ANNI 1898-1900

MINISTERI DEL GEN. PELLOUX -
L'OSTRUZIONISMO PARLAMENTARE

BECCARIS - L' ASSASSINIO DI UMBERTO I

IL PRIMO MINISTERO PELLOUX; SUO PROGRAMMA - APPROVAZIONE DI DISEGNI DI LEGGE E REVOCA DEGLI STATI D'ASSEDIO - L'ENCICLICA PAPALE DEL 5 AGOSTO 1898 - I "PROVVEDIMENTI POLITICI" - LA RICHIESTA ALLA CINA DELLA BAIA DI SAN-MUN DA PARTE DELL' ITALIA - IL RIFIUTO DI PEKINO, L'ULTIMATUM ITALIANO E LA MEDIAZIONE INGLESE - LA QUESTIONE DI SAN-MUN ALLA CAMERA - DIMISSIONI DEL MINISTERO - SECONDO MINISTERO PELLOUX - L'OSTRUZIONISMO PARLAMENTARE - LA PROPOSTA DI MODIFICAZIONE DEL REGOLAMENTO DELLA CAMERA - LA PROROGA DELLA SESSIONE E IL DECRETO-LEGGE - LA TEMPESTOSA SEDUTA DEL 30 GIUGNO 1899 ALLA CAMERA - LA CONFERENZA INTERNAZIONALE DELLA PACE ALL'AJA - INAUGURAZIONE DELLA TERZA SESSIONE DELLA XX LEGISLATURA - DISCUSSIONE DEL DECRETO REGIO PER LA CONVERSIONE IN LEGGE - RIPRESA DELL'OSTRUZIONISMO - LA SEDUTA DEL 29 MARZO 1900 - APPROVAZIONE DELLE MODIFICAZIONI AL REGOLAMENTO DELLA CAMERA - SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA - ELEZIONI POLITICHE - INAUGURAZIONE DELLA XXI LEGISLATURA - DIMISSIONI DEL MINISTERO - IL MINISTERO SARACCO - IL NUOVO REGOLAMENTO DELLA CAMERA - L'ASSASSINIO DI UMBERTO I - LA PREGHIERA DELLA REGINA MARGHERITA - GIUDIZIO SUL SECONDO RE D'ITALIA - LA COMMEMORAZIONE AL PARLAMENTO - I FUNERALI - IL PROCESSO BRESCI
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IL PRIMO MINISTERO PELLOUX - SUO PROGRAMMA
NUOVI DISEGNI DI LEGGE E REVOCA DEGLI STATI D'ASSEDIO


Le dimissioni di RUDINI del 16 giugno 1898, non erano proprio sincere, perché tentò prima di darle di ottenere dal Re lo scioglimento della Camera e l'autorizzazione a rendere esecutivo il nuovo bilancio mediante un decreto regio; una proposta che violava lo Statuto, che equivaleva alla richiesta di un colpo di Stato. Fallito il tentativo, Rudini presentò le dimissioni.

A poco più di un mese dai moti popolari, con i severi provvedimenti repressivi in atto, che inasprirono ancora di più gli animi, per il Re non fu facile affidare l'incarico ad un politico; in un modo e nell'altro quasi tutti contestati.
Dopo trent'anni dal governo Menabrea, un re chiamava al governo un generale.

Infatti, l'incarico di costituire il nuovo Gabinetto fu dal re affidato al vegliardo generale savoiardo LUIGI PELLOUX, d'indole piuttosto reazionaria, che lo formò il 29 giugno del 1898 prendendo per sé la presidenza del Consiglio e il portafoglio dell'Interno e chiamando agli Esteri l'ammiraglio NAPOLEONE CANEVARO (due militari nei tre posti chiave !!! ).

Alle Finanze nominò l'on. PAOLO CARCANO, al Tesoro il senatore PIETRO VACHELLI, ai Lavori Pubblici l'on. PIETRO LACAVA, alle Poste e Telegrafi l'on. NUNZIO NASI, alla Grazia e Giustizia l'on. CAMILLO FINOCCHIARO-APRILE, alla Pubblica Istruzione l'on. GUIDO BACCELLI, alla Guerra il generale ALESSANDRO ASINARI di San Marzano, alla Marina il viceammiraglio GIUSEPPE PALUMBO e all'Agricoltura l'on. ALESSANDRO FORTIS.

Il 4 luglio, PELLOUX, presentando al Parlamento il suo ministero, espose il proprio programma (un governo forte, rispettoso dello Statuto, che ottiene perfino l'appoggio di ZANARDELLI e di GIOLITTI; un ministero in maggioranza composto di uomini della sinistra costituzionale):
"Il nuovo Ministero - esordì Pelloux - che si presenta innanzi a voi si propone: all'interno, il mantenimento assoluto dell'ordine, la tutela costante e gelosa delle istituzioni e della società, la pacificazione degli animi; all'estero la pace più sincera, conservando le migliori relazioni con tutte le potenze amiche ed alleate".

Dopo avere affermato che il Governo avrebbe curato il graduale miglioramento economico e finanziario del paese, dichiarò:
"Il primo nostro pensiero deve essere rivolto a cercare di diminuire con opportune disposizioni, e con razionale sviluppo dell'attività pubblica e privata, quel malessere il quale, se in molti luoghi è stato un semplice pretesto dei recenti tumulti, non è men vero che esiste, ed è generalmente riconosciuto".

Nella stessa seduta, Pelloux, dopo aver dichiarato, in risposta all'on. BARZILAI, di non voler dimenticare la sua provenienza dalla Sinistra parlamentare, affermò che intendeva avere per amici tutti coloro che assolutamente, senza sottintesi, senza nessun sotterfugio fossero devoti alle istituzioni.

Queste dichiarazioni gli guadagnarono gran parte della Camera, la quale, nei giorni seguenti, accordó l'autorizzazione a procedere contro i cinque deputati coinvolti nei fatti del maggio, ripristinò il dazio sul grano, ed approvò con alcuni emendamenti un disegno di legge, presentato già dal Di Rudinì sulla ricostituzione del domicilio coatto, sulla limitazione del diritto di associazione e sulla militarizzazione degli impiegati ferroviari, postali e telegrafici.

L'ENCICLICA PAPALE DEL 5 AGOSTO 1898

Nel luglio, ristabiliti l'ordine e la tranquillità nel paese, furono tolti gli stati d'assedio; ma un mese dopo, quando tutto era calmo, ecco pubblicarsi un'enciclica papale di protesta contro la soppressione delle associazioni cattoliche, che iniziarono di nuovo ad inasprire i rapporti tra Chiesa e Stato e ad accendere gli animi dei clericali e dei liberali.

Nell'enciclica "Spesse volte" pubblicata il 5 agosto 1898, il Pontefice, LEONE XIII, accusava i Governi italiani di avere con il loro contegno verso la Chiesa, favorito le sètte massoniche, indebolito il sentimento religioso, "che eleva e nobilita l'animo e v'imprime profondamente le nozioni del giusto e dell'onesto", provocato "rancori, scissioni, deprecazioni, conflitti e turbamento dell'ordine, ai quali mali non sono rimedi sicuri e sufficienti né la severità delle leggi, né i rigori dei tribunali, né l'uso della stessa forza armata".

