai battaglioni sardi. Ad essere ingannati sull'entità delle forze austriache i colonnelli DELFINO e ABRATE, che finirono così prigionieri del bluff austriaco.

In quella giornata, oltre le posizioni, i piemontesi perdettero cinquecento uomini e duemila prigionieri; il nemico mezzo migliaio di uomini fuori combattimento. Fu ferito da un colpo di baionetta, il comandante del 17° e ferito di lancia e di sciabola il vecchio generale Bussetti, comandante della Cuneo. Il resto della Regina, l'artiglieria, i Granatieri della Guardia, i cacciatori e i reggimenti Savoia e Nizza Cavalleria si ritirarono durante la notte a Novara, dove la mattina del 22 giunsero la brigata Aosta, il resto della Cuneo, i quattro squadroni del Novara e l'artiglieria della divisione di riserva.
CARLO ALBERTO ricevette l'annunzio della rotta di Mortara alle due di mattina. Il messo lo trovò disteso in un fosso, avvolto nel suo mantello, con il capo appoggiato sullo zaino di un granatiere. Alla notizia non si scoraggiò, anzi, levatosi in piedi, espresse il desiderio di ritentare la sorte delle armi con una battaglia decisiva.
Si poteva marciare su Mortara e riprenderla al nemico o concentrare tutte le forze intorno a Novara e aspettarvi il Radetzky.
Lo Chrzanowsky scelse il secondo partito e ordinò alle truppe di muoversi.
Il 23 mattina il polacco ebbe a sua disposizione, intorno a Novara, 45.000 fanti, 2.500 cavalli e 111 bocche da fuoco. Come base dello spiegamento sopra una linea di circa tredici chilometri fu scelto il villaggio della Bicocca su un'altura lungo la via che da Novara conduce a Mortara. Alla Bicocca che costituiva la sinistra, fu posta la divisione Perrone, al centro quella del Bes, alla destra quella del Durando. Sei battaglioni appoggiavano il fianco sinistro del Perrone, quattro la destra del Durando, tre battaglioni di bersaglieri coprivano il fronte della battaglia. In riserva stavano le divisioni del duca di Genova e del duca di Savoia, la prima dietro la Bicocca, presso il cimitero di S. Nazzaro, la seconda a Novara con qualche postazione sulla strada di Vercelli; a guardia delle due vie di Trecate e di Galliate, fuori della linea di battaglia, la brigata Solaroli.

La mattina del 23 il Radetzky era ancora incerto se l'esercito sardo si sarebbe fermato a Novara o andato a Vercelli per proseguire poi verso Casale ed Alessandria e riunirsi alle divisioni Ramorino e La Marmora e alla brigata sciolta Belvedere. Ad ogni modo, non volendo che il nemico gli sfuggisse, fece avanzare verso Novara i generali D'Aspre, Appel e Wecher con il 2° e il 3° corpo e la riserva, e avviò a Vercelli il 1° e il 4° corpo del Wratislaw e del Thurn.

Alle ore 11 del 23 il generale D'ASPRE giunse ad Olengo e, trovate le alture occupate dai bersaglieri piemontesi (tutti coscritti), li fece assalire da un'intera divisione con l'Arciduca ALBERTO alla sinistra e il generale KOLLOVRAT alla destra. I bersaglieri-reclute non abituati al fuoco, furono in breve travolti; eguali carenze e quindi medesima sorte per i fanti della Savoia, sebbene si battessero alla presenza del MOLLARD; ma la brigata Savona, al cospetto del generale Perrone, con addosso una gravissima ferita e combatteva, rianimata dall'esempio, ricuperò alla baionetta le posizioni perdute e solo dopo accaniti ritorni del nemico, sopraffatti dal numero furono costretti a ritirarsi.

A rialzare da quella parte le sorti della battaglia accorse il duca di Genova con le brigate Pinerolo e Piemonte. Quest'ultima, comandata dal generale PASSALACQUA con inaudita audacia si avventò sul nemico e riconquistò parecchie posizioni perdute intorno alla Bicocca: purtroppo il prode generale perse in quest'eroica offensiva la vita. Tuttavia il terzo reggimento della brigata proseguì oltre la Bicocca e giunse vincente sull'altura di Castellazzo.
Il D'Aspre, che aveva mandato al fuoco le riserve, riuscì a scacciare da Castellazzo i Piemontesi, ma mantenne per poco quell'importante posizione, perché, mentre poco dopo il 13° di linea rioccupava i dintorni, e il duca di Genova, incalzando gli Austriaci, rioccupava l'altura e, mettendo in fuga da Olengo il nemico lo faceva pure inseguire dai bersaglieri.

Fu questo un momento d'oro per i Piemontesi, e molto pericoloso per gli Austriaci, e lo confesserà lo stesso Radetzky . "Tutta l'ala destra correva rischio di essere circondata e andava sempre più perdendo terreno. Se il duca di Genova avesse continuato ad avanzare vittoriosamente e gli fosse stata mandata in appoggio la divisione del duca di Savoia, il D'Aspre sarebbe stato pienamente battuto e la storia d'Italia forse non registrerebbe la sconfitta di Novara. Ma lo Chrzanowsky, che voleva far logorare il nemico in ripetuti attacchi alla Bicocca per poi sgominarlo con forze fresche, anziché sfruttare la situazione ordinò al duca di Genova di ritornare al di qua di Castellazzo".

L'errore del polacco fu la salvezza del D'Aspre, che riuscì a rimettere l'ordine fra i suoi uomini i quali poco dopo ricevettero l'aiuto di quattordici battaglioni del corpo dell'Appel, mentre a destra il Kollovrat era rafforzato da una divisione e da Confienza giungeva il corpo del Thurn
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D'Asprè (già questo avrebbe dovuto quantomeno allarmare, impensierire, far riflettere) nel primo scontro non causò grandi danni, forse i piemontesi pensarono è solo il primo assaggio della battaglia, infatti il generale austriaco non è che s'impegnò molto, attaccò ma poi abilmente si disimpegnò. D'Asprè poteva essere battuto solo da un tempestivo contrattacco piemontese, che lo Stato Maggiore invece si rifiutò di lanciare.
Ed era proprio il comportamento che aveva previsto e che stava aspettando Radetzky. Scattata la trappola, gli austriaci dai lati piombarono sui piemontesi chiudendoli in una tenaglia.
Radetzky comandò l'assalto su tutta la linea. Il D'Aspre e l'Appel a destra, l'Arciduca Alberto al centro, Benedeck e Degenfeld a sinistra, postisi alla testa delle loro colonne, attaccarono con impeto, imitati dal Kollovrat che assaliva con i suoi la Bicocca.
I piemontesi, sebbene sfiniti dalla fame e da sei ore di combattimento, sostennero l'urto con valore, ma, come vedremo, inutilmente.
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Erano le 6 del pomeriggio quando alla loro sinistra la brigata Solaroli, di cui facevano parte quattrocento bersaglieri valtellinesi e bergamaschi che quel giorno combatterono valorosamente, cominciò a cedere; poco dopo, la Bicocca, ostinatamente difesa fu occupata dal nemico e invano il duca di Genova, marciando a piedi - gli erano stati uccisi due cavalli - alla testa di tre battaglioni, tentò di riprenderla alle truppe del Kollovrat.

