ANNI 1002 - 1024

ARDUINO D'IVREA ED ENRICO II - I PRIMI NORMANNI IN ITALIA

ANTAGONISMO TRA FEUDATARI LAICI ED ECCLESIASTICI - ARDUINO D' IVREA E LE SUE LOTTE CONTRO IL VESCOVO DI VERCELLI - CONDANNA E RIBELLIONE DEL MARCHESE D'IVREA - ARDUINO RE D' ITALIA - SIGNIFICATO DELLA SUA ELEZIONE - POLITICA DI ARDUINO VERSO LE SIGNORIE ECCLESIASTICHE - ARDUINO E L'ARCIVESCOVO ARNOLFO DI MILANO - INNALZAMENTO DI ENRICO II DI BAVIERA AL TRONO DI GERMANIA - INFELICE SPEDIZIONE IN ITALIA DI OTTONE DI CARINZIA: BATTAGLIA DELLA "FABBRICA" - PRIMA SPEDIZIONE ITALIANA DI ENRICO II: SUA INCORONAZIONE - RIVOLTA E FEROCE REPRESSIONE DI PAVIA - RITORNO DI ENRICO IN GERMANIA - ARDUINO DOPO LA PARTENZA DI ENRICO - AGITAZIONE IN ITALIA - I CRESCENZI A ROMA E IL PAPATO DA GIOVANNI XVI A SERGIO IV - I TUSCULANI - ELEZIONE DI BENEDETTO VIII - SECONDA SPEDIZIONE ITALIANA DI ENRICO II E SUA INCORONAZIONE IMPERIALE - TUMULTI DI ROMA - RAPPRESAGLIE DI ARDUINO - MORTE DI ARDUINO - I VENEZIANI LIBERANO BARI DAI SARACENI - PISA E GENOVA - SCONFITTA DI MUGAHID - LA RIVOLTA DI MELO DI BARI - I PRIMI NORMANNI IN ITALIA - MELO E I NORMANNI CONTRO I BIZANTINI - BATTAGLIA DI CANNE - BENEDETTO VIII IN GERMANIA - MORTE DI MELO - TERZA SPEDIZIONE ITALIANA DI ENRICO II - ASSEDIO DI TROIA - MORTE DI BENEDETTO VIII E DI ENRICO II
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ARDUINO D'IVREA E LE SUE LOTTE

La politica degli Ottoni, decisamente favorevole agli ecclesiastici, la quale, attraverso la feudalizzazione dell'alto clero, le attribuzioni civili e le immunità concesse ai vescovi, aveva favorito il costituirsi delle signorie ecclesiastiche, aveva determinato nel regno italico un forte antagonismo tra i vescovi investiti della potestà feudale e i grandi vassalli laici; antagonismo che, sul finire del secolo X, aveva dato luogo a ripetute, accanite e sovente sanguinose lotte.

Fra queste lotte degne di essere ricordata è quella sostenuta da ARDUINO D' IVREA contro i vescovi PIETRO e LEONE di Vercelli. Arduino discendeva dal ramo secondogenito dei marchesi d'Ivrea ed era figlio del conte di Pombia, DADONE, il quale aveva avuto i natali da ANSCARIO II, marchese di Spoleto e fratello di BERENGARIO I re d'Italia.

La marca d'Ivrea, nell'ultimo decennio del secolo X, era costituita dai comitati d'Ivrea, di Vercelli, di Lomello, di Pombia, di Bulgaria, di Ossola e di Stazzona ed era importante, oltre che per le sue vicende storiche e per gli uomini che vi avevano dominato, anche per la sua posizione e per la vastità dei suoi territori.
I dissidi sorti tra Arduino e l'Episcopato Vercellese a causa del possesso di Caresana, donata nel 987 dal marchese Corrado alla chiesa di Vercelli, avevano avuto la fase più acuta nel febbraio del 997, quando, presa Vercelli d'assalto dalle milizie marchionali, vi era stato ucciso e bruciato il vescovo PIETRO.
Innalzato nel 998 alla sedia vescovile vercellese il tedesco LEONE, logoteta e consigliere imperiale, uomo ambizioso e tenace, questi, insieme col vescovo d'Ivrea VARMONDO, aveva accusato di omicidio e di usurpazione, presso Gregorio V e Ottone III, ARDUINO, il quale, nonostante le sue discolpe, era stato deposto dal marchesato e condannato a peregrinare per il mondo, vestito del saio di penitente, senza tetto e senz'armi. I suoi beni, confiscati, erano stati concessi alla chiesa di Vercelli, e a Leone era stata data (7 maggio del 999) la contea della città ingrandita col borgo di Santhià.
Arduino però non aveva ubbidito al bando imperiale: approfittando del soggiorno di Ottone in Germania, era rimasto in armi nella sua marca né aveva mutato il suo fiero atteggiamento di ribelle quando, nell'anno 1000, l'imperatore, tornato in Italia, aveva concesso a VARMONDO l'immunità (9 luglio) e la marca d'Ivrea ad OLDERICO MANFREDI marchese di Torino.
La morte di OTTONE III fece esplodere fulmineamente la reazione di quelle forze che la sua politica aveva compresso. I grandi vassalli laici, specie quelli dell'alta Italia, malcontenti della politica ottoniana favorevole al clero, e tutti coloro, i cui interessi erano stati lesi dalla dominazione degli Ottoni, poiché l'imperatore era morto senza eredi, furono convinti che fosse giunto il momento di sciogliere il legame che univa il regno italico alla Germania e, ritenendosi in diritto di disporre della corona, pensarono di darla a chi poteva inaugurare una politica nettamente contraria a quella fin allora seguita dagli ultimi imperatori germanici.
Quest'uomo non poteva essere che ARDUINO, il ribelle d' Ivrea, il nemico acerrimo dei vescovi, il colpito dal bando imperiale, che, ventiquattro giorni dopo la fine di Ottone, il 15 febbraio del 1002, a Pavia, nella basilica di S. Michele, veniva eletto ed incoronato re.
All'elezione di Arduino fu, da alcuni storici italiani, dato il significato di riscossa nazionale; ma tale significato è ben lontano da quell'ambita idea.
"Certamente in Italia -scrive giustamente il Romano - esisteva un numeroso partito antitedesco, il quale mirava ad affrancare la penisola da ogni dipendenza esterna; ma questo partito era mosso, non da un sentimento nazionale, impossibile in quel generale frazionamento dell'Italia e in quello stato ancora rudimentale di coscienza politica, ma da ragioni puramente egoistiche che avevano radice negl'interessi di classe, non in quelli generali d'Italia. Come a Roma la stirpe dei CRESCENZI, col pretesto di difendere la libertà dell'Urbe contro l'oppressione straniera, mirava a sottomettere il Papato e per suo mezzo a tiranneggiare la città e il territorio ecclesiastico; così nell'Italia settentrionale Arduino è il rappresentante di quella parte della feudalità laica che la politica degli Ottoni aveva depresso e che ora dalla vacanza del regno italico prende occasione per rialzare il capo e riaffermare la propria potenza".