Oltre questo, l'enciclica voleva dimostrare che l'azione dei cattolici era stata rivolta a fronteggiare il pericolo della marea sovversiva:
"Vedendo periglioso e fosco l'avvenire del nostro paese, credemmo giunto il momento di alzare la voce e dicemmo ai cattolici italiani: la religione e la società sono in pericolo, è tempo di spiegare tutta la vostra attività, opponendo al male invadente un argine con la parola, con le opere, con le associazioni, con i comitati, con la stampa, con i congressi, con le istituzioni di carità e di preghiera, con tutti i mezzi infine, pacifici e legali che siano acconci a mantenere nel popolo il sentimento religioso ed a sollevare la miseria".

Infine l'enciclica parlava dei provvedimenti governativi presi contro le organizzazioni cattoliche:

"Grande fu la Nostra sorpresa e il Nostro dolore, quando apprendemmo che con assurdo pretesto, mal dissimulato dall'artificio, si osava, al fine di deviare l'opinione pubblica e porre ad esecuzione un premeditato disegno, riversare sui cattolici la stolta accusa di perturbatori dell'ordine e far ricadere sopra di loro il biasimo e il danno dei sediziosi sconvolgimenti. E maggiormente crebbe il Nostro dolore, quando, a tali calunnie succedendo fatti arbitrari e violenti, si videro sospesi o soppressi molti dei principali e valorosi giornali cattolici, proscritti Comitati per le parrocchie e per le diocesi, disperse adunanze per congressi, rese inerti alcune istituzioni ed altre minacciate fra quelle stesse che hanno per scopo il solo incremento della pietà tra i fedeli, o la pubblica e privata beneficenza .... Con la soppressione di quelle Società viene ad aumentare la miseria morale e materiale del popolo, che esse procuravano con ogni mezzo possibile di mitigare; viene privata la civile comunanza di una forza potentemente conservatrice, giacché la loro organizzazione stessa e la diffusione dei loro principi era un argine contro le teorie sovversive del socialismo e dell'anarchia; viene infine ad accendersi maggiormente il conflitto religioso che tutti gli uomini scevri da passioni settarie comprendono essere supremamente funesto all'Italia dì cui spezza la forza, la compattezza, l'armonia".

I liberali e i massoni risposero all'enciclica sfogandosi, specie in occasione del 20 settembre, contro il Papato, che dipinsero come il nemico capitale della patria; PELLOUX ritenne opportuno di mantenere un dignitoso silenzio.

I PROVVEDIMENTI POLITICI DI PELLOUX
L'ITALIA CHIEDE ALLA CINA LA BAIA DI SANMUN
IL RIFIUTO DI PEKINO,
L'ULTIMATUM ITALIANO E LA MEDIAZIONE INGLESE
LA QUESTIONE DI SAN-MUN ALLA CAMERA
DIMISSIONI DEL MINISTERO

II 4 febbraio del 1899 i ministri dell'Interno e di Grazia e Giustizia presentarono alla Camera i famosi disegni di legge detti "provvedimenti politici" con cui si proponeva di militarizzare gli impiegati delle ferrovie, delle poste e dei telegrafi, di punire lo sciopero del personale addetto ai servizi pubblici, di istituire il domicilio coatto per i delinquenti recidivi, di limitare il diritto di riunione e di associazione e di restringere la libertà di stampa, rendendo obbligatorio il deposito dello stampato prima della pubblicazione, rendendo responsabile accanto al gerente l'autore, comminando pene per la pubblicazione o riproduzione di notizie tendenziose, istaurando la censura e sostituendo nei reati di stampa i giudici ai giurati.
La commissione nominata per esaminare i provvedimenti, pur emendandoli, ne propose l'approvazione; nel paese e nel Parlamento, però, i disegni incontrarono molta opposizione; lo SCARFOGLIO disse che "si voleva fare un colpo di stato"; ANDREA COSTA li chiamò "leggi di paura e di odio"; li combatterono aspramente BARZILAI, MIRABELLI, BOVIO e tutti i deputati dell'Estrema Sinistra; eppure il 4 marzo con 310 voti contro 93 la Camera approvò il passaggio alla seconda lettura del disegno di legge che puniva lo sciopero degli addetti ai servizi pubblici e limitava i diritti di riunione, di associazione e di stampa.

L'ITALIA GUARDA ALLA CINA

Proprio in quei giorni, seguendo l'esempio della Russia, Germania, Francia, e Inghilterra che chiedevano ed ottenevano concessioni in Cina, ed avevano già occupato e costituito basi commerciali e strategiche, il Governo italiano, per mezzo del ministro DE MARTINO, il rappresentante italiano a Pekino, chiedeva al ministero cinese degli Affari Esteri la baia di San-Mun, nel Zhejiang (Chekiang). Ricevuto un rifiuto, il De Martino ripeté la richiesta per iscritto, ma si vide tornare indietro la domanda senza risposta.

Allora il Governo italiano telegrafò al DE MARTINO di presentare un ultimatum al Governo cinese; ma, subito dopo l'invio di questo telegramma, l'ambasciatore inglese a Roma sconsiglió di usare mezzi violenti e promise di fare intervenire il proprio Governo affinché l'incidente fosse risolto pacificamente e con piena soddisfazione dell'Italia.
Il ministro CANEVARO accettò l'offerta inglese e con un telegramma ordinò a De Martino di sospendere ogni intimazione alla Cina.
Questo secondo dispaccio però non giunse in tempo. Il 10 marzo 1899, De Martino presentò al Governo cinese un ultimatum in cui chiedeva entro quattro giorni una categorica risposta. L'Inghilterra, avuta notizia del fatto, chiese spiegazioni al governo italiano; questo, prima, smentì la notizia, credendola in buona fede un'invenzione delle Agenzie, poi, avutane conferma, per calmare il Governo inglese, che all'improvviso contrario a una prova di forza, non aveva dato l'appoggio, richiamò De Martino, affidando al rappresentante inglese in Cina la Legazione italiana.

Nella seduta del 14 marzo, CANEVARO, interrogato dagli onorevoli BORDARI, SANTINI, CERIANA-MAYNERI, FRACASSI, SOLA e LAZZARO intorno alle trattative per la baia di San-Mun, espose i fatti, assicurò che l'incidente italo-cinese non aveva carattere di gravità e disse che sperava di poter costringere il Governo di Pechino a cedere.

Il 10 di maggio iniziò alla Camera la discussione sulla questione di San-Mun. I socialisti si dichiararono contrari ad ogni politica di espansione, favorevoli invece si dissero gli onorevoli ANGELO VALLE, SANTINI e RICCIO.
L'on. BARZILAI criticò aspramente la politica estera e coloniale del Pelloux e dei Gabinetti precedenti, dicendola guidata dal caso, non da avveduta saggezza, politica che mutava continuamente, passando dall'Adriatico al Mediterraneo, dal Mediterraneo al Mar Rosso, e infine, dal Mar Rosso al Mar Giallo. "Ora, onorevoli ministri - concluse il Barzilai - vi siete logorati, completamente logorati nell'esercizio di un potere nel quale non avete portato nessun concetto, nessun ideale, nessun obbiettivo .... Non avete saputo fare niente, siete miseramente vissuti per vivere".

Al termine della seduta del 2 maggio, CRISPI, incontrato CANEVARO nel corridoio dei passi perduti, gli disse: "La politica vostra è politica di avvilimento per l'Italia !".

Non fu difficile a PELLOUX capire che la maggioranza della Camera disapprovava l'azione diplomatica del Governo in Cina. Per evitare un voto contrario, il presidente del Consiglio, nella seduta del 3 maggio, annunciò alla Camera che il Ministero aveva rassegnato le dimissioni.