Oramai da ogni parte i piemontesi perdevano terreno, la sinistra era in rotta, il centro e la destra, nonostante la bella resistenza delle divisioni Bes e Durando, vacillavano; i reparti abbandonavano le posizioni fino allora tenute a prezzo di tanto sangue, si sbandavano, fuggivano verso Novara, sordi agli ordini dei capi; e l'artiglieria nemica in quel disordine sguazzava, faceva enormi vuoti nelle file ed accresceva ancora di più il disordine; infine Siamo alle ore 18 di marzo, e in una giornata piovosa) l'oscurità rendeva ancora più disastrosa la fuga delle truppe sconfitte e difficilissima era la ritirata di quelle che abbandonavano il campo solo perché ormai convinti che la giornata era finita con la battaglia ormai persa.

"In città - racconta un ufficiale piemontese - il tumulto, la confusione, il disordine erano al colmo; ufficiali e soldati disperati per la troppa sventura; feriti piemontesi mescolati con i feriti e prigionieri austriaci, gementi, con alcuni stritolati dalle ruote delle vetture d'artiglieria che correvano a tutta furia; bande armate senza cibo e senza direzione; comandi non dati, non uditi o derisi; soldati insolenti che abusavano dello scompiglio per rompere in eccessi; la cavalleria che caricava per le strade; l'artiglieria che tirava contro i nemici baldanzosi; fucilate in ogni momento, pioggia dal cielo, sangue e cadaveri per le vie, questo era l'aspetto di Novara che dava rifugio all'esercito di Carlo Alberto nella tristissima giornata del 23 marzo".

La battaglia era costata duemila morti e feriti ai piemontesi, più tremila prigionieri. Altrettanti morti e feriti il nemico e un migliaio circa di prigionieri; ma gli Austriaci erano davanti a Novara, tutti ordinati bene, e quindi tutti pronti a riprendere il giorno dopo l'offensiva; mentre i piemontesi in condizioni peggiori di quando avevano dovuto lasciare Milano.
"molti ufficiali e soldati piemontesi erano senza entusiasmo perché poco favorevoli o addirittura ostili alla guerra" (testimonianza di Gioberti, citata in A. Anzillotti, Gioberti, Firenze 1922, pag. 232).


"Il figlio stesso di Carlo, Vittorio Emanuele II, pur entusiasta per la guerra dello scorso anno, di fronte alle sollecitazioni di iniziarne un'altra in così precarie condizioni com'era in questi mesi l'esercito piemontese, l'entusiasmo lo aveva perso; inoltre era anche dell'idea che un esercito affidato a un rivoluzionario polacco, era un pubblico e patente sfregio dell'autorità del Re e del prestigio dell'esercito stesso. Quanto -lui che era lontano- avrebbe voluto fare per impedirlo: avrebbe voluto respingere gli avvocati chiacchieroni del potere, la demagogia imperante degli intellettuali borghesi che stavano spingendo suo padre alla catastrofe. Lui che viveva - più del padre- a contatto con la realtà, con una diversa visuale mentale, era convinto che il disordine demagogico era la vera causa dello sdegno dentro l'esercito. Nessuno meglio di lui sapeva queste cose, poiché non viveva né era mai vissuto dentro i "palazzi", ma sempre dentro le caserme. Perfino la religione e la Chiesa -pur di raggiungere il loro scopo- era stata vituperata dai demagoghi anticlericali. E suo padre con rassegnazione fatalista subiva, lo tenevano in pugno con i loro infantili "capricci". (Francesco Cognasso, Vita di Vittorio Emanuele II, Utet, 1942"

Carlo Alberto, durante la battaglia, era stato là dove più grande era il pericolo per incoraggiare con la sua muta presenza i combattenti ed aveva visto cadere ai suoi fianchi ufficiali e soldati. Quando le sorti della battaglia cominciarono a volgere male per le nostre armi, parve che il re cercasse disperatamente la morte e a chi lo pregava di non esporsi tanto al pericolo rispondeva cupamente:
"Lasciatemi morire; è questo il mio ultimo giorno".

"Sfilavano davanti a lui - narra il Bersezio - i feriti; passò il conte di ROBILANT, capitano d'artiglieria, per il quale egli aveva una particolare affezione, e costui sollevando il moncherino della mano, che un colpo di cannone gli aveva troncata, gridò: "Viva il Re". Il Re curvò ancora più basso il capo e tacque. Incontrò il corteo che recava alle ambulanze PERRONE ferito a morte, il quale si sollevò un istante e al Re accostatosi disse: "Muoio contento per il mio Re e per il mio paese"; e lui il Re in silenzio strinse la mano al moribondo. Vide trasportare la salma del PASSALACQUA; che salutò riverente, ma poi con uno sguardo e con gli occhi offuscati seguì a lungo quel corteo e non gli uscì dalle pallide labbra neppure una parola. Si affrettavano indietro le squadre dei suoi soldati, scemate, disordinate, sgomente, parecchi senza più armi né zaino, e gli passavano accanto, fuggendo senza vergogna, nemmeno salutandolo, mostrando di non accorgersi neppure della sua presenza, non vedendolo; e lui guardava e taceva. Quando poi il generale CHRZANOWSKY gli disse che non c'era più scampo, che l'esercito era disfatto, che non esisteva neppure più una intera divisione per sperare di riprendere la lotta, CARLO ALBERTO, parodiando Francesco I di Francia, pronunciò una dolorosa sentenza in cui si rivelò finalmente tutta l'amarezza dell'anima sua: "Tutto dunque é perduto, anche l'onore".

Ritiratosi nel palazzo Bellini, poiché non c'era più nulla da tentare, Carlo Alberto mandò al Radetzky il generale COSSATO con la richiesta di una sospensione d'armi per trattare poi un armistizio. Si ebbe per risposta che
"doveva prima lasciare occupare agli Austriaci il territorio tra il Ticino e la Sesia, di consegnare la cittadella d'Alessandria, in ostaggio voleva il principe ereditario suo figlio; infine che congedasse tutti i non piemontesi che si trovavano nel suo esercito".