Re nazionale non fu e non poteva essere Arduino. Egli non aveva con sé i vescovi e neppure l'appoggio dei nobili laici, quelli che erano stati beneficati dagli Ottoni; ma, ciò che più conta, non aveva con sé la popolazione "italiana". Questa, certamente, era insofferente della signoria germanica e si preparava con ogni mezzo, ad abbatterla, ma era anche contrario alla nobiltà laica sia perché straniera di origine, sia perché rappresentava l'ostacolo principale alla conquista della libertà. La quale poteva e doveva essere raggiunta soltanto ingaggiando e portando a fondo la lotta, contemporaneamente, contro gli stranieri e contro i signori feudali che più tardi troveremo di fronte ai sostenitori e agli artefici della libertà comunale.
(Qualcosa del genere, pur in un altro contesto, ma con la stessa insofferenza e la stessa determinazione, la ritroveremo otto secoli dopo, in quella lotta che fu chiamata del "risorgimento" degli italiani).

Re voluto da una minoranza faziosa di nobili, avversato dalla nobiltà ecclesiastica contro i cui interessi era stato eletto, privo del favore popolare, Arduino non poteva sperare di mantenersi con la forza nel suo regno. Non deve quindi recare meraviglia che il re, conoscendo quanto fosse grande la potenza dei vescovi e l'influenza che essi come dignitari della chiesa e per certa liberalità del loro governo esercitavano sulle popolazioni, cercasse di ingraziarsi parte dell'episcopato lombardo, facendogli larghe concessioni, fra cui degne di rilievo sono quelle fatte alla chiesa di Lodi, ai monasteri di Pavia e Lucca e specialmente alla chiesa di Como che ebbe la conferma degli antichi privilegi immunitari, del possesso del contado di Chiavenna e, in dono, parte del castello di Bellinzona.

Ma vano fu ogni suo tentativo di tirare a sé i vescovi. Alcuni, come quelli di Pavia, Brescia, Como e Cremona, certo per prudenza, essendo per loro pericolosissimo assumere un atteggiamento ostile, finsero sentimenti amichevoli verso il re; i più lontani però, come quelli di Modena e di Verona e l'arcivescovo di Ravenna, fin dall'incoronazione, gli si schierarono contro, impugnando la sua elezione con il sostenere che era nulla, giacché il privilegio di coronare i re apparteneva all'arcivescovo di Milano e non al vescovo di Pavia.

Dal momento che, l'arcivescovo ARNOLFO di Milano, al tempo dell'elezione, si trovava a Costantinopoli dove Ottone III l'aveva mandato per fargli ottenere la mano di una principessa bizantina, spettava all'abate di S. Ambrogio incoronare ARDUINO. Questi fece di tutto per guadagnarsi il favore di Arnolfo. Poi saputo che l'arcivescovo tornava dall'Oriente, gli andò incontro e lo trattò con onore, ma, quando si accorse che Arnolfo non si piegava, iniziò a trattarlo da nemico.
Violento per natura, irritato dall'esito negativo della sua politica verso il clero, Arduino si mostrò spietato contro i vescovi, parecchi dei quali furono perseguitati, imprigionati e confiscati i loro beni. Il cronista Titmaro ci dice che Arduino "onorava i vescovi come bifolchi e li trattava come subulchi ("burini")" e ci racconta che, spinto dalla collera, un giorno afferrò il vescovo di Brescia per i capelli, lo buttò a terra e lo calpestò "come un vilissimo bifolco" (si vede che i bifolchi era in uso trattarli in quel modo)
Era naturale quindi che gli sguardi dei vescovi del regno italico fossero rivolti verso la Germania, da dove speravano ed aspettavano che il nuovo sovrano venisse a debellare Arduino e a liberarli dalla dura oppressione del loro tiranno.

In Germania la scelta del successore di OTTONE III non era avvenuta senza gravi contrasti. La corona era stata ostinatamente disputata da ECCHEARDO di Misnia, ERMANNO di Misnia ed ENRICO di Baviera. Era stata lotta più di principii che di persone perché, infatti, i tre impersonavano tre correnti politiche diverse. Aveva avuto, infine, il sopravvento il duca di Baviera, il quale, condannando la politica imperiale romana di Ottone III, aveva un programma politico schiettamente germanico, pure asserendo che non si potevano né si dovevano trascurare gli affari d' Italia.

ENRICO II di BAVIERA, nipote del fratello minore di Ottone I, era stato eletto a Magonza nel giugno del 1002 e subito aveva dovuto snudare la spada per difendere i confini orientali minacciati dagli Slavi. In tali condizioni non poteva allontanarsi dalla Germania per correre in Italia, da cui gli giungeva insistente l'appello dei vescovi; ma nemmeno poteva lasciare inascoltate le richieste della feudalità ecclesiastica d'Italia che costituiva nella penisola la vera forza e l'ossatura della sovranità germanica.
Pertanto Enrico II mandò in Italia un piccolo esercito, fra cui erano cinquecento cavalieri che l'arcivescovo di Ravenna e il marchese Teobaldo di Toscana dovevano rinforzare con le loro milizie. Li comandava OTTONE, duca di Carinzia, che portatosi al Brennero si preparava a scendere la valle Isarco e la Val d'Adige per invadere l'Italia.
Avvisato dell'avanzarsi dei Tedeschi, Arduino corse con le sue truppe a Verona e alle gole delle chiuse dell'Adige, impedì agli ausiliari dell'Italia centrale di congiungersi all'esercito germanico, indi, messo in moto il suo esercito contro Ottone, gli diede battaglia in una località detta Fabbrica (fine di dicembre del 1002) e lo sconfisse.
La vittoria di Arduino rese ancor più grave la situazione dei vescovi, mentre invece consolidò parecchio la posizione del re d'Italia, il quale, aspettandosi di essere nuovamente minacciato si diede a fortificare la valle dell'Adige; ma Enrico dalla Germania non si mosse, impegnato com'era in una grave guerra con il duca di Polonia BOLESLAO, con il quale aveva fatto causa comune, ribellandosi, il margravio ENRICO di SCHWEINFURT.
Non appena però ebbe ragione della ribellione di quest'ultimo, chiamato con insistenza dai vescovi italiani, ENRICO alla testa di un forte esercito, nella primavera del 1004 marciò verso l'Italia. In compagnia della moglie CUNEGONDA, giunse per la via del Brennero ai primi di aprile a Trento dove ricevette l'omaggio del vescovo di Verona e di altri signori italiani nemici di Arduino.