SECONDO MINISTERO PELLOUX
L'OSTRUZIONISMO PARLAMENTARE
LA PROPOSTA DI MODIFICAZIONI DEL REGOLAMENTO DELLA CAMERA
LA PROROGA DELLA SESSIONE E IL DECRETO-LEGGE
LA TEMPESTOSA SEDUTA DEL 30 GIUGNO 1899 ALLA CAMERA


L'incarico di formare il nuovo Gabinetto fu dato allo stesso generale Pelloux, il quale dei vecchi ministri lasciò LACAVA ai Lavori Pubblici e BACCELLI alla Pubblica Istruzione e affidò gli altri portafogli a noti conservatori: gli Esteri al VISCONTI-VENOSTA, le Finanze a PIETRO CARMINE, il Tesoro a BOSELLI, le Poste e i Telegrafi al marchese ANTONINO DI SAN GIULIANO, la Grazia e Giustizia a ADEODATO BONASI, la Guerra al generale GIUSEPPE MIRRI, la Marina al contrammiraglio GIOVANNI BETTÒLO, l'Agricoltura ad ANTONIO SALANDRA.

Con la costituzione del nuovo Gabinetto, PELLOUX passava alla Destra. Questo indusse GIUSEPPE ZANARDELLI a dimettersi da presidente della Camera, alla quale carica fu chiamato l'on. LUIGI CHINAGLIA.
Il 25 maggio del 1899 il Pelloux presentò al Parlamento il nuovo Ministero e, dichiarando che il Governo considerava "come cosa della massima urgenza l'approvazione del disegno di legge circa le aggiunte e modificazioni alle leggi sulla pubblica sicurezza e sulla stampa", espresse il desiderio che la seconda lettura di questo disegno di legge avesse la precedenza assoluta su ogni altro argomento.
L'Estrema Sinistra, repubblicana, socialista e radicale, decise di ostacolare l'approvazione dei provvedimenti politici con un metodo di lotta nuovo alla Camera italiana: "l'ostruzionismo", consistente nel pronunziare lunghissimi discorsi, nel proporre sospensione, pregiudiziali ed ordini del giorno, nel presentare articoli aggiuntivi o emendamenti per ogni articolo del disegno di legge ecc.

La discussione in seconda lettura del disegno sulle modificazioni ed aggiunte alle leggi di pubblica sicurezza e all'editto sulla stampa cominciò il 1° giugno e quel giorno stesso fu iniziato l'ostruzionismo, diretto dagli onorevoli COSTA, PANTANO e BASETTI. Chi più si distinse tra gli ostruzionisti fu FERRI, che il 7 giugno parlò per un'intera seduta sull'articolo I bis relativo al diritto di riunione, il quale però fu approvato, dopo un forte discorso del relatore GRIPPO, con 180 voti contro 113.

Dopo l'intervento di Enrico Ferri, l'on. SONNINO presentò la proposta seguente di modificazione al regolamento della Camera:
"Quando la discussione generale di una legge o la discussione di un articolo o di una mozione si prolunghi in modo da turbare il regolare andamento dei lavori parlamentari, il presidente potrà proporre alla Camera di deliberare:
1) il tempo massimo da consentirsi ai singoli oratori,
2) il giorno e l'ora in cui la discussione dovrà terminare e si procederà alla votazione.


Le proposte del presidente saranno subito votate dalla Camera per alzata e seduta sui vari ordini del giorno, o emendamenti o articoli aggiuntivi presentati, ed alla votazione per appello nominale della sola proposta principale che formava oggetto di discussione".

La proposta del Sonnino fu data da esaminare ad una Commissione composta degli onorevoli Di Broglio, Cambray-Digny, Lazzaro, Maggiorino Ferraris, Ramboldi, Romanin, Sacchi, Simeoni e Torraca. Cambray-Digny presentò, il 17 giugno, la relazione e il Pelloux ottenne che la proposta di modifica al regolamento della Camera sarebbe stata messa all'ordine del giorno della tornata successiva.
L'Estrema Sinistra stabili di attuare l'ostruzionismo anche nella discussione intorno alla proposta, ma il 22 giugno il Pelloux prorogò per sei giorni la sessione legislativa e con decreto di pari data, promulgò quasi tutte le disposizioni contenute nel disegno di legge sui provvedimenti politici.
La relazione con cui il decreto veniva sottoposto alla firma del re, diceva fra l'altro:
"Il Consiglio dei Ministri, con deliberazione unanime, non esita a proporre a Vostra Maestà che le disposizioni più essenziali di quel disegno di legge, riunite in un testo che è anche conforme a quello definitivamente deliberato dalla Commissione parlamentare eletta per esaminarlo, siano sancite con real decreto che abbia effetto esecutivo il 20 luglio e venga subito presentato al Parlamento per la conversione in legge. Rimane, in tal modo, integra ai due rami del Parlamento la potestà di discutere e deliberare intorno alle disposizioni del decreto prima che si applichino".

Il 28 giugno il PELLOUX presentò alla Camera un disegno per la conversione in legge del decreto reale, proponendo di rinviare tale disegno all'esame della medesima Commissione che aveva esaminato il disegno sui provvedimenti politici. La proposta del presidente del Consiglio, sostenuta dagli onorevoli Prinetti, Sonnino, Di Rudinì e Colombo, fu combattuta dagli onorevoli Branca, Fortis, e, più di tutti, dallo Zanardelli, ma la Camera l'approvò con 208 voti contro 138 e 14 astenuti.

Il giorno dopo il PELLOUX presentò la relazione favorevole della Giunta cui era stato conferito l'incarico di esaminare la proposta di convertire in legge il decreto reale sui provvedimenti politici, e propose che il disegno di legge fosse iscritto nell'ordine del giorno della seduta del 1° luglio e che il 30 giugno fosse continuato il dibattito sulle modificazioni al regolamento della Camera.
Ma l'indomani ricominciò l'ostruzionismo. Dietro richiesta del deputato radicale TARONI, il quale desiderava che si verificasse se ci fosse il numero legale per deliberare, fu fatto l'appello nominale; quindi l'on. PRAMPOLINI chiese un secondo appello nominale per l'approvazione del processo verbale della seduta pomeridiana del giorno prima; ma la destra e il Centro cominciarono a protestare e il Presidente all'improvviso ordinò che si votasse per alzata e seduta.

Il processo verbale fu approvato, ma i tumulti non cessarono, divennero anzi tanto assordanti da costringere il presidente della Camera a sospendere la seduta. Quando questa fu ripresa, il presidente ordinò ai segretari di iniziare la chiamata per la votazione a scrutinio segreto di alcune leggine discusse nella seduta antimeridiana. Allora nacque un pandemonio: i deputati dell'Estrema Sinistra si precipitarono nell'emiciclo per impedire la votazione, uno scambio violento di pugni avvenne tra gli onorevoli DE FELICE e TORRACA, un pugilato non meno vivace si accese tra BISSOLATI e SONNINO, quindi fu dato l'assalto alle urne e due di esse furono sfasciate e asportate. Quella sera stessa per decreto reale fu chiusa la sessione.