Erano patti oltraggiosi, che non si potevano accettare senza buttare nel fango l'onore di una nazione. La decisione più saggia e indubbiamente anche la più sofferta che prese in tutta la sua vita Carlo Alberto, fu quella di mandare a cercare in mezzo ai superstiti di Novara il figlio ventottenne. Nel cuore della notte, dopo una lunga cavalcata, Vittorio Emanuele II giunse a Novara. Al figlio e ai generali e chiese loro se si poteva tentare di aprirsi il passo verso Alessandria per riprendere di là la guerra. Avuta risposta negativa, disse:

"Ho sempre fatto ogni possibile sforzo da diciotto anni a questa parte per il vantaggio dei popoli; ma è dolorosissimo vedere le mie speranze fallite, non tanto per me, quanto per il paese. Non ho potuto trovare la morte sul campo di battaglia come avrei desiderato. Forse la mia persona è ora il solo ostacolo ad ottenere dal nemico un'equa convenzione; e siccome non vi è più mezzo di continuare le ostilità, io abdico da quest'istante la corona in favore del mio figlio VITTORIO EMANUELE, lusingandomi che, rinnovando le trattative con Radetzky, il nuovo Re possa ottenere migliori patti e procurare al paese una pace vantaggiosa".
Poi, additando il duca di Savoia indicò il figlio e disse, "Ecco il vostro re !" .
VITTORIO ENAMUELE riceveva lo scottante scettro dal padre, che abdicava, e che già era pronto a partire per l'esilio.
L'esuberante primogenito lo aveva sempre tenuto lontano da ogni faccenda, lontano dal "palazzo", mai a contatto con i suoi ministri borghesi pretenziosi, demagoghi, gonfi di boria, di cui lui era il Re ma anche il loro schiavo. Il figlio non lo aveva mai fatto partecipe dell'attività politica interna. Non lo aveva mai associato in una decisione.
Il figlio, Carlo Alberto non lo aveva mai disturbato, lo voleva conservare puro e libero (e quindi anche grezzo) da ogni impegno, da ogni compromesso della politica, fin quando sarebbe arrivato il giorno fatidico.
Lui nella vita non era riuscito a tener fede a un suo ideale; lui aveva avuto tante crisi, tanti turbamenti giovanili, tormenti spirituali, e moltiplicati in quasi venti anni di regno ne era rimasto schiacciato. Arrivato all'ultimo giorno di regno, quella che a molti sembrò solo una lucida intuizione, non era null'altro che una scelta da alcuni anni già meditata, ma che aspettava solo il giorno fatico per realizzarla. E quel giorno arrivò a Novara, proprio nella città dove lo zio tanti anni prima lo aveva esiliato e perfino umiliato, bandito dal palazzo sabaudo per aver concesso il "ribelle bonapartista" -durante una sua assenza- una Costituzione liberale ai piemontesi. In anticipo di venti anni.

Ora ci avrebbe pensato suo figlio. Un motivo c'era, aveva cominciato a vedere nel figlio ricomparire qualche cosa degli irrequieti CARIGNANO, quello che era stato "LUI" quand'era cadetto a fianco di Napoleone; quello che tornato a Torino fu subito considerato un ribelle, poi nel '21 addirittura un "traditore" della dinastia sabauda conservatrice, poi, scherzo del destino o per debole carattere, contemporaneamente "traditore" degli stessi liberali. Una vita d'inferno.

Fattosi rilasciare dal conte MORELLI, comandante della piazza di Novara, un passaporto intestato al conte di Barge, dopo la mezzanotte, CARLO ALBERTO, lasciò la città, in una modesta carrozza, con due soli servitori. Giunto agli avamposti del campo del generale Thurn, fu fermato dalle sentinelle, e fu lasciato proseguire solo quando un sergente dei bersaglieri, fatto prigioniero, ebbe dichiarato che quell'uomo era davvero il conte di Barge.
Il 25 Carlo Alberto era a Nizza e a Teodoro Santarosa, figlio di Santorre, giunto a confortarlo, diceva: "In qualunque tempo si alzi da un qualsiasi governo una bandiera contro l'Austria, possono esser certi gli austriaci di trovarmi sempre soldato nelle schiere dei loro nemici".

Rimessosi in viaggio, per la Francia e la Spagna (a Tolosa confermò l'abdicazione con atto rogato dal notaio Juan Fermin de Furumdarena), si recò in Portogallo nella solitaria villa di Entre Quintas, a Oporto.

Carlo aveva appena compiuto cinquant'anni: il 28 luglio a Oporto moriva di crepacuore.
Carlo Alberto fu definito una delle figure più enigmatiche della storia italiana, giudicato nei modi più contraddittori, sia dai contemporanei sia dagli storici successivi un sovrano perpetuamente dibattuto fra l'onore e il dovere, fra i contrastanti impulsi che gli venivano dall'educazione liberale (avuta in Francia nel periodo napoleonico) e gli obblighi verso la conservatrice tradizione dinastica nella quale si trovò improvvisamente inserito. In realtà CARLO ALBERTO nonostante le impressioni che suscitava, era sempre vissuto in una perenne crisi, con profonde contraddizioni con sé stesso, perfino angoscianti, da soffrirne moltissimo.

Come dovette soffrire quella notte a Novara! e poi in quella lunghissima ininterrotta galoppata fino ad Oporto, lungo il percorso, ripercorrendo tutta la sua esistenza; prima cadetto bonapartista, poi timido liberale, poi duro conservatore e filo-clericale, poi nuovamente liberale, infine non credendo alla sua forza e alla sua anima democratica, indeciso, attanagliato dai dubbi e dalle contraddizioni, in una poco limpida guerra; a Verona prima, a Novara poi..

Come re e come uomo si dichiarò sconfitto; abdicò, e partì per l'esilio forse già con la morte nel cuore. Un atto nobile, ma molto doloroso; perché rappresentava quella fuga nella notte, il riassuntivo gesto di un intero fallimento esistenziale. Era cresciuto in due mondi incompatibili fra di loro, ma non riusciva ad appartenere né all'uno né all'altro, anche se non mancarono alcune impulsività geniali controcorrente alla sua dinastia, dovute forse solo alla sua impulsiva esuberante e ribelle giovinezza.
Moriva ad Oporto dopo poco più cento giorni d'esilio; di crepacuore; una fine che ci appare come il riscatto di una vita ambigua ed enigmatica; una morte che si portava via un re molto orgoglioso, ma restituiva un uomo umile, soffocato dal dolore di un'esistenza che forse ritenne "vuota", ma che c'era un'altra strada da percorrere, quella che nella famosa lettera definiva "una meta più sublime". Non riuscì nel suo grande progetto; non fece in tempo a diventare il sovrano di un grande regno, ma morì da uomo; come un uomo comune: di dolore.

Alcuni questa sensibilità la compresero solo dopo morto, fino al punto che, vissuto e uscito dalla scena storica, con attorno tanta inimicizia, iniziò a guadagnarsi postuma ("il martire di Oporto"), tanta stima, affetto, simpatia, anche da chi lo aveva sempre odiato. Fu l'ultima onorevole, intelligente, ammirevole e anche commovente uscita di scena di un Savoia in Italia.