Questi intanto aspettava il nemico alle gole delle chiuse dell'Adige, come aveva fatto con Ottone. Enrico però non continuò la marcia per la valle dell'Adige, ma avendo saputo che la via del Brenta (l'attuale Valsugana) non era difesa, percorse quella e raggiunta Bassano sboccò improvvisamente nella pianura veneta a nord di Vicenza.
Questa felice mossa di aggiramento del monarca germanico fu fatale al re d'Italia. Alla defezione di molti suoi vassalli si aggiunse il panico prodotto fra le milizie italiane dall'arrivo improvviso di Enrico; invece di fronteggiarlo, si sbandarono, come molti anni prima avevano fatto le truppe del figlio di Berengario, ed Arduino dovette salvarsi con la fuga, mettendosi al riparo nella sua marca d' Ivrea.

Scioltosi l'esercito italiano, Enrico II occupò Verona, poi, mandata una parte delle sue truppe all'inseguimento di Arduino oltre Milano, con il resto delle milizie, attraverso Brescia e Bergamo, si recò a Pavia e qui, il 15 maggio del 1004, nella chiesa di S. Michele, con grande solennità fu incoronato re d'Italia dal vescovo di Milano ARNOLFO.
La festa dell'incoronazione però finì nel sangue. Incitato dai partigiani di Arduino o sdegnato dal contegno sprezzante dei soldati germanici, la sera stessa il popolo pavese si levò a tumulto e, prese le armi, si scagliò contro i Tedeschi. Si accese un'accanita mischia che durò tutta la notte tra gli abitanti di Pavia e i soldati di Enrico che si trovavano dentro la città e di certo i pavesi li avrebbero massacrati tutti, se all'alba quelle milizie germaniche che erano rimaste fuori le mura non andavano a prestare aiuto ai loro commilitoni intrappolati dentro la capitale del regno.

L'intervento di queste numerose truppe fece ben presto volgere le sorti della battaglia a favore delle truppe straniere e la città pagò molto cara la sommossa. Molti degli abitanti furono trucidati all'istante, le case prima furono saccheggiate poi incendiate. Erano così insopportabili il puzzo e il calore che Enrico II dovette lasciare il palazzo reale e trasferirsi in una fortificazione presso il monastero di S. Pietro in Ciel d'Oro. Qui fu raggiunto da una deputazione di cittadini per implorare il perdono e a scongiurarlo di far cessare gli incendi e le stragi.
Il barbaro modo con il quale la rivolta pavese era stata repressa produsse una tale impressione che le altre città, il cui atteggiamento era rimasto fino allora incerto, si precipitarono a fare atto di sottomissione ed inviarono ostaggi e giuramenti di fedeltà al re.

ENRICO rimase a Pavia fino al 25 maggio, poi si recò a Pontelungo dove tenne un'assemblea per regolare gli affari del regno e ricevere gli omaggi dei grandi. Di là si recò a Milano per visitare la tomba di Sant'Ambrogio e, passata la Pentecoste (4 giugno) in Val d'Agno, attraverso il passo del S. Gottardo fece ritorno in Germania.
Enrico II passava le Alpi sicuro che nessuno, durante la sua assenza, gli avrebbe
molestato il regno; e, in verità, la sorte toccata a Pavia era stata tale da togliere alle altre città la voglia di ribellarsi; d'altro canto la feudalità ecclesiastica favorevole al sovrano germanico era sufficiente a tenere a freno quella parte di feudatari laici che avevano sostenuto Arduino e che ora non rappresentavano più una forza compatta e temibile. C'era sì ancora Arduino; ma non aveva più un palese largo seguito e nulla poteva tentare contro Enrico.

Arduino però si considerava ancora re e, partito il monarca tedesco, pare che tornasse ad esercitare l'autorità regia su alcuni territori italiani. Di lui però poco si può dire, perché gli annali non ne fanno parola e non tutti gli scritti posteriori al 1004 danno assicurazione di autenticità; ma è certo che non rimase nella sua marca; con le milizie più fedeli comparve in più punti del regno - come assicura Arnolfo - per vendicarsi di coloro che lo avevano tradito (Verum tamen, reassumptis interim viribus, iuxta posse ultionem exercet in perfidos) e per opportunismo avevano subito cambiato bandiera.
Che regnasse la quiete in Italia, come sperava Enrico, partendo, non lo possiamo proprio dire. Anzi ci fu un periodo di agitazioni abbastanza vive e di colori politici variegati; vediamo pure vescovi contro vescovi, città contro città, valvassori e valvassini contro i grandi vassalli del regno; Arnolfo, arcivescovo di Milano, muover guerra ad ALRICO, vescovo di Asti; Verona ribellarsi ai figli del marchese Oberto II; Lucca guerreggiare contro Pisa.
Sarebbe però errore volere interpretare queste agitazioni come un tentativo di riscossa dei fautori di Arduino o degli antitedeschi in genere contro Enrico "perché lo spirito di libertà che ormai pervade le cittadinanze e gli ordini minori della feudalità e perfino gli inferiori dei servi della gleba, trascende il dissidio politico fra i due rappresentanti del potere regio e mette capo a ragioni sociali ed economiche ben più profonde, che meglio giovano a spiegare quella irrequietezza (Romano)".
Queste agitazioni, più che uno strascico della lotta tra Enrico ed Arduino, sono il preludio di un'epoca turbolenta, ma gloriosa per l'Italia, e che sta per iniziarsi:
L'EPOCA DEI COMUNI

(che inizieremo a narrare dalla prossima puntata).

I CRESCENZI E I TUSCULANI A ROMA - ENRICO II IMPERATORE

Mentre a Pavia nel febbraio del 1002, Arduino prendeva la corona, a Roma rialzava il capo la fazione Crescentina, capeggiata da GIOVANNI CRESCENZIO, il figlio del ribelle decapitato nel 998.
PAPA SILVESTRO, morto l'imperatore, da accorto politico, fece buon viso all'indipendenza romana e rientrò a Roma, ma si guardò bene dall'ingerirsi negli affari della città nei pochi mesi di vita che gli rimasero (morì il 12 maggio del 1003).

GIOVANNI CRESCENZIO, che figura in questo periodo con il titolo di patrizio e senatore, consolidò la sua posizione concedendo i maggiori incarichi ai suoi numerosi nipoti, avuti dalle sorelle Rogata e Teodoranda, uno dei quali fu marchese di Spoleto e Camerino, ed allacciando rapporti con la corte bizantina e con quanti in Italia erano nemici del sovrano tedesco. In tal modo rese fortissima la sua autorità personale e la posizione del suo partito e poté governare incontrastato su Roma per il non breve spazio di dieci anni durante i quali i Pontefici, privi di potere civile, furono ossequienti ai suoi voleri.
Questi Papi furono GIOVANNI XVII, GIOVANNI XVIII e SERGIO IV, scialbe figure di capi della Chiesa che non lasciarono nessun'orma della loro opera. L'ultimo dei tre sopravvisse poco tempo a Giovanni Crescenzio che cessò di vivere nella primavera del 1012.
Dopo la morte del dittatore romano, ovviamente la fazione crescentina perse terreno e rialzò il capo il partito tedesco, raccolto intorno alla potente famiglia dei conti di TUSCOLO, allora rappresentata dai tre fratelli ALBERICO, ROMANO e TEOFILATTO,
discendenti di Teodora e Marozia e figli del conte Gregorio partigiano di Ottone III prima, ribelle all'imperatore poi.