LA CONFERENZA INTERNAZIONALE DELLA PACE ALL'AJA

Una settimana prima che il nuovo Ministero Pelloux si presentasse al Parlamento, si era riunita all'Aja una conferenza internazionale. L'aveva promossa lo Zar NICOLA II con una nota del 24 agosto 1898 alle varie potenze nella quale queste erano invitate per discutere sulla riduzione degli armamenti.
Con una seconda nota del 30 dicembre dello stesso anno, lo Zar aveva modificato il programma della conferenza, in cui fra le altre cose, le potenze dovevano cercare di accordarsi per una sospensione negli armamenti.
La conferenza si riunì dal 18 maggio al 29 luglio del 1899 e vi parteciparono l'Austria-Ungheria, il Belgio, la Cina, la Danimarca, la Francia, il Giappone, la Grecia, la Germania, l'Inghilterra, l'Italia, il Lussemburgo, l'Olanda, il Montenegro, il Messico, la Norvegia, la Persia, il Portogallo, la Romania, la Russia, la Serbia, la Spagna, gli Stati Uniti, il Siam e la Svezia.
Rappresentanti dell'Italia furono COSTANTINO NIGRA, il conte ZANINI, l'on. GUIDO POMPILI, il generale ZUCCARI e il capitano di vascello BIANCO.
I risultati della conferenza, che erroneamente fu chiamata "della pace", non furono quelli che si speravano. Difatti, riguardo alla riduzione degli armamenti, la Conferenza si limitò a dichiarare che essa era "grandemente desiderabile per il benessere materiale e morale dell'umanità", e non si riuscì a stabilire l'obbligatorietà dell'arbitrato.

Fu istituita invece all'Aja una corte permanente con lo scopo di facilitare le soluzioni pacifiche dei conflitti internazionali e, a proposito delle leggi e degli usi di guerra, furono adottati i seguenti provvedimenti:
a) divieto dei proiettili contenenti gas asfissianti o deleteri, dell'uso delle pallottole dum-dum e del lancio di materia esplosiva dai palloni;
b) estensione alla guerra marittima della Convenzione di Ginevra del 22 agosto 1864, riguardante l'inviolabilità del personale sanitario e degli ospedali;
c) codificazione delle leggi e degli usi della guerra continentale, stabiliti dalla Conferenza di Bruxelles del 1874 e riflettenti le norme delle ostilità, la situazione dei belligeranti e dei prigionieri di guerra, la sorte delle spie, i diritti e i doveri dei parlamentari, l'armistizio e la condotta delle truppe nei paesi nemici.

INAUGURAZIONE TERZA SESSIONE XX LEGISLATURA -
RIPRESA DELL'OSTRUZIONISMO
LA SEDUTA DEL 29 MARZO 1900
APPROVAZIONE DELLE MODIFICAZIONI AL REGOLAMENTO DELLA CAMERA

All'inizio delle vacanze estive cominciò il processo contro i deputati che avevano sfasciato e asportate le urne, ma, essendo stato pubblicato il decreto di apertura della nuova sessione, la causa fu sospesa, gli imputati scarcerati e gli atti rimessi alla Procura Generale perché fosse chiesta alla Camera l'autorizzazione a procedere. Tutto però fu messo a tacere.

Il 14 novembre 1899 il re inaugurò la terza sessione della XX Legislatura e, dopo avere accennato alle momentanee irrequietezze che avevano impedito lo svolgimento regolare dell'azione della Camera dei deputati rendendo così necessaria un'interruzione nei lavori del Parlamento, disse:
"I governi rappresentativi ammettono partiti e tendenze diverse; ma uno solo deve essere lo scopo di tutti, quello supremo del bene della Patria".
(dicono tutti così, anche se molti non sanno com'è fatta la Patria e la piazza)

Il 15 veniva eletto presidente della Camera l'on. GIUSEPPE COLOMBO; il 28, il ministro del Tesoro BOSELLI, illustrando l'esposizione finanziaria, accertava il pareggio stabile del bilancio, annunciando per l'esercizio 1898-99 un avanzo di 33 milioni nel bilancio effettivo e di 15 in favore del Tesoro, e si rallegrava del risveglio economico del paese. Il 31 dicembre fu concessa l'amnistia pei reati politici e quasi tutti i condannati per i moti del 1898 ritornarono in libertà.
Pareva che la calma fosse tornata, ma ecco ritornare in ballo il decreto-legge e la riforma del regolamento.
Poiché del decreto-legge la Corte di Cassazione aveva, il 20 febbraio del 1900, proclamata l'inesistenza giuridica, il presidente del Consiglio chiese alla Camera che fosse discusso immediatamente il decreto per la conversione in legge.

La discussione cominciò il 24 febbraio del 1900. L'on. BARZILAI, a nome delle Estreme, dichiarò che se la maggioranza avesse deliberato il passaggio all'esame degli articoli, sarebbe stato ripreso l'ostruzionismo. Questo non tardò a deliziare nuovamente la seduta parlamentare, involontariamente favorito da numerose interruzioni della maggioranza. Fra gli oppositori si distinsero FERRI, BARZILAI, SACCHI e PANTANO. Quest'ultimo presentò una mozione con la quale chiedeva che si convocasse un'Assemblea Costituente.

Il 21 marzo, l'on. CAMBRAY-DIGNY chiese che nel regolamento della Camera fossero introdotte tutte quelle modifiche ritenute necessarie a vincere l'ostruzionismo, proponendo che, due giorni dopo la loro presentazione, entrassero in vigore, senza discussione né votazioni.
La proposta fu approvata dalla maggioranza. Una pregiudiziale del FERRI ed una proposta di sospensiva del PANTANO furono respinte. Allora l'ostruzionismo, cui aderì GABRIELE D'ANNUNZIO, deputato di Ortona a Mare, si fece più accanito.
Il 25 marzo D'Annunzio, notoriamente di destra, sul "Mattino" di Napoli, spiega le ragioni del suo clamoroso passaggio dai banchi dalla destra a quelli di sinistra. E conferma la sua piena adesione alla tattica dell'ostruzionismo, per protestare contro i provvedimenti illiberali del governo.

Il 29 marzo PELLOUX, stanco dell'ostruzionismo, propose che la Giunta del regolamento facesse "stampare e pubblicare le sue proposte di modifica, da votarsi per alzata e seduta e con una votazione unica e complessiva, nella tornata del 3 aprile".
Gli onorevoli FERRI, DI RUDINÌ e DE NICCOLÒ chiesero di parlare sulle comunicazioni del Governo, ma poiché dai banchi della maggioranza si gridava Ai voti ! Il presidente della Camera mise in votazione per alzata e seduta la proposta del Pelloux, che fu approvata, quindi sciolse la seduta. (fu chiamata quella votazione "uno scippo", dai più benevoli "voto a sorpresa")

L'Estrema Sinistra, riunitasi, firmò una protesta contro quella votazione e contro l'on. COLOMBO, che venne qualificato "indegno dell'ufficio". Il Colombo presentò subito le dimissioni, ma il 2 aprile la maggioranza della Camera gli affidò di nuovo la carica.
Il giorno dopo, destinato alla votazione delle modifiche al regolamento, apertasi la seduta, GIUSEPPE ZANARDELLI, dichiarò nulla la deliberazione del 29 marzo e annunciò che l'opposizione, di fronte alla violazione del diritto, si ritirava. Lo stesso dichiarò l'on. PANTANO; quindi l'Estrema Sinistra, seguita dagli Zanardelliani e dai Giolittiani, uscì in massa gridando: "Viva la Costituente ! Abbasso il Governo !"
Leonida Bissolati gridò: "Abbasso il re !" La maggioranza, rimasta nell'aula, approvò per alzata e seduta le modificazioni al regolamento.
Le sedute furono poi sospese fino al 15 maggio, e il 5 aprile con regio decreto fu revocato il decreto-legge del 22 giugno 1899.