Come non ricordare quella lettera scritta nel suo esilio di "nipote degenerato", in Toscana, a Poggio Imperiale: in quei mesi alternava i pensieri autodistruttivi e i sogni d'imprese gloriose con quelli degli abbandoni mistici, come questo:

"Fuggo ogni consorzio più che mai - scriveva. - Parlo il meno che posso. Non esco a cavallo che quanto basta per muovermi. Voglio studiare ma sono distolto dai miei tristi pensieri; e del mio passato mi consolo pensando che Dio è il giudice supremo, il quale vede le azioni di tutti, finisce per smascherare la calunnia e mi chiamerà forse a sé prima che l'intera luce si faccia sui miei atti; ma farà sì che almeno le pene che soffro si volgano in bene per mio figlio. Ho sempre considerato la vita come un viaggio che ha una meta sublime: il cammino è assai aspro, ma non perdo la speranza".
L'ultimo viaggio, assai aspro, e senza più nessuna speranza, fu quella lunga galoppata fino ad Oporto; ad attenderlo la "meta sublime".
Senza più il "forse", "Chiamato prima che l'intera luce si faccia sui miei atti"

VITTORIO EMANUELE II

Il nuovo re, la sera stessa dell'abdicazione del padre, non perse tempo. Il giorno dopo iniziò la sua improba impresa e mandò al quartiere generale austriaco il ministro CADORNA e il generale COSSATO chiedendo di trattare le dure condizioni imposte al padre. Radetzky, alla notizia della abdicazione, rispose che accettava di fissare i patti con il nuovo re. Il giorno dopo VITTORIO EMANUELE dovette recarsi dal vecchio maresciallo che lo aspettava in una cascina di Vignale.
L'anzianissimo maresciallo (aveva 84 anni) con curiosità e quasi paternamente acconsentì al colloquio di questo a lui sconosciuto principe 28enne, divenuto all'improvviso re.
Con il giovane, il vecchio maresciallo simpatizzò subito, ma sulle condizioni rimase fermo. Cercò nel colloquio di trascinarlo nella scia del governo di Vienna. Ma il giovane esuberante principe (più per carattere che non per razionalità politica) fu molto abile nel rivendicare la sua piena libertà d'azione "evitando" discussioni sopra punti molto delicati, che del resto a digiuno com'era di questioni politica interna ed estera, certo non poteva sostenere con il super navigato interlocutore con 27 guerre alle spalle. Gli espresse solo l'intenzione di impugnare fortemente le redini del governo e di domare quel partito democratico che -disse- "odiava".
Convinse insomma Radetzky, affermando che avrebbe iniziato una dura politica reazionaria per ritornare al regime assolutista, al pari degli altri principi italiani. Radetzky forse affascinato da quell'atletico giovane che sprizzava orgoglio da tutti i pori, acconsenti a modificare in parte le pesanti condizioni, a patto che si attenesse ai trattati di Vienna del 1815. Ma non riuscì a fargli stracciare quel documento dell'annessione della Lombardia, nè lo Statuto, né a imporgli un proclama da fare ai cittadini per sconfessare che quel documento fatto da suo padre non valeva più nulla. Il giovane principe gli fece notare che sarebbe stata un'umiliazione rinnegare davanti ai cittadini quel proclama, lui avrebbe perso prestigio e autorità prima ancora di esserne investito, avrebbe fatto solo la figura di un burattino nelle sue mani. Insomma anche qui persuase Radetzky Anche perché non era poi così molto importante formalizzare un rieditto, gli austriaci palesemente avevano rioccupato Milano e tutta la Lombardia.
Si narra che, avendo il Radetzky cercato di indurlo con lusinghe ad abolire lo statuto Vittorio Emanuele rispondesse:
"Ho giurato come principe, sto per giurare come sto per giurare come sovrano. La bandiera innalzata dal mio padre non può essere ripiegata senza tradimento. Non cerco alleanza dall'Austria: domando tregua e mi affido all'avvenire".
Un tipo del genere al vecchio generale indubbiamente piacque. Nemmeno suo padre gli aveva mai parlato così. Dissero i maligni, che Radetzky nel lasciarlo lo abbracciò pure; un gesto che non va certo a suo disonore.

Invitato a passare in rassegna le truppe imperiali, ne percorse le file al galoppo con spavalderia, non certo con lo spirito di un sovrano perdente, quasi a significare di essere ancora capace di contrastare il terreno al nemico con le armi in pugno.
Uscito a testa alta dal quartier generale di Radetzky, il nuove re ora doveva affrontare i problemi interni. Di non facile soluzione. Ma anche qui fu abbastanza abile, istintivo. Pubblicò il proclama della pace alla nazione sotto la sua sola responsabilità, con la sola sua firma. Non vi figurava nessun nome del governo. La monarchia riprendeva contatto direttamente con il popolo," le cui reazioni potevano essere imprevedibili se si agiva diversamente". Far firmare una pace proprio da chi (governo di demagoghi) aveva voluto una guerra così sciagurata sarebbe stato anche grottesco.

L'ARMISTIZIO

Dopo lunghe trattative si concluse la sospensione delle ostilità ai seguenti patti, che dal Re, dal Radetzky e dal Chrzanosky furono, il 26 marzo, sottoscritti a Novara:
(li riportiamo fedelmente nella sua originaria sintassi)

Art. I ° - Il re di Sardegna assicura positivamente e solennemente che si affretterà a conchiudere con S. M. l'imperatore d'Austria un trattato di pace, del quale sarebbe preludio questo armistizio.
Art II° - Il re di Sardegna scioglierà il più presto possibile i corpi militari formati di Lombardi, Ungheresi, e Polacchi, sudditi di S. M. l'imperatore d'Austria, riservandosi tuttavia di conservare nel proprio esercito alcuni ufficiali dei sudetti corpi, giusta le sue convenienze. S. E. il maresciallo conte Radetzky s'impegna a nome di S. M. l'Imperatore d'Austria, perché sia accordata piena ed intera amnistia a tutti i sopradetti militari lombardi, ungheresi e polacchi, che ritornassero negli stati di S. lI. I. R. A.
Art. III° - Il re di Sardegna permette, finché dura l'armistizio, l'occupazione militare di 18 mila uomini di fanteria e di 2 mila di cavalleria delle truppe di S. M. l'imperatore del territorio compreso fra il Po, la Sesia e il Ticino e della metà della piazza di Alessandria. Quest'occupazione non avrà influenza alcuna sull'amministrazione civile e giudiziari delle province comprese nel territorio suddetto. Le truppe su nominate, nel numero totale di 3000, potranno fornire la metà della guarnigione della città e fortezza di Alessandria, mentre l'altra metà sarà fornita dalle truppe sarde. La parola di S. M il re è garante della sicurezza di queste truppe di S. M. l'imperatore. Le truppe austriache avranno libera la via da Valenza ad Alessandria per la loro comunicazione con la guarnigione della detta città e fortezza. Il mantenimento di questi 20.000 uomini e 2000 cavalli per parte del governo sardo sarà stabilito da una commissione militare. Il re di Sardegna farà evacuare sulla riva destra del Po tutto il territorio di Piacenza, di Modena e del granducato di Toscana, vale a dire tutti i territori che non appartenevano prima della guerra agli Stati Sardi.
IV° - L'ingresso della metà della guarnigione nella fortezza di Alessandria da fornirsi dalle truppe austriache, non potendo aver luogo che in tre o quattro giorni, il re di Sardegna garantisce l'entrata regolare della suddetta parte di guarnigione nella fortezza di Alessandria.
V° - La flotta sarda con tutte le vele e i battelli a vapore lascerà l'Adriatico nello spazio di quindici giorni per condursi negli Stati Sardi. Il re di Sardegna darà l'ordine più perentorio alle sue truppe ed inviterà gli altri suoi sudditi che si trovano a Venezia, a ritornare immediatamente negli Stati Sardi, sotto pena di non essere più compresi in una capitolazione che le autorità militari imperiali potrebbero concludere con quella città.
VI° - Il re di Sardegna promette, per mostrare il suo verace desiderio di conchiudere una pace pronta e durevole con S. M. l'imperatore d'Austria, di ridurre il suo esercito sul piede ordinario della pace nel più breve spazio di tempo.
VII° - Avendo il re di Sardegna il diritto di dichiarare la guerra e fare la pace, per questa stessa ragione ritiene inviolabile questa convenzione d'armistizio.
VIII° - Il re di Sardegna manderà immediatamente un plenipotenziario munito di pieni,
poteri "ad hoc" in una città qualunque, da scegliersi di comune accordo, per intavolare le prime pratiche della pace.
IX° - La pace stessa e le sue singole condizioni saranno fatte indipendentemente da questo armistizio, e giuste le reciproche convenienze dei due governi. S. E. il Maresciallo Radetzky, si fa un dovere di prevenire senza indugio la corte imperiale del reale desiderio di S. M. Sarda di concludere una pace durevole con S. M. I. A. X. La presente convenzione d'armistizio è obbligatoria per tutto il tempo della durata delle negoziazioni della pace, e in caso di loro rottura l'armistizio dovrà essere denunziato dieci giorni prima della rinnovazione delle ostilità.
XI° - I prigionieri di guerra saranno immediatamente restituiti dalle due parti contraenti.
XII° - Le truppe imperiali si fermeranno nei loro movimenti, e quelle che già passarono la Sesia rientreranno nel territorio accennato di sopra per l'occupazione militare.".