I conti tuscolani riuscirono ad imporre su Roma la loro supremazia quando morì Sergio IV: mentre la fazione crescentina elesse papa un prete di nome GREGORIO; ma questi dovette cedere il campo al Pontefice eletto dai Tuscolani nella persona del minore dei tre fratelli, TEOFILATTO, che il 20 aprile del 1012 fu consacrato con il nome di papa BENEDETTO VIII.

Il nuovo Pontefice era dotato di molto accorgimento e possedeva una fortissima tempra di uomo politico. Primo suo pensiero messo subito in pratica, fu quella di rendere salda la posizione della sua famiglia, abbassando la potenza della fazione avversa e mettendo alla direzione delle più importanti cariche della città i suoi parenti e partigiani. Ai crescentini tolse gli incarichi che ricoprivano e i castelli della Campagna, costringendoli a sottomettersi; l'amministrazione di Roma passò prima al fratello Alberico; che ebbe il titolo di "consul et dux", poi al fratello Romano che lo troviamo insignito del titolo di "consul, dux et omnium Romanorum senator".
Debellato completamente il partito avversario a Roma e nello stato pontificio, BENEDETTO VIII rivolse la sua attività alla politica estera. Egli sapeva che il suo rivale Gregorio, fuggito in Germania, sollecitava Enrico II affinché lo rimettesse sul seggio papale; sapeva anche di non poter seguire una politica contraria al sovrano tedesco senza mettersi in aperta lotta con i vescovi del regno che parteggiavano apertamente per Enrico; stabilì quindi di guadagnarsi l'animo del re di Germania e d'Italia, servendosi dei buoni uffici dei vescovi di Vercelli, di Piacenza e di Parma e dell'arcivescovo VALTARDO di Magdeburgo; riuscì così verso la fine del 1012 a stipulare con Enrico II un accordo in virtù del quale il sovrano riconosceva papa legittimo BENEDETTO VIII e questi s'impegnava di riceverlo a Roma per incoronarlo.
ENRICO II scese in Italia nell'autunno del 1013, accompagnato dalla moglie e seguito da un forte esercito; verso la metà del dicembre giunse a Pavia, dove festeggiò il Natale e ricevette l'omaggio dei vassalli della Lombardia. Nel gennaio del 1014 si recò a Ravenna, dove andò ad incontrarlo BENEDETTO VIII. Preceduto dal Pontefice, alcuni giorni dopo Enrico si mise in viaggio verso Roma dove vi giunse nei primi del febbraio.
Il 14 di questo mese ebbe luogo la cerimonia dell'incoronazione, che fu fatta con gran solennità. Il Papa, circondato da numerosi prelati, aspettava il sovrano all'ingresso della basilica di S. Pietro e, quando lo ebbe davanti, gli chiese se prometteva di esser fedele alla Chiesa e di proteggerla e difenderla. Avutane risposta affermativa, ordinò che le porte della basilica si aprissero, vi introdusse il re e la regina Cunegonda e impose sul loro capo la corona imperiale.

Quel giorno stesso all'imperatore il Pontefice offrì nel palazzo del Laterano un sontuoso banchetto. Nei giorni seguenti fu convocato un concilio, nel quale ARNOLFO, fratello dell'imperatore, fu consacrato vescovo di Ravenna; ADALBERTO, che col favore del popolo ravennate aspirava a quel seggio episcopale, ebbe quello di Aricia. In quegli stessi giorni l'imperatore emanò alcuni diplomi in favore dei monasteri di Montecassino, di S. Vincenzo al Volturno e di S. Pietro in Ciel d'Oro e fece restituire a quello di Farfa alcuni castelli di cui indebitamente, da qualche tempo, si erano impossessati i Crescentini.

Erano appena trascorsi nove giorni dalla cerimonia dell'incoronazione quando, il 23 febbraio, scoppiò a Roma (come a Pavia) un sanguinoso conflitto tra cittadini e soldati tedeschi. Non si conoscono le cause che diedero origine a questo scontro e che certi storici hanno voluto, senza fondate ragioni, attribuire ad un preteso accordo tra Arduino e la fazione Crescentina, che in comune avevano la lotta ai tedeschi.
La Crescentina forse non fu estranea alla sommossa la quale con molta probabilità ebbe origine dal contegno delle milizie tedesche. Il conflitto di Roma non ebbe l'accanimento e le conseguenze di quello di Pavia, sebbene si combattesse per circa un giorno, fino al cader della notte, sul ponte di Castel Sant'Angelo.
I1 giorno dopo, con l'aiuto delle milizie accampate fuori le mura, Enrico II riuscì ad avere ragione dei rivoltosi e ristabilire l'ordine; ma ormai il suolo di Roma scottava sotto i piedi dell'imperatore. Non sentendosi abbastanza sicuro, qualche settimana dopo, Enrico II lasciò l'Urbe e per la Toscana, dove soggiornò qualche tempo, si portò a Ravenna poi raggiunse Pavia e subito dopo prese la via della Alpi. Il 24 maggio era già di ritorno in Germania.