(di queste movimentate sedute, riportiamo nel successivo capitolo
gli articoli de "Il Fascio"; che oltre questi fatti, ci indicano
anche il "clima" che c'era in Italia nei mesi precedenti l'assassinio del Re)

SCIOGLIMENTO DELLA CAMERA
ELEZIONI POLITICHE - INAUGURAZIONE DELLA XXI LEGISLATURA
DIMISSIONI DEL MINISTERO

Il 15 maggio, riapertasi la Camera, le Estreme ricominciarono a rumoreggiare e quando il presidente tentò di applicare il regolamento intonarono gli inni dei Lavoratori e di Garibaldi, ai quali la maggioranza rispose con il grido di "Viva il re !" Il 16 la sessione fu prorogata e il 18 fu sciolta la Camera e indetti i comizi per le elezioni fissate il 3 e il 10 giugno 1900.

Le elezioni a cui partecipano il 58,3 % degli aventi diritto e che vedono una massiccia partecipazione dei cattolici nonostante il "non expedit" del 1874, fu favorevole ai partiti democratici con una notevole avanzata dell'estrema sinistra; i socialisti, che avevano alla Camera 16 rappresentanti, conquistarono il doppio dei seggi che avevano in precedenza; i rappresentanti dell'Estrema Sinistra da 67 salirono a 96 deputati (34 radicali 33 socialisti e 29 repubblicani). Mentre la sinistra costituzionale ottiene anch'essa una buona affermazione con 116 seggi. Il gruppo governativo perde terreno ma conserva la maggioranza.
Fra i non eletti fu GIUSEPPE COLOMBO, presidente della disciolta Camera; al suo posto fu eletto ETTORE CICCOTTI, che risultò, oltre che nel 6° collegio di Milano, anche in quello della Vicaria di Napoli.

Il 16 giugno del 1900, il re inaugurò la XXI Legislatura, facendo appello, nel suo discorso, e tutti gli uomini di buona volontà; devoti alla Patria e alla Casa Sabauda, dichiarando che avrebbe difeso le istituzioni da ogni pericolo e tracciando il programma di lavoro della nuova Camera:
"Curare - egli disse - ogni miglioramento possibile delle condizioni delle classi lavoratrici; dare la necessaria tutela ai nostri prodotti industriali ed agricoli; proteggere efficacemente i nostri emigranti, attenuare nella misura consentita dal bilancio le asprezze del sistema tributario; adattare meglio ai bisogni della vita moderna l'educazione e l'istruzione della gioventù; tenere alto il prestigio della giustizia e dei giudici; assicurare al paese un'amministrazione corretta e previdente, è compito tale cui non è superflua l'opera di un'intera Legislatura".

Quel giorno stesso fu eletto presidente della Camera con 242 voti il candidato ministeriale NICCOLÒ GALLO. All'on. Giuseppe Biancheri, deputato dell'opposizione, furono dati 214 voti. Con una maggioranza così scarsa il nuovo presidente non poteva esercitare l'ufficio con quel rigore che sarebbe stato necessario; iniziò quindi, d'accordo con PELLOUX, trattative con i capi delle frazioni avverse per conciliare la maggioranza e l'opposizione; ma le trattative fallirono perché VISCONTI-VENOSTA, CARMINE e BONASI, contrari ad ogni accordo, si dimisero da ministri.
Allora l'intero Gabinetto presentò le dimissioni, che il 18 giugno del 1900 furono dal Pelloux annunciate alla Camera dei deputati.

IL MINISTERO SARACCO
NUOVO REGOLAMENTO DELLA CAMERA

L'incarico di formare il nuovo ministero fu dato a GIUSEPPE SARACCO Presidente del Senato, ottantenne, di destra ma moderato (alle sue spalle tutto il Risorgimento vissuto) il quale lo costituì il 24 giugno (in parte con uomini della destra), assumendo la presidenza del Consiglio e il portafoglio dell'Interno, lasciando il VISCONTI-VENOSTA agli Esteri e il generale PONZA di San MARTINO alla Guerra e affidando le Finanze all'on. BRUNO CHIMIRRI, il Tesoro all'on. GIULIO RUBINI, i Lavori Pubblici all'on. ASCANIO BRANCA, le Poste e i Telegrafi all'on. ALESSANDRO PASCOLATO, la Grazia e Giustizia all'on. EMANUELE GIANTURCO, la Pubblica Istruzione all'on. NICCOLÒ GALLO, la Marina al viceammiraglio e senatore COSTANTINO ENRICO MORIN e l'Agricoltura, Industria e Commercio all'on. PAOLO CARCANO.

Il 27 giugno 1900, SARACCO presentò il nuovo Gabinetto al Parlamento ed espose il suo programma. Dopo aver fatto appello ai rappresentanti della nazione perché acconsentissero che il lavoro parlamentare si svolgesse con pacifiche ed ordinate discussioni, disse:
"Per ora, vessati come siamo dalle cose e dal tempo, dobbiamo limitarci ad un programma minimo: cioè all'approvazione provvisoria dei bilanci e di quei provvedimenti che hanno il carattere d'urgenza per il regolare andamento dell'amministrazione, e restituire gli ordinamenti parlamentari alla loro normale funzione".

Il 28 fu eletto presidente della Camera l'on. TOMMASO VILLA, il quale non volle fare uso del regolamento approvato dalla maggioranza del Pelloux, e propose di nominare una Commissione incaricandola di presentare, entro due giorni, uno schema di regolamento da discutersi alla Camera. A far parte della Commissione, di cui fu presidente e relatore il Villa medesimo, furono chiamati gli onorevoli BIANCHERI, CHINAGLIA, COPPINO, FERRI, FORTIS, GIANOLIO, GIOLITTI, GRIPPO, PANTANO, DI RUDINÌ, SACCHI E ZANARDELLI.
Il regolamento, proposto dalla Commissione, fu approvato il 1° luglio.
Il 9 luglio la Camera prese le vacanze estive. Nessuno allora poteva pensare che venti giorni dopo un gravissimo lutto avrebbe immerso nel dolore la nazione intera: l'assassinio di Umberto I.

L'ASSASSINIO DI UMBERTO I

LA PREGHIERA DELLA "MOGLIE" REGINA MARGHERITA
GIUDIZIO SUL SECONDO RE D'ITALIA
LA COMMEMORAZIONE AL PARLAMENTO
I FUNERALI - IL PROCESSO BRESCI

Il 24 giugno del 1894: l'anarchico italiano SANTE CASERIO aveva pugnalato a Lione il presidente della Repubblica Francese Carnot; l'8 agosto del 1897 un altro anarchico italiano, MICHELE ANGIOLILLO, aveva ucciso ad Agueda il presidente del Consiglio Spagnolo, Antonio Canovas del Castillo; il 10 settembre del 1898 ANTONIO LUCCHESI aveva pugnalato a morte a Ginevra l'imperatrice Elisabetta d'Austria (Sissi).
Un altro italiano doveva essere l'assassinio del secondo re d'Italia.
Il regicidio fu deciso a Paterson, nel New Jersey, in un'assemblea di circa 130 anarchici. La sorte designò a compiere l'assassinio ad un certo SPERANDIO CARBONE, ma questi non ebbe il coraggio di tradurre in atto il delittuoso proposito, e, ammazzato il padrone che lo aveva licenziato, si uccise.