Mentre si trattava l'armistizio, e precisamente il 24 marzo, il generale WIMPFFEN alla testa di tre brigate si presentava davanti a Casale e intimava la resa. La città non aveva fortificazioni tali da opporre resistenza, perché nel vecchio castello c'erano pochi artiglieri invalidi comandati dal barone SOLONO di Villanova e nella città unico presidio era la guardia nazionale; anche i soldati assieme ai cittadini deliberarono di resistere e poco dopo il mezzogiorno risposero orgogliosamente al fuoco nemico che durò fino a sera.
Durante la notte giunse qualche rinforzo con il capitano MOROZZO e con il commissario MELLANA; cinquanta soldati che scontavano lievi reati nelle prigioni furono aggiunti alla difesa, si costruirono barricate e il giorno 25, avendo il WIMPFFEN ricominciato il fuoco, la guardia nazionale, operando una vigorosa sortita, ricacciò gli Austriaci dalla testa di ponte. Quel giorno stesso però cessarono le ostilità essendo giunta notizia dell'armistizio e gli Austriaci si ritirarono oltre la Sesia.
Il FANTI, successo al RAMORINO nel comando della divisione Lombarda, rimasto senza istruzioni davanti a Mezzanacorte, condusse le truppe ad Alessandria, dove ricevette l'annunzio dell'armistizio e l'ordine di far prestare alla divisione il giuramento di fedeltà al nuovo re. Quindi, essendo incominciati i moti di Genova, la divisione fu mandata a Bobbio e qui fu disciolta. Chi voleva andare a Chiavari e di là recarsi in Toscana o a Roma si promisero i mezzi. Molti poi il 4 aprile partirono per Chiavari ma solamente il battaglione dei bersaglieri di MANARA e una compagnia del 22° reggimento, riuscirono più tardi a partire per Civitavecchia.

La notizia della sconfitta di Novara, dell'abdicazione di Carlo Alberto, dell'armistizio produsse una dolorosa impressione a Torino; ovviamente il ministero presentò le dimissioni. Nonostante l'intemperanza di linguaggio degli uomini dei vari partiti, il grave colpo, passato dopo il primo impatto, fu sopportato con dignità e fu ordinato che i soldati e la guardia nazionale prestassero giuramento di fedeltà al nuovo re.

La notte del 26 marzo Vittorio Emanuele ricomparve a Torino; il 27 mattina, licenziava i ministri per comporre un nuovo ministero. Del resto Radetzky, quasi parlandogli da padre, gli aveva fatto notare che i suoi veri nemici erano i suoi maligni ministri. VITTORIO EMANUELE aveva risposto "Domani ci sarà un altro ministero, ed è con questi nuovi ministri che io mi consiglierò e guiderò lo Stato".
A Torino fu ancora più chiaro; con i rappresentanti della demagogia, i SINEO, i LANZA, i RATTAZZI, i CADORNA, i BUFFA, non voleva più avere a che fare. Lui li sfidò tutti; ma purtroppo tutti sfidarono lui.
In caserma non si agisce con la demagogia; si giura una volta sola e si va fino in fondo. Questo pensava.

Nella capitale nella stessa notte dal 26 al 27, lanciava ai suoi sudditi il seguente proclama:
(lo riportiamo fedelmente, nella originaria sintassi)

"Fatali avvenimenti, la volontà del mio veneratissimo genitore mi chiamarono assai prima del tempo al trono dei miei avi. Le circostanze fra le quali io prendo le redini del governo, sono tali che senza il più efficace concorso di tutti, difficilmente io potrei compiere l'unico mio voto, la salute della patria comune. I destini delle nazioni si maturano nei disegni di Dio. L'uomo vi deve tutta la sua opera; a questo debito noi non abbiamo fallito. Ora la nostra impresa deve essere di mantenere salvo ed illeso l'onore, di rimarginare le ferite della pubblica fortuna, di consolidare le nostre istituzioni costituzionali. A quest'impresa, scongiuro tutti i miei popoli; io m'appresto a darne solenne giuramento ed attendo dalla nazione in ricambio aiuto, affetto e fiducia".

Vittorio Emanuele accettò le dimissioni del ministero,
che in pratica lui aveva messo alla porta.
La discussione tuttavia fu accanita. I deputati lo accusarono di "alto tradimento", per aver firmato l'armistizio e il proclama senza chiedere loro licenza. Poi si scatenarono in una vera e propria insurrezione dentro la Camera. Focosi discorsi, vibranti imprecazioni, teatrali lacrime, deliri patriottici, parole rintronanti ma vuote, ci fu insomma di tutto. I "suoi nemici" dichiararono incostituzionale tutto quello che aveva fatto; l'armistizio, la cessione della Lombardia e del Veneto, gli oneri finanziari (75 milioni di franchi di indenizzi) ecc. Qualcuno disse che nell'accomiatarsi da Radetzky, il "traditore" lo aveva perfino abbracciato e questo era la prova del complotto; cioè che aveva "venduto" il Piemonte all'Austria. Altri più moderati lo accusarono di inesperienza politica, che doveva far ritorno nelle caserme da dove era venuto. L'assemblea propose la seduta parlamentare permanente ed iniziò a discutere alcuni urgenti provvedimenti "perché la patria era in pericolo".
Tutta demagogia anche questa: dimenticavano che il Lombardo-Veneto era stato perso già a Custoza con le armi, dimenticavano che gli austriaci erano dentro i confini del Piemonte (ad Alessandria) e dimenticavano che l'intera economia piemontese era in mano austriaca. Con "questi austriaci" - per un po' di tempo- bisognava convivere se si voleva campare, questa era la cruda realtà, da non sottovalutare e… da tener presente, altro che chiacchiere".
E lo disse pure, chiaro e tondo: Quando dopo le sedute infuocate una commissione di deputati si recò dal Re a riferire quello che stava avvenendo in Parlamento e quindi latori delle proteste, Vittorio Emanuele rispose secco:

"Anch'io desidero la guerra, ma per farla cari signori mi dovete fornire un vero esercito combattente, non un esercito che a Novara si è squagliato in un giorno. Insomma tornate dai vostri amici e preparatene uno se siete capaci, poi ne riparleremo. Contro gli austriaci ci vogliono uomini, fucili e soldi, e dalla vostra seduta permanente le tre cose non nascono sotto i banchi, dove voi fate solo chiacchiere".
Più chiaro di cosi!
In caserma non si agisce con la demagogia; si giura una volta sola e si va fino in fondo. Questo pensava.