Quando Enrico scese in Italia, ARDUINO non aveva tentato di ostacolargli il passo e si era ritirato con i suoi soldati nelle forti posizioni del suo marchesato. Lo storico tedesco Titmaro narra che il fiero marchese spedì ambasciatori al suo rivale offrendogli di rinunziare ai suoi diritti di re e chiedendogli in compenso la donazione di una contea; ma il racconto di questo storico non ci sembra molto attendibile e lo confiniamo senz'altro fra le favole pensando alla fierezza di Arduino e alle condizioni non davvero disperate in cui allora si trovava.
ARDUINO, infatti, si trovava in possesso di una vasta marca e non aveva perciò bisogno di elemosinare una contea; d'altra parte nessuna minaccia aveva ricevuto, in questa seconda discesa in Italia, da Enrico che lo costringesse o inducesse ad un passo così umiliante. La verità è, che Arduino non aveva abbandonato l'idea di contrastare la corona al fortunato rivale e di molestare i suoi sostenitori e, poiché non era in grado di misurarsi con lui, usava la tattica di ritirarsi nel marchesato durante il soggiorno del nemico nella penisola e di uscirne in armi non appena l'altro si fosse allontanato, percorrendo i territori delle signorie ecclesiastiche ed eccitando alla ribellione i vassalli laici del regno.
Fra quelli che, partito Enrico, Arduino trasse a sé nella rivolta, vanno ricordati gli OBERTENGHI, contro i quali l'imperatore prese gravi provvedimenti che troviamo consacrati in un diploma emanato a Sohlingen, con il quale sono dati alla chiesa di Pavia i beni del marchese OBERTO II e dei figli Ugo, Azzo Adalberto ed Oberto IV, confiscati ai turbolenti vassalli per essersi ribellati ed avere invaso e saccheggiato le terre della chiesa pavese. Nelle invasioni e nei saccheggi, più degli Obertenghi si distinse proprio Arduino, il quale assalì Vercelli, Novara e Como, ne scacciò i vescovi e distribuì ai suoi sostenitori, a titolo di beneficio, i territori di quelle città.
Arduino mosse anche contro Milano, spinto dall'odio che nutriva contro l'arcivescovo Arnolfo; ma l'impresa non gli riuscì. Stanco della lotta, sopraffatto forse dalle forze imperiali, abbandonato probabilmente dai suoi partigiani, senza dubbio sfiduciato e colto da una di quelle crisi così frequenti in quei tempi di esaltazione mistica, Arduino abbandonò nel 1014 le armi e, ritiratosi nel monastero di Fruttuaria, che egli stesso aveva fatto costruire, depose la corona e indossò il saio del penitente. Nella pace del chiostro il fiero ma sfortunato re chiuse gli occhi un anno dopo, il 14 dicembre del 1015.

La scomparsa di ARDUINO se eliminava dalla scena un pericoloso nemico, non per questo faceva cessare il malcontento fra i non pochi vassalli laici del regno. Da una lettera del vescovo di Vercelli all'imperatore, siamo informati di una congiura tramata nel 1016 per dare ad Arduino come successore un re nazionale. Chi fosse il designato il vescovo non lo dice, ma si ha ragione di credere che fosse il conte OTTONE GUGLIELMO di Borgogna, il quale forse contava sull'appoggio del re borgognone Rodolfo III. Questi però non solo rifiutò l'aiuto richiesto, ma si accordò con Enrico II assicurandogli la successione della Borgogna.
Così falliva quest'ultimo tentativo di riscossa antitedesca, del quale abbiamo incerte e confuse notizie, e pur permanendo il malcontento di parte della nobiltà laica, Enrico II fu quasi sicuro che il dominio del regno italico non sarebbe stato minacciato da alcun pericolo, sorretto com'era dalla fedeltà dei vescovi e dalla cresciuta potenza delle signorie ecclesiastiche.

VENEZIA, PISA E GENOVA

Torniamo indietro di qualche anno. Mentre nell'Italia settentrionale la pace subentrava ad un tormentato periodo di guerre e di rivolgimenti sociali, si riaffermava ancor più nell'Adriatico la potenza dei Veneziani e sorgeva nel Tirreno quella di Pisa e di Genova.

Era ancora doge di Venezia PIETRO ORSEOLO II, il vittorioso duce della spedizione dalmatica. Erano passati appena quattro anni da questa guerra fortunata quando Orseolo tornava ad accrescere la sua fama con un'altra impresa felicemente riuscita: la liberazione di Bari dai Musulmani.
Costoro, capitanati da un rinnegato, il "quaid" Safi, nei primi di maggio del 1004, andarono a porre l'assedio a Bari. La città, difesa dal catapano bizantino GREGORIO TRACACCIOTIS, si difese strenuamente per circa quattro mesi, ma scarseggiando i viveri e facendosi sentir la fame, stava per capitolare quando apparvero all'orizzonte, i "liberatori", con le numerose vele della loro flotta da guerra: i Veneziani.
Venezia era legata a Costantinopoli dal trattato concluso nel 992 ed aveva perciò l'obbligo di aiutare i Bizantini, ma più che dal trattato era spinta all'intervento dal suo interesse, che non le consentiva di lasciar che i Saraceni si stabilissero in una delle città più importanti dell'Adriatico.
La flotta veneziana comparve nelle acque di Bari il 6 di settembre; la città fu rifornita di vettovaglie e tra Orseolo e il catapano furono presi gli accordi per una duplice azione contro il nemico, navale e terrestre. La battaglia fu combattuta all'inizio della terza decade di settembre ed ebbe la durata di tre giorni, al termine dei quali (notte del 23 settembre) Safi, disperando di vincere, silenziosamente levò il campo.

Dell'aiuto prestato i Bizantini furono molto grati ai Veneziani. Un figlio del doge, Giovanni, fu chiamato a Costantinopoli, colmato di onori e sposato aduna nobilissima fanciulla bizantina. Da questa unione nacque un figlio cui, in onore dell'imperatore, fu posto il nome di Basilio. I giovani sposi perirono, di lì a pochi anni, di peste, nel settembre del 1009, a soli quarantotto anni di età; ed anche PIETRO ORSEOLO II si spegneva, lasciando perpetuo ricordo di sé per le sue virtù civili e militari e la sua patria, in gran parte per merito suo, avviata verso un avvenire di potenza e di ricchezza.

Mentre Venezia con le vittorie sugli Slavi e sui Saraceni diventava la padrona incontrastata dell'Adriatico, Pisa e Genova, lottando contro i Saraceni di Spagna, ponevano le basi della loro supremazia sul Tirreno.
Pisa, dipendente dal marchese di Toscana, non aveva ancora una costituzione autonoma, ma era sulla via dell'indipendenza. Temuta all'intorno, specialmente dopo le vittorie di Acqualunga e Ripafratta riportate sui Lucchesi, era, per le ricchezze accumulate con i suoi commerci, il bersaglio dei Saraceni di Spagna che da circa due secoli spadroneggiavano sul Mediterraneo occidentale ed erano il terrore delle coste della Liguria e della Toscana.

Delle prime lotte tra Pisani e Musulmani non si hanno notizie sicure, ma leggende, fra le quali ricordiamo quella di CINZICA DE' SISMONDI, ardita giovanetta appartenente ad una delle principali famiglie della città, che, essendo stata, di notte, Pisa improvvisamente assalita, anziché porsi in salvo con la fuga, corse dai magistrati, li informò del pericolo, li incitò alla resistenza e, fatte suonare le campane delle torri, chiamò alle armi i cittadini e provocò la ritirata precipitosa del nemico. Se leggendaria è forse la figura di Cinzica, tale non è l'assalto dei Saraceni a Pisa. La città soffrì molto e più volte minacciata dalle armi saracene: come nel 1004 quando fu presa e saccheggiata; e pochi anni dopo -nel 1011- dopo un ennesimo saccheggio fu anche distrutta.