A sostituire Carbone si offrì un GAETANO BRESCI, figlio di contadini, nato a Coiano di Prato nel 1869. Era il classico "prodotto arrabbiato" uscito dalla "fucina" politica repressiva di Crispi. Operaio in un industria di Prato, BRESCI era stato messo in carcere per avervi organizzato degli scioperi; poi fu inviato al confino di Pantelleria, ma quando Crispi nel 1894 fece rastrellare l'Italia "sovversiva" con le sue liste di proscrizione, per non finire come tanti, nuovamente in carcere con chissà quale imputazione, Bresci in qualche modo riuscì ad emigrare in America, portandosi dietro tutto l'odio per la monarchia. In America apprese i fatti italiani del 98, e dall'America era ritornato in Italia nel giugno del 1990, dopo aver acquistato con 500 lire una pistola calibro 9.
Umberto che era già uscito quasi indenne da tre attentati "al coltello", aveva un giorno profetizzato, scherzando dicendosi certo che sarebbe morto quando gli attentatori sarebbero passati dai pugnali alle pistole.

Bresci quando giunse in Italia, con la pistola andò ad esercitarsi al suo paese natio e a Castel San Piero (Emilia) al tiro della rivoltella. Il 26 luglio si recò a Monza, dove da alcuni giorni (il 21) era giunto il re per trascorrervi l'estate. Prese una stanza per due lire al giorno in una Pensione di via Cairoli 4. Alto, atletico, vestito con eleganza, aveva una gran cura della persona, e una grossa macchina fotografica a tracolla; chiese senza insospettire nessuno, quando si poteva vedere il Re. Gli dissero che l'occasione migliore sarebbe stata il 29, domenica sera, quando il sovrano avrebbe presenziato ai "Giochi Ginnici" dell'associazione "Liberi e Forti".


Il 18 luglio i sovrani erano stati a Napoli per salutare il corpo di spedizione italiano che partiva per la Cina. Il 19 ripartivano per Roma. Il 20 si festeggiò l'onomastico della Regina, e il giorno stesso alle ore 18,50 partivano dalla capitale e arrivano l'indomani a Monza. Vi rimasero dal 21 al 26. Il 26 la regina si recò a Stresa per fare una visita alla madre, poi la sera rientrò a Monza. Il 31 lunedì, doveva poi partire per recarsi alla sua solita villa nella Valle di Gressoney per passarvi l'agosto; mentre Umberto il 3 agosto per recarsi prima al Castello di Sarre, poi a Cogne.

Il 25 il sindaco di Monza, Corbetta, facendo visita al re, assieme al sig Guana presidente della Società di Ginnastica Forti e Liberi, invitarono il sovrano ad assistere alla premiazione del concorso ginnico che si svolgeva il 28 e 29. Il re promise, perfino con entusiasmo.

Il 29 era domenica e la mattina di quel giorno, Umberto si era alzato alla solita ora, fatto la solita colazione, il solito bagno, la solita passeggiata a cavallo nel parco, e la solita furtiva visita all'amore di sempre, Eugenia Litta. A mezzogiorno tornò a casa a pranzare; alla "moglie di rappresentanza" chiese se desiderava accompagnarlo la sera ai Giochi Ginnici; la giornata era afosa e c'era il caldo torrido di fine luglio; l'appuntamento non era del resto mondano e la regina Elena declinò l'invito, preferiva prendere il fresco nel parco.

La sera del 29 luglio Umberto I, proprio per il caldo opprimente, non indossò il solito panciotto protettivo in maglia di acciaio e ordinò la carrozza scoperta per prendere un po' d'aria fresca della sera; entrò nel campo alle ore 21,30. Conclusi gli ultimi giochi intervenne alla premiazione. La vittoria andò alla squadra di Monza, e la Coppa città di Monza la vinse la squadra di Trento che per la prima volta partecipava ai giochi "italiani". Terminata la cerimonia, Unberto salì in carrozza con i generali PONZIO VAGLIA e AVOGADRO per fare ritorno alla reggia; ma era ancora in piedi a salutare la folla quando BRESCI da una distanza piuttosto ravvicinata gli sparò contro quattro precisi, rapidi e secchi colpi di pistola.

"Ero vicino alla carrozza -racconta alla stampa il testimone Giuseppe Buggioli - il Re era in piedi, stava sedendosi, quando il primo colpo lo ferì nella parte posteriore del colllo; il Re si voltò istintivamente, e fu colpito al petto da altri due colpi, alla regione cardiaca. Accasciandosi, rivolto al cocchiere ordinò Avanti, Avanti"
Dei quattro colpi tre andarono a segno. Il primo lo raggiunse al collo, il secondo e il terzo al cuore.
Umberto cadde riverso sulle ginocchia del generale Avogadro.
Nell'ultimo attentato, uscito salvo, impassibile aveva detto "Sono gli incerti del mestiere. Avanti!".
E anche questa volta senza drammatizzare disse "Credo che sia niente, avanti!"; la carrozza proseguì, ma fece pochi metri, passarono pochi attimi; prima di arrivare al cancello del Parco Reale, poco distante, tre minuti, il sovrano era già spirato.

Lasciò nell'angoscia la regina Margherita, la quale chiamò quel regicidio il più grande delitto del secolo e a conforto del suo dolore dettò poi per gli Italiani la famosa preghiera "Devozione" articolata in "cinque misteri dolorosi":
"O Signore !
Egli fece del bene in questo mondo.
Non ebbe rancore verso alcuno.
Perdonò sempre a chi gli fece del male.
Sacrificò la vita al dovere e al bene della Patria.
Fino all'ultimo respiro si studiò di adempiere la sua missione; e per quel sangue vermiglio che sgorgò da tre ferite, per le opere di bontà e di giustizia che compì, Signore pietoso e giusto, ricevetelo nelle vostre braccia e dategli il premio eterno".

Questa preghiera accese anche polemiche; l'Osservatore Cattolico" scrisse: " Monsignor Bonomelli (vescovo di Cremona) ha fatto pubblicare una specie di preghiera attribuita a S.M. la regina Margherita; a noi non parve di doverla pubblicare e non l'abbiamo riferita".

Si disse che la consorte di Umberto non potendosi attaccare al "marito" ucciso, si era rifatta col mito del Re Buono, con il culto, la fede aprioristica che va depositata nella figura sacra del monarca.
Il suo matrimonio era durato trentadue anni, ma ben poche cose avevano i due avuto in comune. Nemmeno la nascita del gracile figlio li aveva uniti.
(la nascita di Vittorio Emanuele l'abbiamo narrata nel capitolo dell ANNO 1867 )

Umberto non si era mai mostrato orgoglioso di quel figlio, basso, gracile, brutto, e che nonostante questo, già a sette anni lo aveva messo in mano ad un colonnello filo-prussiano (Osio, ex addetto militare a Berlino), che si era messo alle sue costole per l'intera giornata con i rigidi metodi autoritari prussiani, a fargli da padre, da maestro e soprattutto a fare il sergente di ferro, da mattina a sera; rendendo sempre più introverso il piccolo allievo, senza fratelli, senza coetanei, e con l'incontro a pranzo con il padre e la madre solo la domenica e il giovedì.