Pronunciò un breve discorso in cui riconfermò i concetti fondamentali del suo programma. Poi firmò un decreto di proroga della Camera, ma pochi giorni dopo la sciolse. Con una motivazione molto semplice. "Mi dispiace tanto, ma non posso collaborare con chi mi ha accusato di tradimento. Devo fare appello a dei leali collaboratori, quindi cari signori si cambia."
Altro che inesperienza politica! Fino a poche ore prima non sapeva cos'era quel meccanismo, ma sapeva come fermarlo e rivoluzionarlo.
Le violente contestazioni non cessarono. La campagna di stampa che si scatenò nei suoi confronti fu impietosa, sprezzante e di pessimo gusto. Nei circoli e nei caffè fu messo perfino in ridicolo indicandolo come il "bamboccio" di Radetzky . Per quasi un mese Vittorio Emanuele assistette in silenzio alla penosa gazzarra demagogica. Intanto per cautelarsi iniziò ad utilizzare le relazioni austriache della consorte, Maria Adelaide. Che furono poi utili per sospendere l'occupazione di Alessandria, ma anche per umanizzare gli incontri con i severi asburgici funzionari di Vienna.

Vittorio Emanuele, fatta la "pulizia", affidò l'incarico di comporre il nuovo governo al savoiardo generale GABRIELE DE LAUNAY, il quale prese per sé la presidenza e gli Esteri e chiamò all'Interno DIONIGI PINELLI, alla Giustizia e al Culto il barone LUIGI DE MARGHERITA, alla Guerra e Marina il generale ENRICO MOROZZO DELLA ROCCA, alle Finanze GIOVANILI NIGRA, ai Lavori Pubblici GIAN FILIPPO GALVAGNO, alla Pubblica Istruzione CRISTOFORO MAMELI e creò ministro senza portafoglio VINCENZO GIOBERTI.

Il 29 marzo il re, nell'aula del senato, pronunziò la formula del giuramento:

"In presenza di Dio io giuro di osservare lealmente lo Statuto, di non esercitare l'autorità reale che in virtù delle leggi e in conformità di esse, di far rendere ad ognuno, secondo le sue ragioni, piena ed esatta giustizia e di condurmi in ogni cosa con la sola vista dell'interesse, della prosperità e dell'onore della nazione".

Il giorno dopo VITTORIO EMANUELE scioglieva la camera e indiceva le nuove elezioni.
Il Re riuscì quindi ad essere energico e nello stesso tempo conciliante con i conservatori filo-austriaci ma anche con i demagoghi interventisti, mazziniani, garibaldini ecc . Rimase però quasi solo, gli uni e gli altri facevano chiacchiere, stampavano articoli, ma non si esponevano troppo nel proporre qualcosa di concreto.
Ma ormai Vittorio Emanuele aveva tracciato la sua politica, che non modificherà più. Poi trovò subito in MASSIMO D'AZEGLIO un prezioso e valido alleato, era il solo uomo politico ch'era passato attraverso la crisi senza esserne stato intaccato come reputazione. Il re era soddisfatto di avere al suo fianco quel gentiluomo letterato ed artista, cattolico e… volteriano, circondato da una splendida popolarità, ma conservatosi semplice.
Si piacquero e si trovarono perfettamente d'accordo che linea seguire. Impossibile era fare la guerra che volevano i demagoghi, ma era anche inaccettabile la pace disonorata che voleva l'Austria.
Su un'altra cosa si trovarono d'accordo: "soltanto nello Statuto, niente fuori dello Statuto"; quello era di suo padre, ed era sacro; anche se il giovane Re di Costituzioni di altri paesi non sapeva nulla, e sui diritti e doveri di un Re costituzionale non aveva idee chiare.
Nell' educazione giovanile aveva appreso la rigida coscienza dei doveri della dinastia, in quella militare i doveri di soldato. Sapeva e distingueva solo una cosa: che la monarchia voleva dire ordine, e che la repubblica -in quel momento- era anarchia, disordine, rivolte, rivoluzioni da domare.
Poi non dobbiamo dimenticare che D'Azeglio inizia la collaborazione con il re ma è appoggiato da un non comune personaggio che s'incunea prepotentemente nella politica piemontese con uno smaccato appoggio alla monarchia sabauda. Piomba infatti, il "tornado" CAVOUR, un conservatore liberaleggiante in politica, ma doppiamente potente: per le tante proprietà messe insieme in un certo modo, e con suo padre capo della implacabile polizia Sabauda.

Appena incoronato, al giovane inesperto Re, cercarono di far capire che "il re regna ma non governa", e lui non è che capì molto questo concetto, si chiese "e allora io cosa ci sto a fare qui?".
Letture politiche Vittorio Emanuele -lui sempre in caserma- non le aveva mai fatte. Il desiderio di informarsi attraverso i libri non risulta che il Re lo nutrisse. E anche dopo il 23 marzo pochi libri prese in mano; anzi lasciò questa avversione anche al figlio, il suo successore, Umberto; lui addirittura si vantava di non aver mai letto un libro nella sua vita. Era per volontà divina se regnavano, quindi non era necessaria la cultura.

Bamboccio o no il Re con Radetzky firmò gli accordi. Con una dose di lealtà nei confronti degli italiani? Citiamo il Rapporto del nunzio pontificio del 13 aprile 1849, P. Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele II dal loro carteggio privato, 2 voll., Roma 1944 - 61, vol. 1, p.24)
"Il re ratificò il trattato con l'Austria giungendo persino a proporre che le sue truppe aiutassero gli austriaci e i francesi a combattere contro Garibaldi a Roma".