Tra l'una e l'altra calamità, i Pisani ebbero la soddisfazione, nell'agosto del 1006,
di vedere una flotta musulmana fuggire davanti alle navi della giovanissima repubblica marinara, d'inseguirla fino alle acque di Reggio e qui sbaragliarla. Ma l'impresa che fece affermare la potenza navale pisana fu quella compiuta, insieme con Genova, nella Sardegna.
Quest'isola, più volte, nei secoli IX e X, era stata assalita dai Musulmani, ma, difesa valorosamente dagli abitanti, non era stata mai conquistata. Poi cadde però in potere dei Saraceni nel 1015, dopo una lotta accanita durata parecchi mesi. Capo dei saraceni era MUGÀHID IBN-ABDALLAH, che i nostri cronisti chiamano "Musa" o "Musetto", audace liberto del califfo spagnolo Al-Mansur, che, resosi indipendente dalla corte di Cordova, si era stabilito nel 1010 a Denia, e, concepito l'audace e ambizioso disegno di fare del Mediterraneo un lago musulmano, si era acquistato fama di guerriero invincibile percorrendo come un falco le coste tirreniche ed impadronendosi delle Baleari e della Sardegna.
Padroni di quest'isola, i Musulmani rappresentavano un serio pericolo per Pisa. Mugàhid, infatti, non tardò dalla Sardegna a portare le armi nella vicina Toscana, operando su quelle coste con ardite incursioni, in una delle quali, avvenuta nel 1016, l'antica città di Luni fu presa, saccheggiata e distrutta.
Anche per Genova la presenza dei Musulmani in Sardegna costituiva una minaccia gravissima. Non fu quindi difficile alle due città intendersi ed allearsi contro il comune nemico che paralizzava nel Tirreno i loro importanti traffici.
Nel 1016 l'alleanza era già conclusa, dietro la spinta di papa Benedetto VIII che anche lui dai Musulmani aveva da temere molto per lo stato pontificio. In quello stesso anno una poderosa flotta di navi pisane e genovesi assaliva e sconfiggeva nelle acque sarde Mugàhid che, salvandosi con la fuga, lasciava nelle mani dei vincitori un gran numero di navi e di prigionieri tra cui un figlio, un fratello e la favorita tra le sue mogli.

Le conseguenze della vittoria furono notevoli per le due repubbliche, le quali, consce delle proprie forze, intensificarono la lotta contro i saraceni e resero sicuro ai loro sempre più fiorenti commerci il Tirreno. Fu detto ma a torto, che Pisa, scacciati i Musulmani dalla Sardegna, assumesse le parti del leone a danno dei genovesi, impadronendosi dell'isola.
Pisa invece mirò ad acquistare la supremazia commerciale nel paese, ricchissimo di risorse, e che offriva un vasto campo di sfruttamento all'attività pisana.
"Per la Sardegna - scrive il Romano - l'effetto immediato della vittoria del 1016, fu un periodo di relativa quiete che le permise di rifarsi dei passati malanni, riorganizzare le proprie forze e rinsaldare quegli ordinamenti. A raccogliere i frutti di quei semi che erano stati messi a germogliare nei due secoli anteriori. Apparvero allora già formati i quattro giudicati sardi di Cagliari, Arborea, Torres e Gallura, veri regni distinti governati da proprie dinastie, diversi per risorse economiche e densità di popolazione, la cui storia s'intreccia d'ora in poi con quella della penisola italiana, dalla quale la Sardegna era stata, a così dire, disgiunta per circa due secoli".

MELO DI BARI - I PRIMI NORMANNI IN ITALIA
ULTIMI ANNI DI ENRICO II

Dopo aver narrate le vicende del regno italico, del Papato e delle repubbliche di Venezia, e di Pisa e Genova nei primi anni del secolo XI, è necessario volgere lo sguardo al mezzogiorno, che sta diventando teatro di importantissimi avvenimenti.
Qui il dominio bizantino non poggiava su solide basi. Invano si era tentata l'ellenizzazione dei due temi di Puglia e di Calabria: era riuscita solo nell'estremità della penisola, cioè nella Calabria e nella regione salentina; il resto dei temi, abitato dall'elemento latino-longobardo, aveva tenacemente resistito.
Nella Puglia il dominio bizantino non solo aveva esercitato scarsissima influenza, ma da una parte, a causa delle deboli guarnigioni che vi teneva, aveva lasciato che si sviluppasse una vita municipale autonoma abbastanza attiva e che si formassero milizie locali; dall'altra, con il malgoverno dei funzionari, che gravavano di balzelli le popolazioni, si era attirato l'odio delle medesime ed aveva dato occasione a frequenti rivolte. Queste erano state il preludio di un moto insurrezionale più vasto e più grave che doveva ancora una volta metter di fronte l'impero d'Oriente con quello germanico, dare occasione ai Normanni di stabilirsi nell'Italia meridionale e determinare l'unificazione politica del mezzogiorno e della Sicilia.

La rivolta contro i Bizantini scoppiò a Bari nel maggio del 1009. La capitanava un nobile di stirpe longobarda di nome MELO. Da Bari la rivolta in breve si propagò nelle terre vicine; anche Trani ed Ascoli insorsero; i funzionari dell'impero furono cacciati e le truppe municipali, aiutate da qualche schiera di Musulmani, sconfissero i Bizantini a Bitetto e a Montepeloso.
A rendere più grave la situazione dei Bizantini contribuì la scomparsa del catapano CURCUAS, morto mentre quasi l'intera Puglia era in stato di rivolta. A sostituirlo fu mandato -insieme con LEONE TORNICIO stratega di Cefalonia- il protospatario BASILIO ARGIRO, detto il "Mesardonite", stratega del "tema" di Samo, il quale pose l'assedio a Bari.
La città si difese accanitamente per due mesi ed avrebbe tenuto testa per molto tempo ancora agli imperiali, sebbene fosse stretta da terra e da mare, se una parte degli abitanti, favorevole ai Bizantini, non avesse tramato per consegnare i caporioni della rivolta allo stratega. Per non cadere nelle mani del nemico, MELO e suo cognato DATTO, fuggirono dalla città, e questa si arrese ai Bizantini. Un fratello, un figlio e la moglie di Melo, di nome MARALDA, caduti in potere dei vincitori, furono mandati prigionieri a Costantinopoli.

Melo e Datto si rifugiarono ad Ascoli, dove speravano di resistere ai Bizantini; di là andarono a Benevento e a Salerno a sollecitare aiuti, ma non ne ebbero; infine ripararono a Capua dove PANDOLFO II accordò loro generosa ospitalità.
La presa di Bari segnò la fine della rivolta, ma non scoraggiò Melo. Mentre il cognato da Capua trovava rifugio a Montecassino, lui cercava aiuti da ogni parte per tornare alla riscossa. Non trovandone presso i principi longobardi, si rivolse al Pontefice. La sua tenacia fu alfine premiata: BENEDETTO VIII diede a Datto una forte torre sul Garigliano, costruita a difesa contro i Saraceni e procurò a Melo l'aiuto dei Normanni.