Umberto si era invece prostrato dal dolore quando gli morì il "figlio" Alfonso che la sua amata Eugenia Litta gli aveva dato.
Da quando aveva 18 anni (la Litta ne aveva sette in più; l'aveva conosciuta ad un ballo di carnevale e se ne innamorò subito) Umberto non aveva mai smesso di frequentare la bellissima donna, e non esitò a mettersi in situazioni imbarazzanti, passando sopra al buon gusto e alla discrezione. Del resto la donna che il padre e il ministro Menabrea (fu lui a suggerirgli l'unione di suo figlio alla nipote) gli avevano scelto come moglie, nonostante fosse una bellissima fanciulla di 17 anni, era una sua cugina, orfana di Elisabetta di Sassonia e di Ferdinando, duca di Genova, fratello di suo padre, che quando Menabrea gli suggerì l'idea Vittorio Emanuele esclamò in secco piemontese "Ma l'è na masnà" (ma è una bambina!). Impegnato com'era a far guerre, era forse da qualche tempo che non la vedeva, poi quando andò a incontrarla a palazzo Chiablese a Torino, dove abitava, si fece convincere dal suo ministro, vedendola piuttosto prosperosa quella bionda "bambina".

Umberto, la conosceva quella "bambina", come compagna di infantili giochi, fin da quando era nata nel 1851 quando lui aveva 6 anni; l'aveva vista alle riunioni familiari nei palazzi aviti di Torino, poppare e crescere, non c'era quindi da meravigliarsi se tra i due non ci fu mai amore; inoltre proprio quando gli proposero questa forzata unione, il principe già 24 enne, a Milano era già occupato a coltivare da oltre cinque anni la sua folle passione per la bellissima e matura 32 enne duchessa EUGENIA LITTA, che soprannominata dai milanesi "la Bella Bolognina", aveva allora un esercito di spasimanti, ed era moglie da 14 anni, forse già stanca, del ricchissimo duca Giulio Litta Visconti Arese (con la Villa accanto al palazzo Reale, comunicante tramite il parco).

Ma gli ordini non si discutono, e lui giunse a Torino il 28 gennaio 1868 per chiedere con la massima indifferenza alla 17enne cugina Margherita "vuoi essere mia moglie?". Tre mesi dopo, il 21 aprile la sposò. Ma non smise mai di frequentare la Litta, e avere pure figli da lei. Non smise di frequentarla fino all'ultimo giorno: il mattino del 29 da vivo, e lei la Litta, fino il giorno dopo, con lui già morto sul nero catafalco.
Tutta la notte del 29, la consorte MARGHERITA, rimase a vegliare il corpo di Umberto. Si seppe subito in tutto il Paese che la LITTA aveva chiesto il permesso di salutare la salma del re. Margherita il mattino, si allontanò dalla camera ardente, e fece chiamare la rivale, e la lasciò a lungo davanti al corpo insanguinato dell'uomo che - non solo lui- aveva profondamente amato. Tutti furono pieni di ammirazione per Margherita, per "questa donna -dissero- che sa essere regina fino all'ultimo, nella gloria e nella sventura".
La Litta aveva allora già 64 anni, lui 56. Quell'amore era durato 38 anni!

La "vera" moglie (cugina), di anni ne aveva 49, e 32 anni di matrimonio che fu solo una convivenza, che Margherita sopportò con grande dignità.
La bella duchessa milanese così tenacemente inserita nel cuore di Umberto "..a quanto si disse aveva preteso da lui, al momento dell'annuncio del matrimonio con la cugina Margherita una singolare promessa: che egli non avrebbe avuto alcun rapporto con la sposa durante la luna di miele e che le loro notti dovessero restare "bianche". Anzi un noto giornalista, Paolo Valera, che approfondì lo studio sugli amori del re, precisa che un cameriere aveva l'incarico, la sera, di rinchiudere Umberto a chiave nella sua stanza da letto. Vero o no, è certo che Margherita, che nutriva un profondo risentimento verso la Litta, quando a Monza un giorno la trovò nella camera da letto del marito, aveva giurato ad Umberto che da allora non sarebbe stato altro che la principessa, mai più la moglie.
Si lamentò anche con il suocero e zio, minacciando di tornarsene dalla madre; ma Vittorio Emanuele II, che di queste cose era già un esperto (Rosina e gli extra) gli rispose "ma per così poco, vuoi andartene?". Margherita capì la cruda realtà e da allora fece solo la principessa e, morto il suocero, solo la regina". (1)

Nella preghiera della regina che abbiamo letto sopra, si trovano alcune linee del ritratto del sovrano. Sì, egli fu dotato di tanta bontà da passare alla storia con l'appellativo di "buono". Fu anche generoso con i suoi nemici, e perfino con le famiglie di coloro che avevano attentato alla sua vita, fornendo a figli e mogli dei condannati all'ergastolo una pensione a vita. Aveva i suoi difetti ma anche le sue virtù. Tra l'altro era incapace si serbare rancore. Con Ruggero Borghi che da "La Stampa" lo attaccava personalmente con vigore e livore, gli testimoniava la sua cordialità con tanta premura fino al punto da determinare le proteste il vecchio Farini.
Fu, più che un prode in battaglia, fu coraggioso dinanzi al contagio del colera e impavido di fronte al braccio degli anarchici armato di pugnale.
Ma nonostante volesse dare di sé un'immagine di sovrano "popolare", e spesso (ma solo nei discorsi, che abbiamo più volte letto) mediatore tra le classi sociali, quest'immagine ebbe breve durata. E nel '98, non solo con gli ordini dati a Bava Beccaris, ma premiando inopportunamente il generale che aveva compiuto quell'eccidio, Umberto toccò il punto culminante del suo autoritarismo, concordemente giudicato antidemocratico e antipopolare.

Dal padre non ebbe né la forza di carattere né l'intuito politico e sebbene fosse geloso dell'onore nazionale, non volle o non seppe, dopo Adua, tener testa ai rinunciatari e consigliare o imporre la rivincita. All'antifrancesismo non si oppose, e ai filo-austro-germanisti della Triplice fece fare quello che volevano loro. Si conformò all'arrogante Guglielmo II, pur essendo i due caratteri molto diversi. E forse, trasaliva quando il Prussiano farneticava e gli diceva "Quando entreremo a Parigi, anche tu potrai sbattere fuori dalla porta le Camere".

"La sua morte -scrive il Gori- fu tragicamente istantanea, ma egli patì mortale agonia dalle insurrezioni del maggio '93 fino ai baccanali ostruzionisti del giugno '99".
"Nei primi tempi del regno, Umberto intese rigidamente l'ufficio di sovrano costituzionale. Poi il decadimento delle istituzioni parlamentari e la necessità di tener d'occhio le audacie del Crispi indussero il re a partecipare (ma non a influire) più intensamente alla politica statale. Liberale, ma non democratico, nel significato spicciolo della parola, e fallitogli l'esperimento tentato con Giolitti (l'uomo l'aveva forse trovato! Come lo trovò poi suo figlio!), sperò in una politica di concentramento conservatore, che purtroppo finiva in un concentramento di resistenza senza via legale d'uscita.
Con il suo sangue, Umberto riscattava le colpe sue e di tutti, e ricementava l'unità della patria, da lui servita ad ogni modo con pura coscienza".