Ma non bisognò aspettare Roma, pochi giorni dopo alla repressione promessa a Radetzky, Vittorio Emanuele alla promessa, mantenne fede: fu subito zelante su Genova

INSURREZIONE REPUBBLICANA DI GENOVA
1° APRILE

Mentre a Torino si discuteva, gravissimi fatti succedevano a Genova, che, come altrove si è detto, era un po' il covo dei repubblicani del regno Sardo. Le notizie della disfatta e dell'armistizio erano giunte esagerate e si era sparsa la voce che la città doveva esser tenuta in pegno dagli Austriaci i quali, secondo le dicerie, erano già giunti a Pontedecimo.
II 27 marzo ci furono i primi tumulti: al falso annuncio che gli Austriaci erano vicini, si suonarono a stormo le campane, la guardia nazionale fu in armi e il popolo si radunò nelle vie. Il presidio militare era composto di cinquemila uomini al comando del vecchio generale DE ASARTA. Questi, il 28 marzo, ebbe la debolezza di permettere, per calmare gli animi, che i forti dello Sperone e del Begato fossero presidiati dalla Guardia nazionale e che si raccogliessero armi ed armati: ma poi, preoccupato della piega che prendevano gli avvenimenti, scrisse al generale ALFONSO LA MARMORA, che comandava la divisione più vicina, invitandolo a scendere a Genova per ristabilire l'ordine con la forza.
Caduta la lettera in mano ai dimostranti e appreso il tenore, aumentarono i tumulti, fu disciolto lo Stato Maggiore della Guardia Nazionale e ricostituito con persone più energiche e il 29 marzo il Municipio, di cui era capo ANTONIO PROFUMO, costituitosi in permanenza, inviò messaggi a Torino, invitando il parlamento a trasferirsi a Genova ed ammonendo il re che "l'umiliazione del paese l'umilia, che il nemico da lui tante volte affrontato in campo sarà il suo tiranno ed il suo carnefice se riesce ad imporgli fatti ignominiosi e a staccarlo dalla causa del popolo".

Intanto il generale DE ASARTA trasferiva il suo quartier generale allo Spirito Santo, barricava l'Arsenale e piazzava cannoni sulle macerie del forte di S. Giorgio. II 31 fu costituito un Comitato di pubblica sicurezza e difesa, con GIUSEPPE AVEZZANA, esule del 1821 e capo della milizia cittadina, con l'avvocato DAVIDE MORCHIO e il deputato COSTANTINO RETA. Il 1° aprile scoppiò la rivoluzione; il popolo armato assalì la Darsena, e, non avendo incontrato resistenza da parte del battaglione Real Navi che la presidiava, se ne impadronì; si mosse poi verso l'Arsenale, ma fu accolta a fucilate, ma gli insorti risposero. La battaglia fratricida che era costò anche la vita al colonnello Morozzo, fratello del ministro della Guerra, si chiuse al calar della sera.
Il giorno 2 aprile il DE ASARTA, temendo che le sue truppe fraternizzassero con i rivoltosi, capitolò, obbligandosi a sgombrare quel giorno stesso "la città, mura e fortificazioni interne ed esterne di Genova colle truppe di tutte le armi" e a ritirarsi oltre gli Appennini per la via di Alessandria o per quella di Savona. Inoltre il De Asarta, impegnava i suoi buoni uffici "a che nessun corpo di armati, sia del generale LA MARMORA sia di qualunque altro comandante del governo sardo" marciasse alla volta di Genova. Le truppe avrebbero avuto, uscendo, gli onori di guerra, eccettuati i carabinieri che sarebbero andati via, senza armi. La città sarebbe rimasta "inalterabilmente unita al Piemonte".

Uscite le truppe, il Comitato di pubblica sicurezza si trasformò in "Governo provvisorio" e inviò messi e denari alla divisione lombarda affinché accorresse a difendere Genova dagli Austriaci e dai traditori della patria, quindi provvide a rimettere l'ordine pubblico. Ma a "provvedere meglio" era stato, dal governo centrale, mandato ALFONSO LA MARMORA con l'incarico di Commissario straordinario, il quale, marciando su Genova. con le sue truppe, ricevette a Ronco una lettera in cui l'AVEZZANA e il RETE lo pregavano di non proseguire verso la città che, "determinata a non consentire all'armistizio di Novara, non potrebbe accogliere nel suo seno le truppe del governo che ad esso acconsentiva".

Il La Marmora, continuò la marcia, e, dopo una breve sosta in Val Polcevera, s'impadronì di Sampierdarena, quindi sorprese ed occupò i forti del Belvedere, della Crocetta e della Tenaglia, mentre il MORCHIO, il RETA, e l'avv. DIDACO PELLEGRINI fuggivano, lasciando alla difesa della città soltanto il generale AVEZZANA, il quale, ricevuta l'intimazione di arrendersi a discrezione, rispondeva che gli abitanti si sarebbero fatti macellare piuttosto che cedere a quelle condizioni.
I1 giorno 5 il LA MARMORA assalì la città con tre colonne muovendo dalla Lanterna, da S. Benigno e dalla porta degli Angeli verso Palazzo Doria, che dopo accanita mischia fu espugnato. Contemporaneamente lord FLARWICK, che comandava il vascello inglese "Vengeance" (gli inglesi non mancavano mai! Sempre a due passi! In qualsiasi posto!), volendo appoggiare i regi sardi, faceva sbarcare truppe sul molo Vecchio, smontare la batteria e gettare in mare, le munizioni, provocando una fierissima protesta da parte dell'Avezzana:
"Nella lotta per la libertà voi avete preso parte contro il popolo .... Ora, signore, con tale condotta avete esposto voi e il vostro bastimento a fatali conseguenze, e le circostanze permetterebbero di far fuoco sopra di esso senza indugio; ma siccome non mi piace ottenere un vantaggio non onorato della vostra imprudenza, vi do ancora tempo sino alle 6 pomeridiane di prendere le vostre misure; se il vostro bastimento non prende una posizione pacifica, le batterie del popolo saranno rivolte contro di voi per mettere a fondo la vostra nave; circostanza che dovrà imparare il vostro governo che, quando si dà il comando a delle navi nazionali ad uomini di rango, essi dovrebbero anche essere uomini di senno".

La minaccia produsse effetto, ma intanto gli altri forti cadevano in mano dei regi, la città era bombardata, e qua e là era data al saccheggio, per questi motivi il Municipio chiedeva ed otteneva una tregua di quarantotto ore che fu poi prolungata per altri due giorni per dar tempo ad una deputazione di recarsi a Torino e chiedere un'amnistia. Questa fu concessa tranne però ai militari, ai colpevoli di delitti comuni, ai membri del Governo provvisorio e a nove altri cittadini, OTTAVIO LAZOTTI, DIDACO PELLEGRINI, NICCOLÒ ACCAME, ANTONIO GIANNÈ, AURELIANO BORGINI, G. B. CAMBIASO, FEDERICO CAMPANELLA. G. B. ALBERINI, F. WEBER, che furono poi condannati a morte in contumacia. (i capi e i condannati, fuggirono in tempo e andarono ad ingrossare le difese a Roma).