Sulla venuta dei primi Normanni in Italia incerte sono le notizie e discordi le fonti, nelle quali si raccontano fatti che hanno forte sapore di leggenda. Il cronista AMATO di Montecassino narra che, intorno al 1000 (data, senza dubbio erronea da correggersi in quella del 1016) quaranta pellegrini normanni, reduci dalla Terrasanta, giunsero a Salerno, mentre questa città, assediata dai Saraceni, stava per arrivare a patti con i saraceni Sentendosi ribollire il sangue, i Normanni, chiesto ed ottenuto armi e cavalli, si gettarono coraggiosamente sui Musulmani che in breve tempo sbaragliarono, liberando la città. Il principe GUAIMARO IV li colmò di doni e, avendo chiesto invano che rimanessero a Salerno, mandò con alcuni di loro in Normandia, dei suoi ambasciatori perché assoldassero un contingente di questi prestanti e coraggiosi uomini normanni, che, infatti, qualche tempo dopo, fu formato, discesero in Italia, al comando di un certo GILBERTO DRENGOT.

Il poeta GUGLIELMO APPULO, invece, in un poema in onore di Roberto Guiscardo racconta che nel 1015, alcuni pellegrini normanni, recatisi a visitare il celebre santuario di S. Michele sul Gargano, v'incontrarono Melo, il ribelle di Bari. Invitati a combattere, come mercenari, contro i Bizantini, si rifiutarono, ma promisero che, tornati in patria, avrebbero mandato in Italia una schiera di combattenti, che, infatti, poco dopo giunsero in Italia, capitanati dal già accennato Drengot.

Gli storici moderni accettano l'uno e l'altro racconto, sfrondandoli, si capisce, degli elementi leggendari, e correggendo le date. Si può quindi ritenere che alcuni pellegrini normanni, intorno al 1015, ritornando dalla Terrasanta, s'incontrarono con Melo al
Gargano e, concluso con lui un accordo, si organizzarono per scendere a Salerno ad aiutare Guaimaro contro i Saraceni.
Qualche storico narra invece che questi Normanni giungessero in Italia perché malcontenti del duca RICCARDO II di Normandia, altri ci dicono che nel loro viaggio verso il mezzogiorno si fermassero a Roma dal Papa Benedetto VIII: sono, queste, tutte ipotesi molto verosimili e che, perciò, possiamo prendere tutte in considerazione.
Quello ch'è certo, che questi primi Normanni, verso la fine del 1016 erano a Capua e qui formarono il nucleo di un esercito destinato a scacciare i Bizantini, nucleo intorno al quale si raccolsero contingenti reclutati da Melo nella Puglia e negli stati longobardi dell'Italia meridionale, e solo in seguito scesero altri normanni, stimolati dai successi.

Nella primavera del 1017 l'esercito di MELO si mise in marcia verso-la Capitanata. Nel maggio di quell'anno si scontrò con un corpo di milizie bizantine inviate dal nuovo catapano LEONE TORNICIO. La battaglia fu combattuta ad Arenula, presso il Fortore, ma le sorti di questo primo scontro rimasero indecise; un altro combattimento avvenne nella Capitanata, presso Civita, dove i Bizantini furono sconfitti; e una seconda disfatta la subirono a Vaccaricia.
La conseguenza delle vittorie di Melo fu che quasi tutta la Puglia cadde in potere degli insorti e che dalla Normandia, dove erano giunte le notizie dei successi riportati, cominciarono ad affluire nel mezzogiorno d'Italia nuove schiere di Normanni, allettati dalle prede, e mossi dal loro spirito irrequieto ed avventuroso. Ma queste notizie erano giunte anche a Costantinopoli. Avendo deciso di domare la rivolta pugliese, l'imperatore BASILIO II richiamò il Catapano LEONE TORNICIO e lo sostituì in Italia, con BASILIO BOJANNES, capo esperto ed energico che giunse nella penisola con un numeroso esercito nel dicembre del 1017. Cominciò con il ridurre all'obbedienza dell'impero le città pugliesi insorte. Famosa tra le repressioni fu quella di Trani nel 1018, che per esser domata richiese molto spargimento di sangue. Poi il Bojannes tentò di indurre i principi longobardi e l'abate Atenolfo di Montecassino ad abbandonare Melo.

Ma le sorti della Puglia non potevano essere decise che in campo. Una battaglia accanita, nell'ottobre del 1018, fu combattuta presso Canne, sulla destra dell'Ofanto, nella medesima pianura, che molti secoli prima aveva visto l'epica lotta tra Romani e Cartaginesi. A nulla valsero il valore dei Normanni e l'impeto delle milizie italiane: l'abile tattica di Bojannes fece conseguire la vittoria ai Bizantini. L'esercito di Melo fu quasi interamente distrutto e di tremila normanni, quanti erano, solo cinquecento riuscirono a scampare. Melo, dopo la sconfitta, invano cercò rifugio ed asilo presso i principi longobardi paurosi della loro sorte.
Questi, atterriti dalla vittoria di Canne, persa ogni fiducia nella riscossa pugliese, tornarono ad essere bizantini e PANDOLDO II permise che le milizie greche attraversassero il suo territorio capuano per assalire la torre del Garigliano in mano di DATTO. Il quale, preso prigioniero, fu condotto a Bari sopra un asino, poi, perché la sua morte servisse di esempio, fu messo in un otre e gettato in mare.
A Melo non rimase l'alternativa che di rifugiarsi a Roma, presso il Pontefice, poi si recò in Germania, da ENRICO II che lo accolse onorevolmente e lo creò duca di Puglia.
Melo si trovava a Bamberga, quando, nell'aprile del 1019, fu raggiunto da papa BENEDETTO VIII, chiamato dall'imperatore perché componesse la lite sorta con i vescovi di Magonza e di Wurtzburgo. Più che l'invito di Enrico, era la nuova situazione creatasi nell'Italia meridionale che aveva spinto il Pontefice in Germania. Dopo la battaglia di Canne, temendo di essere spodestati, i principi longobardi avevano riconosciuta l'alta sovranità dell'imperatore d'Oriente, sottomettendosi al Catapano bizantino; quest'ultimo, allo scopo di assicurare la frontiera settentrionale della Puglia, aveva fatto costruire numerose fortificazioni e gettate le basi di una nuova città, Troia, la cui difesa fu affidata ad una grossa guarnigione. I progressi dei Bizantini avevano impressionato vivamente il Papa, che, temendo per Roma e per lo stato pontificio, non vedeva altro mezzo, per scongiurare il pericolo, che l'intervento di Enrico II. e partì lui stesso diretto in Germania.
A Bamberga BENEDETTO VIII ricevette onori solenni e festeggiò la Pasqua officiando
nella nuova cattedrale. La lite con i vescovi di Magonza e Wurtzburgo fu sollecitamente composta e l'imperatore, in premio, concesse, fra le altre cose, alla Chiesa Romana il dominio del monastero di Fulda e il protettorato sul vescovado di Bamberga sul cui seggio fu messo il vescovo EBERARDO.
Inoltre, ENRICO II, persuaso della convenienza di un suo intervento nell'Italia meridionale, promise a Melo e al Pontefice quegli aiuti che gli erano stati accoratamente richiesti. Melo però non ebbe il tempo di vedere le milizie imperiali muoversi alla volta dell'Italia: morì il 23 aprile del 1020, compianto vivamente dall'imperatore che lo fece seppellire nella cattedrale di Bamberga, dove gli si metterà a fianco quattro anni dopo.