Forse fu un onesto perché era debole, ma forse fu un debole perché i Sovrani degli altri cinque Stati, erano diventati tutti forti, e soprattutto tutti arroganti e fra di loro antagonisti. Ed in mezzo a questi Stati, che in varia misura a fine secolo conoscono un forte sviluppo industriale, l'Italia di Umberto, con i suoi problemi interni (arretratezza, miseria, analfabetismo) era diventato uno Stato di secondo piano, soprattutto quando nella politica estera l'Italia (dei politici) voleva essere amica di tutti: dei nemici degli amici (Austria e Germania), e così facendo nemica dei potenziali amici (Inghilterra, Francia, Russia). Così oltre alla debolezza, non aveva neppure credibilità. Fino al 1915 nessuno riuscì a capire da che parte stava veramente l'Italia.

Qualcuno si sbilanciò nel dire che Umberto, nella situazione in cui era l'Italia all'inizio del secolo, fu più utile da morto che da vivo; e indubbiamente "il dopo" non sappiamo se si sarebbe verificato se Umberto fosse rimasto ancora vivo come minimo per altri vent'anni. Lui solo da morto riacquistò una nuova dimensione, iniziò a rivivere come un povero martire.
Ma tutt'altra strada e dimensione prese poi la politica sia interna che estera.

Giovanni Bovio scrisse "Vent'anni di vita tolti ad Umberto ne hanno aggiunto duecento a casa Savoia". Sbagliò di 155 anni; inoltre aveva dimenticato la moglie Margherita; ammiratrice del Prussiano, dell'autoritario Crispi, e per finire, avendo per Mussolini un'alta considerazione, ebbe (pochi giorni prima della Marcia su Roma) una parte considerevole nella sua scalata al potere nel 1922, cioè a convincere il figlio a "lasciar fare".
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La notizia dell'assassinio di Umberto commosse tutto il mondo e piombò nel dolore più profondo l'Italia che si vestì di gramaglie. Solo allora si riuscì a constatare quanto fosse radicato nell'animo della maggior parte degli Italiani il sentimento monarchico e quanto fosse grande e sincero l'amore popolano per la dinastia Sabauda. Quale fosse il sentimento popolare, si vide subito dalla prontezza e dall'eloquenza con la quale i vescovi e gli arcivescovi parteciparono alla generale esecrazione.
C'era naturalmente, un po' di timore da una parte della barricata, perché nell'altra molti pensavano che quella era l'occasione buona per una definitiva sterzata a destra, o meglio per l'apertura di un periodo di completa liquidazione delle correnti di estrema sinistra che minacciavano l'unità del Paese.
Quando, a Roma, verso mezzanotte, SARACCO rientrando a casa in via Nazionale dopo aver fatto una passeggiata a Piazza Colonna per prendere in quella calda estate un po' di fresco, il portiere, ansioso, che l'aspettava in strada sulla soglia di casa, gli diede la brutta notizia, il colpo fu così tremendo che il povero vecchio nell'udirla barcollò; dovettero metterlo di peso sulla carrozza per recarsi subito allo "scottante" ministero dell'Interno.
L'Italia era senza un re. Un mese dopo la caduta di Pelloux. Cosa sarebbe accaduto? C'era altro che da farsi venire un malore.

Di GAETANO BRESCI, subito catturato dopo l'attentato, si parlò poco. Solo il "Secolo" andò fuori le righe pubblicando un telegramma (ma il giornale fu subito sequestrato) von il testo giunto al ministro Saracco dalla Pennsylvania "Noi esultiamo per morte re massacratore del popolo. Hurrà per il compagno Bresci".
L'"Avanti" l'unico giornale che uscì il giorno dopo senza essere listato a lutto, i suoi strilloni furono aggrediti nelle strade. In verità, i socialisti non avevano per nulla gradito l'uccisione del re, giudicando che il momento era proprio inopportuno. Inoltre i socialisti stavano già da qualche tempo prendendo le distanze dagli anarchici; che a loro volta ebbero una spaccatura.

Si invocò da ogni parte di istruire il processo, per far seguire una esemplare condanna del regicida. Molte persone che avevano avuto a che fare con il Bresci furono coinvolte nelle indagini, ma ben presto quei nomi sparirono nell'ombra; né emersero indizi per avvalorare la tesi di un complotto politico. "Bresci ha agito da solo"; questa fu la conclusione.

Il 29 agosto si aprì il processo, e Bresci spiegò alla corte di aver deciso di uccidere il sovrano "dopo gli stati d'Assedio di Sicilia e di Milano per vendicare le vittime pallide e sanguinanti" (quelle di Bava Beccaris a cannonate, e che era rimasto indignato e sconvolto).
Ad uno spettatore che gli gridava addosso "Assassino, hai ucciso Umberto!", lui aveva risposto fra l'alterigia e l'indifferenza: "Io non ho ucciso Umberto. Io ho ucciso un RE. Ho ucciso un principio".
Davanti ai giudici che dovevano pronunciare la sentenza, Bresci nemmeno si difese "La vostra condanna mi lascerà indifferente. Non farò ricorso. Io mi appello soltanto alla prossima rivoluzione".

Difeso da MARIO MARTELLI e SAVERIO MERLINO, Bresci fu condannato all'ergastolo. Pochi mesi dopo, il 22 maggio del 1901, nel penitenziario di Santo Stefano, Bresci pose fine ai suoi giorni impiccandosi con un asciugamano. O fu ucciso? La voce corse. Suffragata dall'immediata sparizione dei documenti carcerari. Inoltre risultò all'autopsia, che il cadavere era già in stato di decomposizione. Morto da diversi giorni.
Bresci nei suoi 8 mesi di segregazione aveva cambiato spesso città e carcere; non perché era una presenza scomoda, ma perché -diventato un politicizzato simbolo- il governo temeva - dai soliti "sovversivi", magari aiutati dai soliti "briganti borbonici"- qualche assalto nelle carceri per farlo evadere.

Il 6 agosto, convocato il Parlamento, Umberto I fu commemorato dal presidente del Consiglio Saracco e dai presidenti della Camera e del Senato,Villa e Finali. La salma del re fu trasportata da Monza a Roma e qui, il 9 agosto si svolsero funerali "religiosi" grandiosi e infine la salma del Re fu tumulata nel Pantheon, nello stesso tempio a fare compagnia al sonno eterno di suo padre.

Dieci giorni dopo, il 18 agosto, l'"Osservatore Romano", scrisse che aveva "tollerato" i funerali "religiosi", solo perché il sovrano negli ultimi tempi aveva dimostrato di avere sentimenti religiosi. Insomma fecero finta di ignorare gli ultimi due anni, e l'eccidio di Milano.

L'Italia, nonostante il grande cordoglio, dimenticò presto Umberto; la sua morte come abbiamo detto, provocò un'accelerazione nell'evoluzione del governo in senso progressista.
Il passaggio del trono al figlio di Umberto, Vittorio Emanuele III, segnò un graduale ma importante mutamento della politica interna italiana.
Il primo periodo lo andiamo a narrare nel prossimo capitolo…

…periodo dal 1900 al 1901 > > >


(ma è anche utile leggere il capitolo degli articoli de "Il Fascio";
che ci indicano il "clima pesante"
che c'era in Italia nei mesi precedenti l'assassinio del Re)

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
L.A. MURATORI - Annali d'Italia

STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (i 14 vol.) Einaudi
 
+ VARIE OPERE DELLA BIBLIOTECA DELL'AUTORE 
 

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