Il 10 aprile, il generale AVEZZANA lanciava ai Genovesi il seguente manifesto:
(lo riportiamo fedelmente, nell'originaria sintassi)

"La città è riconsegnata all'antico governo. Voi sapete che ciò non dipese da me. Genova insorse in un momento, e quel momento resta documentato di ciò che può fare un popolo quando vuole davvero; l'insurrezione ridusse un numeroso presidio, forte d'organizzazione e di posizioni, a capitolare; respinse e tenne un'intera armata alle porte; ed anche oggi questa non entra che per il trattato con il vostro municipio. Forse Genova poteva fare di più; la sua perseveranza avrebbe potuto pesare decisamente sulla bilancia dei destini d'Italia. Ad ogni modo la nazione vi è riconoscente della solenne protesta contro le vergogne governative dell'infausta guerra; di un'ora d'eroismo fra le viltà di cui purtroppo il vostro governo sporse la fronte dell'Italia in faccia all'Europa ! La storia ricorderà lungamente le vostre barricate. In quanto a me, ringrazio quelli che si sono battuti al mio fianco, e spero verrà tempo in cui tutti possano mostrarsi tali. Intanto mi è sufficiente la ricompensa che io porto nella mia memoria e le ore di gloria, la coscienza pura del resto e la speranza che molti fra voi mi ricorderanno con amore, certi di trovare in me un uomo pronto a morire sotto la bandiera della libertà d'Italia".

Quello stesso giorno l'AVEZZANA, con quattrocentocinquanta compagni si imbarcava sulla nave degli Stati Uniti "Allegany" e partiva alla volta del Lazio, per andare a difendere la Repubblica Romana; il giorno dopo il LA MARMORA faceva il suo ingresso nella città alla testa delle sue truppe mentre gli abitanti in segno di protesta si ritiravano nelle case e chiudevano porte e finestre.
Come primo atto, il nuovo Re non era di sicuro andato incontro al popolo, ma aveva fatto un favore al Radetzky, anche perché era stato fatto l'armistizio, ma non la pace.

LA PACE TRA IL REGNO DI SARDEGNA E L'AUSTRIA

Mentre accadevano i fatti di Genova, il ministero aveva iniziato trattative di pace con l'Austria. Negoziatori, a Milano erano il generale DABORMIDA e il BONCOMPAGNI. A Parigi lavorava il GIOBERTI, che fu poi sostituito dal conte GALLINA, il quale a sua volta, essendo stato trasferito a Londra per ottenere al regno di Sardegna l'appoggio dell'Inghilterra, ebbe come successore EMANUELE D'AZEGLIO.
I negoziati furono lunghi e laboriosi e mentre avvenivano si dimise il ministero. Li continuò il nuovo governo presieduto da MASSIMO D'AZEGLIO, che ottenuto lo sgombro d'Alessandria (18 giugno), firmò a Milano il 6 agosto il trattato di pace, i cui capitoli erano i seguenti:

1° - Sarà in avvenire e per sempre pace, amicizia, e buona intelligenza fra il re di Sardegna e l'imperatore d'Austria, loro eredi e successori, loro Stati e sudditi rispettivi.
2° - Tutti i trattati e convenzioni conclusi fra loro e che erano in vigore al 1° marzo del 1848 sono pienamente richiamati e confermati qui in quanto non si deroghi col presente trattato.
3° - I limiti degli stati di S. M. il re di Sardegna dalla parte del Po e dalla parte del Ticino saranno quelli stabiliti nel Trattato di Vienna del 1815, com'erano avanti il cominciar della guerra nel 1848.
4° - Il re di Sardegna, tanto per sé quanto per i suoi successori e eredi rinuncia a qualunque titolo come a qualunque protezione sui paesi al di là dei limiti designati nel citato trattato di Vienna. Tuttavia il diritto di riversibilità della Sardegna sul ducato di Piacenza è mantenuto nei termini dei trattati.
5° - I duchi di Modena e di Parma sono invitati ad accedere al presente trattato".

Vi erano inoltre 6 commi addizionali:

1° - Il re di Sardegna s'impegna a passare all'imperatore d'Austria la somma di settantacinque milioni di franchi a titolo di indennità per le spese di guerra e per i danni sofferti durante la guerra dal governo austriaco e dai suoi sudditi, città, corpi morali o corporazioni, come pure per i richiami che per le medesime ragioni potessero fare i duchi di Modena e Parma.
2° - Il pagamento di detta somma sarà fatto così: quindici milioni di franchi saranno pagati mediante un mandato a Parigi alla fine del prossimo ottobre senza interessi: il pagamento degli altri sessanta milioni sarà effettuato in dieci versamenti successivi di due mesi in ragione di sei milioni per ciascuno, in denaro contante, da cominciare alla fine del prossimo dicembre con il frutto del cinque per cento. Per garanzia il governo sardo lascerà in deposito al governo imperiale al momento dello scambio delle ratifiche, sessanta iscrizioni di un milione di franchi ciascuno, oppure di cinquantamila franchi di rendita sul gran libro del debito pubblico di Sardegna.
3° - L'imperatore d'Austria s'impegna di fare sgombrare dalle sue truppe ogni parte del territorio sardo.
4° - Esistendo da molti anni una contestazione fra il Regno di Sardegna e l'Austria sulla linea di demarcazione in prossimità di Pavia, è convenuto che il limite in questo luogo sarà formato dal "thalweg" del Canale Gravellone e sarà fatto costruire di comune accordo ed a spese comuni sullo stesso canale un ponte sul quale non sarà percepito alcun pedaggio.
5° - I due sovrani s'impegnano a negoziare in breve un trattato di commercio per vantaggio reciproco: in questa occasione sarà presa in considerazione la questione dei sudditi misti. Nello scopo di favorire e facilitare il commercio legittimo dichiarano d'impegnarsi ad impedire il contrabbando; per il che rimettono in vigore per due anni la convenzione del 1834, nella quale promettono d'introdurre quei miglioramenti che saranno dalle circostanze dichiarati necessari.
6° - Il governo austriaco in cambio dei vantaggi ottenuti dal rinnovarsi di quella convenzione, rinunzia all'altra del 1751 e consente a revocare il decreto del 1846 sulla sopratassa per l'esportazione dei vini piemontesi".
(la tassa sui vini, che per due anni aveva penalizzato la più importante risorsa economica del Piemonte).

Il 12 agosto il RADETZKY pubblicò, secondo quel che si era convenuto, un decreto d'amnistia per i sudditi del Lombardo-Veneto, escludendo però parecchi di coloro che più si erano adoperati per l'indipendenza. Lo stesso giorno il trattato e i capitoli addizionali furono ratificati da Vittorio Emanuele, il 14 la ratifica imperiale. Il trattato fu detto "vergognoso", ma tale non fu; fu, è vero, gravoso, ma condizioni meno gravi non potevano essere ottenute da una potenza vittoriosa, appoggiata dalla Russia e non contrastata dalla Francia e dall'Inghilterra, le quali, con il pretesto di non turbar la pace europea, avevano ovunque in Italia lasciato fare; tutte potenze complici nel voler opprimere la libertà e soffocare le giuste aspirazioni degli italiani.
(e come abbiamo già letto, chi aveva queste aspirazioni era bollato "assassino".

Una delle prime nel vedersi soffocare queste libertà fu la Repubblica Veneta
Quindi lasciamo per il momento il Regno di Sardegna e della Lombardia
e andiamo Venezia poi a Roma, ripartendo dal fatidico armistizio di Salasco
Entrambe con la loro Repubblica minacciate dagli eserciti, stanno soccombendo.
Poi in Toscana, ed infine a Brescia con le sue eroiche 10 giornate.

E' il contenuto della prossima puntata
anno 1849 - Atto Secondo > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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