Nell'estate del 1020 Benedetto VIII fece ritorno a Roma, fiducioso della discesa in Italia di Enrico II. Questi dalla Germania non si mosse che nel novembre del 1021: con un esercito di sessantamila uomini, in gran parte Bavaresi, Svevi e Lorenesi, e attraverso la via del Brennero scese in Italia; il 6 dicembre entrò a Verona, dove ricevette l'omaggio dei grandi del regno, laici ed ecclesiastici, e rinforzi di milizie lombarde, poi dopo aver raggiunto Mantova passò a Ravenna e qui, presso il fratello Arnolfo, celebrò il Natale.

A Ravenna Enrico II divise il suo esercito in tre corpi: un corpo di ventimila uomini lo affidò a PILGRIM, arcivescovo di Colonia, il quale attraverso Roma e Montecassino, doveva scendere a Capua per tentare di sottomettere Pandolfo e Atenolfo; di un secondo di undicimila uomini ebbe il comando il patriarca POPPO di Aquileia, che attraverso Camerino doveva scendere nella Campania e servire di collegamento tra Pilgrim e l'imperatore, che con il resto dell'esercito, prima costeggiando l'Adriatico, poi attraverso le montagne dell'Abruzzo, doveva raggiungere la Capitanata.
Enrico II giunse, senza incontrare ostacoli, a Benevento, dove incontrò il Pontefice che gli fu compagno per tutta la spedizione. Da Benevento l'imperatore si mosse nel marzo del 1022 e marciò su Troia che fu assediata. L'assedio durò tredici settimane, infine la piazzaforte si arrese per fame: i vinti, secondo il cronista Glabro, furono trattati umanamente, secondo gli Annali di Quedlinburg furono invece tutti passati per le armi.
A Troia l'imperatore fu raggiunto dall'arcivescovo di Colonia, che conduceva con sé, prigioniero, Pandolfo di Capua e, come ostaggio il figlio di Guaimaro di Salerno. ATENOLFO abate di Montecassino, all'avvicinarsi di Pilgrim, era fuggito, ma, trovandosi in mare, in viaggio per Costantinopoli, era perito. Enrico II voleva mettere a morte il principe di Capua ribelle; ma questi fu salvato dalle preghiere dell'arcivescovo e mandato in carcere in Germania.

La spedizione imperiale ebbe termine a Troia, avendone impedito il proseguimento una fiera epidemia che seminò strage fra le truppe tedesche. Lo scopo per il quale l'imperatore si era mosso, vale a dire di conquistare il mezzogiorno della penisola, non era stato dunque raggiunto. Unico vantaggio conseguito era stato di avere arrestati i progressi bizantini e di avere ristabilito la sovranità germanica sui principati longobardi. Sul trono di Capua fu messo il conte PANDOLFO di Teano, devoto alla causa tedesca; a capo dell'abbazia di Montecassino il monaco TEOBALDO; il comitato di Comino, presso l'alta valle del Liri, fu assegnato ai nipoti di Melo (Stefano, Meloe Pietro), sotto il cui comando mise i Normanni superstiti, che costituirono il primo nucleo della dominazione normanna nell'Italia meridionale.

Il 6 giugno 1022, ENRICO II partì da Troia. Prima di lasciare il mezzogiorno volle fare un pellegrinaggio sul monte Gargano. Il 28 giugno era a Montecassino; poco dopo a Roma e nell'estate stessa di quell'anno era a Pavia, dove forse tenne quel concilio in cui furono condannati il concubinato e la simonia.
I provvedimenti presi al concilio pavese e la spedizione nell'Italia meridionale furono gli ultimi atti importanti dell'attività politica e militare di Enrico II nella penisola, atti cui mancò il successo perché inutili riuscirono gli sforzi dell'imperatore di rialzare la dignità del clero, e i deliberati del concilio, per l'opposizione incontrata, rimasero lettera morta.

Ma ormai la vita di Enrico II volgeva alla fine. Nell'autunno del 1022 era di là dalle Alpi, in Germania, da dove non si mosse più. Nel palazzo di Grona, dove aveva preso dimora, gli giunse la notizia che il 9 aprile del 1024 era morto papa BENEDETTO VIII e che al soglio pontificio era stato innalzato il fratello Romano col nome di GIOVANNI XIX. L'imperatore sopravvisse al Pontefice poco più di due mesi: infatti, cessò di vivere il 13 luglio dello stesso anno 1024 e fu sepolto nella cattedrale di Bamberga, dov'era stato tumulato Melo e dove troverà riposo nel 1033 l'imperatrice Cunegonda.

Con la morte di ENRICO II si estingueva la casa di Sassonia che in Germania aveva regnato 105 anni e 74 in Italia. Enrico aveva lasciato l'Italia legata alle sorti della Germania e senza speranza di costituirsi in regno indipendente, ma aveva in parte contribuito al rafforzamento dell'autorità del Papato che fra non molto si erge antagonista dell'impero.
Enrico si spegneva in un periodo, mentre grandi mutamenti politici e sociali maturavano nella penisola: Venezia, Genova e Pisa in pieno rigoglio, coltivavano i germi della loro rivalità che tante lotte doveva produrre; il mezzogiorno era alla vigilia della sua unificazione; in ogni contrada si agitava la servitù, si organizzava la borghesia e mentre la feudalità militare e terriera scemava di forza, una nuova coscienza si veniva formando nelle popolazioni delle città e uno spirito prepotente d'indipendenza sorgeva, verso singolari e gloriosi rivolgimenti.

FINE anno 1024

Come avevamo già anticipato più sopra -alla morte di Arduino nel 1014 - in Italia stava iniziando il preludio di un'epoca turbolenta, tuttavia gloriosa per le sue genti:
l' EPOCA DEI COMUNI.
Ed è il prossimo capitolo che ci attende
il periodo dall'anno 1024 al 1045 > > >

Fonti, citazioni, e testi
PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia - Nerbini
RINALDO PANETTA - I Saraceni in Italia, Ed. Mursia
L.A. MURATORI - Annali d'Italia,
VITORIO GLEIJESIS - La storia di Napoli, Soc. Edit Napoletana
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (i 33 vol.) Garzanti 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
STORIA UNIVERSALE (i 20 vol.) Vallardi

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